ANNI 222 - 249 d.C.

ALESSANDRO SEVERO - * IL GOVERNO - ULPIANO - GUERRE PERSIANE -LA FINE DEI PARTI
MORTE DI ALESSANDRO - MASSIMINO E LA SUA POLITICA - GORDIANO IMPERATORE
MORTE DI GORDIANO - MASSIMINO AD AQUILEIA; MORTE
L'IMPERO DI FILIPPO L'ARABO - BATTAGLIA DI VERONA
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ALESSANDRO SEVERO


Dopo l'assassinio di Eliogabolo, o meglio dopo la caduta così in basso degli uomini ai vertici dell'impero, i tentativi di collaborazione con il senato non erano più possibile di certo con un ritorno alla politica augustea; questa era solo più un ricordo. Ricordo di una autorità, di una guida, che aveva -nonostante tante  opposizioni ai metodi autoritari, come ascriveva Tacito- il merito dell'efficienza almeno c'era. Ed era stata proprio quest'ultima -e l'autoritarismo- a far decollare la romanità nel mondo, a creare il più potente IMPERO, con le Province che erano diventate il suo corpo, e con Roma che ne era l'anima. Una Roma diventata un crogiuolo, una patria ideale che riceveva forme di civiltà da tutte le parti e tornava a distribuirle ringiovanite dalla sua concezione universale. Universalità di lingua, di commerci, di leggi, di cultura, che strinse sempre di più fortemente i legami.
Ora era tutto diverso. Nemmeno quella Cassandra di Tacito -con tutto il suo pessimismo e il disprezzo sulla tirannia monarchica ("di tutti gli imperatori ne fa un ritratto di uomini profondamente perversi" scriveva Napoleone)- l'avrebbe mai immaginato. Tacito aveva anteveduto il male, ma mica si era spinto fino a questo punto del male; anche perché più che male Roma stava vivendo in questi anni  una vera e propria tragedia, e lo era ancora di più perché nella tragedia ci si era arrivati rendendo superata perfino la satira più corrosiva dei tempi di Tacito. Agli occhi dei "barbari" Roma era già una satira incarnata, ridicola, per non dire oscena. Ma dov'erano i grandi condottieri come Cesare? Gli imperatori audaci come Traiano o Adriano? I monarchi filosofi come Marco Aurelio?
Si poteva ancora irridere e disprezzare Nerone, Commodo, Carcalla?


ALESSANDRO che venne proclamato dai pretoriani imperatore con il nome di SEVERO, non aveva compiuti ancora 14 anni. Era nativo di Asca nella Siria; come il defunto stravagante cugino così anche lui era sacerdote del dio Sole ed era stato dalla madre Mammea educato alla moda orientale. Era troppo giovane per prendere le redini dello Stato e la madre era troppo furba per lasciargliela o per permettere  che in nome di lui governassero i cortigiani. Occorreva seguire una politica diversa di quella che era stata la causa della rovina di Eliogabalo: epurare la corte, favorire l'esercito (ma c'era ancora un esercito romano'), rimettere in primo piano la religione romana e far tornare l'impero della legge. Ma occorreva anche rinsaldare e legittimare l'autorità imperiale mettendo un contrappeso alla (legittima?) prepotenza delle truppe. Questo contrappeso non poteva essere costituito che dal Senato la cui autorità, resa quasi nulla dagli ultimi principi (o da loro stessi) doveva di conseguenza essere restaurata; e la Curia, certamente informata delle intenzioni di Mamnea, convalidò volentieri l'elezione del nuovo imperatore.(e inetti come si erano ridotti, non potevano che far questo!)

IL GOVERNO

I primi atti del nuovo governo furono rivolti all'epurazione della corte: i favoriti, gli eunuchi, gli istrioni che Eliogabalo vi aveva chiamati (ma solo dopo morto) furono cacciati; il fasto veramente orientale che vi era stato introdotto venne abolito e nelle ore di pubblica udienza fu messo alla porta della reggia un banditore con l'incarico di gridare l'ammonimento solenne: "In queste sacre mura non entri chi non abbia puro ed innocente l'animo" (ma prima cosa avevano fatto? Dov'erano?)

L'aerolite nero sacro al dio Sole venne rimandato ad Emesa e gli dèi che erano stati raccolti nel tempio dedicato alla divinità siriaca, furono riportati nelle loro sedi. Come per incanto cessarono i sacrifici umani e le oscene cerimonie. L' eccletismo religioso però, inaugurato da Eliogabalo, sia pur non ufficialmente continuò sotto Alessandro Severo, nel cui sacrario domestico, e insieme con le immagini degli antenati e degli eroi, furono messe quelle di Orfeo, di Abramo, di Apollonio di Tiana e di Gesù di Nazareth.

Mammea prese il titolo di Augusta e gli altri appellativi onorifici ch'erano stati dati alla sorella Soemide, ma consigliò il figlio di rifiutare i titoli di Magnus e Dominus che il Senato si era affrettato a conferirgli (Senato formato da "saggi" !!).

DOMIZIO ULPIANO

Essendo l'imperatore ancora adolescente, fu costituito un consiglio di reggenza composto di sedici senatori a capo del quale venne chiamato il celebre giureconsulto Domizio Ulpiano.
Sotto Severo e il governo dei suoi consiglieri l'autorità del Senato risorge, si abbassa quella dei cavalieri, e il potere civile ha il sopravvento sul potere militare. Il Senato riacquista i privilegi perduti fra i quali il diritto di giudicare i propri membri; e sceglie nel suo seno i funzionari, i governatori delle province e i consoli; dal suo ordine vengono tratti non pochi mèmbri del consilium principia. La carica di prefetto del pretorio viene dichiarata compatibile con quella di senatore; alla prefettura del pretorio, accanto a Flaviano e Crosto, viene messo Domizio Ulpiano. È soppressa la carica di edile e in suo luogo è istituito un consiglio di quattordici curatori della città, uno per regione, scelti fra i consolari, con a capo il prefetto urbano. Molti provvedimenti vengono presi per migliorare i costumi, la condizione degli schiavi e quella delle classi povere; si riducono le imposte che gravano sui meno ricchi, imposte vengono applicate sui generi di lusso; si riduce l'interesse del denaro al tre per cento; si istituiscono tre nuove corporazioni operaie, quelle dei vinarii, dei lupinarii e dei caligarti; si dà impulso alle istituzioni alimentari, all'industria, al commercio ed all'agricoltura, e si incentivano le costruzione di opere pubbliche non numerose in verità, ma neppur trascurabili. Fra queste sono degne di nota le Terme Alessandrine nel Campo Marzio, un nuovo acquedotto, una basilica e il porticato esterno delle Terme di Caracalla. Di statue grandiose, raffiguranti uomini illustri, sono ornati i fori di Nerva e Trajano.

Anche l'esercito ebbe le sue cure, ma queste non contentarono le truppe e non le tennero in freno. Specie i pretoriani erano malcontenti per la disciplina dura loro imposta da Ulpiano, il quale, puniti con la morte Flaviano e Cresto rei di cospirazione, aveva creato suo collega Giulio Paolo, altro valente giureconsulto. 
Questo malcontento delle guardie non doveva tardare a produrre una ribellione. Nel 228 i pretoriani si levarono a tumulto e marciarono verso la reggia, dove si. era rifugiato Ulpiano dopo avere spinto il popolo ad opporsi con le armi ai soldati. Sanguinosi conflitti si verificarono nelle vie e i pretoriani vennero ricacciati, ma questi appiccarono il fuoco alle case e alla vista dell'incendio che si propagava i popolani minacciosi si ritirarono e le milizie poterono giungere alla reggia, abbattere le porte e uccidere il prefetto del pretorio sotto gli occhi dell' imperatore.

Capo della sedizione fu un ufficiale dei pretoriani ex-liberto di Caracalla, di nome Epagato. Alessandro Severo non osò punirlo subito, ma più tardi lo mandò in missione in Egitto per allontanarlo dai soldati, di là lo fece trasferire a Creta e qui ordinò che fosse processato e messo a morte.
Dopo l'assassinio di Ulpiano la potenza dei pretoriani crebbe a tal punto che essi non vollero che fossero loro assegnati capi rigorosi, anzi essendo lo storico DIONE CASSIO noto per la sua severità, tornato dalla Pannonia delle cui legioni aveva rigidamente tenuto il comando, chiesero al principe che fosse mandato a morte. Alessandro non aderì alla richiesta dei soldati ed elesse Dione console, ma lo dovette allontanare da Roma per sottrarlo al furore delle soldatesche.

LE GUERRE 

Alla turbolenza dei pretoriani, che rappresentavano una continua minaccia per la vita dell' imperatore, si era intanto aggiunto il pericolo d'una guerra ai confini orientali dello stato.
Alla monarchia dei Partì, retta dagli Arsacidi, era succeduta quella dei Sassanidi. Un Ardeschir, che si vantava e forse era discendente di Ciro, era riuscito a far ribellare la Persia, aveva vinto Artabano (227), riedificata Persepoli per farne la capitale del nuovo regno, restaurata la religione degli avi e rivolse superbamente il pensiero a ricostituire il grande impero persiano fino alle coste del Mediterraneo.

Nel 231 Ardeschir volle attuare il suo disegno. I figli di Artabano si erano rifugiati in Armenia: il re persiano aveva tentato d'invadere quella regione ma era stato respinto; un uguale tentativo fatto contro la città di Atra  era fallito per la resistenza dei fieri abitanti di quella terra. Ardeschir non si era perso d'animo; raccolto un numeroso esercito passò il Tigri e invase la Mesopotamia romana. Nisibi venne assediata e le avanguardie persiane si spinsero arditamente verso la Siria e la Cappadocia.

Alla notizia di questi avvenimenti, Alessandro Severo, suo malgrado, dovette ricorrere alle armi. Richiamò dal Reno e dal Danubio molte legioni e mosse alla testa di esse verso l'Oriente.
Fermatesi ad Antiochia, Severo impiegò nei preparativi guerreschi gli ultimi mesi del 231 e i primi dell'anno successivo, poi iniziò le operazioni. Divise le sue forze in tre eserciti: uno doveva invadere la Media attraverso l'Armenia, un altro doveva invadere la Persia dalla Mesopotamia inferiore, il terzo, comandato dallo stesso imperatore, per la via di Palmira, doveva procedere verso l'alta Mesopotamia per dar mano all'uno o all'altro dei due prini eserciti, secondo il bisogno.

La guerra durò diciotto mesi e le notizie che di essa abbiamo non sono tali da poterne ricostruire esattamente lo svolgimento. Delle relazioni che ce ne sono pervenute, l'una, quella di Erodiano -che era però uno storico ostile a Severo- parla di sconfitte subite dai Romani; mentre l'altra di Lampridio, parla invece di continue vittorie. Noi oggi non possiamo naturalmente credere né all'uno né all'altro storico, notoriamente parziali, ma dai risultati della guerra dobbiamo pensare che fosse favorevole ai Romani. Questi, specie nella Media, dovettero arrecare gravissimi danni al nemico, a loro volta dovettero però subire delle perdite considerevoli di uomini dalla parte della Mesopotamia inferiore. Con un altro capo meno irresoluto di Alessandro Severo le legioni dell'impero avrebbero senza dubbio ottenuto vantaggi non lievi. Invece il giovane imperatore si contentò di liberare la Mesopotamia dall'invasione persiana e richiamò dall'Armenia l'esercito che aveva assalito la Media. La ritirata di queste legioni, effettuata durante l'inverno, costò perdite più grandi di una battaglia perduta ed accrebbe il malcontento delle milizie verso l'imperatore.

Terminata la guerra, Alessandro Severo fece ritorno a Roma, dove, nel settembre del 233, pronunziò in Senato un discorso col quale diede conto delle sue vittorie.

A Roma però non rimase a lungo. Approfittando della guerra d'Oriente che aveva costretto l'impero a sguarnire le sue frontiere settentrionali, gli Alemanni erano riusciti a passare il Reno e ad invadere la Gallia; mentre i Marcomanni avevano passato il Danubio.
Alessandro dovette far fronte prontamente alla nuova guerra e, fatti nuovi arruolamenti, marciò verso la Gallia. La condotta tenuta in questa campagna fu però causa della fine dell'imperatore. Invece di respingere i barbari del nord con le armi, riuscì a liberare il territorio invaso, distribuendo, dietro consiglio di Mammea e dei suoi consiglieri, forti somme ai nemici.
Questo fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso: le milizie non sapevano tollerare l'ingerenza dell'imperatrice nelle cose dell' impero, odiavano Mammea per la sua avarizia ed erano scontente di Alessandro. che se da un canto si mostrava rigorosissimo con i  soldati dall'altro si lasciava guidare dalla madre e metteva fine ad una guerra con l'oro anziché che con le armi.
Una legione di reclute diede il segnale della rivolta acclamando imperatore il suo comandante. Alessandro Severo se ne stava (con la immanente "mamma" vicino), il 20 marzo del 235 nella sua tenda  presso Magontiacum, quando, assalito improvvisamente da una turba di soldati, venne ucciso lui e la madre. Severo aveva appena 27 anni.

CAJO GIULIO VERO MASSIMINO

Ora veramente l'impero romano si avvia precipitosamente verso la rovina con  una ridda d'imperatori che si susseguono; ma la maggior parte dei quali perisce assassinata.
Ad Alessandro Severo succede il comandante di quella legione di coscritti che i soldati hanno acclamato. Lui è un trace, figlio di padre goto e di madre alana, un barbaro dunque, uno di quei tanti barbari che hanno fatto fortuna militando sotto le insegne romane. Si chiama CAJIO GIULIO VERO MASSIMINO, è di statura gigantesca e di forza erculea; semplice pretoriano al tempo di Settimio Severo, grazie al suo coraggio e al suo valore era salito al grado di comandante di legione. 
La fortuna ora lo mette sul trono dell'impero; i soldati gli conferiscono il titolo di Augusto ed offrono quello di Cesare al figlio, cui il padre ha fatto impartire dai migliori maestri una vasta educazione letteraria.
L'acclamazione di Massimino è la conseguenza del malcontento dei soldati contro il governo civile; è naturale quindi che il nuovo imperatore debba improntare la sua politica allo spirito da cui è animato l'esercito e consolidare la sua fortuna con le armi.
Alessandro Severo ha voluto allontanare i barbari con somme di denaro e con accordi; Massimino invece rompe le trattative iniziate dal suo predecessore, ributta gli ultimi invasori che sono rimasti nel territorio dell' impero, rafforza i confini e passa il Reno devastando le regioni nemiche, poi si trasferisce sul Danubio, sconfigge a più riprese i Sarmati e i Daci e assume i titoli di Germanico Massimo, Sarmatico Massimo e Dacico Massimo.

Se Massimino avesse saputo ingraziarsi il Senato, il popolo di Roma e le legioni delle altre province forse avrebbe potuto consolidare il suo impero e giovare allo stato che aveva bisogno di essere comandato da un valoroso soldato. Massimino invece tra-scura i soldati d'Africa e d'Asia e tratta con arroganza e con ostilità il Senato, dove non chiede neppure di essere convalidato; contro i senatori che lui sospetta nemici agisce inesorabilmente; avendo bisogno di denaro per le sue truppe, ordina confische e incamera nel fisco imperiale le somme destinate agli spettacoli e quelle stanziate per la compra del grano e per le istituzioni alimentari.
Un pronunciamento di truppe che tentano di opporgli il loro comandante T. Quartino, viene violentemente soffocato e il competitore vi trova la morte; a Roma il Senato tace, ma aspetta l'occasione per muovere alla riscossa.

L'occasione non tarda a venire. L'Africa è malcontenta del fiscalismo feroce del procuratore imperiale; due nobili di Tisdri, preso Adrumeto, spingono la popolazione alla rivolta e, armato il popolo, assalgono e uccidono il malvisto procuratore. Temendo la vendetta dell' imperatore, i ribelli gli si schierano contro e acclamano principe, nel febbraio del 238, il proconsole M. ANTONIO GORDIANO, vecchio di ottant'anni, ma ricchissimo e d'illustre famiglia. Dal lato paterno egli discende dai Gracchi, da quello materno da Traiano; pronipote di Antonino Pio è sua moglie Fabia Prestilla.
Gordiano associa il figlio con lo stesso nome, Gordiano II; entrambi assumono il titolo di Augusto ed entrano trionfalmente a Cartagine; poi vengono mandate lettere al Senato per chiedere che la loro elezione venga convalidata e per assicurare la Curia che è intenzione loro di governare costituzionalmente.
Inutile ancora una volta dire che il Senato, accolta lietamente la notizia della rivoluzione d'Africa, si affrettò a sanzionare l'elezione di Gordiano; in nome del nuovo imperatore venne promessa al popolo e ai pretoriani una ricca elargizione di denaro; Vitaliano, prefetto del pretorio, venne ucciso, e il popolo, sollevatesi, fece strage di tutti coloro che avevano sposata la causa di Massimino.

MORTE DI GORDIANO

Ma Gordiano in Africa aveva fatto i conti senza le truppe, le quali non potevano tollerare una elezione fatta senza il loro consenso e la loro partecipazione.
Capelliano, legato della Numidia, fedele a Massimino, messosi alla testa della Legione III Augusta, marciò su Cartagine. Gordiano non aveva un vero e proprio esercito, ma un'accozzaglia di gente male armata che non poteva certo tener fronte a schiere disciplinate e bene inquadrate.
Al primo urto davanti le porte di Cartagine, l'improvvisato esercito di Gordiano venne rotto e messo in fuga e il figlio dell' imperatore, che lo comandava, cadde combattendo valorosamente. Gordiano, avuto notizia della morte del figlio, non volle sopravvivergli e s'impiccò con la propria cintura.

MASSIMINO CONTRO I DUE NUOVI IMPERATORI

L'annunzio della fine dei due Gordiani sbigottì Roma. Il Senato veniva ad avere due nemici: Massimino e Capelliano e poiché da loro non c'era da sperare clemenza, decise di continuare la lotta con tutta l'energia possibile. Era necessario dare a Gordiano un successore: invece di uno ne furono trovati due, tra le file dell'ordine senatorio, M. CLODIO PUPIENO MASSIMO e DECIO CELIO CALVINO BALBINO. Il primo, di umili origini, si era acquistata fama di valoroso soldato combattendo contro i Sarmati e i Germani ed aveva coperta la carica di prefetto urbano; mentre il secondo discendeva da Gaditano Balbo, amico di Cesare e di Pompeo, ed era noto per la sua rettitudine.
In una seduta, che ebbe luogo in un tempio nell'aprile del 238, il Senato li proclamò imperatori, diede loro il titolo di Augusto e al primo affidò il governo della guerra e al secondo il governo civile.

Il popolo però accolse ostilmente l'elezione dei due imperatori e il Senato, per contentarlo, nominò Cesare un giovinetto tredicenne, nipote di Gordiano di cui portava il nome, fece una distribuzione di grano, vino ed olio, celebrò giuochi e fece l'apoteosi dei due Gordiani.
Poi vennero fatti i preparativi per resistere a Massimino: fu eletto un comitato di venti persone reipublicae curandae, si fecero leve in tutta la penisola, si apprestarono armi, si spedirono messi ai governatori delle province con l'ordine di ubbidire ai nuovi imperatori, vennero sottoposti a rigorosa sorveglianza i porti e le strade e infine Clodio Pupieno Massimo, alla testa delle milizie, partì per l'Italia settentrionale per opporsi all'avanzata di Massimino.
Questi, difatti, all'annunzio di questi avvenimenti, aveva lasciato le frontiere del Danubio e a capo delle sue legioni era passato in Italia.

Egli era sicuro di sgominare le truppe del Senato e di entrare vittorioso a Roma, ma ad Aquileia trovò un  ostacolo insormontabile. La città, in cui si trovavano due consolari spediti dal Senato per organizzarvi la resistenza, diede rifugio entro le sue mura agli abitanti del contado e chiuse le porte in faccia all'imperatore. Invano questi cercò d'indurre alla resa la città e, non volendo lasciarsi alle spalle una fortezza nemica, ne devastò il territorio e la cinse d'assedio.
Aquileja si difese valorosissimamente: donne ed uomini, vecchi e fanciulli corsero alle mura e alle torri e respinsero i numerosi assalti che le legioni di Massimino sferrarono, mentre Pupieno per mezzo della flotta di Ravenna impediva che il nemico ricevesse vettovaglie dal mare.
La resistenza di Aquileja e le energiche misure prese dal Senato fecero schierare contro il Trace la maggior parte delle province; nell'Africa, il governatore della Mauritania assalì Capelliano, che venne ucciso, e la legione III Augusta venne sciolta.

Gli scacchi subiti sotto le mura di Aquileja avevano reso furioso Massimino. Egli sfogò la sua ira contro gli ufficiali e i soldati delle sue legioni, suscitando in seno a loro del malcontento. Questo veniva ad essere accresciuto dalle difficili condizioni in cui si trovava l'esercito assediante privo di viveri e nell'impossibilità di procurarsene.
Il malcontento crebbe per opera della II Legione partica, i cui soldati erano preoccupati della sorte delle loro famiglie, le quali, trovandosi ad Albano, erano alla mercé del nemico. Nel maggio del 238 la rivolta scoppiò: i soldati circondarono la tenda dell'imperatore, e Massimino e il figlio, che vi si trovavano, vennero uccisi.

MORTE DI MASSIMINO AD AQUILEIA
CLODIO PUPIENO, BALBINO E IL 13enne GORDIANO III

La notizia della morte di Massimino fu accolta in Italia con grandissime manifestazioni di gioia. Clodio Pupieno si affrettò ad andare ad Aquileja; le porte della città furono aperte alle legioni del Trace che fraternizzarono con gli abitanti e i rappresentanti dei municipi si recarono da Pupieno a rendergli omaggio.
Più tardi questi fece ritorno a Roma e qui ebbero luogo imponenti festeggiamenti.
Il Senato trionfava; l'antica repubblica pareva risorta e i due Augusti facevano pensare agli antichi consoli. Ma il germe del disordine non si era certo spento con Massimino né la concordia del resto regnava tra i due nuovi imperatori. Più che due colleghi essi si consideravano due rivali; l'uno sospettava dell'altro e ciascuno temeva che l'altro avesse il sopravvento. Dei due godeva maggior considerazione Pupieno per il fatto che questi era un militare. Egli infatti rappresentava la persona che manteneva i contatti tra l'esercito e il Senato e della sua opera, più che di quella del collega, si aveva bisogno in quel tempo. Una grossa guerra si andava delineando in Oriente dove i Persiani erano penetrati di nuovo nella Mesopotamia impadronendosi di Kisibi e Carré e Pupieno era stato naturalmente destinato a comandare l'esercito che doveva recarsi in Asia. 

Il Senato, che conosceva la discordia dei due Augusti, cercava con tutti i mezzi di comporla e pare che avesse stabilito, per contentare Balbino, di dargli un comando sul Danubio in operazioni contro i barbari di quella frontiera. Ma l'opera conciliatrice della Curia era sterile di risultati. A render più grave la situazione del governo si aggiungeva il malcontento delle truppe, specialmente dei pretoriani. Questi, abituati ad avere una posizione preminente, non sapevano rassegnarsi al trionfo del Senato. Altra causa del loro malcontento era la presenza, nelle vicinanze di Roma, delle milizie germaniche che PUPIENO aveva chiamate per tenere a freno le coorti pretorie, e che erano state messe sotto il comando di Celio BALBINO.

Questa misura di prudenza avrebbe certamente frustato ogni tentativo di ribellione dei pretoriani se i due imperatori fossero stati concordi. La loro discordia fu fatale ad entrambi e diede modo allo spirito fazioso delle guardie di disfarsi dei due Augusti.

Era il 9 di luglio del 238. Si celebravano quel giorno con grande solennità i giuochi capitolini e il popolo e il Senato erano andati ad assistere allo spettacolo. Approfittando di questa occasione, i pretoriani, prese le armi, marciarono sulla reggia.
All'annunzio della sedizione militare Clodio Pupieno si affrettò a spedire portavoci al collega Balbino affinché muovesse al soccorso con le milizie germaniche; Balbino però, sia che pensasse che il pronunciamento delle coorti pretorie fosse rivolto solamente contro Pupieno, sia che sperasse di sbarazzarsi del collega, fece dare l'ordine alle milizie di non muoversi.
Così i pretoriani poterono invadere la reggia. L'uno e l'altro imperatore caddero nelle mani dei soldati ed entrambi vennero trucidati.
Solo novantotto giorni erano trascorsi dalla loro elezione all' impero.

GORDIANO III 

Il Cesare tredicenne GORDIANO III fu acclamato imperatore, Pontefice Massimo, Padre della Patria (dov'era più la Patria pochi lo sapevano).
 Una folla di eunuchi e di concubine appartenenti allo zio erano nella sua casa e questa gente corrotta avrebbe fatto strazio dell'impero se alla carica di reggente non fosse stato chiamato un uomo che altre volte, come governatore di province, aveva dato ottima prova della sua capacità.
Era questi C. Furio Sabinio Aquila TIMETISEO. A lui si deve se dalla reggia furono cacciati eunuchi e favoriti; a lui se una ribellione in Africa provocata da Sabiniano venne prontamente domata; a lui  se vennero fatte molte savie leggi, di cui più di duecento trovarono poi posto nel codice di Giustiniano.

Giordano III quattordicenne sposò Sabina Tranquillina, figlia di Timesiteo e nominò il suocero prefetto del pretorio. L'attività legislativa del reggente non ebbe purtroppo lunga durata. 
Sul Danubio e in Oriente i nemici dell' impero erano in armi: 
I Persiani, guidati da SHAPUR che nel 240 era successo al padre Ardeschir, erano penetrati nella Siria e minacciavano seriamente Antiochia.
Nel basso Danubio i Goti avevano fatto irruzione nel territorio dell'impero occupando e saccheggiandola città di Istro; e più ad occidente i Carpi a stento erano tenuti a freno dal governatore della Mesia, Menofilo, il valoroso consolare che aveva difeso Aquileja dagli assalti di Massimino.

Nella primavera del 242 GORDIANO l'imperatore ragazzino (17 anni), lasciò Roma diretto verso l'Oriente. I primi ad essere attaccati dall'esercito imperiale comandato da Timesiteo furono i Carpi e i Goti che, sconfitti, dovettero sgombrare il territorio dell' impero che avevano invaso; poi venne la volta dei Persiani. Questi furono ricacciati oltre l'Eufrate, e Carre ritornò in potere dei Romani. 
A Resaina, sul Chaboras, tra Carré e Nisibi, si combattè una grande battaglia tra i Persiani e l'esercito imperiale. La vittoria fu dei Romani; Resaina venne occupata, il nemico fu ributtato dalla Mesopotamia e sul trono dell'Osroene fu messo Abgar XI.

FILIPPO L'ARABO IMPERATORE

Informando il Senato di questi successi, Gordiano tesseva le lodi del suocero: «A lui, che ha avuta la direzione di ogni cosa, noi dobbiamo la vittoria ed altre ne dovremo. Siano fatte supplicazioni agli dèi e rese grazie a Timesiteo ». A questo il Senato, riconoscente, decretò un carro trionfale tirato da quattro cavalli con la scritta Al Tutore della Repubblica.
Ma Timesiteo non era contento di avere ricacciato il nemico oltre i confini; voleva dargli una dura disfatta e si mise in marcia col proposito di occupare Ctesifonte.
Ma durante il cammino lungo il Chaboras (243) il valoroso reggente morì, avvelenato forse da un ambizioso arabo di Bosra, M. GIULIO FILIPPO, che militando sotto le insegne romane si era distinto per il suo valore e si era acquistata la simpatia dei soldati.
Giulio Filippo successe a Timesiteo nella prefettura del pretorio; ma non era a questa carica che egli aspirava, bensì al trono e per giungervi mise in opera tutta la sua astuzia.

Secondo quel che si narra, egli rimandò le navi che portavano le vettovaglie e guidò l'esercito per luoghi deserti dove era impossibile fare arrivare il rifornimento dei viveri. La colpa del malservizio nel vettovagliamento fu dai soldati data all'inesperienza del giovane Gordiano che fu costretto dall'esercito ad associarsi nell'impero l'astuto Filippo.
Tuttavia  Gordiano si accorse delle intenzioni dell'Arabo e cercò di sbarazzarsene. Ma non vi riuscì: nel febbraio del 244, a Zaita, presso Circesio, Filippo provocò una sommossa militare e Gordiano fu ucciso.

Morto Gordiano, ovviamente le legioni acclamarono imperatore Filippo e questi ne diede comunicazione al Senato, annunziandogli nel medesimo tempo la fine del giovane imperatore, ma tacendo, naturalmente, che ne era stato lui la causa. Il Senato, in cui s'era spenta la combattività da cui era stato animato al tempo di Massimino, ratificò la nomina, decretando l'apoteosi dell'estinto e Filippo fece erigere a Gordiano un mausoleo sul posto in cui era caduto.

Il nuovo imperatore non rimase a lungo in Oriente. Anziché continuare la guerra contro i Persiani Filippo concluse la pace con Shapur e prese il titolo di Persico Massimo che in nessuna maniera meritava. La stessa pace da lui fatta col nemico era stata una umiliazione inflitta all'esercito romano dopo la vittoria. Essa difatti favoriva più i Persiani che l'impero. Le legioni non trascurarono di manifestare il loro malcontento, ma l'imperatore le rabbonì facilmente con generosi donativi, poi prese il cammino alla volta dell'Occidente, menando seco la moglie Otacilia Severa e il figlio che egli aveva creato Cesare.
FILIPPO aveva fretta di giugere in Europa, temendo che la sua assenza da Roma facesse sorgere qualche pretendente. Forse si deve attribuire a questo timore la sfavorevole pace da lui conclusa con Shapur. A Roma, nel 244, Filippo celebrò il trionfo sui Persiani, ma nell'anno dopo dovette allontanarsi dalla capitale e recarsi nella Dacia che era stata nuovamente invasa dai Carpi e da altri barbari. Tre anni egli si trattenne sul Danubio combattendo contro le popolazioni barbariche, che avevano compiute incursioni e devastazioni nella Dacia; alla fine costrinse i Carpi alla pace. Per queste guerre prese i titoli di Germanicus e Carpicus Maximus.

Ritornato a Roma celebrò il millenario della Fondazione di Roma.
 Furono fatte feste grandiose che durarono tre giorni e tre notti; si fecero solenni sacrifici sulle rive del Tevere dai sacerdoti alle divinità pagane e ventisette giovani coppie invocarono agli dèi che concedessero all'Urbe l'eternità.
Intanto il malcontento delle legioni, che aveva costretto l'imperatore a conceder loro donativi dopo la pace coi Persiani, e che sembrava cessato si riaccendeva fra le truppe della Siria provocato dal fiscalismo di Prisco, fratello di Filippo. I soldati della Siria e della Cappadocia, ribellatisi, acclamarono imperatore GIOTAPIANO che si diceva discendente di Alessandro Magno, ma subito dopo fu ucciso. E la stessa sorte toccò al tribuno Marino nella Mesia. 
Per ridurre all'obbedienza le truppe della Dacia e della Mesia Filippo mandò il senatore O. Messio Quinto Trajano Decio, nato da famiglia romana stabilitasi nella Pannonia. Appena giunto in Siria le legioni  acclamarono lui imperatore. Decio, temendo l'ira delle truppe, non osò rifiutare, ma scrisse segretamente a Filippo che, ritornato a Roma, avrebbe rinunciato all'impero; ma quando seppe che l'Arabo, raccolto un esercito, si era messo in marcia verso l'Italia settentrionale con l'intenzione di affrontarlo e punirlo, egli a sua volta si diresse verso le Alpi alla testa delle sue legioni.

I due imperatori, uno risalendo i Balcani, l'altro risalendo da Roma, si scontrarono presso Verona e la vittoria fu di Decio. Filippo cadde durante il combattimento e con lui morì il figlio dodicenne cui egli aveva dato il titolo di Augusto (ottobre del 249). Secondo un'altra versione il figlio che non era con lui ma fu ucciso a Roma dai pretoriani.

FINE PERIODO 222 - 249

... passiamo al successivo periodo
(da DECIO a Claudio ) dal 249 al 270 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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