ANNI 270 - 285 d.C.

CLAUDIO QUINTILIO e DOMIZIO AURELIANO - INVASIONE DI BARBARI FINO AL TICINO
LA REGINA ZENOBIA DI PALMIRA - L'UNITA' DELL'IMPERO - GUERRE DI AURELIANO E MORTE
FLORIANO E PROBO - GOVERNO DI PROBO, CARO, CARINO, NUMERIANO, APRO
DIOCLEZIANO ACCLAMATO IMPERATORE
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AURELIANO


L'inizio della salvezza di Roma e dell'Impero - dopo l'anarchia che abbiamo visto negli ultimi decenni- giunse da un gruppo di imperatori di origine non romana ma illirica: ottimi soldati che anche se non italici erano impegnati della grandezza di Roma. Il primo di questi lo abbiamo visto all'opera negli ultimi due anni nel precedente periodo: ed era Claudio detto il Gotico, che cacciò fuori con molta abilità le prime invasioni barbariche in Italia che si erano già spinte fino a Ravenna, assediato Milano, erano giunti al lago di Garda,  imperversati sui Balcani e in Pannonia. Claudio non diede loro respiro e  inseguì i Goti e gli Alemanni fino alla valle della Morava, dove a Naisso (Nisch) fu combattuta une delle più sanguinose battaglie con cinquantamila morti ed un immenso numero di prigionieri comprese le donne che furono poi deportati in Italia per la coltivazione nei campi.
Forse avrebbe potuto fare di più, che era poi quello che ci voleva in questo periodo in Italia e aveva solo cinquant'anni; purtroppo oltre le scorrerie, i barbari avevano portato in Italia anche la peste; e Claudio, dopo aver lasciato Aquileia ben difesa al fratello, nell'aprile del 270 per incalzare i barbari in Pannonia, era appena giunto a Sirmio sulla Sava che fu colpito dal morbo che mieteva vittime e morì anche lui di peste.

Alla morte di Claudio, il Senato proclamò imperatore il fratello di lui, Claudio Quintilio, che si trovava, come si è detto, ad Aquileja, ma le milizie non lo riconobbero e a loro volta misero sul trono il generale DOMIZIO AURELIANO. Quintilio, di lì a poco, morì non si sa con precisione se suicida o ucciso dai soldati o forse anche lui di peste.

L. Domizio AURELIANO era figlio di contadini, era nato nell'Illirico, forse a Sirmio, ed era salito ai più alti gradi dell'esercito per le sue virtù militari. Quando fu nominato imperatore aveva cinquantasei anni, ma era ancora vegeto e forte; la sua mente era sveglia, pronta la sua mano, ferrea la sua volontà. Fra le truppe godeva fama di guerriero valorosissimo e di abile e prudente capitano. Da semplice tribuno -a quel che narra lo storico Flavio VOLPISCO- a Magonza con la sua legione aveva sbaragliato un numero considerevole di Franchi, uccidendone settecento e vendendone schiavi trecento. I soldati magnificavano con canti le sue gesta, avevano per lui il più grande rispetto e lo solevano chiamare «mano al ferro » (manus ad ferrum).
Ed era quello che ci voleva! Sotto Aureliano la disciplina delle milizie venne restaurata e l'impero riebbe la sua unità per mezzo di guerre non poche e non facili ma che riuscirono tutte vittoriose.
La prima egli dovette combatterla contro gli Jutungi che avevano passato il Danubio e avevano spinto le loro avanguardie di cavalieri fino alle porte d'Italia. Aureliano raggiunse il grosso dei barbari alla destra del gran fiume e lo sbaragliò.

Ma non erano gli Jutungi soltanto i barbari che irrompevano sulla linea del Danubio; altri popoli, spinti dal desiderio del bottino o dal bisogno di nuove sedi, passavano i confini invadendo il territorio dell'impero. Più minacciosi degli altri erano i Vandali che si erano riversati nella Pannonia. Contro di essi Aureliano fu sollecito a condurre le sue legioni e la vittoria anche qui non tardò a venire: i Vandali, sconfitti, chiesero la pace e l'imperatore, consultati i soldati, la concesse a patto però che tornassero alle loro sedi senza recare molestie all'impero. 
I più obbedirono, ma cinquecento di loro, venendo meno ai patti, operarono dei saccheggi: l'imperatore non ci pensò su due volte, li assalì e li passò a fil di spada tutti. 
Una banda di duemila cavalieri Vandali passò al servizio di Aureliano.

Questi fatti avvenivano nel 270; nell'anno seguente le invasioni barbariche si fecero più numerose: i Goti ritornavano nella Mesia e gli Jutungi insieme con gli Alemanni giungevano alle Alpi, le passavano e, in numero di oltre centomila, invadevano i territori transpadani saccheggiandoli, poi, passato il Po, occupavano Piacenza e si spingevano sino a Fano.
Aureliano entrò in Italia per cacciare fuori i barbari, ma gli inizi di questa campagna non furono felici: presso Piacenza il nemico sbucato da una foresta, in cui si teneva nascosto, assalì gli accampamenti romani e, favorito dalla notte, li occupò seminando il terrore fra i legionari.

La notizia di questa sconfitta giunse a Roma nel gennaio del 271 causando la più grande costernazione. Si temeva infatti di vedere spuntare da un giorno all'altro presso le mura della metropoli gli invasori; vennero consultati i libri sibillini e si fecero preghiere nei templi perché gli dèi tenessero lontano il pericolo.
Ma più delle preghiere valsero le doti di Aureliano a salvare Roma e l'Italia dal nemico. Presso il Metauro assalì energicamente i barbari e li sconfisse costringendolo a ripassare il Po; non pago, inseguitili, li attaccò ancora alle rive del Ticino dove si svolse una lotta sanguinosa. Ma anche per i superstiti  non ci fu scampo, circondati caddero tutti nelle mani del vincitore.

Vinto il nemico, Aureliano si portò a Roma e ordinò subito che la città venisse cinta da mura perché potesse in avvenire resistere se assalita dai barbari. I lavori iniziarono nel momento stesso e durarono tutto il tempo che durò l'impero di Aureliano; lui però non vide la fine dell'opera, essendo morto circa anno prima che fossero condotta a termine. 
Restava ora da ricacciare i Goti dalla penisola balcanica e l' impresa, personalmente diretta dall'imperatore, non fu lunga né difficile. Anche questi furono cacciati dal territorio invaso e le legioni li inseguirono oltre il Danubio dove inflissero loro una notevole sconfitta. Cannabaude, capo dei Goti, fu ucciso nella battaglia.
Nonostante la vittoria, Aureliano volle fare il sacrificio della Dacia e non gliene va dato rimprovero. Essa costituiva il punto più debole dell' impero, lontana com'era e stesa al di là di un gran fiume era come un cuneo dentro il territorio più folto di barbari. Certo questa provincia si sarebbe potuta difendere, innalzando al confine potenti e numerose opere di fortificazioni e tenendovi in permanenza un copioso esercito, ma a prezzo di quali sacrifici economici è facile immaginare. Le spese richieste dalla difesa sarebbero state superiori all'utile che la provincia dava all' impero.
Mosso da queste ragioni e dal desiderio di avere la pace in quel territorio per volgere i suoi sforzi in Oriente contro Zenobia, Aureliano decise di abbandonare la Dacia. Il confine fu portato al Danubio e quei coloni che non vollero rimanere nel territorio furono stanziati nella Mesia, della quale una parte fu nominata Dacia (Ripensis) con capitale Sardica (Sofia) ed eretta a provincia romana.

Si ripeteva ciò che sotto Augusto era stato fatto, quando, riportati i confini al Reno, si era dato il nome di Germania alla regione gallica alla sinistra del fiume, della quale si erano fatte due province.
La Dacia, abbandonata dopo centosettant'anni di possesso, venne presto invasa dai Visigoti, ma si era talmente romanizzata che i barbari non riuscirono a cambiarne la fisionomia, la quale rimane anche ora, dopo tante vicende e diciassette secoli, ad attestare la vitalità della civiltà e della lingua di Roma.
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ZENOBIA, FERMO E TETRICO

 Odenato II, re di Palmira, dopo di avere reso preziosi servizi all'impero e aver tentato -ma invano- di liberare dalla prigionia Licinie Valeriano, era morto nel 267 vittima di una congiura tramata dal nipote Meonio che voleva rendersi padrone del principato. Con lui era stato ucciso il figlio maggiore che Odenato aveva avuto da un'altra donna. Questo fatto fece credere a qualche storico che ispiratrice della congiura fosse stata ZENOBIA, che era poi la moglie di Odenato.
Era questa una bella donna, di costumi irreprensibili, fiera, abile, tenace; conosceva, oltre l'arabo, lingua materna, il latino e il greco, aveva una vasta coltura letteraria e filosofica e amava conversare con i dotti della corte, specialmente con CASSIO LONGINO, seguace delle dottrine platoniche.

Morto Odenato, Meonio era stato punito e Zenobia aveva preso le redini del governo di Palmira e le aveva tenute in nome del figlio Vahbalath, grecamente chiamato Atenodoro, al quale, essa aveva fatto portare i titoli, non ereditari, che invece Gallieno aveva concesso al padre.
Nel fare questo Zenobia aveva chiaramente mostrato di voler non solo conservare per sé e per il figlio la posizione privilegiata del marito, ma di volere scuotere il blando vassallaggio della sua patria per renderla indipendente. Aveva compreso Gallieno le intenzioni dell'ambiziosa donna e aveva cercato di stroncarle sul nascere, ma il generale Eracliano, che l'imperatore aveva mandato contro di lei, era stato sconfitto e Gallieno, impegnato in altre guerre, non aveva potuto rinnovare il tentativo.

Zenobia, approfittando delle critiche condizioni dell'impero aveva esteso e rafforzato il suo dominio sulla Mesopotamia, sulla Siria e sull'Arabia. Anche l'Egitto, su cui essa vantava diritti dicendosi discendente dei Tolomei, era caduto in suo potere. Capitale di questi estesi territori strappati all''impero era divenuta Palmira, l'antica Thadmor, la città che Salomone aveva fondato nella fertile oasi, ricca di superbi edifici, centro importantissimo di commerci, di cui ci fanno fede le imponenti rovine di un portico grandioso, sorretto da millecinquecento colonne, che serviva da mercato.

Salito all' impero Aureliano, un accordo era stato stipulato -a quanto sembra- tra questo imperatore e Zenobia. Pare che Vahbalath avesse riconosciuto Aureliano e che questi, in compenso, avesse lasciato al figlio di Odenato il titolo di re il governo delle province che la madre aveva usurpate. Questo accordo sarebbe confermato da certe medaglie alessandrine, in cui sono effigiati Aureliano ed Atenodoro.
Ma l'accordo -pur volendo ammette che ci fu- era stato nominale soltanto; in verità Vahbalath si considerava imperatore d'Oriente, aveva preso il titolo di Augusto che aveva esteso alla madre; aveva fatto batter moneta e aveva cominciato a contare gli anni dalla sua assunzione al trono.
Aureliano non poteva permettere questo. L'uomo che aveva sacrificato la Dacia non poteva tollerare l'usurpazione di metà circa dell' impero, e sopportare il sacrificio delle più ricche provine:

Assicurata la tranquillità sul Danubio, Aurelian volse il pensiero all'Oriente e con le legioni con le quali aveva vinto Jutungi, Alemanni e Goti passò in Bitinia (272). Di qua mosse verso la Galazia, caduta anch'essa in potere di Zenobia, e incontrò resistenza ad Ancira. Superatala facilmente, Aureliano punto su Tiana che gli chiuse le porte. Per mezzo di un traditore, che gliene indicò la via, l'esercito imperiale riuscì a occupare un'altura che dominava la città; solo allora i cittadini si arresero e, per non farseli nemici, l'imperatore proibì ai suoi soldati di saccheggiare Tiana. Presa la quale, Aureliano marciò verso la Siria. Antiochia era difesa dall'esercito palmireno comandata o dal generale Zabda, che stava accampato nella valle dell'Oronte. Qui fu combattuta una grande battaglia che terminò con la vittoria dei Romani. La forza maggiore delle milizie nemiche risiedeva nella loro cavalleria pesante; Aureliano ordinò alla propria cavalleria di simulare la fuga e poiché quella nemica si era data all'inseguimento, lui dai lati attaccò con le sue legioni la fanteria palmirena che, soprafatta, di quella che rimase si ritirò in città; ma neppure qui riuscì  difendersi e si ritirò nelle vicinanze di Emesa.

Aureliano entrò in Antiochia e la risparmiò dal saccheggio. Per acquistasi la simpatia degli abitanti, la maggior parte dei quali parteggiavano per il vescovo Paolo di Samosata, condannato come eresiarca da un concilio, l' imperatore ordinò che rimanesse in Antiochia e gli permise di aver rapporti con i  vescovi d'Italia.
Da Antiochia Aureliano marciò contro Zabda e sotto le mura di Emesa ebbe luogo la battaglia più importante di questa guerra. Forse anche questa volta la cavalleria romana simulò la fuga per togliere alla fanteria nemica la protezione dei cavalieri di Zenobia. Sebbene superiore di numero, il nemico venne sbaragliato e cercò rifugio a Emesa, ma di fronte alla palese ostilità degli abitanti che non consentiva  loro una efficace difesa, Zabda stimò opportuno di abbandonare la piazza e condusse il suo esercito dentro Palmira.
Qui Zenobia sperava di potersi sostenere a lungo aiutata dal deserto che circondava l'oasi e dai Persiani che si erano alleati a lei. Palmira era cinta di munite mura, era provvista di abbondanti viveri e dotata di potenti macchine da guerra e una grande quantità di munizioni. Aureliano sapeva quanto fosse rischiosa l'impresa che si accingeva a fare e quando, dopo una faticosissima marcia attraverso il deserto ostacolata dai beduini, giunse sotto le mura della città, propose la pace alla regina con la promessa di lasciarle gli antichi privilegi e di farla vivere principescamente in un'altra città.

Ma Zenobia rifiutò sdegnosamente e in uno dei tanti assalti anche l'imperatore fu ferito anche non lievemente. Ma la sorte della città era segnata: dall' Egitto, riconquistato dal generale Probo all'impero, nessuno aiuto poteva venirle; un esercito però fu mandato in suo soccorso dai Persiani, ma questo venne sconfitto dalle milizie imperiali. Si aggiunga poi la morte di Shapur a cui successe Ormisda I, il quale, tormentato dalle discordie civili. non poteva mandare nessun aiuto alla città assediata.
Intanto i viveri si facevano sempre più scarsi a Palmira e la popolazione cominciava a soffrire la fame. Zenobia decise di recarsi in Persia, sperando con la sua presenza di ottenere aiuti dal re alleato. Uscita segretamente con una scorta, prese la, via dell'Eufrate, ma un reparto di cavalleria romana la inseguì e, raggiuntala mentre passava il fiume, la fece prigioniera.

Palmira poco dopo capitolava. Anche verso questa città Aureliano fu mite; non solo la risparmiò dal saccheggio, ma le lasciò i privilegi, le impose una guarnigione romana e la incorporò alla provincia della Siria. Ad Emesa Aureliano chiamò davanti al suo tribunale Zenobia e questa, che tanto coraggio aveva mostrato durante la guerra, si perse d'animo e per aver salva la vita disse di essere stata spinta alle ostilità dai suoi consiglieri, i quali, primo fra tutti Longino, che vennero mandati a morte.

Le province asiatiche dell' impero erano state tutte riconquistate ed Aureliano poteva fare ritorno in Europa per ricuperare anche quelle occidentali; ma nella penisola balcanica dovette fermarsi a fronteggiare un' invasione di Carpi. Era intento a combattere contro questi barbari quando gravissime notizie gli giunsero da Palmira e da Alessandria. I Persiani erano ricomparsi sull' Eufrate e minacciavano le frontiere dell' Egitto: ad Alessandria un fabbricante di papiro, M. Fermo, si era ribellato e forte delle sue ricchezze si era fatto proclamare imperatore dagli abitanti; a Palmira i cittadini, ribellatisi anch'essi, avevano fatto strage della guarnigione romana e avevano offerto il regno ad Antioco, parente di Zenobia, dopo che Marcellino, legato della Mesopotamia, l'aveva rifiutato.

Aureliano proseguì con maggior vigore la guerra contro i Carpi e dopo averli vinti, si portò con rapidità strardinaria sotto le mura di Palmira. Questa non riuscì opporre una seria resistenza, fu presa e abbandonata all'ira delle soldatesche che non risparmiarono né cose né persone. Degli abitanti fu fatta orribile strage né il sesso o l'età furono di salvezza di ognuno di loro; le case vennero saccheggiate poi furono date alle fiamme e l'infelice città fu distrutta per non risorgere più.

Vendicato così l'eccidio del presidio romano, Aureliano si rivolse contro i Persiani, ma al suo apparire questi si affrettarono a ritirarsi. Allora l'imperatore marciò sull'Egitto: Alessandria fu rapidamente occupata, Fermo fu preso e crocifisso, agli abitanti, per punizione, furono inaspriti i tributi. Dall'Egitto l' imperatore fece ritorno in Europa. Perché fosse restituita l'unità all'impero bisognava riconquistare le estreme province occidentali. Non era una impresa difficile. Le popolazioni della Gallia mal sopportavano le angherie delle soldatesche; d'altro canto Tetrico era imperatore solo di nome. Questi, all'annunzio che l'esercito imperiale si avvicinava, si mise in segreti rapporti con Aureliano e quando le truppe della Gallia si trovarono di fronte a quelle dell'imperatore presso Chàlons-sur-Marne, abbandonò i suoi e passò nell'esercito avversario (274).
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GOVERNO DI AURELIANO E LA SUA MORTE

La ricostituzione dell'unità dell' impero fu celebrata a Roma con un trionfo splendido, cui assistettero, oltre al popolo festante, numerosi ambasciatori di principati confinanti.
Aureliano trionfava sui nemici esterni e interni; moltissimi prigionieri seguivano il suo carro, Alemanni, Marcomanni, Jutungi, Goti, Eruli, Egiziani, Palmireni; Zenobia, carica dei suoi gioielli più preziosi e stretti i polsi in catene d'oro, seguita da schiavi ed ancelle, era l'ornamento migliore del trionfo; il più infelice era rappresentato da Tetrico, ammantato nella porpora imperiale ma in catene anche lui.
Mai prima d'allora si era visto un senatore romano marciare incatenato in una processione di barbari vinti; l'orgoglio romano, quello dei padri specialmente, fu ferito ed Aureliano cercò di far dimenticare il suo errore riammettendo, dopo la cerimonia, Tetrico nell'ordine senatorio e creandolo correttore della Lucania. Zenobia fu confinata in una magnifica villa di Tivoli. All'imperatore venne dal Senato conferito il meritato titolo di Restitutor Orbis. Al trionfo seguirono grandi feste pubbliche e al popolo vennero fatte distribuzioni di viveri, di denaro e di vesti.

Aureliano poteva essere contento dell'opera sua. Come comandante di eserciti e come uomo di governo egli aveva fatto sentire la sua mano di ferro e per merito suo il prestigio dell'impero era talmente cresciuto che fin dalla lontana India giungevano ambasciatori per rendere omaggio ad Aureliano. Egli aveva perso qualche battaglia, ma aveva vinto ogni guerra intrapresa e i confini dell'impero potevano ora dirsi sicuri. Per merito della sua inflessibilità la disciplina delle milizie era stata restaurata: i soldati avevano fiducia nel suo talento militare, ma avevano anche timore della sua severità e gli ubbidivano ciecamente. Non minore era il rispetto in cui era tenuto dal popolo per la politica saggia e ferma che Aureliano aveva seguita. 
Aveva fatto cessare il disservizio annonario; aveva favorito la pubblica igiene; aveva cercato di frenare il lusso e preso provvedimenti per arginare la corruzione dei costumi; preoccupato dalla crisi economica, aveva condonato gli arretrati facendo bruciare i registri del fisco nel Foro Traiano per impedire che la riscossione generasse abusi; infine aveva usato grande severità per risolvere la crisi monetaria.
Certo non tutti erano contenti di lui. B Senato, come sempre, mal sopportava che l'impero avesse assunto un carattere militare e, d'altro canto, non poteva dimenticare le spietate punizioni che Aureliano aveva inflitte a non pochi senatori che si erano agitati contro di lui dopo l'insuccesso di Piacenza. Non erano neppure contenti i funzionari ladri e certi generali e ufficiali dell'esercito insofferenti della ferrea disciplina. I primi gli suscitarono contro la popolazione di Roma, gli altri dovevano procurargli la morte.

L'insurrezione popolare si ebbe in Roma nel 274: fu provocata da Felicissimo direttore della Zecca. Volendo Aureliano metter fine alle frodi del personale della Zecca, pubblicò un editto col quale ordinava che il valore nominale della moneta d'argento fosse pari al reale. La sommossa che ne seguì assunse aspetto di eccezionale gravità, si combatté per le vie della città e settemila soldati perirono per mano dei rivoltosi durante la repressione.
Da allora la lega delle monete d'argento venne migliorata un po' e la coniazione fu posta sotto un vigile controllo di funzionari statali.
Da Roma Aureliano ritornò nelle Gallie: due nemici andava a combattervi, dei mestatori che cercavano di suscitare torbidi fra la popolazione e i Franchi e gli Alemanni. I Franchi furono battuti da Probo nel basso Reno, gli Alemanni vennero sconfitti al corso superiore, nelle vicinanze di Vindonissa (Windisch) dal generale Costanze Cloro. Perché le popolazioni della Gallia fossero tenute a freno furono fortificate Digione e Genabo; quest'ultima città fu circondata di mura e prese il nome di Civitas Aurelianorum (Orleans).

Dalla Gallia Aureliano passò sul Danubio per tenere in rispetto con la sua presenza i barbari di confine, poi prese la via dell'Oriente. Dicesi ch'egli volesse fare una spedizione contro i Persiani per vendicare la fine di Valeriano e punirli per gli aiuti prestati alla ribelle Zenobia.
Ma non riuscì condurre a termine questa impresa. Un suo segretario, reo di malversazioni, ordì una congiura in cui trasse alcuni comandanti dell'esercito che, per essere colpevoli anch'essi di non pochi abusi, temevano di essere puniti. Aureliano si trovava sulla strada da Perinto a Bisanzio nel gennaio del 275, quando il pugnale dei congiurati troncò la vita del grande imperatore.

DA M. CLAUDIO TACITO  A PROBO
CARO, CARINO, NUMERIANO, APRO

Dopo l'uccisione di Aureliano il trono rimase vacante per circa otto mesi, durante i quali più volte i generali pregarono il Senato che eleggesse l'imperatore; ma il Senato dal canto suo rimise all'esercito la scelta dell' imperatore. Era un fatto nuovo nella storia dell' impero questo e non si sa davvero a che cosa attribuirlo, se al desiderio degli assassini di sfuggire alla punizione o al bisogno che l'esercito sentiva di un capo espresso dai legali poteri dell'alta assemblea. Forse pochi erano disponibili a rischiare di finire con un pugnale alla schiena.
Infine il Senato cedette e la scelta cadde sul consolare M. CLAUDIO TACITO. Questi si mostrò maldisposto a lungo: era vecchio e, non era soldato, e l'impero, — diceva lui non a sproposito— minacciato nuovamente dai barbari, aveva bisogno di un giovane che sapesse guidare alla vittoria le legioni. Ma il Senato tenne fermo e Tacito dovette accettare l'impero. 

Tacito era un uomo di semplici costumi e conservatore in politica, non deve quindi recare meraviglia se l'autorità del Senato si risollevò. In alcuni punti il governo di Tacito seguì le orme di Aureliano; infatti si provvide a metter freno al lusso e alla corruzione dei costumi, furono chiuse le case di piacere della città e si stabilì la pena di morte e la confisca dei beni contro i falsificatori delle monete.
Tacito si vantava discendente dello storico e in onore del grande congiunto volle che ogni biblioteca possedesse una copia degli Annali e delle Istorie. Era anche ricco e spese buona parte dei suoi beni in opere di pubblica e privata carità.
Il suo fu un governo eminentemente civile; tuttavia, d'accordo con il Senato, Tacito non volle urtarsi con l'esercito. A questo, in occasione della sua proclamazione, fece il consueto donativo, propose l'apoteosi di Aureliano, ordinò che gli fossero innalzate statue e punì i maggiori responsabili dell'uccisione del suo predecessore.

Malgrado tutto questo, Tacito non poteva essere ben visto dai soldati di cui non era l'espressione.
Era giunta la notizia che un'orda gotica si era rovesciata nell'Asia minore. L'imperatore, insieme al fratello Floriano si mise in viaggio per l'Oriente e in Oilicia, scontratesi coi barbari, li sconfisse. La vittoria gli fruttò il titolo di Gotico massimo, che però non portò a lungo.
Alcuni di coloro che avevano partecipato alla congiuun'altra contro Tacito alla quale fu data esecuzione il 12 aprile del 276. Il regno di Tacito era durato quasi sette mesi.
Alla morte di Tacito parte dell'esercito proclamò imperatore il fratello M. ANNIO FLORIANO, che copriva la carica di prefetto del pretorio, mentre un'altra parte -la più numerosa- elesse M. AURELIO PROBO, valorosissimo generale nato a Sirmio nel 232.

Probo si preparava già a sbarazzarsi del suo rivale quando (11 giugno del 276) Floriano, a Tarso, fu ucciso dai suoi stessi soldati.
Al pari di Claudio e di Aureliano, Probo fu un imperatore soldato. Dicesi ch'egli si affrettò a chiedere la sanzione dalla Curia e che al Senato conferì il diritto di nominare i proconsoli, di giudicare le cause in ultima istanza e di ratificare gli atti imperiali. Non sappiamo quanto ci sia di vero in tutto ciò; ad ogni modo, anche se ciò rispondesse a verità, è innegabile che l'autorità senatoria rimase puramente nominale e illimitato fu il potere dell' imperatore.

L'impero di Probo, che durò fino a tutta l'estate del 282, fu una serie di guerre. La prima di queste dovette essere combattuta l'anno stesso della sua proclamazione ed ebbe per teatro le frontiere della Gallia, che era stata invasa al nord dai Franchi e al centro dagli Alemanni.
Contro i Franchi Probo mandò una parte dell'esercito, che, sconfitto il nemico, liberò la regione del basso Reno, e lui stesso andò contro gli Alemanni e questi ricacciati oltre il fiume, Probo li inseguì fin nella valle del Neckar dove inflisse loro una grave sconfitta. Né questa fu l'ultima per i barbari: essendosi aggiunti a questi i Burgundi e i Vandali, Probo dovette estendere le sue operazioni anche contro costoro e la vittoria fu ancora sua. Conseguenza di questa guerra fu la sottomissione di parecchie tribù germaniche tutte obbligate a pagare tributi all' impero e a fornire truppe ausiliarie. Sedicimila guerrieri li fornirono gli Alemanni e Probo li distribuì nelle legioni. Rafforzati i confini tra il Reno e il Danubio con trincee, Probo si recò su quest'ultimo. Non abbiamo molte notizie sulla guerra che l'imperatore sostenne contro i barbari che minacciavano questa frontiera, ma sappiamo che fu vittoriosa per i Romani e che i nemici, nel 278, erano stati ricacciati oltre i confini.

Intanto l'Asia Minore, specialmente la regione montagnosa dell' Isauria, era infestata da numerose ed audaci bande di predoni che desolavano quel territorio coi loro saccheggi mettendo enormemente a repentaglio i commerci. Probo decise di combatterli e, trasferitesi in Asia, diede una caccia spietata agli Isauri, li andò a scovare nei loro covi di montagna e qui una alla volta li assalì e li ridusse all'obbedienza dopo di averne uccisi un gran numero.

Fra i briganti morti vi fu un certo Didio, capo della più forte banda, che era il terrore della regione. Per impedire che il brigantaggio risorgesse l'imperatore agli sbocchi delle gole dell' Isauria stabilì colonie di veterani. Si trovava in Siria e si stava preparando alla spedizione contro i Persiani, quando vennero a lui, carichi di ricchi doni, ambasciatori di Vararane II, re di Persia, successo nel 272 al padre Ormisda I. 
Probo rifiutò i doni, ma di lì a poco, avute proposte di pace da parte dei Persiani, che promettevano di non molestare i confini orientali dell'impero, accettò i doni (272) e si affrettò ad andare in Egitto che nel frattempo era stato invaso dai Blemmi della Nubia.
Anche questa spedizione fu coronata dal successo. 

Dall' Egitto Probo mosse alla volta dell' Europa, dove, nel frattempo, due rivali gli si erano levati contro col favore delle legioni. L'impero tornava ad essere afflitto dai pronunciamenti militari. Uno era già avvenuto in Siria, dove le milizie avevano proclamato imperatore GIULIO SATURNINO, che era già stato riconosciuto ad Alessandria, ma questo pretendente non aveva saputo né voluto resistere all'esercito imperiale: si chiuse in una rocca di Apamea, ma poi si era lasciato prendere e finì ucciso

Con la stessa facilità con la quale era stato represso il moto della Siria furono repressi quelli della Gallia. A Lugdunum le legioni avevano offerto la corona a PROCOLO, loro generale; sul Reno invece si era proclamato imperatore BONOSO, per sottrarsi -narrasi- alla punizione che si aspettava per essersi lasciata incendiare dai Germani la flottiglia del Reno che lui comandava. 
Ma né l'uno, dissoluto amatore di femmine, né l'altro, eccessivo devoto al dio Bacco, erano tali uomini da competere con Probo. Il primo, assalito dall'esercito imperiale, cercò rifugio tra i Franchi, ma da questi venne consegnato all'imperatore e messo a morte; il secondo, sconfitto dalle legioni di Probo, si uccise impiccandosi ad un albero.

A questi fatti segue un periodo di pace, durante il quale Probo celebra a Roma un trionfo e tante feste. Ma Probo non è uomo di feste né è un uomo da stare inoperoso anche quando tacciono le guerre.
I soldati costavano molto all'impero e Probo era d'avviso che in tempo di pace non dovessero essi costituire delle bocche inutili, ma dovessero rendere servizi allo stato lavorando a costruir ponti, basiliche, templi, a scavar canali, a prosciugar paludi, a piantar vigneti.
Con il lavoro dei soldati Probo credeva — e non a torto — di venire in aiuto all'impero travagliato da una terribile crisi economica. Un'altra crisi travagliava lo stato: quella demografica, che affliggeva specialmente le province illiriche, spopolate dalle continue guerre ed invasioni. 
Probo la risolse con stanziamenti di barbari. Centornila Bastami furono accolti nella Tracia e nella Mesia, Vandali vennero mandati in Britannia e numerosi Franchi sul Ponto Eussino. 

I fatti ci mostreranno quanto dannosa fosse per l'impero la politica demografica di Probo, che se serviva a popolare regioni vastissime e ad assicurare allo stato agricoltori e soldati, arrestava l'opera di latinizzazione ch'era stata sempre perseguita da Roma e affrettava invece l'imbarbarimento dell'impero.
Ala fine la politica demografica sarà fatale all'impero romano, e quella militare fu fatale allo stesso imperatore. I soldati erano malcontenti per i faticosi lavori che venivano loro imposti, fra i quali faticosissimo era il prosciugamento delle paludi di Sirmio, che l'imperatore personalmente dirigeva.
Il malcontento delle truppe addette a tale opera di bonifica crebbe quando fra loro giunse notizia che le legioni della Rezia avevano proclamato un nuovo imperatore e si mutò in aperta ribellione quando si seppe che le truppe mandate da Probo contro il rivale si erano unite ai sediziosi. Le milizie di Sirmio abbandonarono i lavori e, prese le armi, assalirono l'imperatore e l'uccisero (autunno del 282). Compiuto il delitto e tornata la calma negli animi, si accorsero le truppe di quale capo avevano esse privato l'impero e l'esercito, posero sulla tomba dell'imperatore un'epigrafe che ne esaltava il carattere e le gesta.

Anche il nuovo imperatore acclamato dalle legioni della Rezia, che si chiamava M. AURELIO CARO, era un illirico. Copriva la carica di prefetto del pretorio ed era stato proconsole della Cilicia; dotato di coraggio e di talento militare, aveva date buone prove di sé, come generale, combattendo contro i barbari sul Danubio e per proprio per questo fu ben presto conosciuto da tutto l'esercito. Della sanzione del Senato egli non si curò e si limitò a notificargli la sua elezione. Dopo la proclamazione di Caro, l'impero vide di nuovo le frontiere assalite dai nemici: i Franchi premevano sul Reno; gli Alemanni sull'alto Danubio;  i Quadi e i Sarmati sul medio e sul basso; e all'Eufrate si riaffacciavano minacciosi i Persiani.

M. Aurelio Caro nominò Cesari i suoi due figli, CARINO e NUMERIANO: mandò il primo, uomo dissoluto ma non imbelle, contro i Franchi e gli Alemanni, e condusse con sé il secondo sul Danubio e in Oriente. Sul Danubio combatté con fortuna contro i Quadi e i Sarmati, in Asia non trovò resistenza notevole da parte dei Persiani: Varanane anzi gli mandò ambasciatori con proposte di pace.
Lo storico Vopisco ci descrive la scena del colloquio tra gli ambasciatori e l'imperatore romano: questi li ricevette mentre, seduto sull'erba, faceva un modestissimo pasto di lardo e piselli secchi. Udita l'ambasciata, rispose che se il loro re non avesse fatto omaggio alla sovranità di Roma avrebbe resa la Persia nuda come la sua testa. E, toltosi il berretto, mostrò loro il suo capo calvo.
Congedati gli ambasciatori, Aurelio Caro si mise in marcia alla testa del suo esercito; i Persiani tentarono di sbarrargli il passo ma lui li sconfisse ed occupò Seleucia e Ctesifonte.
Si apparecchiava a muovere verso l' interno della Persia quando, nell'agosto del 283, morì, vittima di un fulmine o, come altri dicono, ucciso dagli stessi soldati, che non desideravano avventurarsi in un paese lontano e sconosciuto.

MORTE DI NUMERIANO, DI APRO
DIOCLE ACCLAMATO IMPERATORE

L'esercito proclamò imperatore il figlio NUMERIANO, ma la guerra non fu continuata. A marce rapide le truppe si diressero, attraverso la Mesopotamia, verso l'Asia Minore. L'imperatore, affetto da oftalmia, non potendo sopportare la luce, stava chiuso nella sua lettiga; guidava l'esercito ARRIO APRO, prefetto del pretorio ma era anche  suocero di Numeriano.
Un suocero ambizioso, ma anche frustrato, e non accettava che il genero era già giunto alla massima carica così giovane e dopo così breve tempo, quindi la sua premeditata congiura per soddisfare la sua ambizione fu quello di eliminare il genero e farsi dichiarare sul posto  nuovo imperatore dai suoi soldati come è ormai costume da un po' di tempo. Si misero in marcia, ma a Roma Apro era intenzionato ad arrivarci da solo.

A Ctesifone, dopo aver attraversato il deserto in pieno agosto, Numeriano colpito da una congiuntivite agli occhi venne consigliato dal suocero di farsi trasportare in una lettiga chiusa, al buio. Ad ogni sosta, Apro che aveva dato ai soldati la disposizione di mai aprire la lettiga per non fargli prendere luce, si precipitava personalmente ad accudirlo. Quando arrivarono dopo alcuni giorni a Perinto, nei pressi di Nicomedia, i portantini cominciarono a sentire un fetore venire dall'interno; fu quindi deciso di aprire la lettiga e dentro vi trovarono Numeriano morto, evidentemente già da molte ore, se non dal  giorno precedente visto che si stava già decomponendosi il cadavere.
Chi avesse causata la fine del giovane principe non si seppe mai. 

Apro cadde dalle nuvole, non ne sapeva nulla, disse che era stato il caldo, forse la lettiga chiusa aveva contribuito alla fatalità di trasformare un semplice malore in qualcosa di più grave. Insomma tergiversando sperava di allontanare i sospetti che però già erano nati all'interno delle truppe.
Le milizie accusarono Apro come autore del delitto e gridarono che fosse fatta giustizia
Lui intanto era impaziente, e cercando di evitare l'accusa pensava solo più al suo grande momento; che giunse, ma non quello desiderato. 

I soldati che non ebbero più dubbi che era stato lui a uccidere Numeriano; soldati e ufficiali si riunirono da parte e decisero tutti insieme  di eleggere imperatore il loro valido comandante della guardia del corpo, VALERIO DIOCLE.
L'uomo giurò di non avere avuta alcuna parte nel l'assassinio, poi si fece venire davanti Arrio Apro e, accusatolo in nome dell'esercito romano di regicidio, processato in pochi minuti, condannato a morte, lo stesso Diocle prima lo trafisse con la spada poi lo finì strozzandolo con le sue stesse mani.
Era il 17 novembre dell' anno 284 


A quest'uomo che aveva gia' quarant'anni, una veggente gli aveva predetto molti anni prima che quando avrebbe ucciso il "suo fatale cinghiale" sarebbe divenuto imperatore.
Diocle ravvisò in questa premonizione la persona di Apro, visto che apres vuol dire proprio cinghiale. Il destino dell'oracolo era quello, non c'era alcun dubbio.
Il fato aveva fatto il suo corso, e scelse bene il personaggio, con tutti i requisiti di intelligenza e di carattere, perchè lo abbiamo forse già intuito, quel Diocle, altro non era che colui che si chiamerà fra poco DIOCLEZIANO.

Alla notizia della morte del fratello e della proclamazione di Diocle, CARINO, che dal Senato aveva ricevuto il titolo di Augusto e che, scacciati i Franchi dalla Gallia, aveva fatto ritorno a Roma, mosse con il suo esercito contro il rivale. Lungo il percorso si scontrò e abbattè Cajo Giuliano che alcune legioni anche queste avevano proclamato imperatore, poi puntò verso la Mesia e nella valle del Margus venne a battaglia con Diocle.
Già il combattimento volgeva in favore di Carino quando all'improvviso cadde pugnalato (settembre 285).
Si disse che l'assassino fosse un tribuno, cui il figlio di Carino aveva sedotta la moglie.
Morto il capo, anche l'esercito di Carino riconobbe come imperatore Diocle. 

Sta iniziando il lungo impero di DIOCLEZIANO.
 Da alcuni dichiarato l'ultimo vero imperatore romano della storia.

FINE PERIODO 270 - 285

... passiamo al periodo (di DIOCLEZIANO) dal 285 al 305 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
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