ANNI 337 - 363 d.C.

I FIGLI DI COSTANTINO - STRAGE DI DISCENDENTI - LOTTE FRA ARIANI E CATTOLICI - I CONCILI 
LA LOTTA MAGNENZIO - COSTANZO UNICO IMPERATORE
GALLO, POI LE GRANDI IMPRESE DI GIULIANO - MORTE DI COSTANZO - GIULIANO IMPERATORE
LA GUERRA IN PERSIA - MORTE DI GIULIANO L'APOSTATA


I FIGLI DI COSTANTINO


Come era fallito il grande disegno di Diocleziano (la tetrarchia che aveva poi portato a scannarsi l'un l'altro i successori che bramavano il potere unico), così fallì pure il disegno di Costantino, che a differenza del primo morendo non aveva lasciato in eredità l'impero a dei generali avidi e incapaci, ma ai propri figli. E questi, come i precedenti, ingaggiarono tra loro lotte civili. Queste lotte erano anche una evidente conseguenza dell'approfondirsi di motivi di contrasto tra Oriente e Occidente; un contrasto che assumeva l'aspetto religioso. Anche questo in lotta per la supremazia di una dottrina invece che un'altra, e ognuna non rivolgeva la sua attenzione alla conquista del mondo spirituale, ma si rivolgeva, anch'essa avida, alla conquista del dominio temporale.

 In questo stato di cose una grande tragedia, che fece dimenticare quella del 326, insanguinò l'inizio dell'impero dei figli di Costantino: tutti i discendenti di sesso maschile di Costanzo Cloro e della sua seconda moglie Teodora vennero trucidati; soltanto due, GALLO e GIULIANO, figli di Giulio Costanzo, l'uno di 12, l'altro di 6 anni, scamparono al genocidio. Il più fitto mistero ricopre la fosca tragedia che gli storici del tempo non hanno potuto (o voluto) squarciare e, sebbene qualche debole indizio possa far sospettare che spetti ai figli di Costantino la responsabilità del misfatto, non può lo storico coscienzioso pronunciare un giudizio sopra un delitto sul quale non è stata ancor fatta ne forse sarà mai fatta luce.

COSTANZO II, cui era toccato l'Oriente, si trovava in Mesopotamia con l'esercito già pronto per la spedizione contro la Persia, quando morì Costantino. Lasciato il comando delle milizie, egli si recò a Costantinopoli per assistere ai funerali del padre.  Si trovava in questa città da tre mesi quando (settembre del 337) un' improvvisa e violenta sedizione scoppiò fra le truppe, che, gridando di non volere all'impero che i figli di Costantino, trucidarono Dalmazio, Annibaliano e i loro congiunti del ramo di Costanzo Cloro. Anche Ablabio, in Bitinia, prefetto del pretorio, fu raggiunto dalle lame assassine dei sicari.

Poco dopo la strage, il 9 di settembre, i tre fratelli assunsero il titolo di Augusti e l'anno dopo, riunitisi a Sirmio, si divisero i territori dei cugini uccisi. A COSTANTINO II che contava 21 anni, toccò la Mauritania, a COSTANZO, minore di un anno, il Ponto, la Tracia con Costantinopoli, la Macedonia e l'Acaia, a COSTANTE, che aveva appena 17 anni, l'Illirico.

Dei tre fratelli -come si vede- Costantino II ebbe la parte minore e non certo la migliore. Della nuova distribuzione dei territori perciò non poteva esser soddisfatto e -appena grandicello- più volte mostrò il suo malcontento al più piccolo dei fratelli (Costante) da cui reclamava l'Italia e l'Africa. In continui litigi tra Costantino e Costante trascorsero tre anni. Quest'ultimo si era procurato l'appoggio di Costanzo cedendogli la Tracia; Costantino, disperando di potere indurre il fratello minore a cedergli parte dei territori, decise di impadronirsene con le armi. Approfittando dell'assenza di Costante che si trovava in Dacia, nella primavera del 340, Costantino scese in Italia. Ma anziché l'accrescimento dei domini questa spedizione gli procurò la morte: caduto in una imboscata, tesagli dall'avanguardia dell'esercito di Costante sulle rive dell'Alsa presso Aquileia, vi perì nell'aprile di quell'anno.

Così, ad un tratto, a vent'anni, un colpo di fortuna toglieva a Costante il fratello rivale e gli metteva nelle mani la Gallia, la Britannia, la Spagna e la Mauritania.
L'impero tornava ad esser diviso tra due Augusti e quasi tutto l'occidente era di Costante.

Questo imperatore da alcuni storici è considerato un inetto; altri invece lo dicono un buon guerriero e, malgrado l'età, un abile politico. Che avesse cospicue doti militari non è provato, e non è sufficiente lodarlo per una respinta invasione ai confini di poche migliaia di Franchi. Ma nessun dubbio può essere avanzato sulla sua abilità politica compresa quella dei suoi consiglieri. Consapevole del gran peso che sulla vita dell' impero aveva il Cristianesimo, egli lo professò apertamente e, schieratesi con i Cristiani d'Occidente che erano in schiacciante maggioranza, fu di essi uno strenuo paladino. Una vittoria politica sul fratello Costanzo, che invece favoriva l'Arianesimo, la ottenne poco tempo dopo la strage di Costantinopoli, imponendo che Atanasio e i suoi seguaci, espulsi dal padre, ritornassero alle loro sedi.

LOTTE FRA ARIANI E CATTOLICI  - I CONCILI

La lotta tra Ariani e Cattolici, tra la chiesa d'Oriente e quella d'Occidente divampava prendendo proporzioni preoccupanti. Era lotta di princìpi, ma era anche, e forse più aspra, lotta di predominio alla quale partecipava il vescovo di Roma che aspirava alla supremazia.
Il ritorno di Atanasio e dei suoi seguaci provocò gravissimi tensioni, che ebbero ripercussione a Costantinopoli da dove il cattolico Paolo fu allontanato; un concilio di vescovi tenutosi ad Antiochia per consacrarvi la chiesa fondata da Costantino, aggravò la situazione sentenziando che un decreto imperiale non poteva rimettere nel seggio un vescovo deposto per emettere deliberazioni in un concilio. 
In conseguenza di questa deliberazione, ad occupare il seggio episcopale di Alessandria fu mandato Gregorio di Cappadocia, il che provocò nuovi disordini. A rendere più aspra la lotta religiosa venne un concilio, tenutosi a Roma per iniziativa di Giulio, vescovo di questa città, nel quale si dichiaravano nulle tutte le deliberazioni del concilio antiocheno. Frattanto Costantinopoli si faceva teatro di tumulti violentissimi: i Cattolici nel seggio episcopale rimasto vacante volevano rimettere Paolo, gli Ariani invece Macedonio. 
Avvennero conflitti sanguinosi in cui perì Ermogene, comandane della cavalleria, mandato dall'imperatore a sedare i tumulti. Costanzo parteggiava per gli Ariani ma non aveva potuto procedere a nessuna attività in loro favore, impegnato com'era in una guerra lunga e difficile contro i Persiani che si erano spinti nella Mesopotamia e avevano per due mesi tenuta assediata Nisibi. Questa guerra aveva fatto sì che rimanesse passivo nel 340 quando il fratello Costante si era impadronito dei territori di Costantino II.

Nel 343, per comporre il dissidio tra Cattolicesimo ed Arianesimo, che minacciava di turbare i rapporti dei due imperatori fin allora mantenutisi cordiali, non sappiamo se per iniziativa di Costante o di Costanzo venne convocato un concilio ecumenico a Sardica (Sofia). Ma anche questo non ebbe altro effetto che di inasprire ancor di più il dissidio: i vescovi di Oriente, i quali volevano che fossero esclusi Atanasio e i suoi seguaci, si ritirarono da Sardica e tennero un concilio a Filippopoli (344); i vescovi di Occidente decisero in favore di Atanasio e poiché i loro colleghi orientali avevano scomunicato Atanasio e lo stesso vescovo di Roma, Giulio, scrissero a quest'ultimo una lettera nella quale, in onore di Pietro, riconoscevano all'episcopato romano il diritto di giudicare in appello tutte le condanne subite dai vescovi. Con questa lettera la Chiesa di Roma veniva ad acquistare la supremazia su tutti i Cattolici, mentre i vescovi riuniti a Filippopoli, contestandogliela e dichiarando che solo ai concili ufficiali spettava il governo spirituale, iniziavano quello scisma orientale che dura tutt'oggi.

Tuttavia le decisioni del concilio di Sardica vennero applicate anche in Oriente, Atanasio potè ritornare in Alessandria e fu ordinato che si cessasse la lotta in Asia contro i Cattolici. Era una vittoria di questi ultimi e la si doveva all'opera di Costante che aveva minacciato il fratello di fare uso delle armi se i vescovi deposti non venivano restituiti alle loro sedi. Costanzo non poteva far altro che mostrarsi remissivo: la guerra con la Persia non era finita e con un nemico così accanito alle costole era pericolosa una rottura con Costante.

Questa guerra doveva trascinarsi fino al 350. Per ben due volte Nisibi fu assediata e i Romani dovettero respingere cn gravi perdite il nemico. Più di una volta gli eserciti di Costanzo passarono il Tigri, ma ogni volta dovettero sostenere furiose battaglie. La più violenta fu combattuta  presso Singara, nel 348; e qui i Romani, per la loro imprudenza, dopo alcuni assalti favorevoli, dovettero subire una disastrosa disfatta. 

Solo nel 350 la guerra ebbe aver termine per una  improvvisa invasione dei Massageti nella Persia orientale che costrinse Shapur II ad accorrere in difesa delle regioni invase, e solo allora Costanze poteva rivolgere i suoi passi e qualche pensiero all'Occidente, chiamatovi da avvenimenti ai quali in seguito riuscì a ottenere alcuni territori del fratello.

LA LOTTA CON MAGNENZIO
COSTANZO UNICO IMPERATORE

II 18 gennaio del 360 una ribellione militare tolse l'impero a Costante. Quel giorno, trovandosi questi a caccia in una foresta presso Augustodunum, un ufficiale germanico, FLAVIO MAGNO MAGNENZIO, che comandava due legioni palatine, d'accordo con Marcellino, comes sacrarum largitionum, si fece dalle truppe proclamare imperatore. Costante, malvisto dalle truppe e dai sudditi, fuggì verso la Spagna ed era giunto presso i Pirenei quando ad Elena (l'antica Illiberis) venne preso ed ucciso da un ufficiale franco di nome Gaiso.

La Gallia, la Spagna, la Britannia e l'Italia riconobbero il nuovo imperatore, ma a Roma sorse un competitore. Era questi un figlio di Eutropia, sorella di Costantino il Grande, e si chiamava Flavio Popilio Nepoziano. La fortuna però non gli arrise: dopo sole quattro settimane, nel giugno del 350, egli perse il trono e la vita e Marcellino, ch'era calato in Italia con un esercito, punì con la morte e le proscrizioni i principali fiancheggiatori del morto pretendente.

Di tutto l'Occidente, oltre Roma, solo l'Illirico non volle riconoscere Magnenzio; l'esercito del Danubio innalzò alla dignità imperiale il suo vecchio e valoroso comandante Vetranione, il quale, presa la porpora (1 marzo del 350) per istanza della sorella dell' imperatore d'Oriente, si preparò a combattere contro Magnenzio. Egli sperava di ricevere il riconoscimento ed aiuti di uomini da Costanzo, il quale, lasciato il confine persiano si era recato con un esercitò nella penisola balcanica. Ma Costanzo tolse di mezzo l'intruso: per mezzo di abili emissari e di forti somme preparò in suo favore segretamente l'animo delle soldatesche del nuovo imperatore dell' Illirico, poi lo invitò ad un convegno a Naisso, dove Vetranione si presentò alla testa del suo esercito. Ma qui il vecchio generale fu abbandonato dalle sue legioni, che dopo un discorso di Costanzo in cui abilmente erano state ricordate l'imprese del grande Costantino, passarono dalla parte opposta. Vetranione depose la porpora ed implorò grazia e Costanzo gli lasciò la vita re-legandolo a Prusa (Brussa) nella Bitinia (25 dicembre del 350).

Unico competitore di Costanzo ora  rimaneva Magnenzio, che per potere mettere insieme un esercito poderoso, reclutandolo in gran parte tra i Franchi e i Sassoni, si attirava l'odio dei sudditi aumentando enormemente le imposte, contraendo prestiti forzosi e confiscando patrimoni.

Chi iniziò l'offensiva fu Costanzo, ma le sue prime operazioni non gli riuscirono favorevoli: Magnenzio lo sconfisse prima ad Atrante, poi sulla Sava e lo costrinse a ripiegare su Cimbali. Posizioni forti ed importanti della Pannonia, come Siscia, caddero in mano al vincitore e Mursa (Essek) sulla Drava venne anch'essa investita. Costanzo accorse in difesa della città assediata e nelle vicinanze di essa venne combattuta una grande battaglia il 28 settembre del 351 nella quale perirono ventiquattromila uomini dell'esercito del figlio di Costantino. L'esercito nemico perdette con la battaglia trentamila soldati.
Magnezio, travestito, riuscì a fuggire e radunò le sue forze ad Aquileia nella speranza di potere sbarrare al rivale la via d'Italia. Ma la sua sorte era già decisa: Roma gli si ribellava, lo stesso facevano altre città italiane che il governo esoso di Marcellino aveva irritate e la flotta avversaria, impadronitasi della Sicilia e dell'Africa, compariva davanti i porti della Spagna. 
All'avvicinarsi dell'esercito di Costanzo, Magnenzio si ritirò verso la Gallia, inseguito dal nemico, le cui avanguardie presso Pavia furono sconfitte; ma nel passaggio delle Alpi Cozie subì una rotta sanguinosa che gli alienò l'animo della popolazione gallica. Treveri, sede del governo, si ribellò al cugino Decenzio, che col titolo di Cesare, aveva il comando della Gallia, e lo costrinse a fuggire a Lens dove si tolse la vita. La medesima fine fece Magnenzio. Fuggito a Lugdunum e tradito dagli stessi soldati, per non cadere nelle mani del suo nemico, si trafisse con la spada (agosto del 353) dopo  avere ucciso i parenti e gli amici che si trovavano con lui.
La fine di Magnenzio ridava all' impero l'unità ma non la pace.

COSTANZO UNICO IMPERATORE
GALLO E GIULIANO

Rimasto unico imperatore, Costanzo cominciò la persecuzione dei pagani che nel febbraio del 356 doveva culminare con la pena capitale comminata contro tutti coloro che avessero sacrificato agli dèi. Poi venne la volta dei Cattolici contro cui l'imperatore fece tutto quello che non aveva potuto fare mentre era in vita il fratello Costante. In un concilio di vescovi ad Arles, ATANASIO fu condannato. Ma il battagliero vescovo cattolico aveva con sé tutta la cristianità d' Egitto e il vescovo di Roma, Liberio. Quest'ultimo indusse l'imperatore a convocare un concilio che venne tenuto a Milano nel 355. Ma fu un trionfo dell'Arianesimo. Trecentocinquantacinque erano i vescovi convenuti, tutti occidentali quindi Cattolici, ma vinsero la volontà del principe e le sue minacce. 
Atanasio fu giudicato e condannato; alcuni vescovi che si erano rifiutati di sottoscrivere la condanna -fra questi Liberio- vennero mandati in esilio, Atanasio, perseguitato, riuscì a rifugiarsi nei conventi della Tebaide.
Ma non furono solo le lotte religiose quelle che impedirono il ritorno della pace. Si è detto come dalla strage di Costantinopoli, avvenuta nel 337, fossero scampati GALLO e GIULIANO, cugini e cognati di Costanzo che in prime nozze ne aveva sposata la sorella. Prima i due erano stati confinati, uno ad Efeso, l'altro a Nicomedia; ma poi insieme erano stati relegati a Macellum, in Cappadocia. 
Nel 351, essendo privo di figli, Costanzo aveva nominato cesare GALLO, che allora contava ventisei anni; gli aveva dato in sposa la sorella Costantina; gli mise accanto fidati ministri e lo aveva lasciato al governo dell'Oriente mentre lui si recava in guerra contro Magnenzio.

Ma Gallo non si dimostrò certo un buon governatore: in Oriente fu inaugurato il regno del terrore, caddero teste, ebbero luogo sollevazioni, la guarnigione romana di Diocesarea venne massacrata dagli Ebrei che proclamarono re un Patrizio, mentre nell'Isauna il brigantaggio ricominciava e nella Siria si moltiplicavano le scorrerie di gruppi nomadi arabi.
Nelle sommosse seguirono le repressioni, che furono ferocissime: Patrizio venne messo a morte e tre città e parecchi villaggi che si erano pronunciati per lui furono dati alle fiamme. Anche il brigantaggio degli Isauri e dei Saraceni fu represso con l'inclemenza.
Informato del cattivo governo di Gallo, l'imperatore mandò Domiziano prima e Monzio subito dopo, per indurre il Cesare a recarsi alla corte; ma il feroce cugino scatenò contro i due ambasciatori le sue soldatesche che li trucidarono entrambi.
Allora Costanzo richiamò energicamente presso di sé il Cesare e questi si vide costretto ad ubbidire. Sperando nell'intercessione della moglie, si fece precedere da lei, ma Costantina per via si ammalò e morì nella Bitinia. Gallo partì seguito dal suo esercito: ma ad Adrianopoli ricevette l'ordine tassativo di congedare la sua corte, poi a Petovio fu arrestato e privato delle insegne; tradotto nell'isola di Flanona, venne processato e messo a morte verso la fine del 354.

Se la pace in Oriente fu turbata dall'esoso governo di Gallo, nemmeno in Gallia la pace potè regnare per le incursioni barbariche prima e per la ribellione d'un generale poi. Si chiamava questi CLAUDIO SILVANO, che per avere abbandonato Magnenzio nella giornata di Mursia era stato dal imperatore premiato mettendolo al comando della truppe del basso Reno.
Accusato, forse per gelosia, di tradimento da un altro generale, Arbezione, non trovando altro mezzo per fuggire a un processo e a una sicura condanna, Silvano si proclamo imperatore a Colonia. Costanzo mandò in Gallia il generale Ursicino fingendo di voler trattare con il ribelle. Ursicino aveva avuto invece l'incarico di sopprimere Claudio Silvano. E vi riuscì: sobilllate da Ursicino le stesse truppe che avevano dato a Silvano un mese prima la porpora, lo trucidarono (agosto del 355)

LE GRANDI IMPRESE DI GIULIANO
MORTE DI COSTANZO

La morte di Silvano non diede la pace alla Gallia; i barbari, che negli anni precedenti erano stati fronteggiati con successo, tornarono più numerosi e audaci; Franchi, Sassoni ed Alemanni invasero la Germania inferiore e la superiore, dal lago di Costanza al Mare del Nord, conquistando e saccheggiando i centri più importanti, Colonia, Treviri, Strasburgo, e Magonza.
Ammaestrato dall'esperenza a non fidarsi troppo dei suoi generali, Costanzo si lasciò persuadere dalla moglie Eusebia ad affidare il comando militare della Gallia al cugino FLAVIO CLAUDIO GIULIANO, fratello di Gallo.

GIULIANO contava appena venticinque anni, era sempre vissuto lontano dalla politica immerso negli studi retorici e filosofici, e non si intendeva di armi. Ma a Costanzo premeva avere in Gallia un rappresentante dell'autorità imperiale che tenesse a freno l'ambizione dei generali, e non un condottiero. A far la guerra contro i barbari avrebbero pensato i comandanti delle milizie, fra i quali godevano buona fama Marcelle e Barbazione

Giuliano venne nominato Cesare e il 6 dicembre del 355 fu presentato alle truppe. Per legarlo a sé. Costanzo gli diede in moglie la minore delle sue sorelle, Flavia Elena, e, non fidandosi del cugino e cognato, lo circondò di uomini di sua fiducia.

II 1° dicembre di quell'anno Giuliano partì da Milano per andare ad assumere il governo della Gallia, della Spagna e della Britannia e il comando delle legioni del Reno. Tutti lo credevano un Cesare da comparsa e invece nessuno sapeva quanta forza di volontà ai nascondesse in quella fronte che fino allora era stata sempre curva sui libri, quanta energia animasse il gracile corpo di quel giovane e quanta audacia albergasse nell'animo del relegato di Macellum, e scampato al vero macello proprio perché vedendolo così gracile i giustizieri dissero che non valeva la pena ucciderlo perchè in quello stato che era sarebbe comunque morto da lì a poco.

In pochi mesi il Cesare in Gallia divenne un provetto soldato e si rivelò un generale dotato di straordinarie qualità militari. Giuliano aveva preso sul serio l'incarico difficilissimo che gli era stato affidato, voleva per davvero comandare gli eserciti e per davvero sgombrare la Gallia dai barbari.
Presto mostrò di che cosa fossero capaci il suo animo e la sua mente. 

Mentre Costanzo da una parte con un esercito minaccia dalla Rezia gli Alemanni, Giuliano dall'altra muove arditamente verso Augustodunum (Autun) investita dal nemico e tenacemente difesa dalla guarnigione. La sua prima azione guerresca è un grande successo: gli Alemanni sono battuti e la piazzaforte liberata. Poi Giuliano da Autun, punta vigorosamente su Auxerre, Troyes e Rheims per congiungersi alle milizie comandate da Marcelle e Ursicino; assalito sulla via di Decempagi (Dreuze) da forze nemiche superiori alle sue, a Brotomagus (Brumath) le sbaraglia e un'altra volta le sconfigge . 
Treviri viene fortificata, la valle del Reno raggiunta e Colonia riconquistata (356). Avvicinandosi la brutta stagione, Giuliano con poche truppe prende stanza a Sens; assediato, nel corso dell' inverno da un rilevante numero di Alemanni, resiste vigorosamente un intero mese e li costringe infine a ritirarsi, dopo avere inutilmente chiesto aiuto a Marcelle che con il suo esercito si trovava nelle vicinanze. Giuliano si lamentò con Costanzo del contegno del generale e questi fu richiamato. In sua vece furono inviati Severo e Salustio con un rinforzo di tremila soldati.

 Il Cesare si proponeva  nella primavera del 357 di passare il Reno e di portare la guerra in territorio nemico; Costanzo gli dà pure facoltà di far leve in Gallia e perché le operazioni abbiano un risultato più sicuro e proficuo, ordina a Barbazione di muovere verso Giuliano con venticinquemila uomini dalla Rezia. Ma come Marcelle anche Barbazione è geloso di Giuliano e invece di operare contro il nemico, agisce e cerca il successo da solo. Purtroppo glli Alemanni lo sconfiggono e, imbaldanziti dalla vittoria, in numero di quarantamila,  guidati dai re Chorodomaro e Vestralpo passano il Reno, si accampano sotto Argentoratum (Strasburgo) e intimano a Giuliano di sgombrare il paese. 

Giuliano invece, sebbene non disponga che di soli tredicimila uomini, con una audacia inaudita assale il nemico e dopo una giornata di sanguinoso combattimento lo sconfigge. Seimila Alemanni restano morti sul campo e moltissimi vengono fatti prigionieri, fra i quali il rè Chorodomaro.

Dopo la vittoria di Argentoratum, Giuliano, respinti oltre il Reno gli Alemanni, passa il fiume a Magonza e devasta il territorio nemico; conclusa con gli Alemanni una tregua di dieci mesi, torna sulla riva sinistra, ma non passa in riposo l'inverno perché nel frattempo i Franchi hanno invaso la regione della Mòsa: Giuliano non si perde d'animo e li assedia in due fortezze e li costringe ad arrendersi per fame. 

L'anno dopo (359) marcia contro i Franchi Salii che vince e sottomette, poi si rivolge contro i Chamavi che sconfigge e costringe a chieder pace e infine, ripassato il Reno, devasta di nuovo le terre degli Alemanni e sottomette due re di questo popolo -Suomario ed Ortario- alla maestà di Roma (359).
Grazie al valore di Giuliano la Gallia è ora sgombra di nemici; circa ventimila sudditi romani fatti prigionieri dai barbari sono restituiti, le fortezze da tempo distrutte dai nemici sulle rive del Reno e della Mosa vengono ricostruite, e per i lavori Giuliano utilizza gli stessi barbari fatti prigionieri, e non bastando questi, obbliga i loro re a fornire uomini e materiali; infine quattrocento navi vengono costruite per la difesa del Reno, mentre le regioni devastate vengono ripopolate.

 Le notizie di queste imprese giungevano all'orecchio di Costanzo, il quale apprendeva anche come il cugino, per alleviare la miseria delle popolazioni galliche, avesse ridotto a un quarto la capitatio (imposta personale); avesse allontanato gli esosi agenti del fisco, assumendo personalmente l'incarico della riscossione dei tributi.
Erano notizie, queste ultime, che non potevano piacere a Costanzo, il quale, sospettoso per natura, temeva che il prestigio militare del Cesare crescesse troppo insieme con la popolarità. 
Egli lo avrebbe richiamato volentieri, ma la turbolenza dei barbari del Danubio contro cui era costretto a rivolgere la sua attività lo consigliava di non privare la Gallia di un uomo così utile alla sicurezza di quella regione.
Difatti, mentre Giuliano con tanto successo combatteva sul Reno, Iutungi, Quadi e Sarmati davano da fare a Costanzo. I primi erano battuti nella Rezia da Barbazione, gli altri dello stesso imperatore, che, passato il Danubio e invaso e devastato il territorio nemico, li costringeva alla pace nel 359.

Né soltanto contro i barbari del Danubio doveva Costanzo rivolgere le armi. Un nemico ben più temibile sorgeva improvvisamente ad Oriente: Shapur II, che reclamava dall'imperatore la cessione dell'Armenia e della Mesopotamia e, avutone un rifiuto, armava un esercito di centomila uomini e si preparava a fare una spedizione con destinazione la Siria.

A contrastare il passo al re di Persia c'era il generale Ursicino, che si fortificava a Nisibi e ordinava agli abitanti della regione di devastare le campagne e di chiudersi nelle piazzeforti. 
Questi provvedimenti facevano mutar piano a Shapur che, passato l'Eufrate presso le sorgenti, assediava Amida, difesa da sette legioni romane, e, conquistatala dopo due mesi e mezzo, ne massacrava la guarnigione e gli abitanti (359); poi, avvi-cinandosi l'inverno ed avendo il suo esercito subito perdite rilevanti, prudentemente si ritirava.

La ritirata persiana non significava però la fine della guerra. Questa sarebbe senza dubbio cominciata alla prossima primavera e intanto l'impero era travagliato dalle lotte religiose, che quell'anno medesimo due concilii, riuniti uno a Rimini, l'altro a Seleucia Isaurica, con l'approvazione di una formula non ben definita ma deliberata dall'imperatore; una formula che doveva dare unità alla Chiesa Cattolica e invece dava la vittoria all'Arianesimo, e che  provocarono un po' da per tutto agitazioni e disordini.

Costretto a prepararsi alla guerra contro la Persia, Costanzo chiese a Giuliano quattro coorti di ausiliari e trecento soldati per ciascuna delle legioni che erano in Gallia, poi partì per Sirmio e di là si recò a Costantinopoli da dove poi, nella primavera del 360, si portò in Asia.
Si trovava a Cesarea, in Cappadocia, quando gli giunse la notizia che le milizie della Gallia gli si erano ribellate ed avevano proclamato imperatore Giuliano. Intanto i Persiani, passato il Tigri, conquistavano le fortezze di Singara e di Berabda.

Dopo una lunga permanenza a Cesarea, Costanzo si trasferì a Edessa dove pose il suo quartier generale. Un tentativo di ritogliere al nemico Berabda gli fallì, e il ravvicinarsi dell'inverno lo consigliò a trasferirsi in Antiochia. Qui si diede a raccoglier truppe per la prossima campagna. Nella primavera del 361 fece ritorno a Edessa. Le notizie che qui gli giunsero dall' Europa erano però gravissime: Giuliano aveva passate le Alpi e si spingeva verso la Tracia. Dei due nemici il più pericoloso per lui ora era il cugino. Costanzo stipulò coi Persiani un armistizio e, lasciata la Mesopotamia, si diresse verso il Bosforo. Ma era stanco ed infermo: a Tarso lo assalì una febbre violentissima, e poco tempo dopo, il 5 ottobre del 361, in età di soli quarantacinque anni, a Mopsucrene, cessava di vivere. Prima di morire, si fece dare il battesimo da un vescovo ariano e nonostante tutto (gli stava facendo guerra)  nominò suo successore il cugino Giuliano.

GIULIANO IMPERATORE

La proclamazione di Giuliano era avvenuta in seguito all'ordine di Costanzo di mandargli parte dell'esercito. Le truppe ausiliarie che avrebbero dovuto partire erano composte di Batavi, Eruli e Celti, che avevano in Gallia le loro famiglie ed erano entrati al servizio dell' impero col patto di non esser mandati di là dalle Alpi. Giuliano, sebbene quell'ordine gli sembrasse inopportuno perché assottigliava l'esercito della Gallia, tuttavia aveva impartito disposizioni affinché l'ordine dell' imperatore fosse eseguito; ma a Parigi le truppe si erano ribellate e avevano proclamato Giuliano imperatore. 
Questi aveva dapprima esitato, poi, vinto dalla risolutezza delle legioni, aveva accettato il titolo di Augusto ed aveva scritto al cugino tentando di venire ad un accordo; ma Costanzo aveva respinto le proposte di Giuliano, ingiungendogli per mezzo del questore Leona di ritornare Cesare e minacciandolo di gravi punizioni se non avesse obbedito.

Riacclamato dalle truppe, Giuliano aveva deciso di rispondere con le armi alle minacce imperiali. Temendo insidie da parte degli Alemanni, che — a quanto si diceva — Costanzo aveva spinti ad assalirlo dalla Rezia, si era impadronito a tradimento del loro re Vadomasio, e lasciato in Gallia come prefetto del pretorio il fedele generale Salustio, si era mosso con l'esercito diviso in tre corpi verso Sirmio, dove un generale di Costanzo, Lucilliano, concentrava le truppe e si preparava a sbarragli il passo sia a Sirmio che ad Aquileia.

Prima di lasciare la Gallia, Giuliano aveva pubblicato un manifesto, l' Epistula ad S. P. Q. Atheniensem, in cui affidava la sua salvezza agli dèi, ed aveva indotto le sue legioni a giurar fede alle divinità pagane, spinto dalla educazione greca che aveva avuto e dalla speranza di rivolgere in proprio favore l'enorme numero di pagani che contava l'impero.
Sirmio gli aveva aperte le porte, Lucilliano era caduto in potere di Giuliano, e l'Italia, la Pannonia e la Grecia avevano abbracciata la causa di Giuliano. Ma due delle legioni inviate da Bisanzio che dovevano  andare incontro a Giuliano giunte ad Aquileia, avevano occupata la città in nome di Costanzo. Giuliano fu costretto a spedire contro di loro una parte del suo esercito al comando del generale Giovino.
Era l'ottobre del 361; Marciano con l'avanguardia delle truppe imperiali avanzava contro Giuliano quando una notizia era giunta in tempo ad impedire la guerra civile: Costanzo era morto.

Giuliano marciò su Costantinopoli che 1' 11 dicembre del 361 lo accolse come un trionfatore; le legioni di Aquileia fecero atto di sottomissione e chiesero perdono al legittimo imperatore, il Senato di Roma — vivo soltanto quando si trattava di compiere le tradizionali formalità — gli conferì con decreto i poteri imperiali, e la corte di Costanze gli giurò obbedienza e fedeltà. 
Ma questa corte -così servile e viscida- che lo aveva sempre avversato non trovò la pietà di Giuliano. Egli saliva all'impero con il proposito di togliere gli abusi, restaurare la giustizia, purificare i costumi: non poteva quindi permettere che al suo servizio ci fossero tanti parassiti corrotti e rapaci. Li congedò tutti, prese le redini dell'amministrazione finanziaria e istituì sotto la presidenza di Sallustio Secondo, un tribunale che processò e condannò severamente e non sempre con equità i più alti personaggi.
Giuliano rimase famoso per il suo tentativo di rimettere il paganesimo come religione dell' impero. Egli era un retore e un filosofo neoplatonico. Fino a venti anni -come lui stesso narra in una lettera ai Cristiani di Alessandria- era vissuto nella nuova religione, la sua dimora in Nicomedia e ad Atene e gli studi a cui si era dedicato ne avevano fatto un fervido seguace del neoplatonismo ed un entusiasta dell'ellenismo. Verso questo nuovo indirizzo del suo intelletto l'aveva anche spinto il ricordo della strage dei suoi familiari, che  attribuiva ai figli di Costantino, protettori, del Cristianesimo. 
Come Diocleziano, egli vedeva nel Cristianesimo una dissoluzione dell' impero e nella Chiesa uno stato dentro lo stato, e che le sue stesse dottrine non si rivolgevano al semplice spirituali, ma si rivolgevano alla conquista del dominio temporale.
Preoccupato dalla potenza e dalla invadenza del Cristianesimo più che spinto dalla fede pagana e dalle speculazioni filosofiche, Giuliano tentò di ridurre e di arginare quella potenza e quella invadenza facendo rifiorire, con la protezione del governo, il paganesimo. 

Egli non sapeva ch'era vana fatica volere fare rivivere artificialmente una religione che non era più nella coscienza di nessuno, una fede che non riscaldava più i cuori degli uomini, una fede e una religione che dalla maggioranza degli stessi pagani del tempo non erano più sentite, che erano state travolte per sempre dalla catastrofe del romanesimo e dell'ellenismo; egli non sapeva che nessuna legge, nessun provvedimento di governo sarebbe valso a comprimere la forza del Cristianesimo che aveva resistito ad ogni persecuzione ed era riuscita a trasformare la fisionomia dell' impero.

Giuliano tentò. Il paganesimo venne dichiarato religione dello stato, fu ordinato che le chiese cristiane restituissero ai templi i beni confiscati, i templi pagani furono riaperti, si pose mano alla riedificazione del tempio di Gerusalemme, vennero allontanati dall'esercito, dalla corte e dagli uffici i Cristiani, furono richiamati dall'esilio gli ecclesiastici che i concili avevano banditi e vennero tolti al clero i privilegi ottenuti sotto i figli di Costantino.

Non ci fu, in quest'opera di Giuliano, persecuzione: se la religione pagana veniva ad essere ancora la religione ufficiale, gli altri culti erano permessi e il governo si disinteressava dalla lotta tra il Cattolicesimo e l'Arianesimo, che anzi gli tornava utile.
Occorreva però dar vita al paganesimo. Dalla scuola vennero esclusi i maestri cristiani, al sacerdozio pagano furono riservati i privilegi, fu riordinato e disciplinato nei costumi e nelle cerimonie e per dar forza al paganesimo furono, ad imitazione di quelle cristiane, fondate opere di pubblica assistenza.

Giuliano non ebbe il tempo di vedere il risultato dell'opera sua. Nel suo programma non c'era soltanto la rinascita del paganesimo, ma anche la grandezza militare dell' impero. E questo era mutilato, essendo alcune parti della Mesopotamia in potere dei Persiani. 
L'uomo che aveva cacciato i barbari dalla Gallia ed aveva portata vittoriosamente la guerra nella Germania non poteva permettere che un lembo del territorio dell' impero rimanesse in mano a un secolare nemico.

LA GUERRA IN PERSIA - MORTE DI GIULIANO

Fin da 362 Giuliano pensava ad una spedizione in Oriente. Egli intendeva non solo ributtare oltre il Tigri i Persiani, ma invadere la Persia e ridurla sotto il vassallaggio di Roma: l'impresa gloriosa e gigantesca di Alessandro il Macedone tornava ad esercitare un fascino potente sull'animo d'un imperatore romano.

Il piano dell'imperatore rassomigliava a quello di Traiano: invadere la Persia dal nord e dall'ovest con due eserciti che dovevano congiungersi di là dal Tigri e poi marciare verso il cuore del regno di Shapur II. Centornila uomini dovevano sottomettere il paese nemico, cinquanta navi da battaglia appoggiare le operazioni dell'esercito, altrettante favorire il passaggio dei fiumi, mille navi onerarie trasportare le vettovaglie e le macchine guerresche. Il re d'Armenia avrebbe aiutato l'esercito romano, comandato dai generali Procopio e Sebastiano, che doveva operare dal nord.

Il 5 marzo del 363 Giuliano lasciò Antiochia. Passato l'Aboras, lanciò una parte delle sue truppe verso il Tigri per disorientare il nemico e col grosso scese lungo l'Eufrate occupando o costringendo alla resa parecchie fortezze. Barsabora, investita violentemente, malgrado il valore degli abitanti cadde dopo due giorni di furiosi assalti.
Attraverso un canale, in parte ostruito dal nemico e reso nuovamente navigabile dai Romani dopo faticosi lavori, la flotta passò dall'Eufrate nel Tigri. Questo fiume, fu passato di notte dall'esercito: i Persiani che avevano il campo sulla riva sinistra, improvvisamente assaliti furono sconfitti con gravi perdite e si ritirarono verso Ctesifonte.

A questo punto vennero proposte di pace e di alleanza da parte del re di Persia al campo romano, appoggiate da Ormisda, fratello del rè Shapur, che, esule dal suo paese, si trovava al seguito dell'imperatore  ma Giuliano le rifiutò. 
Giuliano poteva investire Ctesifonte e inoltrarsi verso il cuore della Persia, ma pensò che era meglio congiungersi prima con l'altro esercito che proveniva dall'Armenia e che era ancora lontano. Decise quindi di risalire il Tigri e di tirarsi dietro l'esercito nemico per dargli battaglia a tempo opportuno. 

Si mise in marcia verso il nord; alcuni prigionieri persiani che facevano da guide gli diedero il consiglio di scostarsi dal fiume e puntare verso l'interno e Giuliano decise di spostare la direzione della marcia vergo il nord-est. Ma occorreva prima sbarazzarsi della flotta per non lasciarla alla mercé del nemico. Era un gravissimo errore e Giuliano lo commise insieme con l'altro di mutare direzione: salvo pochissime navi, la flotta venne incendiata, e l'esercito, con viveri sufficienti per una ventina di giorni, puntò verso l'interno.
Ma qui il nemico si servì dell'antica tattica che gli Sciti avevano messo in opera con Darlo I. Il paese all'interno veniva devastato e i Romani, avanzando, trovarono una regione desolata che non offriva nessun mezzo di vita. Si aggiunga le continue molestie del nemico, che non si impegnava mai in un'azione decisiva, ma lanciava assalti improvvisi a tergo o ai fianchi dell'esercito invasore e poi improvvisamente ritirandosi scompariva.

Dopo una quindicina di giorni di marcia faticosissima, cominciando a mancare i viveri ed essendo il cammino ostacolato sempre più dal caldo, dalle sofferenze e dai continui assalti del nemico che, pur avendo avuto in ogni piccolo scontro la peggio, si. ostinava in quella tattica di logoramento e cercava di tagliare con grossi reparti di cavalleria la ritirata del Tigri, accortosi del tradimento delle guide e dell'errore commesso, Giuliano decise di rivolgersi verso il nord, in direzione della Corduene.
Presso Samara, fra le truppe romane e le nemiche, la mattina del 26 giugno del 323, si accese un violentissimo combattimento. Era uno dei tanti con cui i Persiani tentavano di logorare le forze imperiali ed anche questo, come i precedenti, doveva risolversi in una sconfitta del nemico.

Come per il passato così anche questa volta l'audace Giuliano non guardò da lontano lo svolgersi della battaglia, ma vi prese parte. Sorpreso dall'attacco improvviso, non ebbe il tempo o non pensò di indossare la lorica (la corazza) si slanciò animosamente dove più aspra era la mischia. Tra il rumore delle armi e il balenio dei ferri al sole ardente del deserto suonò l'ultima ora dell' imperatore guerriero. Un dardo, scagliato da un ignoto persiano, colpì ad un fianco Giuliano, che, trasportato sotto la tenda, vi morì poco dopo.
La battaglia continuò e i Persiani vennero respinti e sbaragliati anche questa volta, ma la vittoria era peggiore di una sconfitta perché l'esercito rimaneva senza un capo, alla mercé non del nemico, ma degli appetiti dei generali.

FINE PERIODO 337 - 363


... prosegui con il successivo periodo (da GIOVIANO a TEODOSIO)
cioè dal 363 al 378 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI