ANNI 540 - 567 d.C.

LA GUERRA GOTICO-BIZANTINA - TOTILA - NARSETE

TOTILA - SUOI ATTI DI GOVERNO - TOTILA RITOGLIE AI BIZANTINI L' ITALIA MERIDIONALE - BELISARIO TORNA IN ITALIA - ROMA NUOVAMENTE ASSEDIATA DAI GOTI - BELISARIO AL SOCCORSO DI ROMA - ROMA PRESA DA TOTILA E RIPRESA DA BELISARIO - TOTILA IN SICILIA - RICHIAMO DI BELISARIO - GERMANO - NARSETE IN ITALIA - BATTAGLIA DI TAGINA - MORTE DI TOTILA - TEIA - BATTAGLIA DEL MONTE LATTARO E FINE EROICA DI TEIA - L' INVASIONE FRANCO-ALEMANNA - ORDINAMENTO MILITARE E CIVILE D'ITALIA - IL MONACHESIMO E S. BENEDETTO
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TOTILA


Partito Belisario, rimase a capo delle poche milizie bizantine in Italia COSTANZIANO, giunto poco prima dalla Dalmazia. Ma costui non era un uomo che sapesse tenere a freno le soldatesche. Queste dipendevano soltanto di nome da lui, di fatto, dipendevano dai comandanti preposti ai distretti e si comportavano con gl'Italiani come se questa fosse gente conquistata anziché liberata dal giogo dei barbari. Le truppe, non pagate, si rifacevano sulla popolazione, che, immiserita dalla guerra, veniva ora non solo dissanguata dalla voracità degli ufficiali bizantini, ma ridotta alle estrema miserie dall'avidità crudele dei riscuotitori delle imposte. Le cose in pochissimo tempo erano arrivate a tal punto che gli Italiani rimpiangevano quasi il dominio degli Ostrogoti.
Le sorti di questi intanto andavano rialzandosi. I capi goti dell'alta Italia, quando ancora non era partito Belisario da Ravenna, avevano offerto la corona ad URAIA, il conquistatore di Milano, ma il capo goto l'aveva rifiutata per riguardo allo zio prigioniero Vitige ed aveva consigliato di proclamare re ILDIBADO, nipote di TEUDI, sovrano dei Visigoti.
Ildibado che allora comandava il presidio di Verona, aveva accettato e, radunato un piccolo esercito con i Goti dell'Alta Italia e con quelli affluiti oltre il Po dopo la resa di Ravenna, aveva affrontato presso Treviso e sconfitto VITALIO, comandante militare dell'Illirico e, con lui, un corpo di ausiliari eruli, comandato dal re VISANDO che rimase ucciso.

La guerra di riscossa iniziava con un successo; ma di questo non riuscì a cogliere i frutti Ildibado. La gelosia aveva reso nemiche la moglie di Uraia e la regina. Vittima ne fu Uraia che fu ucciso da Ildibado sotto pretesto di cospirazione. La morte del valoroso capo goto provocò l'indignazione di quanti ne conoscevano le virtù militari e sarebbe scoppiata una rivolta se non l'avesse prevenuta un gepido, di nome VILA, che, per vendicarsi di un affronto patito, nella primavera del 541, uccise a tradimento il re mentre era a mensa.

Morto Ildibado, i Rugi gridando proclamarono re ERARICO, che la maggior parte dei Goti lì presenti accettò. Mentre la guarnigione di Treviso, di cui era a capo BADUILA, nipote del morto re, soprannominato TOTILA, non volle riconoscerlo. Questi anzi entrò in trattative con COSTANZIANO, offrendosi di passare nelle sue file con i suoi e di consegnare Treviso; ma i patti, che Costanziano aveva accettato, non ebbero esecuzione. Erarico, che non brillava per il suo coraggio, desideroso di formarsi un piccolo stato nell'Italia settentrionale e di vivere in pace con i Franchi e con i Bizantini, fu ucciso dopo cinque mesi di regno e la corona fu offerta a TOTILA, che, accettatala, non si curò più di eseguire i patti stipulati con Ravenna (autunno del 541).

Finalmente i Goti avevano un re capace di rialzare le loro sorti. Il suo soprannome, che vuol dire immortale, attesta quanto fosse il valore di lui e in che conto lo tenesse il suo popolo. Egli non solo si mostrò soldato coraggioso ed abilissimo condottiero, ma anche ottimo uomo politico con ottime intuizioni. Egli si rese subito conto delle condizioni dell'Italia, crudelmente taglieggiata dai Bizantini, e volle trarne profitto.
I Bizantini erano venuti in Italia per liberarla dai barbari e si erano invece dati ad eccessi, a spoliazioni, a tributi esosi, favorendo i latifondisti e premendo la mano sulle classi meno abbienti. Totila - che in questo caso si dimostrò di essere meno "barbaro" dei bizantini- capì che per reggersi in Italia era necessario avere il favore della popolazione e seguì una politica opposta a quella che avevano tenuta i Bizantini, gravando di tributi i grossi proprietari, confiscandone spesso i beni, favorendo i contadini e i coloni ed accettando nel suo esercito gli schiavi. Era la vecchia politica di Teodorico che, per opera di Totila, tornava in vigore e che la cavalleresca generosità del re e il malgoverno bizantino rendeva più gradita.

Non meno abilità Totila dimostrò di possedere nel condurre la guerra contro i Bizantini. Egli non volle, come Vitige, logorare le sue forze in assedi che davano buon giuoco al nemico, ma volle dominare le campagne, isolare le città di difficile conquista in potere dei Bizantini, impadronirsi di quelle che erano scarsamente difese e di quelle espugnate demolire le fortificazioni. Lui preferiva la guerra di attacco, di movimento, non quella di difesa.

La ripresa della guerra bizantino-gotica cominciò con l'assalto di Verona da parte dell'esercito di Costanziano forte di dodicimila uomini. Gli Ostrogoti si difesero con tanta bravura che i Bizantini furono costretti a ritirarsi a Faenza ed allora Totila, che aveva potuto raccogliere intorno a sé cinquemila guerrieri, prese l'offensiva e marciò risolutamente contro il nemico, che battuto in aperta campagna, nonostante la superiorità numerica delle sue forze, dovette chiudersi nella città.

Avute, dopo questo successo, alcune città della Romagna, Totila valicò l'Appennino e passò in Toscana con il proposito di portarsi nel mezzogiorno d'Italia dove poteva procurarsi maggiori quantità di vettovaglie. Nella primavera del 542 sconfisse per la seconda volta il nemico nel Mugello, ma un tentativo di prender d'assalto Firenze fallì. Lasciate in mano dei Bizantini Ravenna, Spoleto, Perugia e Roma, la cui conquista richiedeva lungo tempo e forze maggiori di quelle di cui disponeva, il re ostrogoto si diresse verso la Campania e il Sannio, occupò Benevento le cui mura smantellò, poi si spinse nell'Apulia e nella Calabria mentre un parte del suo esercito, che di giorno in giorno si faceva più numeroso, si fermava ad assediar Napoli, della quale Totila intendeva fare la sua base per una futura operazioni contro Roma.

Napoli, difesa da mille uomini al comando di CONONE, aveva un'importanza grandissina per Bizantini. Giustiniano, non volendo perderla, mandò in aiuto della piazza DEMETRIO e MASSIMINO; ma né l'uno né l'altro riuscirono a soccorrere la città. La flotta, che il primo aveva potuto raccogliere nei porti della Sicilia, cadde addirittura nelle mani degli Ostrogoti; e sorte peggiore ebbe quella di Massimino che, spinta sulla costa da una furiosa tempesta, subì gravi danni e in gran parte dopo essere sbarcata in condizioni pietose, fu catturata tutta dal nemico. Napoli, tormentata dalla fame, capitolò, probabilmente nell'aprile del 543.

La caduta di quasi tutta l'Italia meridionale in mano degli Ostrogoti, il pericolo che minacciava Roma e l'impotenza dei comandanti bizantini che si trovavano nella penisola fecero sì che l'attenzione di GIUSTINIANO si rivolgesse -una buona volta- su questa guerra.
Per far fronte al nemico occorreva mandare truppe in Italia con un generale di grande autorità e di provata capacità.
La scelta cadde nuovamente su Belisario, ma il vincitore di Gelimero e di Vitige non era più l'uomo di una volta. Di ritorno da Ravenna nel 540, gli era stato negato il trionfo; caduto in disgrazia dell'imperatore, perseguitato dall'imperatrice, tradito dalla moglie Antonina che aveva fatto imprigionare per infedeltà e che aveva dovuto rimettere in libertà per imposizione di Teodora (che ne era amica), aveva assunto il comando della guerra persiana in tali condizioni di spirito che non gli avevano permesso di dedicarle serenamente tutta la sua attività; accusato di essersi impadronito di metà del tesoro goto e richiamato a Costantinopoli, aveva visto sciogliere la sua guardia, era stato privato di gran parte dei suoi beni, ed abbandonato dagli amici. Non aveva ancora quarant'anni, ma le tristi vicende della vita e la nera ingratitudine degli uomini lo avevano reso vecchio.

A quest'uomo, quando tutto parve perduto in Italia, ricorse ancora Giustiniano. Gli restituì parte dei beni e gli diede la carica di generalissimo della guerra d'Italia, ma non lo fornì di truppe né di denari e gli permise di reclutare solo soldati purché li mantenesse a sue spese.
Malgrado queste condizioni che non potevano fare sperare in un buon esito, Belisario accettò e, dimenticando le offese ricevute, partì per la Dalmazia dove raccolse un corpo di quattromila Illirici che condusse a Salona e poi a Pola.
Si trovava in questa città quando seppe che Totila marciava su Roma ed espugnava Tivoli facendo strage della popolazione. Belisario avrebbe voluto correre in soccorso della metropoli ma era privo di denaro e non aveva truppe sufficienti; si decise quindi ad andare a Ravenna, sperando di poter richiamare alcuni suoi vecchi soldati. Perse invece quelli che aveva condotti da Pola: gl'Illirici, malcontenti perché le paghe non erano state loro date, avendo saputo che gli Unni minacciavano d'invadere le loro terre, abbandonarono Belisario e se ne tornarono al loro paese.

Rimasto a Ravenna, Belisario era costretto all'inazione. E intanto Totila si rendeva padrone di Assisi, di Spoleto, la cui guarnigione passava al servizio dei Goti, di Chiusi, di Ascoli, di Fermo e di Osimo, faceva occupare i passi dell'Appennino e alla fine dell'estate del 545 assediava Roma.
Comandava lo scarso presidio bizantino della metropoli un certo BESSA, ufficiale avidissimo, il quale, approfittando della penuria dei viveri, vendeva per conto suo alla popolazione civile a prezzi favolosi il grano dei magazzini militari. Molti cittadini, non potendo sopportare la fame e non avendo mezzi per acquistare viveri da Bessa, erano stati costretti ad uscire dalla città e questa, stretta sempre più dai Goti, che avevano occupato Ostia, si trovava in una situazione difficilissima.

Belisario non aveva mancato d'informare l'imperatore dello stato delle cose e perché gli fossero inviati aiuti d'uomini e di denaro era stato costretto a richiederli per mezzo di quel GIOVANNI che aveva, nella prima guerra, occupato Rimini e che, per le potenti relazioni che aveva alla corte, poteva molto ottenere da Giustiniano.
Saputo che Giovanni aveva ottenuto rinforzi, Belisario gli corse incontro a Durazzo ma qui ricominciarono le discordie tra i due generali. Belisario voleva che le truppe fossero per mare condotte alla foce del Tevere e di là, lungo il fiume, al soccorso di Roma; Giovanni sosteneva ch'era meglio guerreggiare prima i Goti nell'Italia meridionale da dove con più probabilità di successo si sarebbe potuto poi marciare in aiuto di Roma.

L'accordo non poté essere raggiunto. Giovanni, presa terra a Brindisi, diede battaglia ai Goti, li sconfisse ed occupò la città. In breve le Puglie e la Terra d'Otranto caddero in suo potere; la stessa sorte toccò alla Lucania e il Bruzio; ma della Campania rimasero padroni i Goti, e Giovanni, che avrebbe dovuto risalire verso Roma, giunto a Reggio scrisse all'imperatore di avere riconquistata tutta l'Italia meridionale.

Belisario invece, con le magre forze di cui disponeva, per la via di mare si recò a Porto e vi si rafforzò aspettando il momento propizio per inviare vettovaglie e penetrare egli stesso in Roma. Non era però cosa facile. Libera, non era la via del fiume, il cui passaggio era stato in un punto ostruito da Totila con una catena e un ponte galleggiante difeso nelle opposte rive, da due torri di legno.

Deciso a soccorrere Roma, Belisario ideò un piano audace: bruciare le torri, togliere la catena, distruggere il ponte, dar battaglia al nemico con l'aiuto di Bessa ed aprirsi la via per la metropoli. Congiunti due barconi per mezzo di tavole, vi fece costruire una torre che riempì di uomini muniti di materie infiammabili e, ordinato a Bessa di uscire da Roma con una schiera per prestargli man forte, risalì con le barche la corrente del Tevere. A Porto aveva lasciato la moglie Antonina e il grosso delle sue truppe comandate da ISAACE con l'ordine assoluto di non muoversi. I barconi erano tirati con corde da uomini procedenti lungo le rive, scortati da fanti e cavalieri; dietro veniva una flottiglia carica di vettovaglie.

L'impresa ebbe inizio felice: una delle due torri fu incendiata, il ponte rotto e la catena levata. Sorpreso da una schiera di Goti mentre stava per dare l'assalto alla seconda torre, Belisario diede battaglia ed ebbe ragione del nemico che fu respinto lasciando sul campo duecento dei suoi. La via di Roma era aperta e se gli ordini di Belisario fossero stati eseguiti la metropoli avrebbe ricevuto i rinforzi e le vettovaglie. Ma Ressa non si mosse, preferendo dedicarsi al suo illecito lucro; Isaace, quando seppe del successo iniziale della spedizione, venendo meno alla consegna, traversata con cento cavalieri l'Isola sacra, si gettò su Ostia e se ne impadronì. Sopraggiunti però numerosi Goti, fu sconfitto e catturato. La notizia ingrandita da questo fatto troncò a mezzo l'impresa di Belisario. Credendo che Porto fosse caduta in potere del nemico e temendo di essere assalito alle spalle, il generale fece ritorno e fu tale la sua disperazione, quando vide che le cose erano diverse da quelle che gli erano state riferite, che fu preso da una violenta febbre, la quale gl'impedì di ritentar la prova.

Poco tempo dopo, il 17 dicembre del 546, Roma cadeva in mano di Totila. Quattro Isaurici di guardia alla porta Asinaria; indignati dalla condotta di Bessa che mentre si arricchiva alle spalle dei cittadini lasciava senza paga la guarnigione, consegnarono per denaro la città al nemico. Il presidio fece appena a tempo ad uscire da un'altra porta e Bessa dovette lasciare le grosse somme illecitamente accumulate. Appena entrati in Roma i Goti, cominciarono le uccisioni e il saccheggio. Già ventisei soldati e sessanta cittadini erano stati uccisi per le vie, quando Totila, pregato dal diacono PELAGIO, che sostituiva papa Vigilio, allora in viaggio per Costantinopoli, impartì ordine che la vita e gli averi della popolazione dovevano esse rispettate; e la strage cessò.

Presa Roma, Totila tentò di venire ad un accordo con Giustiniano e gl'inviò come ambasciatore Pelagio. Il goto prometteva devozione ed ubbidienza e chiedeva di essere riconosciuto re d'Italia, minacciava però di distruggere Roma se le proposte di pace non erano accettate.
Giustiniano gli rispose di rivolgersi a Belisario. Essendo questi per la guerra ad oltranza, la risposta dell'imperatore equivaleva ad un rifiuto. Allora Totila si vide costretto a muovere verso l'Italia meridionale contro i Bizantini, ma non avendo forze sufficienti per lasciare a Roma una guarnigione deliberò di abbattere le mura. L'opera di demolizione era iniziata quando una lettera di Belisario aveva impedito che fosse condotta a termine. Fra le altre cose il generale bizantino scriveva al re: "…Vuoi tu passare alla storia come il distruttore piuttosto che come il preservatore della più grande e più bella città del mondo?…" Impressionato da queste parole, Totila fece sospendere la demolizione delle mura, ordinò che gli abitanti abbandonassero la città, lasciò sui monti Albani un piccolo presidio e, conducendo con se in ostaggio i senatori, parti per il mezzogiorno d' Italia.

Per circa un mese e mezzo Roma rimase deserta, poi Belisario, approfittando dell'assenza di Totila, lasciati a guardia di Porto alcuni manipoli, si spinse verso la città, sconfisse facilmente la guarnigione dei monti Albani che, al suo avvicinarsi, era corsa a difendere la vuota metropoli, e se ne impadronì. Sua prima cura fu di restaurare le mura e in quest'opera impiegò i soldati e i cittadini che si erano affrettati a ritornare (547).

Non fu un lavoro inutile, perché Totila, che nel frattempo era stato nella Lucania, marciò su Roma e tentò di riconquistarla. Non vi riuscì: tre volte diede l'assalto alle mura e tre volte ne fu respinto con gravi perdite e alla fine fu a ritirarsi a Tivoli.

Questa brillante difesa di Roma non migliorò però le condizioni di Belisario e dei Bizantini. A circa ventimila uomini ascendevano i soldati che Giustiniano aveva in Italia; di questi una parte presidiava Ravenna, Ancona, Perugia, Roma, Spoleto, e una parte era con Giovanni nel mezzogiorno. Mancava l'unità di comando, non erano cessate le discordie tra i capi, il contegno delle truppe aveva suscitato il malcontento delle popolazioni meridionali. Per tutte queste ragioni la guerra non poteva esser condotta seriamente né dare buoni risultati. Cominciò anzi a volgere in favore dei Goti, che, penetrati nel Bruzio, posero l'assedio a Rossano. Accorse in suo aiuto Belisario, ma la sua presenza, non valse a salvarla: costretta dalla fame, la città capitolò (548).

Sconfortato dalle vicende di una guerra ingloriosa e dall'abbandono in cui era lasciato dall'imperatore, Belisario tentò un'ultima volta di ottenere aiuti da Giustiniano e mandò a Costantinopoli la moglie. Questa sperava molto dall'amicizia dell'imperatrice; ma Teodora era morta il primo di luglio del 548 e ad Antonina non rimase che di chiedere il richiamo del marito.

L'uomo che tanti servizi aveva reso all'impero tornava, nel 549, nella capitale. Vittima della gelosia dei suoi rivali e dell'ingratitudine del suo sovrano, si ritirava a vita privata per trovarvi quella pace che le vicende politiche e militari non gli avevano data.
Ma il suo braccio pur ancora utile al suo imperatore, ancora una volta il suo animo doveva provar l'amarezza dell'ingratitudine. Nel 559, minacciato da un'invasione di Unni, Giustiniano ricorreva a Belisario, e questi, dimenticando generosamente tutto ciò che era stato fatto contro di lui, raccolte alcune schiere di veterani, marciava contro il nemico e lo sconfiggeva. La vittoria però non gli procurava il meritato trionfo. L'imperatore vecchio e geloso del suo salvatore, lo richiamava, e prestando ascolto agli invidiosi, che accusavano il generale di cospirazione, lo privava degli averi.

Glieli restituiva, pentito, alcuni mesi dopo (563); ma Belisario non doveva goderli per molto tempo. Nel 565, affranto più dalle dolorose vicende che dagli anni - ne contava solo sessanta - moriva, precedendo di nove mesi nella tomba il sovrano che con tanta fedeltà e tanto valore aveva servito e dal quale con tanta ingratitudine era stato ricompensato.

NARSETE IN ITALIA - TEIA - FINE DEI. REGNO OSTROGOTO
IL MONACHEISIMO E S. BENEDETTO

La partenza di Belisario dall'Italia, diede nuovamente Roma nelle mani di Totila. Nella città vi erano circa tremila soldati bizantini sotto il comando di DIOGENE ch'era successo a CONONE, ucciso dalle milizie per la sua ingordigia. Diogene era un valoroso capitano, ma fra i suoi soldati, non pagati ed affamati dopo che Porto era stata presa dai Goti, serpeggiava un grande malcontento.
Come nel 546, così nel 549 alcune sentinelle isauriche consegnarono la città al nemico. Questa volta i Goti entrarono per la porta S. Paolo; numerosi Bizantini caddero trafitti dalle armi nemiche, Diogene riuscì a salvarsi con un certo numero dei suoi; quattrocento Bizantini, asserragliatisi nella Mole Adriana furono costretti dalla fame ad arrendersi e passarono poi al servizio di Totila.

Essendo tornato in possesso di quasi tutta la penisola, eccettuate alcune città, fra cui Reggio, Centocelle, Ancona e Ravenna, TOTILA decise di occupare la Sicilia. Riunite le navi catturate ai Bizantini e costruiti quattrocento piccoli legni, passò lo stretto lasciando alcune schiere all'assedio di Reggio che non tardò a capitolare. Messina oppose valida resistenza. Totila per non perdere tempo, bloccò la città per terra e per mare e mandò il resto delle sue truppe nell'interno dell'isola che fu conquistata facilmente. I Siciliani, colpevoli di aver consegnata l'isola a Belisario, furono trattati duramente dai Goti che ne saccheggiarono senza pietà le città e le campagne.

La conquista della Sicilia e le continue pressioni degli esuli italiani e del papa Vigilio, che si trovavano a Costantinopoli, spinsero GIUSTINIANO a riprendere con più determinazione la guerra gotica. Fu scelto un nuovo generalissimo: GERMAMO, presunto erede al trono imperiale, che nel 542, morto VITIGE, aveva sposato in seconde nozze la vedova AMATASUNTA.
Giustiniano si riprometteva di trarre non lievi vantaggi da questa scelta poiché sperava che il marito dell'ultima principessa gotico-amala avrebbe influito molto sugli Ostrogoti.

I preparativi della spedizione furono fatti con alacrità e senza badare a spese, ma prima che fossero terminati Germano morì a Sardica (550). Le truppe che fino allora erano state raccolte rimasero durante l'attesa a Salona, in Dalmazia. La morte di Germano non interruppe i preparativi e di questi dovette certamente aver sentore Totila, il quale tentò ancora un accordo con l'imperatore, prospettandogli il pericolo dei Franchi che si erano affacciati sull'Italia settentrionale e dichiarandosi pronto a cedere la Sicilia e la Dalmazia e a pagare un tributo. Ma Giustiniano non volle neppure ricevere gli ambasciatori e a sostituire Germano chiamò l'eunuco NARSETE.

Allora TOTILA intensificò le operazioni di guerra: inviò una flotta contro la Sardegna e la Corsica che caddero facilmente in potere dei Goti; per intimorire l'imperatore inviò un'altra flotta di trecento navi a Corfù e sulle coste dell'Epiro che furono devastate; infine si recò ad assediare Ancona. In aiuto di questa città corsero da Ravenna VALERIANO e dalla Dalmazia GIOVANNI con un buon numero di navi, le quali, scontratesi nelle acque di Senigaglia con la flotta gotica, la sconfissero catturando la maggior parte dei legni.

Questa battaglia aveva luogo nel 552; nello stesso anno Narsete, dopo di avere sconfitto a Filippopoli un'orda di Unni, raggiungeva a Salona le soldatesche in questa città raccolte da Germano.
Narsete conduceva con sé un forte contingente di milizie composte da Traci, Illirici, Eruli, Gepidi, Persiani, Unni e una schiera di duemilacinquecento Longobardi comandati da AUDOINO. Non volendo affrontare il mare per timore di cadere in qualche insidia che le navi gotiche avrebbero potuto tendergli, Narsete prese la via di terra; ma Verona fortemente presidiata dai Goti comandati dal prode TEIA e dai Franchi che occupavano alcune città venete, mandò a dire che avrebbe rifiutato il passaggio alle truppe bizantine, con le quali erano i Longobardi loro fieri nemici. A quel punto Narsete prese la via mare, costeggiò l'Adriatico e indisturbato giunse a Ravenna.

Qui Narsete si fermò nove giorni per dar riposo all'esercito; il decimo si mise in marcia verso Rimini sotto le cui mura sconfisse la guarnigione ostrogota uccidendone il comandante USDRILA. Da Rimini proseguì il cammino per la via Flaminia, ma saputo che il passo del Furlo, fortezza naturale inespugnabile, era difeso dal nemico, passò l'Appennino in un altro punto e si fermò nel piano tra "Busta Gallorum" (presso Scheggia) e Tagina (Gualdo Tadino) dove Totila, venuto da Roma e raggiunto da una parte della truppe di Teia, l'aspettava.

In questa pianura ebbe luogo la prima grande battaglia tra l'esercito di Narsete e quello di Totila. II generalissimo bizantino fece occupare da cinquanta uomini, che per tutta la giornata lo tennero eroicamente contro i ripetuti assalti nemici, un piccolo colle al quale appoggiò l'ala sinistra del suo schieramento formata da cinquecento cavalieri e quattromila arcieri appiedati. Altrettanti arcieri pose all'ala destra e nel centro le milizie barbariche fiancheggiate dalle truppe romane; mille cavalieri lasciò in riserva dietro le linee.
I primi ad attaccare furono i Goti. Riconoscendo la grande importanza del colle, Totila cercò d'impadronirsene e lanciò all'assalto di quella posizione parte della sua cavalleria, ma non fu possibile vincere l'ostinato eroismo del manipolo che ne teneva la cima. Non miglior fortuna ebbero al piano le fanterie e il resto della cavalleria di Totila, cui gli arcieri di Narsete inflissero gravissime perdite.
L'entrata in azione dei Longobardi e degli Eruli decise le sorti della. battaglia. Il loro impeto fu così grande che la cavalleria gotica volse le spalle e si desse a precipitosa fuga travolgendo i fanti. Lo stesso re TOTILA, che aveva combattuto da prode, trascinato dalla furia dei fuggiaschi, fu ferito gravemente e, trasportato nella capanna di un villaggio detto Caprae (forse Caprara) vi morì (luglio del 552).

I Longobardi, durante il combattimento, avevano dato prova di grandissima bravura; dopo la battaglia si fecero notare per la loro ferocia che si abbatté sulle innocenti popolazioni. Furono tali e tanti gli atti di barbarie che commisero sugli averi e sulle persone che Narsete pensò di sbarazzarsene e, dopo averli pagati generosamente, li rimandò oltre le Alpi sotto una buona scorta al comando di Valeriano.

Dopo la battaglia di Gualdo Tadino gli Ostrogoti superstiti si radunarono a Pavia che ora era diventata la più importante città del loro regno, e qui acclamarono re TEIA, il più valoroso dei loro capitani.

A fronteggiare i Goti dell'alta Italia e a impedire loro che scendessero nel centro della penisola, Narsete inviò Valeriano; che con parte del suo esercito si rivolse contro le città dell'Italia centrale occupate dai Goti e distaccò alcune schiere nel mezzogiorno perché scacciassero da questi territori il nemico.

Ben presto caddero in potere dei Bizantini: Narni, Spoleto, Perugia, il passo del Farlo, Nepi e Porto. Roma fu investita e dopo una serie di piccoli assalti fu conquistata di sorpresa: l'esiguo presidio gotico, ridottosi entro la Mole Adriana, dopo breve e vana resistenza, si arrese.

La presa di Roma fu seguita da feroci atti di rappresaglia da parte degli Ostrogoti un ragguardevole numero di nobili e senatori romani, che dalla Campania ritornavano alla città loro, sorpresi durante il viaggio, furono trucidati e trecento giovinetti, che erano in ostaggio nell'Italia settentrionale, subirono, per ordine di Teia, la medesima sorte.

TEIA intanto riorganizzava il suo esercito e, tentato invano di procurarsi l'alleanza dei Franchi, se ne assicurava la neutralità, cedendo loro quella parte del tesoro regio razziato a Pavia. Quando seppe che i Bizantini assediavano Cuma, dove si trovava suo fratello ALIGERNO, con il resto del tesoro, nell'autunno del 552 lasciò Pavia ed, eludendo abilmente la vigilanza di Valeriano, attraverso il Piceno e il Sannio, con una marcia rapida e ardita non ostacolata dal nemico, giunse nella Campania. Sua mèta era Cuma, dove egli intendeva riunirsi al fratello, ma, essendogli andato incontro Narsete, fu costretto a fermarsi, e si accampò presso Nocera, sulle rive del Sarno, guardato dalle truppe bizantine accampate a poca distanza da lui.

Qui TEIA rimase circa due mesi. A vettovagliare le sue schiere pensava una flottiglia gota. Teia non aveva fretta né interesse di assalire il nemico. Rifornito com'era di viveri e protetto dal fiume sulle cui rive, a protezione del ponte, aveva fatto costruire due torri di legno, il re ostrogoto poteva comodamente aspettare che i Bizantini gli dessero battaglia o meglio, nell'attesa, si logorassero. Ma la sua posizione si trovò ad un tratto compromessa quando l'ufficiale che comandava la flottiglia consegnò le navi agli imperiali. Privo di vettovaglie, Teia si vide costretto a sloggiare e si trasferì sulle falde del vicino monte Lattario, ma, non trovando neppure qui da vivere, decise di venire ad una risoluzione per mezzo delle armi.

La battaglia fu combattuta nel marzo del 553 e in questa i Goti si comportarono eroicamente. Fu l'ultimo, disperato sforzo di un popolo ridotto agli estremi, ma anche uno sforzo davvero epico che degnamente chiudeva la storia di una nazione di guerrieri.

TEIA, dopo la cattiva prova fatta a Gualdo Tadino, lasciò indietro i cavalli e sul far dell'alba assalì impetuosamente con tutte le sue forze i Bizantini, i quali, colti all'improvviso, non ebbero il tempo di ordinarsi. La battaglia perciò fu affidata alla bravura personale dei soldati e la bravura dei capi non vi ebbe alcuna parte.
I Goti combattevano per la loro salvezza; e i Bizantini per il proprio onore, che - al dir di Procopio - si vergognavano di cedere di fronte ad un nemico di gran lunga inferiore di numero. I n prima. fila, fulgido esempio di coraggio e di tenacia, TEIA diede prove mirabili del suo valore. Lui era il bersaglio degli imperiali e nugoli di dardi si abbattevano su di lui, che li riceveva sull'ampio scudo: e quando questo era carico di saette il re lo cambiava con un altro che un soldato era sollecito a porgergli. Per parecchie ore TEIA combatté coraggiosamente, ma verso la fine del giorno, rimasto per un istante scoperto mentre cambiava lo scudo, cadde mortalmente ferito e i Bizantini gli tagliarono la testa e, conficcatala sulla punta di una lancia, la portarono in giro pel campo.

La notte divise i combattenti, ma il giorno dopo i Goti ritornarono all'assalto, e la battaglia si accese di nuovo con grande violenza. Nonostante fossero rimasti senza capo, i Goti anche il secondo giorno si batterono valorosamente, ma nulla poté il loro disperato eroismo contro il numero preponderante del nemico. Perduta ogni speranza di vittoria, per mezzo di alcuni loro ufficiali chiesero ai Bizantini che li lasciassero liberamente andare dalle loro mogli e nelle loro cose; Narsete concesse quanto chiedevano, ma volle che prima giurassero che non avrebbero mai più riprese le armi contro l'impero.

Solo una schiera di mille Goti, comandata da INDULFO, si rifiutò di giurare e si ritirò a Pavia; degli altri non tutti mantennero fede al giuramento: molti, invece di allontanarsi dall'Italia, si ritirarono in alcune città della Toscana e dell'Italia settentrionale, da dove poi chiesero a Teodebaldo, re dei Franchi, successore di Teudeberto, di unirsi a loro per muover guerra ai Bizantini.

TEODEBALDO si rifiutò ma non volle o non poté impedire che l'impresa fosse fatta da due nobili fratelli alemanni a lui soggetti, LEUTARI e BUCCELLINO, i quali raccolto, tra Franchi e Alemanni, un esercito di settantacinquemila uomini calarono nello stesso anno 553 in Italia dove si unirono a parecchie migliaia di Goti superstiti.

Narsete, lasciato un corpo di saldati ad assediare Cuma, in cui Aligerno faceva accanita resistenza, e spedito verso Parma un altro corpo di milizie per opporsi all'avanzata dei nuovi nemici, con i resto delle sue truppe si recò in Toscana, tolse ai Goti, Firenze, Volterra e Pisa e pose l'assedio a Lucca. Si trovava sotto le mura di questa città quando le schiere mandate a Parma, scontratesi con i Franco-Alemanni, furono battute e si ritirarono a Faenza.
La posizione di Narsete si faceva difficile, potendo egli essere colto all'improvviso dai Franco-Alemanni, sul cui arrivo i Lucchesi contavano; ma il vecchio generale non si perse d'animo e rimase sotto le mura di Lucca che, alla fine, dovette arrendersi.

Dalla Toscana Narsete si recò a Classe di Ravenna per sorvegliare le mosse del nemico e qui venne a fargli atto di sottomissione ALIGERNO, il quale, sicuro di dover prima o poi cedere di fronte ai Franco-Alemanni o ai Bizantini, preferì darsi a questi ultimi e passò al servizio dell'impero.

Intanto le orde franco-alemanne si avanzavano. Narsete non ritenne opportuno di contendere loro il passo: i nemici erano numerosi e una sconfitta avrebbe gravemente compromessa la situazione dei Bizantini. Egli sapeva, del resto, che i barbari erano scesi in Italia più per predare che per rimanervi; decise perciò di restare inoperoso nell'attesa che i nemici partissero o che gli si presentasse il destro di infliggere loro una disfatta. Fu costretto però a venire a battaglia presso Ravenna con un corpo di duemila nemici e li sconfisse; poi si ritirò verso Roma.

Giunti nel Sannio, i Franco-Alemanni si divisero: una parte con Buccellino si spinse, attraverso la Campania e la Lucania, fino al Bruzio, l'altra con Leutari invase, saccheggiandola, l'Apulia e avanzò fino ad Otranto.

Nell'estate del 554, volendo mettere in salvo il bottino fatto, Leutari prese la via del ritorno; ma giunto a Pesaro dovette difendersi da un esercito bizantino e, sconfitto, lasciò la preda in mano ai vincitori e si affrettò a riparare nel Veneto, dove l'orda fu orribilmente decimata da una grave pestilenza. La sorte che toccò a Buccellino non fu migliore. Messosi sulla via del ritorno anche lui saputo che Narsete gli veniva contro, si fermò sul Volturno e vi si rafforzò. Secondo lo storico Agazia, a trentamila uomini ascendeva il suo esercito e a diciottomila quello dei Bizantini. La battaglia, che avvenne nell'autunno del 554, fu lunga e accanita. Iniziatasi con buona fortuna per i Franco-Alemanni, terminò con la loro sconfitta grazie all'impetuoso assalto degli Eruli, che erano al servizio di Narsete, comandati da Sindualdo.

BUCCELLINO cadde in combattimento; dei suoi uomini fu fatta strage. Settemila Goti che erano con lui, scampati, si rifugiarono nel castello di Conza, a cinquanta miglia da Napoli, e lì tennero testa a Narsete per circa un anno, ma alla fine del 555, si arresero con la promessa di aver salva la vita; furono fatti prigionieri e mandati a Costantinopoli.

Con la resa di Conza i Goti scompaiono dalla storia come nazione; un certo numero, quelli che si erano dati alla fuga, rimase sparso in Italia, e furono ben presto assorbiti dalla popolazione indigena, altri si unirono ai Franchi dell'alta Italia e seguirono la sorte di questi ultimi.

La guerra gotico-bizantina, durata venti anni, finisce nel 555 e in questo stesso anno i Franchi, dopo qualche successo sulle armi imperiali, furono da Narsete scacciati dalla Liguria e dalla Venezia. L'Italia è finalmente riconquistata all'impero e può, dopo tante lotte, vivere in una relativa pace per circa undici anni.
Ma questa pace tra il 566 e il 567 sarà turbata ai suoi confini dalla rivolta degli Eruli posti da Narsete a guardia delle Alpi Occidentali e nel 568 altri barbari, i Longobardi, caleranno alla conquista d'Italia. Finita, la guerra si pensò a mantenere la conquista e a dare assetto all'Italia che rimase affidata a Narsete, con il titolo di patrizio, e per l'amministrazione civile a un prefetto del pretorio. Nell'Italia settentrionale furono costituiti dei distretti militari di frontiera, ognuno dei quali era retto da un dux e da ufficiali in sottordine detti tribuni ed era custodito da truppe di confine (limitanei) formate da milizie regolari e da abitanti del paese.

Nel resto della penisola fu mantenuta l'antica divisione in province, con un comandante militare ("dux) di nomina imperiale ed un governatore civile ("iudex) eletto dal vescovo e dai notabili. Le città continuarono ad essere amministrate dalle curie sotto la direzione del "defensor, che aveva l'amministrazione della giustizia civile e penale, e del "pater civitatis cui era affidato il pubblico patrimonio. Roma mantenne il prefetto di città e il senato; Ravenna ebbe una costituzione propria; la Sicilia ebbe un governatore civile ("praetor) e un comandante militare ("dux), dipendenti da Costantinopoli; la Sardegna e la Corsica furono poste alle dipendenze del prefetto del pretorio d'Africa.

All'Italia furono applicate le leggi dell'impero oltre alcune particolari disposizioni, il cui compendio giunse sino a noi sotto il nome di Prammatica sanzione. Questa, riconfermando gli editti dei primi re Ostrogoti, abrogava tutti quelli di Totila perché non riconosciuto dall'imperatore. Furono perciò annullati tutti i provvedimenti presi a favore dei piccoli proprietari e dei contadini, le proprietà confiscate ai latifondisti furono loro restituite e gli schiavi ebbero ordine di tornare ai loro padroni. Agli antichi proprietari però non tornò il terzo delle terre che era stato dai Goti sottratto agli Italiani, servì in parte al mantenimento dell'esercito, il resto fu ceduto alle chiese e dato in enfiteusi. Qualche provvedimento per alleviare la tristissima condizione economica degli Italiani, prodotta dalla crisi monetaria, non mancò di esser preso: furono condonati gl'interessi dei debiti contratti prima e durante l'invasione franca e fu concessa una proroga di cinque anni per il pagamento del capitale. Ma questi furono provvedimenti che non migliorarono affatto le condizioni della popolazione su cui gravava in non lieve parte il mantenimento delle truppe e il peso delle imposte, reso maggiore dall'avidità dei giunti da Costantinopoli.

In nessun tempo l'Italia si era trovata in condizioni così misere. Venti anni di guerra l'avevano desolata. La popolazione era spaventosamente diminuita a causa delle stragi, degli assedi, delle carestie e delle pestilenze; parecchie città avevano terribilmente sofferto, Milano specialmente che era stata distrutta da Uraia e che Narsete aveva in parte riedificata; Roma, provata dagli assedi e dai saccheggi, era quasi vuota di abitanti e i suoi edifici cadevano in rovina; la rete stradale era in uno stato deplorevole, i ponti rovinavano, i fiumi, lasciati senza argini, straripavano formando vaste paludi, scomparivano le piccole proprietà inghiottite dalle chiese o dai latifondisti, immensi tratti di campagna erano deserti, campi un giorno rigogliosi e colline verdeggianti di vigne si coprivano di boscaglie.

IL MONACHESIMO

Guerre, pestilenze, terremoti, inondazioni avevano riempito di costernazione e di spavento gli animi. Pareva che dovesse venire presto la fine del mondo. Non deve quindi recar meraviglia che il pensiero si rivolgesse a Dio, che molti cercassero un conforto a tanti malanni nella preghiera, e che molti altri fuggissero la vita delle città e andassero in cerca di quiete e di sicurezza nei boschi e sui monti o si ritirassero nei chiostri.

Il monachismo, penetrato in Italia nel secolo V, vi ebbe una rapida diffusione nel secolo successivo. Gli stanchi, gli sfiduciati, i paurosi, si diedero alla vita contemplativa e andarono a popolare i monasteri. Ritiratosi dalla vita pubblica ed abbandonata la corte, all' età di sessant'anni, poco prima della caduta di Vitige, anche CASSIODORO sentì il bisogno di un asilo sicuro e solitario
. Il suo sogno di una pacifica fusione dei Goti e dei Romani era tramontato; la politica non esercitava più per lui nessun fascino, rappresentava anzi un pericolo e una distrazione degli studi, cui ora egli voleva dedicare la vecchiaia. Rifugiatosi nella sua natia Squillace, fondò un eremitaggio sulla cima di un vicino colle e, a Vivarium, presso il fiume Pellena, un convento. Qui visse a lungo e, mentre sulle contrade d'Italia imperversava la guerra, Cassiodoro, nella solitudine del chiostro, scriveva libri e assicurava ai posteri, facendoli trascrivere, altri monumenti letterari dell'antichità.

Quando Cassiodoro si dava alla vita contemplativa il monachesimo occidentale era nella sua più grande fioritura per opera di un uomo che gli aveva data una regola ed una forte organizzazione: BENEDETTO DA NORCIA. Di questo grande monaco, che la Chiesa poi santificò, Gregorio Magno scrisse la vita. Lasciata Roma, dove si era recato a studiare dalla natia Norcia, si ritirò verso le sorgenti dell'Arno e qui presto venne in fama di santità e fu circondato da un gran numero di proseliti.

Trasferitosi a Subiaco, vestì l'abito monacale, poi si ritirò in una grotta solitaria, dove i monaci e i pastori gli portavano il cibo per mezzo di una fune. Egli viveva nella preghiera, nella contemplazione, nella volontaria privazione dei beni mondani, e, - questo è quanto si narra nelle leggende- quando i desideri del senso lo tentavano, il santo si tormentava le carni sulle spine dei rovi della boscaglia, che, fecondate dal suo sangue, dispensarono una miracolosa fioritura di rose.

Essendo cresciuta la sua fama, fu chiamato come abate nel convento di Vicovaro, ma venuto presto in uggia ai monaci per la sua rigidità e miracolosamente scampato al veleno, S. Benedetto si ritirò di nuovo nel suo eremo. Sorgevano intorno al luogo del suo ritiro i conventi, da lui i monaci accettavano regole e capi, e così numerosi erano diventati i suoi seguaci e tanto prestigio si era acquistato che contro il Santo si scatenò la gelosia del clero regolare, costringendolo ad abbandonare il territorio di Subiaco e a rifugiarsi sulla cima del Monte Cassino. Qui già vi era un antichissimo santuario, con una statua e un'ara dedicate ad Apollo, S. Benedetto la fece abbattere e al posto suo fece erigere un convento, dove ci campò quattordici anni, dal 529 al 543.

Nel convento di Monte Cassino il Santo nel 542, un anno prima di morire, aveva ricevuto una visita di Totila ed è anche questo nella leggenda che al re dei Goti il gran monaco rimproverò severamente i danni da cui era afflitta l'Italia e gli predicesse prossima la fine.

Del monachesimo di Occidente S. Benedetto fu il riformatore. Egli tolse gli eccessi alla vita conventuale e, pur mantenendo il rigore dell'obbedienza, rese più umana la vita claustrale; volle che i conventi non fossero un luogo di ozio e stabilì che alla preghiera si associasse il lavoro, fonte di benessere e mezzo per conseguire la perfezione morale. Per opera sua, in mezzo alla desolazione delle campagne, i conventi e le terre che ai conventi appartenevano, questi divennero oasi di feconda attività agricola ed industriale.

Più tardi gli stessi conventi saranno operose e provvidenziali fucine di lavoro intellettuale, un prezioso rifugio delle lettere e delle arti, fari perenni di cultura nella tenebrosa barbarie medievale.

Per sette secoli, fino cioè a S. Francesco ed a S. Domenico, - scrive il Villari - i Benedettini furono quasi i soli monaci del mondo occidentale, e si diffusero dalla Calabria alla Gran Bretagna, dalla Polonia al Portogallo, obbedendo tutti al loro capo di Monte Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova Gerusalemme, la Mecca dei Cristiani.

La leggenda, la poesia, la pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita del Santo e dei suoi discepoli. Dalle mura dei chiostri, dagli affreschi, dalle tele dei pittori, dai versi dei poeti, che furono ispirati da questi monaci, i quali vissero in tempi di feroci passioni, in mezzo agli orrori di una guerra che faceva scorrere il sangue a fiumi, discende ancora oggi su di noi il loro spirito di pace, di fede, di carità, di tranquillo e costante lavoro, che in tutto il Medio Evo fu sorgente perenne d'arte, di poesia e di civiltà.

FINE

Ci aspetta ora l'invasione dei LONGOBARDI
E' il periodo che va dal 568 al 590 d.C. > > >  

 

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE

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