ANNI 795 - 814 d.C.

CARLOMAGNO IMPERATORE - L'ITALIA - VENEZIA  

IL PAPA LEONE III E LA SUA POLITICA VERSO CARLO - COSPIRAZIONE CONTRO IL PONTEFICE -LEONE III A PADERBORN - RITORNO DEL PAPA E PROCESSO CONTRO PASQUALE E CAMPULO - CARLOMAGNO A ROMA - IL NATALE DELL'800: CARLOMAGNO IMPERATORE - GIUDIZI SULL'AVVENIMENTO - RIORDINAMENTO D'ITALIA - ISTITUZIONI FRANCHE E ORDINAMENTO DELLO STATO CAROLINGIO - LA DIFESA DELLE FRONTIERE E DELLE COSTE - CARLOMAGNO E IRENE - NICEFORO IMPERATORE D'ORIENTE - LE RELAZIONI DI CARLO CON I PRINCIPI MUSULMANI - LE VICENDE DI VENEZIA NEL SECOLO VIII - I FRANCHI E VENEZIA - GUERRA TRA VENEZIA E PIPINO - TRATTATIVE FRA AQUISGRANA E COSTANTINOPOLI - L'ATTO DI DIEDENHOFEN - BERNARDO RE D'ITALIA - INCORONAZIONE DI LUDOVICO E MORTE DI CARLOMAGNO - PERSONALITÀ STORICA DI CARLOMAGNO: IL GUERRIERO, L'UOMO POLITICO, IL LEGISLATORE, IL PROTETTORE DEGLI STUDI
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Papa Leone III incorona Carlomagno
(sTANZE DI RAFFAELLO IN VATICANO)

( APPROFONDIMENTO e BIOGRAFIA )
CARLO MAGNO e il SACRO ROMANO IMPERO > > > > >

LEONE III - CARLOMAGNO IMPERATORE


(la cartina in grande formato QUI)


Il giorno dopo la morte di ADRIANO I, avvenuta il 26 dicembre del 795, fu eletto pontefice con unanimità di suffragi LEONE III, un prete romano che ricopriva la carica di "vesterario" della Curia, piuttosto osteggiato dalla nobiltà romana, timorosa di perdere la quella preminenza goduta - per circa 23 anni - sotto il precedente papa.
LEONE saliva al soglio pontificale quando CARLO era all'apogeo della sua potenza (non dimentichiamolo) ed aveva ridotto sotto il suo scettro quasi tutta l'Europa occidentale, reggendo con mano salda un insieme così vario di popoli.
Ma dobbiamo anche rilevare che grandi e importanti guerre non c'erano state. Molti dei suoi successi furono alcuni fortunati, altre risolti con spregiudicatezza e altri ancora con un abile . Nel regno Franco, un buon terreno lo aveva preparato già suo padre Pipino il Breve, poi alla morte del fratello Carlomanno costrinse alla fuga i suoi figli, incorporò i suoi domini e si fece proclamare unico re dei Franchi. Su sollecitazione del Papa, piuttosto assillante, e con sue mire precise, scese in Italia contro i Longobardi che erano già sull'orlo del disastro e li sconfisse, senza avere grandi fastidi dai bizantini che erano messi male più degli stessi Longobardi, alle pre con gli Avari, gli Arabi e le congiure di Palazzo.
Morto Adriano, che in ventitré anni era stato un potenziale antagonista dei Bizantini dei Longobardi e dei Franchi (spesso utilizzati dal papa contro gli altri due), volendo allargare i suoi domini, Carlo si ritrovava così ad essere l'unica vera autorità che era rimasta in Occidente e in Oriente, senza aver fatto molto.

Di campagne n'aveva fatte già tante, circa 50, ma brevi qui e là, al sud al nord sui Pirenei, contro piccoli popoli, con qualche battaglia vinta, ma moltissime anche perse; e a Saragozza e a Roncisvalle aveva sofferto anche due clamorose disfatte. Ma nonostante tutto questo era il sovrano che ora aveva i più vasti domini.

Di fronte a Carlo, LEONE III il nuovo papa, assunse fin dall'inizio del suo pontificato un contegno molto dimesso che Gregorio Magno ed altri grandi Papi gli avrebbero certamente rimproverato. Inoltre (comincia malissimo, ma finirà bene) riconobbe senz'altro la superiorità del re sui Pontefici e di questo riconoscimento, oltre alle prove costituite dalla condotta di LEONE, abbiamo una preziosa confessione nel famoso mosaico lateranense di cui ci rimane una riproduzione eseguita nel 1743 che trovasi nella Piazza di Porta S. Giovanni in Laterano. Il mosaico raffigura a destra Cristo tra Papa Silvestro e l'imperatore Costantino, al centro Gesù che benedice gli Apostoli e tiene in una mano un libro su cui sta scritto "Pax vobis", a sinistra S. Pietro tra il papa LEONE III e CARLO inginocchiati ai suoi piedi che dà al primo una stola e al secondo una bandiera. Sotto sta scritto, in barbaro latino: Beate Petre donas vitam Leoni p. p. et bictoriam Carulo Regi donas".

Appena eletto, LEONE, insieme alla lettera, in cui annunziava la morte di Adriano e il suo innalzamento al soglio e "prometteva fedeltà ed obbedienza" (!), mandò a Carlo le chiavi della Confessione di San Pietro e il vessillo della città. Nello stesso tempo il Pontefice - secondo quello che scrive lo storico EGINARDO - pregava di mandare a Roma uno dei suoi Grandi per ricevere il giuramento di fedeltà e di sottomissione del popolo romano (ut aliquem de suis optimatibus Romam mitteret, qui populum romanorum ad suam fidem atque subiectionem per sacramenta firmaret").

Carlo fu molto addolorato per la morte di Adriano ed ordinò che fosse posta sulla sua tomba una lapide con un'epigrafe a lettere d'oro. A Roma inviò un dottissimo uomo, l'abate ANGILBERTO, che doveva raccomandare al nuovo Pontefice di vivere santamente, di osservare scrupolosamente le leggi canoniche e doveva consegnargli una lettera in cui, fra l'altro, era scritto: "Angilberto si reca da Voi per parlare di tutto ciò che crederete necessario all'esaltazione della Santa Chiesa e di Dio, alla stabilità della vostra dignità e del vostro patriziato. Noi vogliamo con voi, come già con il vostro predecessore, stringere legami d'amicizia ed avere la vostra benedizione. A noi spetta, con l'aiuto dell'Amore Divino, difendere di fuori con le armi la Chiesa di Cristo contro le invasioni dei pagani e le offese degli infedeli, e di dentro proteggerla con la conservazione della fede cattolica. A Voi, o Santissimo Padre, spetta di assistere le nostre milizie con le mani levate al cielo come Mosé, affinché il popolo cristiano, guidato e protetto da Dio per mezzo della vostra intercessione, possa dovunque e sempre ottenere vittoria contro i nemici del suo santo nome..".

Non c'è chi non veda l'importanza di questa lettera, nella quale sono nettamente definiti i limiti del potere regio e del potere papale. Il Pontefice doveva, - secondo Carlo essere e rimanere il capo spirituale della Chiesa, invece il re doveva essere, e lui solo, il difensore della Chiesa, fuori e dentro. Dopo il concilio di Francoforte questa lettera rappresentava il colpo più grave alle aspirazioni temporali del Papato, il quale di giorno in giorno diventava più debole di fronte alla potenza sempre crescente del re franco.

Questa potenza era senza dubbio la causa principale del contegno remissivo del Pontefice, ma non era la sola. A questa vanno aggiunte la sua debolezza e le difficoltà che lo costringevano a mettersi sotto la protezione del re.

Del Papa erano fierissimi avversari due nipoti di Adriano, TEODORO e PASQUALE, che durante il pontificato dello zio avevano goduto grandissima autorità, specie il secondo che era salito alla carica di primicerio dei notai. Non potendo più spadroneggiare sotto il nuovo Pontefice, Pasquale, aiutato dal sacellario CAMPULO, aveva cercato di trarre profitto dalle ambizioni dei "judices de militia" e di alcuni "judices de clero" per abbattere LEONE III. Tutti costoro prima avevano accusato il Papa di spergiuro e di adulterio presso Carlo; non essendoci riusciti, cercarono di sopprimerlo.

Il colpo fu tentato il 25 aprile del 779. Accompagnato da Pasquale e da Campulo seguito dal clero salmodiante, LEONE III procedeva a cavallo per la via da S. Giovanni in Laterano a S. Lorenzo in Lucina, quando, presso S. Silvestro in Capite, fu improvvisamente assalito da uno stuolo di armati, che lo gettarono a terra e lo ferirono gravemente, poi, d'accordo con Pasquale e Campulo, gli assalitori trascinarono il Pontefice nel convento di Sant' Erasmo.

Guarito delle sue ferite, per mezzo dell'aiuto di alcuni suoi familiari e del ciambellano Albino, Leone III riuscì ad evadere dal convento calandosi con una fune dalle mura claustrali e rifugiarsi a S. Pietro, da dove poi fu condotto a Spoleto dal duca GUINIGISO, accorso a Roma con una schiera di armati alla prima notizia del grave fatto. Da Spoleto fu mandata un'ambasceria a Carlo, per informarlo degli avvenimenti di Roma e del desiderio che aveva il Pontefice di conferire con lui. Il re rispose che se fosse stato libero sarebbe venuto in Italia; ma era impedito da una spedizione che stava per fare contro i Sassoni ribelli.

Allora Leone prese lui la via della Francia per avere un incontro con il sovrano.
Alla notizia del suo avvicinarsi, Carlo gli mandò incontro prima l'arcivescovo ILDIBALDO di Colonia e il conte ASCARIO, poi il figlio PIPINO con una schiera di soldati. Da questi il Pontefice fu accompagnato a Paderborn, dove giunse nel mese di luglio e fu accolto con grandi onori dal re e dall'esercito cui impartì la benedizione.
Nulla sappiamo dei colloqui avvenuti tra il re e il Papa, ma supponiamo che abbia chiesto al sovrano aiuto e protezione. Carlo non doveva certamente essere maldisposto dall'accordare al Pontefice quanto chiedeva; ma da Roma gli arrivarono le accuse contro il Papa e le richieste di indagare sulla sua -dicevano i maligni- indegna condotta, e che il re di Francia non poteva disinteressarsi di una faccenda così grave che gli dava occasione di confermare la sua alta autorità sugli affari di Roma e della Chiesa.

Naturalmente prima di prendere una risoluzione, Carlo si consigliò con uno degli uomini più dotti e più devoti alla sua persona, ALCUINO, il quale in proposito indirizzò al sovrano una lettera molto importante: "…Fino ad ora - scriveva il monaco ALCUINO - vi sono stati nel mondo tre potentati: il Vicario di San Pietro, oggi in modo sacrilego ingiuriato e malmenato; l'imperatore, laico, dominatore della nuova Roma (Costantinopoli), il quale in modo non meno barbaro, fu balzato dal trono, sul quale fu messa una donna; e infine la regia dignità di Gesù Cristo affidata a Voi per reggere il popolo cristiano. Essa ora sovrasta a tutti in sapienza e potenza. Dunque in voi è riposta la salute della Cristianità. Bisogna pertanto che prima pensiate a guarire il capo (Roma); dopo penserete a guarire i piedi (i Sassoni)…"

Alcuino alludeva in questa lettera agli avvenimenti di Costantinopoli. L'imperatrice Irene, esclusa dal governo per ordine del figlio COSTANTINO IV, era riuscita il 15 aprile del 797 a fare assalire il figlio da una masnada di armati che gli avevano strappati gli occhi e lo avevano chiuso in un convento; poi si era proclamata lei imperatrice, rivestendo le insegne e comunicando a Carlo della deposizione del figlio.

Carlo, pur costatando quanto di giusto vi era nel consiglio di Alcuino, non volle ritardare la spedizione contro i Sassoni; ma non volendo neppure che si prolungasse la situazione anormale di Roma, fece partire il Pontefice dandogli in compagnia gli arcivescovi di Colonia e di Salisburgo, cinque vescovi e tre conti, i quali avevano avuto incarico dal sovrano di processare gli autori e gl'ispiratori dell'attentato alla vita del Papa e di stabilire la verità sulle accuse che si movevano contro Leone III.

Il viaggio di ritorno del Papa fu trionfale; i personaggi che lo accompagnavano erano la prova del favore del re, e a Roma questo mutò talmente gli animi in favore del Pontefice che, quando il 29 dicembre di quello stesso anno giunse al ponte Milvio, gli vennero incontro il clero, i nobili, l'esercito e il popolo.
Leone III si recò a S. Pietro, dove impartì la benedizione, e il giorno dopo fece il suo solenne ingresso a Roma e dirigendosi al Laterano. Qui, finite le feste e le cerimonie, alcuni giorni dopo ebbe inizio il processo: Pasquale e Campulo, presentatisi, rinnovarono le accuse contro il Pontefice, ma non avendo potuto provarle e risultati i responsabili dei fatti del 5 aprile, furono arrestati e mandati in Francia. Dopo questo fatto ovviamente il processo fu sospeso, spettando al re di emettere la sentenza.

Carlo era trattenuto di là dalle Alpi dalle operazioni contro i Sassoni e dalle misure di difesa che era obbligato a prendere dalle incursioni dei Saraceni e dei Normanni. Un lutto colpi anche la sua casa il 4 giugno dell'800: morì la terza moglie legittima Liutgarda che aveva sposato dopo la perdita della seconda moglie, Fastrada, avvenuta il 10 di agosto del 994.

Nell'estate dell'800 il sovrano annunziò in un'assemblea tenuta a Magonza che presto si sarebbe mosso verso l'Italia. Due motivi ve lo chiamavano: il processo romano che aspettava di esser chiuso, e la ribellione di GRIMOALDO, figlio di Arechi. La partenza di Carlo avvenne nell'autunno: alla testa di un forte esercito mosse da Magonza e, passate le Alpi, si diresse verso Ravenna dove si fermò una settimana. Qui affidò parte delle sue truppe al figlio Pipino, che accompagnò il padre fino ad Ancona, poi lungo il litorale adriatico scese nell'Italia meridionale. Da Ancona, con il resto dell'esercito, il re si avviò alla volta di Roma. Lo accompagnava il primogenito CARLO.

Il 23 novembre giunse a Nomento, a quattordici miglia da Roma, dove gli andarono incontro il Pontefice, il Clero, il popolo, l'esercito; poi Leone III, rientrò in città. Il giorno dopo Carlo entrò solennemente in San Pietro, ricevuto dal Papa e da numerosi prelati tra una folla che applaudiva e cantava. Alcuni giorni dopo, il 1° dicembre, il re riunì nella basilica di S. Pietro una numerosa assemblea di arcivescovi, vescovi, abati, preti e nobili romani e franchi e disse di esser venuto, come Patrizio di Roma e difensore della Chiesa, per giudicare le accuse mosse contro il Pontefice e ristabilire l'ordine nella metropoli. Anche questa volta gli accusatori, che erano stati ricondotti a Roma dalla Francia, furono interrogati ma non riuscirono a provare le loro accuse. Invitati a decidere, i prelati si rifiutarono affermando che non era loro permesso di giudicare colui che era invece il loro giudice.

La seduta fu tolta senza aver deciso nulla, ma il 23 dicembre, nella chiesa di S. Pietro, al cospetto del sovrano, dei nobili, dei dignitari della Chiesa e del popolo, il Pontefice, salito sull'ambone, da cui circa due secoli e mezzo prima Pelagio I aveva giurato di non aver preso parte all'uccisione di papa Vigilio, giurò solennemente di essere innocente delle colpe che gli attribuivano i suoi accusatori. A quel giuramento la chiesa risuonò delle litanie cantate dal clero in ringraziamento a Dio e alla Vergine. PASQUALE, CAMPULO e i loro seguaci furono condannati per delitto di lesa maestà alla pena capitale che però per intercessione dello stesso Leone fu commutata in quella dell'esilio.

Due giorni dopo, nella ricorrenza del Natale, Carlo ascoltò in S. Pietro la messa celebrata dallo stesso Pontefice, poi si recò con lui alla tomba dell'Apostolo. Aveva il re finito appena di pregare e stava per levarsi in piedi quando Leone III gli pose sul capo una splendida corona d'oro, indi, inginocchiato davanti a lui, lo venerò.
Il popolo presente alla scena acclamò vivamente pronunziando per tre volte la formula delle incoronazioni imperiali: "Carolo, piissimo, augusto, a Deo coronato, magno pacifico imperatori vita et vittoria".
All'incoronazione di Carlo seguì l'incoronazione e la consacrazione del primogenito che portava lo stesso nome.

Molto si è scritto sull'incoronazione di Carlomagno, che è un importantissimo avvenimento, che inizia un'era nuova nella storia del mondo. Ci fu chi volle ridurre le proporzioni dell'evento ad una semplice ovazione preparata dal Pontefice per propiziarsi il re, ci fu chi affermò che diversa sarebbe stata la storia del mondo senza quell'incoronazione. Infinite discussioni furono provocate da un "passo" di EGINARDO in cui è detto che Carlo si mostrò così contrariato dall'atto compiuto dal Pontefice a insaputa sua, da dichiarare che se avesse potuto sospettarlo non sarebbe quel giorno entrato a S. Pietro ("tantum adversatus est, adfirmaret, se eo die, quamvis precipua festivitas esset, eeclesiam non intraturum, si pontificis consilium prescire potuisset").

Alcuni credevano che fosse un'invenzione l'affermazione di Eginardo, altri pensarono che lo sdegno del re fosse una commedia ben giocata per mascherare la sua ambizione; chi paragonò il re a Tiberio, il quale diceva, di voler ricusare l'impero che pur tanto desiderava, e chi trovò una certa analogia tra la cerimonia del natale dell'800 con la tentata incoronazione di Giulio Cesare da parte di Marc'Antonio e con quella di Cromwell che rifiutò la corona offertagli dal parlamento. Infine ci furono alcuni che vollero sostenere la legalità della proclamazione affermando che fu fatta dal Senato e dal popolo romano; ci furono altri, che, appoggiandosi su un passo di GIOVANNI DIACONO, pensarono che l'incoronazione fu preparata da Carlo e da Leone III nel convegno di Paderborn; altri ancora, prestando fede all'asserzione di Eginardo, lessero nello sdegno del re la preoccupazione per la posizione che l'autorità papale veniva ad acquistare di fronte alla dignità imperiale.

Tutti questi giudizi prestano evidentemente il fianco alla critica. La testimonianza di GIOVANNI DIACONO, per essere egli del nono secolo e non bene informato della quarta discesa in Italia di Carlo non merita una seria considerazione; d'altro canto EGINARDO è annalista troppo coscienzioso per non essere creduto. Il paragone con Cesare e Cromwel non regge per il solo fatto che questi rifiutarono la corona mentre Carlo l'accettò. Non regge neppure il tentativo di legalizzare la proclamazione di Carlo perché il Senato romano dell'800 è tutt'altra cosa del Senato dell'epoca imperiale e il titolo di senatore era puramente onorifico, da anni non contava assolutamente nulla.

Sulla pretesa preoccupazione del re per le possibili conseguenze dell'intervento del Papa ci piace riferire le acute osservazioni del ROMANO: "Che Carlo, nel suo presago istinto di uomo di stato, potesse, come fu detto, prevedere, che quell'intervento avrebbe potuto costituire un pericoloso precedente: che il papa sarebbe apparso come arbitro del conferimento della corona imperiale, ma è una considerazione e un apprezzamento tutto moderno, di cui non si trova alcuna traccia nelle fonti. I contemporanei, in generale, sono i meno adatti a comprendere l'importanza degli avvenimenti che si svolgono sotto i loro occhi, e nessuno, nell'anno 800, non esclusi coloro che ne furono gli attori principali, avrebbe previsto che da quella incoronazione romana cominciava una nuova Era nella storia d'Europa.

Fu solo più tardi, quando la dignità imperiale acquistò un'importanza di gran lunga superiore, e si arrogò dei diritti (teorici) illimitati su tutta l'Europa cristiana e quando di fronte ad essa si elevò la potenza della Chiesa, che pretese, in nome della sua missione spirituale, di assumere anche la direzione civile e politica della società umana; fu allora soltanto che venne a galla il grande equivoco che si celava nell'incoronazione romana di Carlo, e le menti degli storici e degli statisti, risalendo il corso dei secoli si fermarono al Natale dell'800 come al punto di partenza di tutto lo svolgimento posteriore. Allora accanto alla teoria dell'elezione popolare di Carlo sorse, grandeggiò e prevalse l'altra che faceva del papa il dispensatore dei regni e delle corone. Rimase d'allora in poi la convinzione che l'imperatore, se voleva esser tale e come tale esser legalmente riconosciuto, doveva ricevere la corona a Roma e riceverla dalle mani del successore di S. Pietro…".

(Perfino lo stesso Napoleone, pur non dando nessun peso ai precedenti, perché ripartì dall'autorità degli Imperatori Romani, scriveva, che non si era imperatori se non si passava prima da Roma (anche se in effetti "voleva" Roma!). Non perché era un religioso, ma perché da accorto uomo politico, sapeva che il cattolicesimo era legato a questo il Papa, e che la religione era nel Dna dei popoli.

Non per nulla Napoleone ha voluto essere consacrato dal Papa: non per un gesto vano, privo di qualsiasi intimo significato; non per un cerimoniale che, svuotato dal suo contenuto religioso, non avrebbe più ragion d'essere; ma, come gli imperatori del medio evo, eredi dell'autorità imperiale romana, Napoleone vuole l'unione e la collaborazione del temporale con lo spirituale: toglie il temporale allo spirituale, perché lo rivendica alla unica autorità capace di esercitarlo, quella imperiale, ma vuole anche giustificare e rafforzare il temporale con la consacrazione spirituale. Concetto nel quale rivive veramente tutta la tradizione Romana antica e moderna, la Roma dei Cesari e quella dei Pontefici, valere a dire, tutta la vera, profonda "romanità".
Concetto romano "nuovo", nel senso di una Roma cristiana che ha ereditato l'universalità della Roma classica, infondendogli un contenuto divino. Concetto, e anche su questo bisogna insistere, perché è rivelatore dell'eredità italiana del còrso Napoleone, che è affine a quello del Petrarca e di Dante, scrittori che Napoleone conosce poco, ma che egli lo ritrova inconsciamente in se stesso, poiché scaturisce dalle sue origini lontane, oseremmo dire quasi dal suo sangue, come una filiazione misteriosa. L'unico contrasto, fu quello che Napoleone voleva la sovranità su Roma, "perchè necessaria all'Impero" e non poteva questo concepirlo, con l'Italia senza Roma, indissolubilmente congiunte e al centro di quell'Impero che N. voleva ricreare nel Mediterraneo; senza Roma il suo non era un Impero! Visto che guardava e concepiva quello Romano.
Napoleone (qui la sua ostilità) voleva che il Papa rendesse a Cesare quello che era di Cesare. "Non sarò il Carlomagno" -scrisse ad Eugenio- non siamo al secolo IX, e nemmeno sarò il Louis le debonnaire". (Il Luigi di Francia bonaccione)
E facciamo notare che -come territori- la situazione era quasi la stessa di quella di Carlomagno. Invece molto più agguerriti, i nemici, erano grandi Potenze).

Se si vuole prestar fede ad ogni costo alla notizia di EGINARDO, non si deve però dare alle sue parole un'interpretazione letterale e concludere con il dire che CARLO era all'oscuro delle intenzioni del Pontefice e non ambiva alla dignità imperiale. Se non l'avesse desiderata o voluta avrebbe potuto benissimo imitare il gesto di Cesare e rifiutare la corona.
Non la rifiutò, né per sé né per il figlio, perché la desiderava e perché più volte, con molta probabilità, aveva pensato a farsela dare, e ne aveva parlato con i suoi consiglieri e forse - perché no ? - con il Pontefice medesimo.

Se non imitò Cesare ciò fu perché diversi erano i tempi e le condizioni. Giulio Cesare accettando la corona, avrebbe commesso un atto rivoluzionario pericolosissimo, perché se le libertà repubblicane erano di fatto cessate, non erano state abolite le istituzioni della gloriosa repubblica, non era finito il culto di essa presso i Romani e ispirava un'avversione inconscia il titolo di monarca. In prima fila Tacito.
Napoleone con Tacito fu implacabile proprio per questa sua vocazione fortemente critica, e difese gli imperatori contro lo storico -scrive- che "li ha sistematicamente denigrati....non ha capito l'impero e ha calunniato gli imperatori -come non avevano capito gli assassini di Cesare- Tacito è della minoranza del vecchio partito di Bruto e Cassio. E' un senatore scontento, uno che si vendica quando è nel suo studio con la penna in mano" - Napoleone lo disprezza, lo paragona a quegli intellettuali dei ritrovi e dei salotti.... che "ci racconta tutti i mali degli imperatori, ma non una sola cosa ben fatta da questi. Sì, penetra nella loro anima, ma solo per rivelarci che sono di natura malvagia".

"Conoscete voi un più violento e più ingiusto detrattore della umanità? Alle azioni più semplici trova mille motivi colpevoli. Fa di tutti gli imperatori uomini profondamente perversi, per farsi ammirare il suo genio che ha saputo penetrarli... Ha ragione chi afferma che i suoi annali non sono una storia dell'impero, ma uno specchio fedele dei tribunali di Roma...Lui che parla continuamente di delazione è il primo dei delatori". (Napoleone, Memoriale di San'Elena).

Mille anni prima forse pensava le stesse cose Carlo. Ma diversa invece era la situazione. Egli era re dei Franchi e dei Longobardi, era il sovrano di quasi tutto il territorio che aveva una volta formato l'impero d'Occidente, e l'idea imperiale era sempre viva in Italia e specialmente a Roma. Era, sì, finito da oltre tre secoli quest'impero ed era solo rimasto quello d'Oriente, di cui l'Italia ancora, almeno teoricamente, faceva parte; ma bisognava pensare che sul trono di Costantinopoli c'era una donna, che l'aveva usurpato e si era macchiata del sangue del figlio, che una donna non aveva mai esercitato legalmente il potere imperiale e che perciò l'impero si poteva considerare vacante.

E Carlo era patrizio di Roma e se anche questa fosse stata ancora effettivamente alle dipendenze di Costantinopoli cadeva l'obbligo di subordinazione del patriziato all'impero una volta che illegale era la posizione di chi lo reggeva.
Queste del resto sono considerazioni che, anche se fatte da Carlo o dai consiglieri o dal Pontefice, forse non potevano avere gran peso sugli avvenimenti. La verità è che Roma era ormai -psicologicamente e di fatto- sciolta da ogni legame con Costantinopoli, che il vero padrone di Roma e di gran parte dell'Italia era Carlo, che l'impero bizantino non faceva più paura, che Carlo era in quel momento il monarca più potente del mondo, che lui era il difensore vero della Cristianità e il protettore della Chiesa, che insomma nelle sue mani "stava la forza" e appunto per questo motivo solo lui era in grado di disporre di un titolo come aveva disposto delle sorti di Roma e dell'Europa occidentale.

Per concludere noi pensiamo, confortati dall'opinione di altri, che Carlo aveva da tempo pensato di assumere la dignità imperiale, che ne aveva fatto parola ai suoi consiglieri, che il Pontefice, se non dalla bocca di lui, era venuto a conoscenza del proposito di Carlo dalla bocca delle persone che stavano vicino al sovrano, che infine Leone III, impaziente di offrire a Carlo la propria riconoscenza di averlo salvato da una critica situazione, affrettò, di concerto con gli intimi del re, la cerimonia dell'incoronazione stabilita forse per una data indeterminata. Nelle parole di EGINARDO noi vediamo, anziché lo sdegno, la sorpresa del re franco; e sorpresa lieta sia per la grandiosità della cerimonia sia perché questa coronava i suoi desideri e realizzava quei disegni che senza dubbio fin dal 774 aveva formulato.

RIORDINAMENTO D'ITALIA - ISTITUZIONI FRANCHE
ORDINAMENTO DELLO STATO CAROLINGIO

Carlomagno si fermò a Roma tutto l'inverno, durante il quale attese a dare assetto alle cose di Roma, del Papa e d'Italia, non solo ecclesiastiche ma pubbliche e private ("ordinatis deinde Romance urbis et apostolici totiusque Italiae non tantum publicis sed etiam ecclesiasticis et privatis rebus").
Fondamento della concezione carolingia dell'Impero è fin dal primo momento la compenetrazione di Stato e Chiesa che si manifesta con la stretta associazione tra doveri religiosi e obblighi civili. Tutti i sudditi, dall'età di 12 anni, prestano giuramento di fedeltà all'imperatore: in esso è precisato che il fedele deve servire Dio, obbedire ai comandamenti della Chiesa, sottostare al servizio militare, pagare l'imposta e accettare il "banno" espressione della pubblica autorità.

È di questo tempo una seconda spedizione comandata da Pipino contro il ducato di Benevento. La prima non aveva avuto esito felice a causa di una pestilenza scoppiata fra le truppe franche; quest'altra portò alla presa di Teate (Chieti), che fu data alle fiamme, e dei castelli del suo territorio. Roselmo, comandante di Teate, fu fatto prigioniero e relegato in Francia.

Dopo la Pasqua dell'801, l'imperatore lasciò Roma e per Spoleto e Ravenna si recò a Pavia dove giunse nel giugno. Qui assunse il titolo di "Serenissimo, augusto, coronato da Dio grande, pacifico imperatore dei Romani, e re, per grazia divina, dei Franchi e dei Longobardi". Accanto a questo titolo troviamo, per la prima volta, nel "Capitolare Italicum" dell'801, quello di "Rex Italiae". Questo "Capitolare" fu pubblicato a Pavia e servì a colmare le lacune lasciate dagli editti dei re longobardi.

Forse nello stesso anno fu compiuta l'opera di riordinamento dell'Italia, iniziata già da circa cinque lustri. Il mutamento più importante fu la sostituzione dei duchi longobardi con i conti franchi: i gastaldi e gli sculdasci, con il nome di "vicarii" e di "centenarii", rimasero come semplici amministratori dei conti. Nel riordinare il regno Carlo mirò a rendere più forte ed unito il governo, a scemare la potenza e l'autonomia dei ducati, e a procurarsi la devozione dei sudditi. I beni confiscati ai ribelli li diede a suoi fedeli chiamati "vassalli", che dipendevano direttamente da lui ed erano scelti tra i Franchi. Sui conti, sui vassalli e sulle persone del loro seguito, stabiliti in numero non poco in Italia, Carlomagno contava moltissimo e su di essi egli fece il contrappeso all'aristocrazia longobarda, che cercò di attirare sempre più a sé.

Non meno che sui conti e sui vassalli l'imperatore contava sul favore del clero. Lo chiamò a partecipare ai consigli regi ed alle assemblee nazionali, allargò la giurisdizione vescovile, ingrandii beni delle chiese e dei monasteri e alle chiese accordò l' "immunità", l'esenzione cioè dai carichi pubblici e l'amministrazione della giustizia nei territori di loro proprietà.
Base dell'ordinamento amministrativo sotto i Carolingi in Italia, come del resto in tutte le altre parti del vasto impero, fu il "comitato". Le contee dipendevano direttamente dal re ed erano rette dai conti ("comites"), che ne avevano l'amministrazione, tenevano il comando militare e, per delegazione del sovrano, rendevano nei casi più importanti la giustizia. Il conte radunava, non più di tre volte l'anno, in assemblea generale ("placitum generale"), gli uomini liberi della contea e qui giudicava; ma nei casi ordinari era assistito da magistrati di sua scelta detti "scabini", che da temporanei divennero in seguito permanenti. Contro le sentenze del conte c' era facoltà di appello al giudizio di Dio e al re.

Ufficiali intermedi che servivano di collegamento tra il governo centrale e quello delle contee e nello stesso tempo di controllo all'operato dei conti, erano i "missi dominici". Questi avevano giurisdizione sui conti, sui vicari, sui vassalli, sui vescovi e sugli abati, ricevevano il giuramento di fedeltà al sovrano, vigilavano sull'esecuzione dei capitolari, curavano che i rappresentanti dell'autorità ecclesiastica vivessero d'accordo con quelli dell'autorità civile, reprimevano gli abusi, sorvegliavano l'amministrazione della giustizia, ispezionavano le opere di pubblica utilità e ne curavano i restauri.

Perché fosse meglio regolata l'opera dei "missi" l'impero era diviso in "missatica" che riunivano un certo numero di contee corrispondenti ad un numero pari di province ecclesiastiche. A ciascuno di questi raggruppamenti erano assegnati ogni anno due "missi", uno laico ("conte"), l'altro ecclesiastico ("vescovo o abate"). Il messo ecclesiastico sorvegliava la disciplina del clero e visitava le chiese, i monasteri e gli ospizi dei pellegrini. I "missi dominici" approvavano la nomina degli scabini, punivano gli abusi, e tenevano nei territori che erano sotto la loro giurisdizione assemblee ("placita missuum"), che erano veri e propri tribunali d'appello.

Altro ufficio dei "missi" era quello di sorvegliare sull'adempimento dell'obbligo del servizio militare ("eribanno"). Da questo servizio erano esclusi soltanto i poveri. Dovevano invece prestarlo tutti coloro che, pur non possedendo beni immobili, avevano un reddito superiore a cinque solidi e tutti i possessori di beni stabili purché questi fossero superiori a tre mansi di terra. Quelli però che possedevano di meno non è che erano esenti dal servizio, ma se i loro beni uniti insieme formavano tre mansi di terra avevano l'obbligo di scegliere tra loro un soldato. Tutti quelli che erano chiamati alle armi dovevano provvedersi a spese proprie di armi, di vesti e di viveri per tre mesi, e solo durante il viaggio avevano diritto al fuoco, alla legna, all'acqua e al foraggio.
Quello del servizio militare, per le pene comminate ai ritardatari e per le spese che richiedeva, era uno degli oneri maggiori, di cui specialmente risentivano i piccoli proprietari, i quali, per sfuggirlo, si liberavano dei loro beni e li cedevano alle Chiese o a potenti signori che 1i riconsegnavano a loro a titolo di beneficio. Crescendo a dismisura - con questo sotterfugio- il numero dei beneficiari, Carlomagno impose l'obbligo del servizio militare.

Non era questo solo il peso che gravava le popolazioni dell'impero; altri pesi erano costituiti dalle prestazioni personali ("angariae"), dalle prestazioni di cavalli, di carri, di viveri e di foraggio, dalle tasse di pedaggio sulle vie e sui ponti, dai dazi che si pagavano nei porti, nei mercati e alle porte delle città.

Nonostante questi pesanti oneri, la vita economica italiana non languì sotto Carlomagno. Si assottigliò, è vero, il numero dei piccoli proprietari ed ebbe grande sviluppo il sistema curtense, specialmente con le donazioni fatte da Carlo a Chiese e monasteri e con i "beneficia" dati a conti e vassalli; ma l'organizzazione di questo sistema andò sempre migliorando e diede impulso all'agricoltura e all'industria, ai mercati e agli scambi e origine a numerosi centri economici la cui attività, sebbene alimentata dal lavoro servile, non mancherà di produrre conseguenze benefiche in ogni campo dell'economia. Il contesto era insomma tranquillo. Del resto a nessuno poteva venire l'idea di venire alle armi con l'ex re dei Franchi, che ora non aveva rivali.

LE VICENDE Dl VENEZIA NEL SEC. VIII
TRATTATIVE TRA AQUISGRANA E COSTANTINOPOLI
PERSONALITÀ STORICA DI CARLOMAGNO

La vasta estensione dell'impero franco e l'irrequietezza delle popolazioni confinanti rendevano necessaria una sorveglianza continua ed oculata delle frontiere. A questo Carlomagno provvide con l'istituzione delle "marche", territori di confine, più grandi delle contee, posti sotto il governo di un capo civile e militare detto marchio ("marchese").
La prima marca pare che fosse quella di Brettagna; vennero poi quella di Spagna, diretta contro i Mori, quella danese tra l'Elba e l'Eider contro i Danesi e gli Abotriti, quella di Baviera contro gli Avari, quella di Sorabi contro i Czechi e i Boemi e quella del Friuli.

Ma non solo le frontiere terrestri avevano bisogno di difesa. Maggiormente esposte agli attacchi nemici erano le coste dell'impero. Quelle della Manica e del Mare del Nord cominciavano ad esser la mèta delle audacissime incursioni dei Normanni, che solcavano i mari sopra veloci legni dalla Norvegia e, saccheggiati i paesi costieri, i castelli e le campagne, se ne ripartivano portandosi dietro ricchi bottini. Non meno audaci e nocivi dei Normanni erano i Saraceni della Spagna e dell'Africa che desolavano le coste della Settimania, della Provenza, della Liguria, della Toscana e del Lazio e le isole di Corsica e di Sardegna, nominalmente sotto il dominio bizantino, ma di fatto abbandonate a se stesse ed alla selvaggia avidità dei corsari mori o di ogni specie.

Per difendere le coste dell'Impero dalle scorrerie dei Normanni e dei Saraceni, Carlomagno fece allestire delle piccole flotte e munì di fortini e di navi i porti e le foci dei fiumi. Basi della difesa costiera del nord furono Gand e Boulogne, del sud le foci del Rodano e della Garonna, Marsiglia, Genova e forse Pisa. Da questi ultimi porti forse nell'806 e nell'807 partirono le flotte mandate da Pipino e da Carlomagno a difesa della Corsica.
Sentinelle erano poste nelle vedette costiere, che scrutavano l'orizzonte e dovevano dare l'allarme quando il nemico era in vista e allora era fatto obbligo a tutti gli uomini liberi del territorio che era minacciato, di correre prontamente alle armi sotto pena di multe che giungevano alla cifra di venti solidi.

Mentre attendeva all'organizzazione difensiva e al riordinamento dell'impero, Carlo non trascurava le relazioni politiche con gli stati esteri, fra i quali in prima linea stava l'impero d'Oriente. A Carlomagno premeva vivere in pace con Costantinopoli, da dove poteva ricever noie e come usurpatore della dignità imperiale e come signore dei territori italiani che erano stati una volta dei Bizantini. Forse anche a lui sorrideva l'idea di unire in un solo i due imperi conducendo in matrimonio l'imperatrice IRENE, la quale certo non avrebbe opposto un rifiuto nelle condizioni critiche in cui si trovava.

Che Carlo vagheggiasse tale idea lo scrive lo storico greco TEOFANE. Era da poco Carlomagno tornato dall'Italia ad Aquisgrana quando gli giunsero gli ambasciatori di Irene, la quale chiedeva protezione contro i nemici interni che volevano cacciarla dal trono e proponeva di definire i confini dell'Italia meridionale. Carlo inviò, a sua volta, due legati che avevano anche l'incarico di chiedere la mano dell'imperatrice; ma quando giunsero a Costantinopoli Irene già soccombeva ad una congiura, di cui era capo il logoteta NICEFORO. Questi nella notte dal 30 al 31 ottobre dell'802, invadeva con i congiurati la reggia e, strappata dal potere Irene la esiliata nell'isola di Lesbo dove l'anno dopo doveva morire, e si proclamava imperatore.

NICEFORO era l'esponente del partito iconoclasta contrario alla riunione delle chiese orientali ed occidentali, ed agli accordi con i Franchi, tuttavia non troncò le trattative iniziate da Irene, né protestò contro Carlo per l'assunzione del titolo imperiale. La politica di Niceforo era una conseguenza delle condizioni in cui si trovavano il nuovo imperatore e l'impero: lui aveva non pochi nemici interni, e l'impero era minacciato dai Bulgari che, passato il Danubio, si spingevano fin sotto la capitale, e dai Mussulmani d'Asia che, guidati dal famoso Califfo Harun er-Rascid, avevano raggiunto il massimo della loro potenza.

In tali condizioni NICEFORO non volle attirare contro di sé un altro nemico e fece accompagnare i legati di Carlo in Francia dal metropolita MICHELE, dall'abate PIETRO e da un ufficiale di nome CALISTO, i quali avevano l'incarico di stipulare un patto d'amicizia tra i due imperi.
Le trattative furono cordiali, ma un vero e proprio accordo si raggiunse solo parecchi anni dopo.
Caduta Irene e sfumata la possibilità di riunire l'Occidente e l'Oriente in un unico impero, Carlo non aveva più l'interesse di affrettare l'accordo con Niceforo, dal quale, del resto, nulla aveva da temere per la precarietà della sua posizione e per i progressi dei Mussulmani; anzi ora inaugurava una nuova politica, mettendosi in relazione con il Califfo d'Oriente ed assumendo la protezione dei cristiani sottoposti alla sovranità degli Arabi.

A lui, più che alla corte bizantina, guardavano quei cristiani in Italia fin da quando era sceso e soggiornato a Roma, ambasciatori inviati dal patriarca di Gerusalemme gli avevano portato le chiavi del Santo Sepolcro e quelle della città insieme con il vessillo della Chiesa gerosolimitana. Da allora Carlomagno si era messo in contatto con il Califfo Harun er-Rascid, che, come lui, proteggeva le lettere e le arti ed alle cui orecchie era pervenutala fama delle gesta e della potenza dell'imperatore d'Occidente.

I rapporti tra i due grandi sovrani continuarono ininterrotti e cordiali fino alla morte del Califfo avvenuta nell'809 con scambi di doni e di ambascerie, e furono questi rapporti che più tardi diedero origine alla leggenda di un viaggio di Carlo in Palestina. Di un altro viaggio di Carlomagno in Alessandria parlano anche le leggende e questo sta dimostrare che non solo con il principe Abassida il re franco ebbe rapporti, ma anche con altri principi mussulmani come il sultano d'Egitto e l'emiro di Cartagine.

Questa che Carlo seguiva con i potentati d'Asia e d'Africa, era una politica che non poteva far piacere alla corte bizantina; tuttavia le relazioni tra i due imperi non si alterarono in questo periodo.
Dovevano però deteriorarsi più tardi, e la causa del conflitto fu Venezia.

La potenza dei Veneziani era già cresciuta a tal punto che il doge ORSO (il 3°) sotto il regno di LIUTPRANDO, aveva strappato il "Trattato di Anafesto" (1° doge di Venezia) di convivenza pacifica fra longobardi e i rifugiati nelle isole della laguna a Grado e a Eraclea, ultimo grosso centro degli esuli dopo la famosa fuga da Aquileia, e si era messo contro i Longobardi.
Questo perché il re Liupdrando nel 729 aveva attaccato l'Esarcato e la Pentapoli, che però fu respinto proprio dalle forze venetiche che erano accorse dal mare a difendere i territori bizantini. L'azione bellica trovò l'ammirazione di Bisanzio ed Orso ricevette la nomina di "IPATO" ("console"). Ed era quello che aspettavano i Veneziani per rendersi finalmente più indipendenti; del resto se prima erano loro ad essere protetti (con un "magistri militum" nominato dall'esarca di Ravenna - ed era una protezione più nominale che di fatto) dopo furono i veneziani a proteggere i territori bizantini.
Riuscendo a portar via Ravenna ai Longobardi, tutto il commercio dell'Adriatico era in mano dei commercianti di Eraclea e di Malamocco ed erano solo più loro che esercitavano gli scambi tra l'Oriente e il Veneto, il Friuli e la Baviera.- Del resto sia i Longobardi prima, che i Franchi poi, entrambi non avevano nessuna vocazione per il mare. Anzi i Longobardi av evano una vera e propria fobia. Nei duecento anni di regno, nelle città costiere in loro possesso scomparirono tutti i piccoli e i grandi cantieri navali. E proprio per questo - non possedendo navi - che le roccaforti bizantine in Italia furono proprio quelle città che avevano degli ottimi e strategici porti.

ORSO era stato assassinato nel 737 e per cinque anni, fino al 741, aveva governato un maestro dei militi che risiedeva ad Eraclea e durava in carica un anno. L'ultimo maestro dei militi, Giovanni, era stato accecato e deposto nel 741 e l'anno dopo era stato ripristinato il dogato ed eletto a questa carica DIODATO, figlio di Orso, che a sua volta, nel 755, era stato sbalzato e privato della vista. Sorte eguale i dogi GALLA nel 756 e DOMENICO MONEGARIO otto anni dopo. Le isole della laguna erano straziate dalla incessante lotta delle famiglie tribunizie delle quali alcune parteggiavano per i Bizantini, altre per i Longobardi, altre più tardi per i Franchi. Più fortunato degli altri dogi era stato MAURIZIO GALBAIO che era riuscito a conservare a Venezia la sua indipendenza e a ben governare fino alla morte, avvenuta del 787.
(vedi tutti i 120 dogi di VENEZIA - e la loro biografia)
(in VENEZIA DALLA SUA FONDAZIONE)

Sotto il governo di suo figlio, Giovanni, il partito che si appoggiava ai Franchi aveva fatto rapidi progressi. I Franchi guardavano con occhio cupido alle isole della laguna ed avrebbero volentieri esteso su queste il loro dominio.
Occasione di intervenire nelle cose di Venezia diede ben presto ai Franchi un dissidio sorto tra il doge e il patriarca di Grado. Giovanni fece assalire con alcuni legni l'isoletta di Grado dal figlio Maurizio, e il patriarca, fatto prigioniero, fu precipitato dalla sommità di una torre.

Il dissidio si inasprì con il patriarca successivo, Fortunato da Trieste, il quale, per non fare la stessa fine del suo predecessore, fuggì e, recatosi a Selz, dove era stato convocato il placito imperiale, chiese la protezione di Carlomagno (802). Poco tempo dopo una rivolta popolare sbalzava Giovanni e Maurizio ed eleggeva doge il tribuno OBELERIO di Malamocco, ardente fautore dei Franchi, che si associò al governo il fratello Beato.

Ora sulla vita politica di Venezia i Franchi esercitano un'influenza predominante. Fortunato ottiene il vescovado di Pola da cui tornerà più tardi, per favore di Carlo, al patriarcato di Grado, e Giovanni che va in Francia a chiedere la protezione dall'imperatore, riceve un rifiuto. Nell'806 i due dogi OBELERIO e BEATO con alcuni legati della Dalmazia partono e vanno a fare atto di sottomissione a Carlomagno.

L'impero d'Oriente aveva avuto fino allora una sovranità puramente nominale su Venezia. Ma caduta sotto il potere dei Franchi i bizantini tentarono di riprendersela; fu così che i due imperi entrarono in conflitto.
L'impresa fu affidata al patrizio NICETA. Questi, sul finire dell'806, invase con una flotta le acque dell'Adriatico e, riacquistata la Dalmazia, mosse su Venezia, intorno alla quale pose il blocco. La presenza delle forze bizantine contro le quali i Franchi non potevano opporre una flotta, fece rialzare il capo a quella delle fazioni veneziane che parteggiava per Costantinopoli; OBELERIO (IX doge), per mantenersi al potere, si dichiarò per i Bizantini e rimase al governo con il titolo di Spatario; Pipino dovette stipulare una tregua di due anni, dopo di che Niceta tornò a Costantinopoli recando con sé alcuni ostaggi.

Spirata la tregua, una nuova flotta comparve nelle acque della laguna: la comandava Paolo, il quale fu meno fortunato di Niceta. Un tentativo suo di impadronirsi di Comacchio, presidiata - come pare - dai Franchi, fallì per la valorosa resistenza della guarnigione; fallirono le trattative incominciate con Pipino a causa della condotta ambigua dei dogi e allora Paolo fece ritorno in Costantinopoli.

Abbandonati dai Bizantini, i Veneziani furono bersaglio della collera di Pipino (che non era di certo un marinaio), il quale, radunata a Ravenna una forte flotta, la spedì contro le isole della laguna. Ben presto Eraclea, Jesolo, Chioggia e Palestrina caddero in potere dei Franchi; Malamocco, sede del governo, minacciata dal nemico fu sgombrata dalla popolazione che si trasferì a Rialto la quale offriva maggior sicurezza, e, quando i Franchi s'impadronirono di Malamocco, la trovarono deserta.

Allora i Franchi (montanari) tentarono d'impadronirsi di Rialto, ma il loro tentativo non ebbe fortuna. Caddero in un clamorosa trappola tesa dai futuri Veneziani, che di mare ne sapevano pur qualcosa da oltre mille anni.

Ignorando che durante la bassa marea le acque della laguna decrescono di oltre un metro, furono tratti in inganno da Vittorio d'Eraclea, comandante della flotta veneziana, il quale mandò contro il nemico una flottiglia di piccole barche con l'ordine di simulare la fuga dopo il primo attacco. Così fu: le grosse navi di Pipino si diedero all'inseguimento, ma sorprese dalla bassa marea rimasero paralizzate ed esposte ad un tiro micidiale di frecce e di sassi e ad un lancio nutrito di pece infiammata che produssero gravissimi danni all'armata franca.
Ancora oggi quella zona è chiamata "il canale dell'orfano", e i franchi a casa ne lasciarono molti di orfani.

Malgrado questa vittoria ed altri successi riportati dai veneziani, la guerra non finì davanti alle armi di Pipino. Se queste a viva forza non riuscirono a vincere gli isolani protetti dalla natura stessa del teatro delle operazioni li vinsero con un blocco che ebbe la durata di alcuni mesi e costrinse i Veneziani ad accettare il dominio franco e a pagare un tributo annuo.

Meno felice fu l'impresa del figlio di Carlomagno contro la Dalmazia, dal momento che la sua flotta dovette tornare alle basi per l'improvviso sopraggiungere di un'armata bizantina comandata dal prefetto di Cefalonia.

L'anno stesso in cui Venezia si sottometteva a Pipino, lui cessava di vivere (8 luglio dell'810) e veniva sepolto a Milano nella basilica di Sant'Ambrogio. Contava trentatrè anni ed aveva fornito prove di grande valore combattendo con gli Avari prima e con Grimoaldo di Benevento poi. Nelle guerre contro quest'ultimo, la fortuna non gli era stata propizia. Aveva trovato nel duca beneventano un nemico degno, animoso e tenace, il quale finché visse tenne testa ai Franchi e conservò l'indipendenza al ducato. Morto lui (806) e successogli un altro Grimoaldo, la guerra tra Beneventani e Franchi doveva trascinarsi pigramente fino all'812 e il ducato doveva fatalmente avviarsi verso la decadenza.

Il relativo felice esito della guerra fatta da Pipino ai Veneziani, aveva avuto l'effetto della ripresa delle trattative fra l'impero d'Oriente e quello d'Occidente. NICEFORO, infatti, aveva inviato a Milano un ambasciatore di nome ARSAFIO perché promuovesse un accordo con Pipino, ma quando il messo imperiale giunse in Italia Pipino era già morto. Arsafio proseguì per Aquisgrana per incontrarsi con Carlomagno e lo trovò disposto ad un accordo. Carlo chiedeva solo di essere riconosciuto imperatore e in cambio cedeva ai Bizantini, Venezia e le città marittime della Dalmazia e della Liburnia. Stabiliti i preliminari della pace, Carlomagno inviò a Costantinopoli, per far conoscere nei dettagli a Niceforo l'accordo, il conte di Tours, Ajone del Friuli e Aido vescovo di Basilea.

Questi passando da Venezia presero in ostaggio il doge Obelerio e al suo posto fu innalzato un nobile di Eraclea, di famiglia tribunizia, ANGELO PARTICIACO (Anhelo Partecipazio). Che di sua iniziativa trasportò la sede del governo definitivamente a Rivolto (Rialto) che - rafforzando con vari materiali la base dell'isola (tuttora in profondità esistenti) costituì il primo nucleo della città di Venezia (811).
Rivoalto fu così consolidato e così pure la parte occidentale dell'Olivolo, dove fu eretto il primo bastione con ponte levatoio e che divenne successivamente il palazzo dogale. Con la benedizione di Ludovico il Pio (ancorchè da Fortunato, patriarca di Grado insediatosi all'Olivolo), sotto Angelo nasce pure la prima zecca veneziana; le monete riportano la scritta "RIVOALTI".
(Rammentiamo che già ad Aquileia nel 293 d.C esisteva un'importante zecca, con tre officine per coniare monete romane).
Con questo trasferimento a Rialto, Costantinopoli tacque. E Venezia inizia la sua avventura oligarchica. I Partecipazi fondarono, infatti, una dinastia; uno dietro l'altro tre dogati. Gli altri nobili "patrizi" a quel punto si allarmarono, temevano la dittatura di una monarchia ereditaria, il che voleva dire cadere dalla padella alla brace, altro che indipendenza. All'inizio si era convenuto che ci si dava un doge per "fisc-ci de boca"- ovvero per acclamazione del "popolo sovrano"; anche se dobbiamo chiarire che questo "popolo" era limitato a poche"schiatte" (un centinaio) dalle quali era escluso il volgo e l'artigianato.

Fu sotto il governo di questo doge Angelo, che sorse la leggenda dell'approdo di S. Marco all'isola di Rialto, costretto a prender terra da una tempesta mentre si recava ad Aquileia per predicare la religione di Cristo. In quell'isola secondo la leggenda, apparve all'Evangelista un angelo che gli disse le parole che poi divennero il motto del vessillo veneziano: "Pace a te, o Marco, evangelista mio". In proposito osserva il Bertolini: "Il carattere politico di questa leggenda appare manifesto. Dal momento che Rialto era stata scelta come sede di Governo, bisognava cercare che il mutamento non facesse nascer gelosie da parte delle altre isole, e fosse quindi cagione di dissidi interni. La religione fu chiamata a questo ufficio di pace e di concordia: e fu forse questa la prima volta che essa prestò servizio alla politica senza offendere l'officio e il servizio suo" .
Ma lasciamo Venezia, che fra poco si rende totalmente indipendente e inizia un suo particolare governo, unico in Europa per oltre mille anni, e proseguiamo con Carlo Magno.

Quando, gli ambasciatori di Carlomagno con le proposte della cessione di Venezia, giunsero a Costantinopoli, Niceforo era già morto: lo avevano ucciso il 26 luglio dell'811 sotto la tenda mentre stava accampato contro i Bulgari. A Niceforo era successo il fratello MICHELE I, il quale accolse benevolmente gli ambasciatori franchi, approvò i preliminari di pace e fece accompagnare in Francia i legati dal metropolita MICHELE di Filadelfia e dai protospatari ARSAFIO e TEOGNOSTO.
La cerimonia della stipulazione del trattato avvenne nella chiesa di Santa Maria in Aquisgrana e l'atto fu firmato da tutti i dignitari laici ed ecclesiastici della nazione. In quell'occasione i messi di Michele salutarono Carlomagno con il titolo di "basileus". Da Aquisgrana gli ambasciatori bizantini si recarono a Roma per sottoporre il trattato alla firma del Pontefice, poi ritornarono a Costantinopoli accompagnati, per ordine di Carlo, da AMALARIO vescovo di Treviri e da PIETRO abate del monastero dei SS. Apostoli che dovevano ricevere la ratifica dall'imperatore d'Oriente.

Carlo era vecchio e dopo tante vicende e tante guerre poteva finalmente godersi quella pace che le armi e la politica gli avevano preparata. Ma la pace non era immune dalle preoccupazioni per l'imperiale vegliardo, che aveva riunito sotto il suo scettro gran parte dell'Europa e voleva -questa era la prima preoccupazione- che il suo vasto impero non si disgregasse dopo la sua morte. Già fin dall'806 aveva rivolto il pensiero alla successione.
È infatti, del 16 febbraio di quell'anno l'atto promulgato alla dieta di Diedenhofen. In questo l'imperatore assegnava a PIPINO l'Italia, la Baviera e parte dell'Alemannia, a LUDOVICO l'Aquitania, la Guascogna e parte della Borgogna, il resto dei suoi domini li assegnava al primogenito CARLO, e si riservava (ed era quasi deciso) di dargli anche la dignità imperiale.

L'atto conteneva precise e particolareggiate disposizioni per la successione nel caso che qualcuno degli eredi morisse; e il caso si era verificato mentre il testatore era ancora in vita. Nell'810 - abbiamo detto - era morto PIPINO che lasciava cinque figlie e un figlio illegittimo, BERNARDO; e il 4 dicembre dell'811 era morto anche CARLO senza figli. Al governo d'Italia Carlomagno aveva provveduto nominando reggenti alcuni "missi dominici" tra cui il cugino ADALARDO, e nell'812 aveva designato re BERNARDO, sedicenne, mandandolo in Italia in compagnia di WALA, fratello di ADALARDO.

Nel settembre dell'813 l'imperatore volle procedere definitivamente alla successione. Non gli rimaneva che un figlio legittimo, LUDOVICO d'Aquitania: convocato nello stesso mese una grande dieta ad Aquisgrana, Carlo proclamò suo successore nell'impero il figlio e l'11 di settembre, nella chiesa di Santa Maria, Ludovico prese dall'altare con le sue stesse mani la corona e se la pose in testa. Molti storici sostennero che Carlomagno ordinando al figlio di incoronarsi, voleva che non si ripetesse la cerimonia del Natale dell'800 e che s'impedisse per l'avvenire di ipotizzare che i Pontefici avessero diritto d'incoronare gli imperatori (Napoleone, sapeva anche questo!)

Quattro mesi dopo, il 28 gennaio dell'814, Carlomagno moriva.
Contava settantun anni; aveva regnato quarantasette anni in Francia, quarantatrè in Italia e da quattordici anni portava il titolo d'imperatore. Fu sepolto nella magnifica basilica di Santa Maria in Aquisgrana ch'egli stesso aveva fatto costruire sul modello delle chiese del Santo Sepolcro di Gerusalemme e di San Vitale di Ravenna, e sulla sua tomba fu messa l'epigrafe: "Magnus atque ortodoxus Imperator".

"Carlo - così lo dipinge EGINARDO - era alto e robusto di corpo, aveva gli occhi grandi e vivaci, il naso lungo, i capelli folti e l'aspetto amabile e sorridente. Un'aria di dignità e di grandezza spirava da tutta la sua persona, ed era così ben proporzionato che non si distinguevano certi suoi difetti fisici quali la grossezza del ventre e del collo.
Era grave nel camminare e virile nell'atteggiamento. L'equitazione e la caccia erano le sue occupazioni preferite. Appassionato del nuoto, vi acquistò tanta abilità da non temere di esser superato da nessuno. Sobrio, evitò tutti gli eccessi della gola, specie quello del bere, e il suo desinare si componeva di solito di quattro vivande. A mensa gli piaceva udire una lettura o una recita di fatti storici. Sant'Agostino era l'autore che preferiva e provava gran diletto alla lettura della "Città di Dio". Amante del bene altrui più che del proprio, egli rendeva giustizia in qualunque ora del giorno; sensibile alle miserie degli altri, non solo aiutava i popoli del suo regno, ma soccorreva anche i cristiani bisognosi di ogni parte del mondo e se cercava vivamente l'amicizia dei sovrani d'oltremare, lo faceva per esser d'aiuto ai cristiani che erano soggetti al loro dominio".

A queste lodi del biografo franco, altre se ne possono aggiungere. Instancabile e multiforme fu la sua attività. Promosse numerose opere pubbliche d'utilità e d'ornamento: fece costruire strade, chiese, palazzi, come quelli famosi di Ingelheim e di Nimega, i celebri bagni di Aquisgrana, ponti, tra i quali degno di menzione quello sul Reno a Magonza, e meditava di congiungere il Reno e il Danubio con un canale che avrebbe messo in comunicazione il Mar Nero con il Mar del Nord. Si occupò di economia agricola dettando norme utilissime nel capitolare "de villis", fece una raccolta di canti popolari e fu l'artefice del risveglio culturale che passò alla storia con il nome di "carolingio". D'ingegno prontissimo, egli conobbe oltre quella francese, le lingue greca e latina, e sebbene imparasse tardi a leggere e non riuscisse a scrivere con facilità, nondimeno apprezzò tanto lo studio che volle dare un'istruzione letteraria non solo rudimentale ai suoi figli che non furono pochi. Oltre ai tre gia nominati, avuti da Ildegarda, che gli diede anche Rotrude, Berta e Gila, da Fastrada ebbe Teodorata e Iltruda, dalla concubina Imeltrude, Pipino il Gobbo, e parecchi altri da Matagarda, Germinda, Regina e Adelinda.

Il suo amore per gli studi, si manifestò specialmente nella cura e nell'impegno elargito per diffondere l'istruzione e nella protezione dei dotti. In una lettera all'abate di Fulda, che porta la data del 787, Carlo raccomanda, di fondare pubbliche scuole e con queste far nascere nei giovani l'amore per le lettere. Ma non si limitava soltanto alle raccomandazioni. Con un capitolare del 789, egli tracciava un vero programma didattico per le scuole, che i vescovi e gli abati dovevano fondare e dove ai fanciulli dovevano essere insegnate la lettura e la scrittura e agli adulti la grammatica, la musica e il canto.

Di dotti alla sua corte ne ebbe una larga schiera, e parecchi di loro furono lo splendore dell'importante SCUOLA PALATINA, istituita da Carlo ad Aquisgrana, che era una vera accademia i cui componenti amavano assumere nomi greci, romani e biblici. Alla testa di questi dotti c'era il famoso monaco inglese ALCUINO (730-804), di nobile famiglia, educato alla scuola di York che poi diresse, dai contemporanei ebbe il titolo di "polistore", fu autore di poemi, di opere filosofiche, teologiche, e grammaticali e di biografie di Santi. Fu durante una missione a Roma presso papa Adriano I, che tornando in patria incontrò Carlo Magno a Parma e lo seguì per stabilirsi alla corte carolingia, come maestro e consigliere dell'imperatore, dal 781 al 796, poi passò alla celebre abbazia di S. Martino di Tours , dove immerso nei suoi studi visse il resto dei suoi anni. Morì nel 804.
Dalla sua Accademia, alla quale partecipavano tutti i membri della famiglia reale, i "pueri palatini" imparavano a diventare scribi, notai, cantori e copisti di manoscritti per esercitare poi il libero mestiere nei numerosi "scriptoria" del regno. Ovviamente con questa sua attività, compresa quella letteraria, comprendente vari settori dell'esegesi, cercò di raggiungere lo scopo ideale di una cultura completamente cristianizzata.

Accanto ad Alcuino troviamo il longobardo PAOLO DIACONO (o Paolo Varnefrido (720- 800 ca.). Friulano, anche lui di nobile famiglia, aveva goduto il favore di Rachi e di Desiderio; caduta Pavia si era rifugiato alla Corte di Benevento, dove per la duchessa Adelperga aveva scritto la "Storia romana fino a Giustiniano" e la "Historia miscella"; poi si era ritirato a Montecassino; recatosi ad Aquisgrana per invocare la clemenza di Carlo in favore del fratello, che, implicato nella congiura friulana del 776, aveva perduto, come abbiamo detto altrove, la libertà e i beni. Alla corte carolingia Paolo Diacono ci rimase alcuni anni e scrisse la storia dei vescovi di Metz ("Gesta episcoporum Mettensium"); poi fece ritorno al suo ritiro di Montecassino e qui scrisse le opere sue principali, la biografia di Gregorio Magno e il "De gestis Langobardorum", una delle uniche fonti sull'intera Storia dei Longobardi, dalle origini fino alla fine del regno.

Altri storici protagonisti della cosiddetta "rinascita carolingia", vissuti alla corte di Carlo furono il franco EGINARDO, nobile dell'Austrasia, che, morto l'imperatore, ne scrisse la vita ("Vita Caroli") e ANGILBERTO di NEUSTRIA, e vanno aggiunti non pochi altri dotti, franchi o stranieri, fra i quali degni di ricordo il vescovo ANGILRAMO, compilatore forse degli "Annali laurissesi",, l'italiano PIETRO da PISA, lo spagnolo TEODOLFO e BERNARDO di SENS.

UOMO DI GUERRA O GENIO DI PACE?

Da non pochi storici CARLOMAGNO fu considerato un genio; ma forse tale veramente non fu. Guerriero, legislatore, uomo politico, egli mostrò una portentosa attività, una tenacia non comune, una tempra vigorosissima; ma nessuna delle sue azioni e delle sue concezioni rivelò l'impronta creatrice del genio. Come Guerriero, egli ha al suo attivo cinquantatrè spedizioni belliche (ma nessuna considerevole): una contro gli Aquitani, cinque contro i Mori, altrettante contro i Longobardi, una contro i Turingi, diciotto contro i Sassoni, quattro contro gli Avari, due contro i Britanni, una contro i Bavari, quattro contro gli Slavi, tre contro i Danesi, due contro i Bizantini; ma non tutte egli le guidò e non quelle che prese parte le vinse.
Come conquistatore egli impallidisce di fronte a Cesare e ad Alessandro Magno non solo, ma anche ad altre figure minori della Grecia e di Roma; come condottiero non ebbe il fascino di Annibale, di Scipione, di Mario, e come stratega non ebbe pari il merito alla fortuna.
Le guerre contro i Sassoni se rivelano semmai solo la fierezza e la costanza di questo popolo, mentre ci testimoniano (18 sono tante!), le limitate capacità di Carlo Magno che rende inefficace le sue (piccole) vittorie con le incompletezze della sua politica militare; che si rivelano ancora di più contro i Mori di Spagna é nella debole lotta contro un fiacco ducato di Benevento.

Come non fu un grande guerriero, così non fu un grande legislatore e neppure un grande uomo politico. Egli fu un "fortunato" continuatore dell'opera altrui e i grandissimi meriti che gli sono attribuiti - quello di aver (solo) chiuso (ma non lui) il periodo delle migrazioni dei popoli, dando a molte nazioni barbariche (sbandate) d'Europa un assetto stabile, e quello di avere costituito un vastissimo impero componendo in un unico organismo forze diverse - non esclusivamente dovuti però all'opera sua, perché mancavano da qualche tempo quelle spinte seguite poi da invasioni -com'erano state in passato- di nuovi popoli dal Nord e dall'Oriente, che provocavano terribili sconvolgimenti.

Inoltre non poche di quelle popolazioni che erano state la causa non ultima dello sfacelo dell'impero romano d'Occidente (Ostrogoti prima Longobardi poi) avevano da qualche tempo il loro assetto stabile ai margini e dentro gli stessi confini dei domini di Carlo, il cui impero se lui trova un cemento potente per unire le sue varie parti, lo deve in modo speciale all'unità religiosa. A sua volta questa favorita dalla critica situazione in cui si trovava l'impero bizantino. Senza nulla togliere all'incommensurabile grandezza religiosa di un papa, e all'abilità politica di un altro suo collega, che si trovarono ad operare nel momento favorevole più drammatico uno, e favorevole politicamente l'altro.
Abbiamo già ricordato che papa Gregorio Magno aveva aperto la prima breccia nelle mura, e che Adriano I, finì per abbatterle. Papa Leone III fece invece solo l'opportunista, Carlo Magno era già il padrone e lui era già spacciato; anche se fece quel gesto - e forse era solo servile e non intenzionale- che avrà poi grandi ripercussioni in avvenire.

"Certo è merito non poco importante per un uomo l'aver saputo governare territori così vasti e popolazioni così diverse, avere frenato le ambizioni dello stesso Papato pur avendo accresciuto il prestigio della Chiesa occidentale, avere riconciliato il Germanesimo con Roma e avere voluto infine con gli ultimi e deboli bagliori della civiltà romana aiutare le giovani nazioni barbariche ad uscire dal loro stato d'infanzia sociale, accettando i principi d'ordine, d'autorità, di cultura, che poteva dare solo la tradizione romana " (Romano).

FINE

Morto Carlo Magno, come abbiamo visto nelle sue
ultime volontà, il regno d'Italia lo lasciava al sedicenne Bernardo,
poi ci sarà il regno di Lotario, infine le nuove divisioni dell'Impero
ed è il periodo che va dall'anno 814 al 843 d.C. > > >

 

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962

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