ANNI 827 - 871 d.C.

GLI ARABI IN SICILIA E NEL SUD ITALIA

DIVISIONE POLITICA DELL' ITALIA DOPO IL TRATTATO DI VERDUN - IL DUCATO DI NAPOLI - GAETA ED AMALFI - IL DUCATO DI BENEVENTO - LE INCURSIONI DEI MUSULMANI DI SIRIA, D'AFRICA E DI SPAGNA IN SICILIA - TREGUE STIPULATE TRA I PATRIZI BIZANTINI DI SICILIA E GLI ARABI - LA RIVOLTA MILITARE IN SICILIA ED EUFEMIO - LA SPEDIZIONE DI ASED IBN-FORÀT - PRIME IMPRESE DEI MUSULMANI IN SICILIA - MORTE DI EUFEMIO - ARRIVO E VICENDE DEI RINFORZI MUSULMANI - RESA DI PALERMO - MESSINA ASSEDIATA ED ESPUGNATA - ABBAS IBN-FADHL -PRESA DI CASTROGIOVANNI - REAZIONE BIZANTINA E SICILIANA - I MUSULMANI NELL' ITALIA MERIDIONALE - LA GUERRA CIVILE NEL DUCATO BENEVENTANO - I MUSULMANI NELL'ADRIATICO - LA LEGA CAMPANA - I SARACENI NEL LAZIO - LUDOVICO II IN ITALIA; SUA POLITICA -DIVISIONE DEL DUCATO DI BENEVENTO - LA BATTAGLIA DI OSTIA
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L' ITALIA MERIDIONALE
E LE INCURSIONI DEI MUSULMANI IN SICILIA

Quando fu concluso il famoso trattato di Verdun,
che pose fine all'unità dell'impero carolingio, l'Italia era politicamente divisa in quattro parti:

Italia franca che comprendeva tutta la parte settentrionale e la Tuscia longobarda;

Italia papale formata dall'Esarcato, dalla Pentapoli e dall'antico ducato romano;

Italia longobarda formata dai ducati di Spoleto e di Benevento, dei quali il primo vassallo dei Franchi, il secondo indipendente;


Italia bizantina costituita dal ducato di Calabria (Terra di Otranto e Bruzio) e dai ducati di Venezia, Napoli, Gaeta ed Amalfi sui quali la dominazione bizantina era più nominale che effettiva.

Di questi tre ultimi ducati il più antico era quello di Napoli, la cui origine si ricollega alla venuta in Italia dell'imperatore COSTANTE (anni 663-668) che ne fece il baluardo contro i Longobardi di Benevento. Retto nei primi tempi da un duca investito dell'autorità civile e militare e dipendente dal patrizio della Sicilia, a poco a poco, abbandonato da Costantinopoli a se stesso, questo patriziato aveva acquistato una grande autonomia, che era diventata vera e propria indipendenza sotto il governo del duca Stefano II.

STEFANO II, eletto nel 755, aveva esercitato una grandissima autorità dopo che, nel 766, rimasto vedovo, era stato nominato pure vescovo. Da allora il ducato di Napoli, pur dichiarandosi suddito di Costantinopoli, era divenuto in realtà indipendente. Da tempo aveva milizie sue ed un'amministrazione propria, ma greca era la lingua ufficiale e l'immagine dell'imperatore era pur sempre impressa sulle monete. Con Stefano II anche queste forme esteriori del dominio bizantino scomparvero. Alla lingua greca fu sostituita la latina e all'immagine imperiale quella del martire S. Gennaro, patrono della città.

Al tempo di Lotario teoricamente Gaeta ed Amalfi appartenevano al ducato di Napoli, ma in realtà, costituivano stati a sé, difesi da milizie proprie e retti da magistrati locali che avevano il titolo di duca.

Vicino Napoli, a Gaeta e ad Amalfi, troviamo il ducato di Benevento, che per l'indipendenza di questi tre ducati costituiva una minaccia continua. A governarlo dopo la morte di GRIMOALDO, figlio di ARECHI, era venuto un altro GRIMOALDO, tesoriere del duca, che nell'812 aveva concluso una pace con i Franchi. Con lui la potenza del ducato aveva cominciato a declinare, minata dallo spirito d'indipendenza che animava i gastaldi perchè assillati dalle continue spedizioni che muoveva contro di loro il governo centrale di Bisanzio, o l'invio di odiati funzionari per estorcere denari con ogni pretesto.
Nell'817 si era impadronito del potere SICONE, gastaldo d'Acerenza, e sotto di lui era ricominciata la lotta tra Benevento e Napoli. La città partenopea aveva dovuto sostenere due assedi: uno nell'822, l'altro nell'831. Venuto a morte nell'822 Sicone, gli era successo il figlio SICCARDO, peggiore del padre, che, dopo aver espugnata Amalfi, deportato tutti gli abitanti a Salerno, non contento aveva poi rivolto le armi contro Napoli e avrebbe forse avuto ragione della strenua difesa dei Napoletani se questi non avessero chiamato in loro soccorso addirittura i Musulmani, rivelandosi preziosi.

Di questi fieri nemici (la Chiesa disse "nemici dei cristiani") che si espandevano in Occidente, che tanta parte ebbero nelle vicende dell'Italia meridionale ed insulare, è necessario ora narrare le loro prime imprese in Italia. Già padroni di gran parte delle coste bagnate dal Mediterraneo, dalla Siria prima, poi dall'Africa e dalla Spagna, arditamente si spingono in questi anni verso le coste delle maggiori isole italiane. Non con propositi di conquista, perché all'inizio sono guidati solo da un desiderio di preda; la Sicilia è il paese che più di ogni altro prendono di mira. La prima comparsa dei Musulmani in Sicilia -con queste intenzioni piratesche- risale al 652. Erano Arabi giunti dalla Siria e li comandava il prode MU'ÀUIA IBN-HODEIG della tribù di Kinda, che dopo parecchi mesi di soggiorno nell'isola, invano contrastato dal patrizio bizantino Olimpio - di cui abbiamo già parlato a suo tempo - pur ricacciato in mare, se ne partì carico di bottino. Del resto quello era lo scopo della sgradita "visita".

Una seconda spedizione avvenne nel 669. Questa volta i Musulmani venivano da Alessandria, su duecento navi ed erano guidate da ABDALLAH IBN-KAIS. Saccheggiata Siracusa e parecchie altri territori, un mese dopo ripresero il mare portandosi dietro ricche prede.
Nel 703 è una flotta d'Arabi d'Egitto fa una scorreria in Sicilia una spedizione sotto la guida di ATTÁ IBN-RAFI; l'anno dopo ABDALLAH IBN-MUSA con un migliaio di guerrieri saccheggia Lilibeo; nel 705 AIÀSCI IBN-AKHIAL con un'armata d'Africa fa un'altra una scorreria su Siracusa; quindici anni dopo, nel 720, MOMAMMED IBN-AUS e nel 727 BISCIR IBN-SEFUÀN saccheggiano le coste dell'isola e portano in Africa bottino e prigionieri.

Le apparizioni degli Arabi in Sicilia da quell'anno si fanno più frequenti: nel 728 un OTHMAN IBN-ABI-OBEIDA vi sconfigge il patrizio bizantino; nel 729 MONSTANIR-IBN-HABBÀB vi assedia alcune città; nel 730 THABIT-IN-HATHIM e nel 731 ABD EL-MELIK-IBN-KATAN vi fanno bottino e prigionieri; nel 733 ABÚ-BAKR-IBN SUAID e nel 734 OBEID-ALLAH vi sbarcano ma sono respinti dai Bizantini.
È del 740 la prima spedizione musulmana in Sicilia fatta a scopo di conquista. HABIB, che con il fratello OTHMAN vi è già stato nel 728, vi sbarca e, rafforzatosi in un campo trincerato, manda alla conquista dell'isola il figlio ABD-ER-RAHMÀN. Siracusa, assediata, è costretta a scendere a patti e il vincitore si prepara ad assediare le altre città quando una rivolta di Berberi lo costringe a ritornare in Africa. Egli ricompare in Sicilia nel 752 ma si limita a ad alcuni danni al territorio al solo scopo di procurarsi del bottino.

Nello spazio dunque di un secolo, la storia dell'isola registra quindici spedizioni di Musulmani in Sicilia. Queste spedizioni - data la ricchezza della Sicilia e costituendo il ponte di passaggio tra l'Africa e l'Italia, al possesso della quale gli Arabi miravano per estendere in Occidente il loro dominio e la loro fede - si sarebbero senza dubbio ripetute con più grande insistenza e forze sempre maggiori se non fossero venuti ad arrestarle i gravi disordini che afflissero l'Africa musulmana dopo il consolidamento della dinastia degli Abassidi (750). Per più di mezzo secolo la Sicilia non patì più le scorrerie degli Arabi, e il governo bizantino approfittò di questo respiro per mettere l'isola in stato di difesa.

Nell'805 tra il patrizio COSTANTINO di Sicilia e l'emiro di Kairuan, IBRAHIM ibn AGHLAB, fu stipulata una tregua di dieci anni. Ma - come quella che era stata firmata nel 728 - neanche questa fu mantenuta, "… perché - scrive l'Amari - succeduti vari movimenti contro Ibrahim e in particolare a Tunisi e a Tripoli, ed essendo soggetta l'Africa occidentale alla dinastia degli Edrisiti indipendente dai Califfi e dai governatori di casa d'Aghlab, non legata dai loro patti internazionali, avvenne che dalla coste salpassero navi musulmane verso le grandi e piccole isole del centro mediterraneo. Non erano assente alcune flotte della Spagna, che però obbedivano ad un'altra dinastia. Così la Sardegna e la Corsica furono assalite alle volte dagli Arabi-Africani e altre volte dagli Arabi- Spagnoli (806-821). Così disuniti i Musulmani qualche successo lo ottenevano, ma mai tali da impensierire l'impero carolingio, soprattutto perché non potendo congiungere le loro armi per i contrasti che esistevano tra Omeîadi Edrisiti e Aghlabiti, e dovendo combattere contro fiera gente, o contro le forze navali bizantine, e a volte contro con quelle italiane che Carlomagno qualche volta vi aveva mandato, gli Arabi registrarono anche molte sconfitte.
Così nell'Isola sicula, che fu invasa, come pare, dai sudditi degli Edrisiti, quando questi territori prestavano obbedienza al patrizio di Sicilia..".

Nell'812 l'emiro ABU-'1-ABBÁS, successo al padre IBRAHIM, iniziò preparativi per una spedizione sulle isole e sulle coste d'Italia. Da una lettera mandata da Leone III a Carlomagno, siamo informati che l'imperatore bizantino MICHELE I, a conoscenza dei preparativi musulmani inviò in Sicilia un patrizio e alcuni spatari, i quali, dopo aver chiesto invano aiuti alle navi di ANTIMO duca di Napoli, ma ottenute queste da Gaeta e da Amalfi, riuscirono a mettere insieme, comprese le navi dell'isola, una flotta tale da tenere a debita distanza alcune navi Arabe.
Ma questi mossero dalle coste d'Africa verso nelI'813 con un'armata di un centinaio di navigli, e nel giugno di quell'anno, navigando nel mar di Sardegna, furono colti da una tremenda tempesta, che distrusse gran parte della flotta musulmana.
Nonostante questo disastro gli Arabi per tutta l'estate imperversarono nelle isole minori; saccheggiarono, dopo averla assalita con tredici navi, Lampedusa e vi catturarono sette navigli greci giunte a difendere la zona, uccidendone le ciurme; ma poi giunta sul posto il grosso della flotta bizantina furono a loro volta sopraffatti e passati a fil di spada. Un'altra spedizione verso la metà d'agosto dello stesso anno con quaranta navi assalirono Ponza ed Ischia e se ne tornarono portandosi dietro un ingente bottino e numerosi prigionieri.

Queste ostilità non impedirono al patrizio di Sicilia GREGORIO di stipulare con l'emiro di Cairuàn una tregua di dieci anni, nella quale fu pattuito lo scambio dei prigionieri e il libero soggiorno dei mercanti cristiani e musulmani nei paesi d'Africa e di Sicilia; ma neppure questa tregua fu rispettata: nell'819 MOHAMMED IBN-ABDALLAH, cugino dell'emiro aghlabita Ziadet-Allah, fece un'incursione in Sicilia; saccheggiata e fatti moltissimi prigionieri se ne tornò in Africa. Dopo questa scorreria più nessuna notizia si ha di spedizioni musulmane in Sicilia fino all'827; e in questo anno l'impero bizantino, sul cui trono stava MICHELE, successo nel dicembre dell'820 a LEONE l'Armeno, perse con l'isola l'estremo baluardo in Occidente ed aprì le porte alle invasioni saracene in Sicilia e nel resto della penisola.

LA SICILIA CONQUISTATA DAI MUSULMANI

I fatti che diedero origine alla conquista musulmana della Sicilia sono variamente narrati dalle fonti arabe e cristiane, ma sono tutte d'accordo nel considerare come protagonista degli avvenimenti che precedettero e provocarono l'invasione araba, EUFEMIO; un comandante - pur essendo un locale- le forze delle milizie siciliane della flotta dell'isola a servizio di Costantinopoli. Incerti però sono i motivi che spinsero costui a ribellarsi e discordi sono i giudizi che al riguardo hanno espresso gli storici moderni.
Sostengono alcuni che furono esclusivamente personali questi motivi: Eufemio aveva rapito dal chiostro e condotta a nozze una vergine; i fratelli della donna ricorsero e sollecitarono l'imperatore Michele di fare giustizia sul nefando fatto, e lui ordinò di catturare il rapitore e come punizione di mozzargli il naso; questi, saputo dell'ordine mentre stava facendo una scorreria in Africa, si ribellò e tornato in Sicilia s'impadronì di Siracusa, sconfisse il patrizio bizantino che fuggì in Catania, ma qui raggiunto fu ucciso; Eufemio dagli isolani fu proclamato imperatore, ma poco tempo dopo, abbandonato dai suoi seguaci, si rifugiò in Africa e fu lui a pregare i Mussulmani di aiutarlo a tornare in Sicilia.

Sostengono altri invece che i motivi della ribellione di EUFEMIO furono politici. Secondo questi ultimi, Eufemio fu il capo di una rivolta delle truppe siciliane (con dentro anche mercenari) al servizio dell'impero, ribellione originata dal malgoverno e dalle vessazioni dei rapaci funzionari bizantini, che oltre che i poveri spremevano e angosciavano anche i ricchi e gli stessi nobili siciliani, e che fu agevolata dalle difficili condizioni in cui allora si trovava MICHELE, combattuto duramente prima da un accanito rivale, TOMMASO di Cappadocia (821-823), e impegnato poi contro i Musulmani per la riconquista di Creta (823-825).

MICHELE AMARI, che sulla "Storia dei Musulmani in Sicilia" scrisse un'opera magistrale, sostiene con molte fondate ragioni essere stati due i periodi della rivolta militare siciliana: durante il primo che andrebbe dell'821 all'825 la ribellione non avrebbe assunto forse un carattere violento e sarebbe stata domata con una vaga o finta promessa di perdono; nel secondo periodo, che cadrebbe tutto nell'826, provocata dal patrizio FOTINO, che inviato a mettere in ordine le cose di Sicilia, avrebbe pensato di disfarsi in una maniera spiccia dei caporioni della passata rivolta cominciando proprio da Eufemio, e per giustificare queste criminose intenzioni -come pretesto- avrebbe indotto i fratelli della monaca rapita ad accusare Eufemio.
A quel punto, intuendo la tattica, e temendo questa "pulizia", anche gli altri capi con i loro seguaci si sarebbero di nuovo sollevati facendo per una seconda volta causa comune con Eufemio che, sceso e tornato dalla costa d'Africa, appoggiato dalla base, sconfiggeva ed uccideva FOTINO; poi ritenendo che non si doveva più nulla a Bisanzio, lo proclamarono o si autoproclamò imperatore.

Purtroppo ci fu la defezione di parte delle truppe ribelli e di alcuni di quei capi che avevano appoggiato Eufemio, fra cui l'armeno Palata. "…Non parendo loro - scrive l'Amari e noi accettiamo la sua opinione - avere guadagnato abbastanza con l'indipendenza, o forse corrotti dall'oro imperiale, si rivoltarono contro il novello signore, e tornarono a gridare il nome di MICHELE il Balbo, e il PALATA che si proclamò lui governatore dei bizantini)

I traditori riportarono la vittoria e s'imposero; tuttavia restò ad Eufemio non poco seguito tra i Siciliani, come lo dice espressamente la cronaca di PORFIROGENITO .... "È indi manifesto che i due elementi dai quali nacque il moto militare dell'ottocentoventisei, presto si separarono. Le armi mercenarie, come pietra furono gettate in alto, e ricaddero verso il loro centro di gravità, che era il dispotismo di Costantinopoli. Le vere milizie siciliane tentarono di staccarsi dall'impero greco, così come avevano fatto un secolo prima quelle dell'Italia centrale; ma oppresse da forze più disciplinate, né potendo trovar sostegno nello sfacelo della società civile, si gettarono per disperazione al peggior partito: chiamarono un potentato straniero; e affrettarono così la morte della nazione greco-sicula, che da qualche tempo era andata decadendo e consumandosi, ormai da mille anni, da quell'entrata di Marcello a Siracusa…".

Era allora emiro di Kairuàn l'aghlabita ZIADET-ALLAH, fratello di ABÚ '1-ABBÁS. A lui ricorse Eufemio e lo pregò di aiutarlo a conquistare la Sicilia, offrendosi di governarla in suo nome e di pagargli un tributo annuo. Il principe musulmano prima di aderire all'invito di Eufemio volle consultare i notabili del paese ed essendosi questi, dopo lunghe discussioni, pronunciati favorevolmente alla guerra, decise la spedizione e l'affidò al qadi ASED IBN-FORÀT, settuagenario, oriundo di Nisapúr nel Khorassàn.

Passato in rassegna il corpo di spedizione a Susa, il 13 giugno dell'827, Ased partì da questo porto con diecimila fanti, settecento cavalli e una flotta di circa cento navi senza contare i navigli di Eufemio che l'accompagnava. Il 16 dello stesso mese l'armata musulmana approdò a Mazara (del Vallo) dove fu raggiunta da una schiera di cavalieri locali seguaci di Eufemio. Ma di questo non fidandosi Ased, gli disse di tenersi in disparte con i suoi e di dare a loro un contrassegno per distinguerli dai nemici.

La prima battaglia tra Musulmani e Bizantini avvenne il 15 luglio in una pianura a sei miglia da Mazara. A centocinquantamila fanno ascendere i cronisti arabi il numero delle truppe imperiali comandate dal PALATA, ma la cifra è certamente esagerata. Ased recitò sottovoce, davanti alle sue schiere, quel capitolo del Corano che si suole recitare ai moribondi, poi, esortati i suoi, si gettò arditamente con la lancia in pugno fra gli squadroni nemici. Fu battaglia sanguinosa ed i Bizantini ebbero la peggio.
Il Palata con gli avanzi del suo esercito fuggì a Castrogiovanni, poi non sentendosi sicuro, si ritirò inutilmente in Calabria dove fu raggiunto e ucciso.

ASED, lasciato un presidio a Mazara al comando di Abn-Zeki, avanzò lungo la costa meridionale dell'isola, occupando nel cammino parecchi castelli, poi dalla foce del Salso puntò attraverso i monti su Acri e dopo una breve tregua concessa ai difensori piombò su Siracusa e lui l'assediò da terra mentre la sua flotta la bloccava dal mare. Ma non era una facile impresa espugnare Siracusa con le poche forze di cui gli arabi disponevano. La nave alimentaria araba, a corto di vettovaglie, fu costretta a cibarsi dei cavalli e ci volle tutta l'energia di Ased per costringere i suoi guerrieri, che si erano ammutinati e volevano far ritorno in Africa, a continuare l'assedio, nell'attesa che giungessero rinforzi dall'Africa. I rinforzi invece giungevano agli assediati: un'armata veneziana condotta dal doge GIUSTINIANO di PARTICIACO e un poderoso esercito formatosi a Palermo per portare soccorso a Siracusa. Questo partito e giunto sotto le mura della città, il cui assedio durava da un anno, subì una sanguinosa sconfitta e Siracusa sfiduciata faceva proposte di resa quando una tremenda tuttavia provvidenziale pestilenza scoppiò sul territorio, che oltre che colpire gli assediati non solo colpì l'esercito assediante ma la stessa morte di chi aveva in mano le operazioni: il condottiero Ased.

Fu la salvezza della città. Decimati dalla morbo, abbandonati anche dall'emiro ZIADET-ALLAH che, preoccupato da un'incursione in Africa del conte Bonifazio II di Lucca (questi aveva sconfitto i saraceni in casa, fra Utica e Cartagine), non poteva mandare soccorsi, allarmati dalle ribellioni dei territori conquistate sull'isola, gli Arabi guidati da un nuovo capo, MOHAMMED IBN-EL-GENÀRI, che non aveva la risolutezza di Ased, decisero di riprendere il mare lasciando a metà l'impresa. Montati sulle navi si avviarono verso l'imboccatura del porto, ma affrontati dalle armate bizantine e veneziane, tornarono indietro, bruciarono le navi e, levato l'assedio a Siracusa, si ritirarono nella turrita Mineo, che diventò la base delle loro future operazioni.

Rinnovati le forze, eliminati i mali dai quali erano stati afflitti, i Musulmani ripresero presto l'offensiva espugnando Girgenti e si presentarono sotto la fortissima Castrogiovanni, l'antica Enna. C'era con gli Arabi anche Eufemio, ma qui trovò la morte che forse bramava.

Leggiamo cosa ci ha lasciato scritto l' AMARI: "Ci fu un abboccamento con gli assediati; alcuni di loro nelle trattative s'incontrarono due volte con Eufemio, uscendo e rientrando due volte dalla città per riferire ai capi della resistenza le condizioni. Nel secondo incontro avvenuto a notte tarda, la conclusione fu che i cittadini erano disposti ad ogni suo e dei Musulmani volere: avrebbero ripudiato il nome dell'imperatore Michele e giurato fedeltà solo ad Eufemio. L'incontro per definire i patti con i loro capi, doveva avvenire la mattina dopo alla tale ora e nel tale luogo, ad una distanza onesta, cioè a metà strada tra le mura e il campo.
Gli emissari rientrarono in città; ma durante la notte in previsione dell'incontro, nascosero le armi nei pressi del punto dell'incontro. Il mattino dopo nell'ora pattuita, vestiti in gran gala, un piccolo gruppetto di cittadini, lieti e dall'atteggiamento servile, avanzarono verso il ritrovo; dall'altra parte l'ignaro Eufemio con una piccola scorta avanzò pure lui verso il luogo da loro indicato. Giunti al suo cospetto, i cittadini si prostrarono dinanzi al posticcio imperatore, in atto d'adorazione, come si usava allora. I capi che dovevano parlare erano due fratelli, che pare fossero stati amici d'Eufemio prima della guerra; smisero di fare le servili moine e con un fare più amichevole, invitarono Eufemio ad un abbraccio fraterno per dimenticare ogni passato contrasto. Non più abituato alle espansioni d'affetto, Eufemio si commosse molto, si chinò perfino a baciare uno dei fratelli, che con celata ipocrisia amorosamente gli prese il capo con entrambe le mani; ma a quel punto lo afferrò per i capelli, mentre l'altro fratello prontissimo vibrò un terribile colpo sulla nuca scoperta di Eufemio, tramortendolo. A questo segnale s'impossessarono delle armi occultate, eliminarono la scorta, tagliarono poi la testa a Eufemio portandola come trofeo in città. Forse furono paragonati alla Giuditta, sicuramente chiamati liberatori della patria, perché poi nella cronaca di Costantino Porfirogenito i due fratelli furono proclamati "vendicatori dell'onore imperiale contro un usurpatore". Questa fine ebbe il prode condottiero siciliano, travolto dai vizi di un pessimo governo, e un paese diviso in due, che voleva ribellarsi per essere libero, uno a uno straniero -i bizantini- e l'altro pure, a un nuovo straniero -gli Arabi..." (Michele Amari - Storia dei Musulmani in Sicilia).

L'assedio arabo di Castrogiovanni continuò, ma non ottenne risultati migliori di quello di Siracusa. In un primo tempo (828) gli Arabi ottennero un importante successo contro le truppe del patrizio bizantino Teodato, ma morto anche Mohammed ibn-el-Genàri e assunto il comando ZOHIER IBN-GHAUTH, subirono poi parecchie disfatte dallo stesso Teodoto e furono costretti a rifugiarsi ancora a Mineo, mentre la guarnigione bizantina di Girgenti, rase al suolo le fortificazioni degli assedianti, e questi si ritirarono a Mazara (829).

In tale difficilissima situazione si trovavano i Musulmani quando, nell'estate dell'830, con trecento navigli sbarcarono in Sicilia da venti a trentamila arabi. Questa volta la ciurma era un'accozzaglia di Arabi e di Berberi d'Africa mandati da Ziadet-Allah e in numero ancora maggiore erano i Musulmani di Spagna, audaci guerrieri capitanati da ASBAGH IBN-UEKIL soprannominato "Ferghalusc". Quelli d'Africa mossero su Palermo, mentre quelli Spagnoli di Asbagh marciarono su Mineo e sotto le mura di questa città sconfissero le forze bizantine di TEODATO, che rimase ucciso sul campo (luglio-agosto dell'830).
Distrutta e data alle fiamme Mineo, ASBAGH marciò su Ghallulia, città posta forse nel luogo dove oggi sorge Caltanissetta, e vi si fortificò per farne una base per le sue successive operazioni, ma sceso nella tomba lui, parecchi altri capi e tanti uomini, per un improvviso devastante ricomparsa della peste, i Musulmani decisero di abbandonare la Sicilia; i sopravvissuti lasciate le postazioni e dopo sanguinosi combattimenti con i Bizantini, riuscirono a rifugiarsi a Mazara, dove ritennero "salutare" e più opportuno riprendere il mare per tornarsene in Spagna.

Miglior fortuna toccò all'altra schiera - quella africana- che si era messa in marcia su Palermo. Questa città fu assediata verso la fine dell'830 e per un intero anno oppose una fiera e memorabile resistenza ai Musulmani. Ma alla fine, lasciata senza aiuti dall'imperatore TEOFILO successo a Michele il Balbo, decimata terribilmente la popolazione dalla fame, dalla guerra e dalla pestilenza, nel settembre dell'831 la città si arrese; il governatore SIMEONE, il vescovo LUCA e pochi ottimati riuscirono a partire per mare, i cittadini -rimasti ebbero confiscati i beni e furono ridotti alle condizione di dsimmi (vassalli). "Alcuni monaci fra i quali San FILARETO di Palermo, presi mentre tentavano di fuggire in Calabria e messi nella dura alternativa di rinnegare la fede o di morire, preferirono nobilmente morire". Questo passo proviene da cronache ecclesiastiche, non fedeli ai fatti, perché sembra che i musulmani, non abbiano mai preteso una conversione forzata alla fede di Maometto; né avevano interesse a farlo, perché quelli di religione musulmana erano esenti dai tributi.

L'occupazione di Palermo - come dice l'Amari - fu il vero principio a quella dell'isola, in cui ZIADET-ALLAH nell'833 mandò un suo cugino, ABÎZ-FIHR che prese il titolo di SÁHIB e nell'834 iniziò le operazioni di guerra contro i Bizantini. Questi avevano posto un campo d'osservazione a Castrogiovanni. Abn-Fihr li sconfisse nei primi di quell'anno in un'aspra battaglia costringendoli a riparare negli alloggiamenti; tornato nella primavera seguente li sconfisse nuovamente e nel successivo anno (835) espugnò gli alloggiamenti, vi fece prigionieri la moglie e un figlio del patrizio bizantino e mandò colonne di soldati fino a Taormina.

Una sollevazione militare tolse la vita ad Abú-Fihr. Al suo posto fu mandato FADHL IBN-JAKUB che, nell'estate dell'835, eseguì una felice scorreria su Siracusa e sconfisse i Bizantini, in una sanguinosa battaglia presso Castrogiovanni ferendone gravemente il patrizio.

Nel settembre di quell'anno fu mandato come luogotenente in Sicilia ABU-'1-AGLILAB che si segnalò ben presto per la sua attività bellica. Nello scorcio dell'835, infatti, una piccola flotta saccheggiò una città della costa settentrionale dell'isola, un'altra squadra catturò a Pantelleria un dromone bizantino, mentre uno squadrone di cavalieri saraceni si spinse nella regione etnea combattendo e saccheggiando il territorio.
L'anno seguente (836) la zona intorno all'Etna fu nuovamente percorsa e devastata; una legione assali Castelluccio procurandosi bottino e prigionieri e la flotta al comando dello stesso luogotenente, approdata alle isole Eolie, le mise a sacco ed espugnò parecchie fortezze tra Messina e Palermo.

Nell'837 i cronisti registrano una battaglia navale in cui i Bizantini persero otto navigli con le ciurme; parecchi assalti dei Musulmani ci furono contro Castrogiovanni, che però preferì allontanare il nemico pagandogli una grossa taglia; poi ci fu l'inizio dell'assedio di Cefalù che si protrasse per buona parte dell'anno seguente; la città fu poi liberata da numerose forze bizantine giunte dalla via del mare. Il 10 giugno dell'838 moriva l'emiro ZIADET-ALLAH e gli succedeva il fratello ABÚ-IKÀL, il quale mandava in Sicilia nuove forze per mezzo delle quali i Musulmani dell'isola poterono continuare con successo la guerra, occupando nell'840 Platani, Caltabellotta, Corleone, Marineo e Geraci, distruggendo però nell'841 il territorio di Castrogiovanni ed espugnando la fortezza delle Grotte.

Padroni della parte occidentale dell'isola, che prenderà poi il nome di Val di Mazzara (o Mazara del Vallo) si rivolsero all'orientale. Messina li tentava per le ricchezze che sapevano che c'erano, ma anche perché vicina alla terraferma. E forse li spingevano a quest'impresa per allontanarli dalle loro coste, i napoletani, che non erano con loro in cattivi rapporti. Fino al punto che nell'836, chiesero e ottennero l'aiuto musulmano contro i Longobardi di Benevento; ed ora si sdebitavano mandando a sostegno degli Arabi alcune navi. All'impresa di Messina ci andò FADHL IBN GIÀFAR, della tribù di Hamadán. I messinesi si difesero eroicamente per un anno intero respingendo i continui e vigorosi assalti del nemico e solo nell'autunno dell'843 la città - i difensori presi alle spalle da una schiera saracena mentre tentavano di ricacciare il resto dell'esercito musulmano che li assaliva dalla marina - fu espugnata.

Dopo la conquista di Messina la parte della Sicilia presa di mira dalle armi dei musulmani fu l'orientale, quella che più tardi si denominò Val di Noto. Nell'845 Modica cadeva in potere degli invasori e nello stesso anno, come pare, i Musulmani, capitanati da ABBÁS IBN-FADHL, procurarono una clamorosa disfatta nei pressi di Butera ad un esercito bizantino che lasciò nella fuga circa diecimila uomini. L'anno dopo, Fadhl ibn-Giàfar attirava in un agguato abilmente teso i difensori di Lentini e s'impadroniva della città, mentre nell'848 si arrendeva Ragusa ch'ebbe le mura abbattute.

Il 17 di gennaio dell'851 moriva a Palermo ABU '1-AGHLAB IBRAHIM. "Senza uscire mai dalla capitale - scrive Michele Amari - Ibrahim in tutto quel tempo da Palermo aveva condotto la guerra, attraverso i suoi luogotenenti; disegnato con perizia le imprese; dato riputazione alle forze navali; dove andare ad infestare le coste dell'Italia meridionale; fatto percorrere ai suoi uomini l'isola da un capo all'altro; e se alcuni erano riusciti a difendersi in quelle città dove esistevano poderose fortezze, nelle altre, nessuna persona era sicura se non pagava la taglia ai Musulmani".
Era il "pizzu"; all'incirca un dieci per cento su ogni cosa; solo così si era liberi di operare, nelle vendite, nei vari affari, nelle produzioni di beni o svolgere servizi; Senza essere più ossessionati d'altri balzelli, anzi si era protetti da quelle angherie che avevano fatto odiare gli avidi funzionari bizantini per qualche secolo, senza mai nulla dare in cambio né loro né Costantinopoli.

Oltre questi meriti, Ibrahim meritò lode non minore nelle cose della pace; era un uomo che leggeva molti testi d'autori arabi e antichi; possedeva una ricca biblioteca, e forse proprio per questo motivo, per una sua profonda conoscenza di cose di governo, che reggeva con saggezza il territorio. Non lo affermano solo i testi arabi, ma ci sono molte altre recenti testimonianze e tanti fatti storici che lo attestano, anche se nei secoli successivi dopo la loro rovina ogni cosa fu stravolta, se non della tutta eliminata, dalle cronache della storia.

Con Ibrahim a Palermo c'era - si diceva- "la tranquillità in casa, la vittoria fuori".
Questa pace, questa saggezza negli affari, l'equità nei giudizi, attiravano nella capitale sempre nuova gente; e presto diventò grande non solo l'esercito, ma il mondo musulmano di Palermo, una città che per oltre due secoli fu molto diversa da tutte le altre città Europee; era diventata il "fiore", l'"Aziz" del Mediterraneo, e lo dicevano loro, i viaggiatori arabi che già conoscevano ogni parte del mondo, e le rotte marine dall'Atlantico alla Cina.

Nelle memorie dunque della Sicilia musulmana il nome di IBRAHIM è degno di essere collegato con quello di ASED IBN-FORÀT: due valorosi vecchi: dei quali è stato scritto "il giurista con impeto e furore principiò il conquistato, e il guerriero con il suo senno lo consolidò".

A Ibrahim lui successe ABBÁS IBN-FADHL, il vincitore dei Bizantini presso Butera, che nella seconda metà dell'851 metteva a soqquadro il contado di Caltavuturo e nell'852 quello di Castrogiovanni. Abbás fu uno dei più feroci e valorosi condottieri musulmani di Sicilia. Non si riposava mai: i territori di Castrogiovanni, Catania, Siracusa, Noto, Ragusa furono da lui più volte percorsi, in lungo e in largo, saccheggiati, devastati. Era il terrore della Sicilia bizantina, che lo vedeva andare da un punto all'altro, tagliar le piante, abbatter le mura delle terre conquistate e poi tirarsi dietro, verso Palermo, eserciti di prigionieri. Seimila ne portò a Palermo nell'853 da Butera caduta in suo potere, e molti da moltissimi altre città; e non fu da meno suo fratello Ali con le sue scorrerie nell'856.
Nell''858 della popolazione di Gagliano, espugnata dopo due mesi di assedio, solo duecento persone furono lasciate libere: il resto fu condotta in schiavitù a Palermo e lì venduta.
Oltre Gagliano e Butera, parecchie altre città furono assediate e se arresero: fra queste Cefalù che fu smantellata, ma lasciarono liberi i cittadini. Né solo dentro la Sicilia portò Abbás le sue armi vittoriose e la sua ferocia terribile: nell'853, per vendicare la morte di un capo musulmano, come diremo in seguito, sbarcò sulle coste del ducato beneventano e vi sfogò la sua rabbia sanguinosa; diversa sorte incontrò il fratello Ali che spinto dal vento nel Mediterraneo orientale mentre una flotta tentava forse una scorreria nella Calabria e nelle Puglie, incontrata un'armata bizantina e venuto a battaglia, perse dieci navi (858).

La conquista della fortissima Castrogiovanni fu l'impresa più famosa di Abbás, che qui ci piace riprendere dai testi di MICHELE AMARI.
"Era l'inverno dell'859; da una scorreria di Saraceni nel contado di Castrogiovanni era stato condotto, fra gli altri prigionieri, a Palermo un uomo di famiglia molto nota, ma ribelle. Abbás comandò che fosse messo a morte ma il prigioniero gli si avvicinò e con patrizia disinvoltura "Lasciami la vita - gli disse - e ti comunicherò una buona notizia che fa per te" . "Quale ?" gli chiese l'emiro dopo averlo preso da parte; " Io ti darò in mano Castrogiovanni. Quest'inverno -proseguì -fra queste nevi, il presidio non si aspetta assalti e fa male la guardia; quindi se vuoi tu mandare una parte dell'esercito, saprò io dove farlo entrare a Castrogiovanni" - Abbás acconsentì; scelti mille cavalli e settecento uomini dei più validi li spartì in drappelli di dieci uomini; mise un capo a ciascun drappello, preparò ogni cosa in gran segreto e guidando lui stesso la spedizione, usci nottetempo dalla capitale. Evitò, la solita via di Caltavuturo, aspra e difficilissima in inverno, che si snoda da Palermo a Castrogiovanni a levante; e seguì l'altra strada più lunga e agevole che conduce a Caltanissetta, città a sedici miglia dall'insidiata rocca. Si legge che Abbas sostasse in una zona di montagna con un lago, forse lago Pergusa, lontano cinque miglia a sud da Costrogiovanni; e si deve supporre la successiva fermata a Caltanissetta ovvero a Pietraperzia, un paese vicino. Vi rimase in agguato con il grosso delle truppe, mentre inviava a compiere l'azione più ardua Ribbáh con gli uomini più abili e forti, che si mossero senza far rumore durante notte, portandosi dietro in catene il traditore cristiano e facendolo camminare sempre sorvegliato a vista. Costui arrivato ad un certo punto, dov'era un costone di rocce, disse che bisognava salire con alcuni uomini per quella difficile parete, e che proprio per questo, mai controllata dalle sentinelle, mentre il grosso degli uomini di Abbas dovevano portarsi sulla parte settentrionale del monte di Castrogiovanni, nascondersi e intervenire solo quando avrebbero visto aprire la porta della rocca. Ribbàh, seguendo il traditore cominciò ad arrampicarsi su per l'erta finché si trovò sotto la cittadella; Era giunta l'alba, quell'ora fatale quando passato il pericolo della notte, le sentinelle si rilassano o si danno al sonno. Il traditore condusse allora i Musulmani all'entrata di un acquedotto che si apriva sotto le mura; vi entrarono e rividero il cielo dentro la fortezza. Si avventarono sui Bizantini; uccisero tutti quelli che si facevano avanti poi aprirono le porte. Abbás in attesa, a quel punto spronò i suoi uomini all'invasione; entrò nella rocca allo spuntar del sole, l'ora della prece mattutina dei Musulmani, il quindici scewàl dell'anno 244 dell'era maomettana, il 24 gennaio 859 dell'era cristiana). A nessuno dei soldati cristiani fu risparmiata la vita. Figliuoli di principi, aggiunge la cronica, furono fatti prigionieri; così le donzelle patrizie con i loro gioielli; un bottino che era cos' tanto che non si poteva quasi contare. Abbás immediatamente fece costruire una moschea; fece innalzare una ringhiera; e vi salì il successivo venerdì, il "dì dell'unione", come lo chiamano i Musulmani, perché i loro teologi affermano che si sono uniti insieme gli elementi del mondo. Il feroce condottiero, fra i corpi della strage, i1 pianto delle vittime, le grida e gli eccessi dei vincitori, arringava i suoi attribuendo ad Alláh la vittoria di Castrogiovanni.

Questa vittoria, la si ricordò fra le più famose vittorie del tempo; e tanta fu la gioia dei Musulmani quel giorno, che, dimenticando perfino le gelosie di Stato, l'emiro di Sicilia inviò alcune "belle ricchezze" materiali e umane, al principe aghlabita d'Africa; per scegliere le gemme più preziose e le donne e i fanciulli fatti prigionieri, e farne un regalo al Califfo di Bagdad…".

La presa di Castrogiovanni fu un duro colpo per i Siciliani che consideravano questa città inespugnabile e si preoccuparono talmente alle sorti del resto dell'isola da spingerli a ritornare a Costantinopoli implorando la corte a fare uno sforzo contro gli Arabi. Trecento navi cariche di armati mossero nell'autunno dell'859 o nell'estate dell'860 verso Siracusa e sbarcato qui l'esercito, puntò verso il nord dell'isola; ma Abbás, uscito da Palermo, andò incontro ai Bizantini, li sconfisse, li insegui fino alle coste settentrionali dove la flotta greca si era messa alla fonda, fece una grande strage di nemîci e catturò cento navi.
L'arrivo dei Bizantini aveva scatenato a ribellarsi parecchie città siciliane che ai musulmani avevano già promesso obbedienza e il pizzu, Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, Sutera, Avola e molte altre ancora, che misero su un esercito raccogliticcio e si opposero alle agguerrite truppe di Abbás, giunte tra l'860 e l'861 a fare la repressione. L'esercito isolano fu battuto e alcune città dovettero aprire le porte; ma Platani, assediata, tenne eroicamente testa al nemico, il quale, saputo che un esercito bizantino marciava contro Palermo, levò l'assedio, gli andò contro e nelle vicinanze di Cefalù lo sconfisse costringendolo a ritirarsi malconcio verso Siracusa.
Il 13 agosto 861, alle Grotte, tornando da una scorreria fatta nel territorio siracusano, Abbàs moriva, dopo undici anni di continue guerre. Si era reso per la sua ferocia tanto odioso ai Siciliani, che questi, appena la nave ammiraglia nemica parti per la capitale, dissotterrarono il cadavere del guerriero, che con tanta pompa era stato sepolto, e lo diedero alle fiamme.

Ad Abbás successe lo zio AHMED IBN-JAKUB, ma che nel febbraio dell'862 fu sostituito da ABDALLAH, figlio di Abbás. Non essendo questi ben visto a Cairuàn, fu mandato dall'Africa in Sicilia come luogotenente, - nel giugno di quel medesimo anno, il prode KHAFÀGIA IBN-SOFIÀN.
Sotto di lui, nell'864, cadde per tradimento in potere dei Musulmani la città di Noto e più tardi, dopo non breve assedio, Scicli. Nell'866 fu presa Troina e gli abitanti portati via come schiavi; Noto che si era ribellata fu di nuovo espugnata e la stessa sorte subiva Ragusa. Due anni dopo, nell'estate dell'868 un esercito bizantino subiva presso Siracusa una sanguinosa sconfitta e poco mancava che nel gennaio dell'anno seguente Taormina non cadesse in potere degli Arabi per un colpo di mano.

Quella fu l'ultima vittoria di Khafágia: il 15 giugno dell'869, tornando da Siracusa che invano ancora una volta aveva assediato e presso la quale il figlio Mohammed era stato messo in fuga, in riva al fiume Dittàino fu ucciso a tradimento con un colpo di lancia da un berbero. E la stessa sorte del padre toccò il figlio Mohammed, che gli successe nel governo, lo uccisero i suoi servi a Palermo il 27 maggio dell'871; e nello stesso anno cessava di vivere Ribbàh, il conquistatore di Castrogiovanni, che la corte aghlabita aveva messo al governo della Sicilia musulmana.

I MUSULMANI NELL'ITALIA MERIDIONALE

Siamo qui sopra arrivati all'anno 871, parlando solo della Sicilia, tralasciando, anche se le abbiamo soltanto accennate, alle scorrerie che dell'anno 836 in poi ci furono sulle altre coste della penisola italiana; che ora andiamo ad elencare.
Una volta sbarcati e ben insediati nella Sicilia era naturale che gli Arabi guardassero all'Italia come ad una meta di scorrerie e di conquiste. Abbiamo visto che nell'836 Andrea, duca di Napoli, stretto dai Beneventani, aveva chiesto l'aiuto dei Musulmani di Palermo che mandavano nel golfo napoletano una flotta costringendo i Longobardi a togliere l'assedio. Qualche anno dopo gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque dell'Adriatico e s'impadronirono di Brindisi.
Galoppò di corsa per respingerli con numerose squadre di cavalli SICARDO, duca di Benevento, ma il galoppo si bloccò in un banale tranello teso dagli arabi; questi scavata presso la città una lunga e profonda trincea, la ricoprirono con rami e con zolle di terra, poi vi attirarono l'ingenuo nemico che cadde nella micidiale trappola subendo gravissime perdite, mentre Sicario riuscì salvarsi. Questi Musulmani dovevano essere molto pochi, infatti, avuta notizia che dopo il tremendo scacco, Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita di quell'umiliazione, diedero il fuoco alla città e se ne ritornarono in Sicilia.

SICARDO invece nell'839 fu poi ucciso dagli stessi Beneventani stanchi della tirannide; la sua morte segnò l'inizio di una guerra civile nel ducato.
Benevento aveva poi innalzato al potere il tesoriere RADELCHI; mentre i nobili di Salerno, i gastaldi di Conza e di Acerenza e Landolfo conte di Capua si schierarono in favore di SICONOLFO, fratello di Sicardo, e lo proclamarono duca. Radelchi scese in guerra, ma presso Salerno fu vinto in battaglia, anche se Sinocolfo non riuscì del tutto a cacciarlo da Benevento; in suo potere però caddero quasi tutta la Puglia e la Calabria longobarda.

Le condizioni del ducato, già gravi per la guerra civile, peggiorarono per l'intervento dei Musulmani. Questi, approfittando delle discordie che insanguinavano l'Italia meridionale, dalla Sicilia infestarono le coste della Calabria e si resero padroni di Taranto, nelle cui acque, scontratisi con una flotta veneziana di sessanta navi mandata dall'imperatore bizantino Teofilo, l'annientarono. Pochissimi navigli riuscirono a sfuggire ai Musulmani, che però li inseguirono e si spinsero fin nell'alto Adriatico, e già che c'erano, prima saccheggiarono e diedero alle fiamme nel marzo dell'840 Osero, nell'isola di Cherso; poi sbarcarono presso Adria; infine piombarono su Ancona facendo prigionieri e appiccando il fuoco alle case; nella via del ritorno e si diedero a pirateggiare qui e là, dov'era facile, in mare e in terra fino al canale d'Otranto. Avevano così scoperto il lungo mare Adriatico, così poco difeso dai bizantini e non ancora potente la Serenissima.

E per questo motivo, l'anno seguente la flotta musulmana comparve di nuovo nell'alto Adriatico e presso l'isoletta di Sansego sconfisse ancora i Veneziani. Padroni del mare e di Taranto, i Saraceni non si limitarono come prima a fare scorrerie nella Calabria e nelle Puglie, ma presero stabile dimora in molti punti delle coste.
Allettate dalla facilità dell'impresa numerose bande d'avventurieri musulmani venivano dalla Sicilia, dall'Africa e da Creta e, sbarcati sulle coste dello Jonio, del Tirreno e del basso Adriatico, vi fondavano piccole colonie indipendenti, aiutandosi a vicenda quando il caso lo richiedeva e riunendo le loro forze quando dovevano condurre imprese di non lieve entità.

Messo a mal partito da Siconolfo, RADELCHI ebbe la sciagurata idea di chiedere aiuto contro il suo rivale ad una di queste bande mercenarie, comandata dal berbero HHALFÚN, che lui fece accampare nelle vicinanze di Bari (842). Ma una notte il pirata berbero s'impossessò di sorpresa della città e Radelchi, non avendo forze sufficienti per cacciarlo e inoltre avendo bisogno del loro aiuto, lasciò i Saraceni padroni di Bari per potersene poi servire contro il rivale, che però, imitando Radelchi, assoldò a sua volta anche lui una banda di questi pirati, cretesi, comandata da APOLOFAR (forse un arabo avventuriero, Abu '1-Far).
Così i Musulmani -pirati o regolari- avevano buon giuoco della guerra civile beneventana: con il pretesto di aiutar l'uno e l'altro duca spillavano quattrini ad entrambi, devastavano in continue scorrerie l'Italia meridionale, ne riportavano ricco bottino nelle località delle coste saldamente occupate e tenevano presidi nelle più importanti città del ducato come Benevento e Salerno.
Dalle lotte intestine che dilaniavano il ducato beneventano trassero vantaggio Amalfi e Napoli. La prima, dopo che Siccardo l'aveva sottomessa e deportati tutti gli abitanti a Salerno, riacquistò -dopo la sua morte- la propria indipendenza nell'839, la seconda l'aveva già da qualche tempo ottenuta; ma ora entrambe avevano enormemente sviluppato la loro attività marinaresca e disponevano di flotte da guerra numerose e forti con le quali erano in grado di tenere a bada l'armata musulmana.
La necessità poi aguzzò l'ingegno. L'indipendenza, la genialità, l'abilità marinaresca, e i commerci che stavano riprendendo nella penisola, gli amalfitani non disdegnando nemmeno le conoscenze arabe della navigazione, sfruttando l'insidiosa ma anche preziosa posizione del loro porto, superprotetti alle spalle dalla terraferma, sfruttando ogni centimetro di quella lunga "gola" che sta dietro l'apparente piccolo nucleo sul mare (ancora oggi poco conosciuta, ma con vestigia ancora intatte, come le millenarie cartiere) diventa una delle più importanti basi marittime, e vanno a mettere gli amalfitani le loro prime basi perfino a Costantinopoli per svolgere i commerci nel Mediterraneo orientale.

Torniamo agli Arabi. Impegnati nell'assedio di Messina, nelle operazioni in Val di Noto e contro l'esercito bizantino sbarcato in Sicilia e sconfitto nell'845, i Musulmani dell'isola avevano per tre o quattro anni lasciate in pace le coste tirreniche e ioniche della penisola; imbaldanziti dalla conquista di Messina e dalle disfatte inflitte ai Bizantini, ripresero nell'846 ad infestare le rive italiane e, non curandosi dei buoni rapporti che avevano con il ducato di Napoli, occupavano la punta della Licosa che chiude a sud il golfo di Salerno e posero una guarnigione nell'isoletta di Ponza.
Era duca di Napoli SERGIO I, di nobile famiglia, valoroso ed accorto; lui comprese che se avesse lasciato ai Musulmani il possesso di Ponza e della Licosa avrebbe prima o poi pregiudicata la libertà di Napoli e, non osando con le sole forze del ducato opporsi ai saraceni, convinse e riuscì ad unire in una lega con Napoli le due repubbliche di Amalfi e Gaeta, poi, guidando di persona i navigli messi insieme, scacciò da Ponza e dalla punta Licosa i Saraceni.
Questi si ritirarono in Palermo, ma di lì a poco, nello stesso anno 846, si ripresentarono con una numerosa flotta nelle acque di Napoli. Questa volta il loro disegno era vasto. Essi non volevano soltanto prender la rivincita dello scacco subito, ma estendere le loro razzie al Lazio che sapevano indifeso dal lato del mare e tentare di portare le armi contro Roma, centro della fede nemica ma soprattutto un'ambita città che prometteva un bottino ingente.

Allo scopo di tenere immobilizzate le forze della lega campana, gli Arabi occuparono e presidiarono il forte castello di Miseno, poi rotti gli indugi e mossi dal venale ardire, con il grosso delle navi si diressero alla foce del Tevere. Ostia, alcuni anni prima, papa Gregorio IV l'aveva rafforzata con mura e con trincee, ma nonostante questo dopo una debole resistenza fu espugnata e i Musulmani si presentarono davanti alle mura di Roma nell'agosto di quell'anno. Ma impadronirsi della metropoli non era un'impresa facile: le sue fortificazioni erano salde e le milizie cittadine le difendevano egregiamente. Perciò gli Arabi che non erano attrezzati né preparati a un assedio si accontentarono di penetrare nei sobborghi indifesi, mettendo però a sacco le due maggior basiliche cristiane: S. Pietro e S. Paolo, che, essendo allora fuori le mura, furono facile preda degli invasori. Tutti i tesori che vi erano accumulati furono asportati, ingiurie furono recate alle sacre immagini e alle reliquie dei Santi e fu profanata perfino la tomba stessa dell'Apostolo.
Mentre erano impegnati nei saccheggi, giunse ai Musulmani la notizia che un esercito franco si avvicinava. Il papa LEONE aveva chiesto soccorso a Ludovico II, figlio dell'imperatore Lotario e a Guido da Spoleto.
Quest'annuncio e l'atteggiamento ostile dei contadini consigliarono gli invasori ad allontanarsi da Roma. A Civitavecchia una parte della soldataglia prese posto nelle navi dove furono messi i tesori trafugati, il resto, imboccata la via Appia marciò verso il mezzogiorno con il proposito d'invadere dal nord il ducato di Benevento e dare man forte ai loro correligionari che già vi si trovavano.
Per via saccheggiarono ed arsero Fondi e giunti nel mese di settembre a Gaeta le posero l'assedio. La città oppose fiera resistenza e fra i difensori si distinse Bertario che poi fu abate di Montecassino; ma sarebbe indubbiamente caduta in mano degl'infedeli se non fossero sopraggiunti dalla via di terra i Franchi guidati dal Marchese GUIDO DI SPOLETO e dal mare la flotta di Napoli e di Amalfi. Purtroppo tratti in agguato i primi, il dieci novembre i Musulmani li sconfissero.
Giungeva in quel mentre in soccorso di Gaeta CESARIO, valoroso figlio dell'altrettanto ardito duca SERGIO (quello della lega); bastò la sua presenza per intimorire e immobilizzare il nemico a terra e le navi musulmane fuori del porto. Queste però riparate al largo, si vennero a trovare in una critica situazione con il mare agitato da una tempesta; a quel punto gli Arabi scesero a patti con Cesario; lo pregarono ed ottennero di poter fare entrare nel porto i navigli promettendo che, rasserenato il tempo, sarebbero partiti subito. E così fu: dopo un paio di giorni, tornata la calma sul mare e il cielo sereno, i Musulmani alzarono le vele da Gaeta e ripresero il mare; ma, furono colti al largo da una nuova improvvisa furiosa tempesta, e in gran parte finirono in fondo al mare navi e uomini.

Torniamo indietro di alcuni giorni, torniamo al famoso agosto ad Ostia. Le scorrerie musulmane nel ducato longobardo, la presenza di navi nell'Adriatico, le occupazioni di porti nel sud, le lotte tra Radelchi e Siconolfo non potevano lasciare indifferente LOTARIO. Egli non era più tornato in Italia da quando, nell'840, se n'era allontanato, trattenuto di là dalle Alpi prima dalle guerre contro i fratelli poi dalle trattative di pace e dalla divisione dell'impero stabilita a Verdun; ma, preoccupato dal contegno del nuovo papa SERGIO II, successo a Gregorio IV nel gennaio dell'844, che era stato consacrato senza la presenza del messo imperiale, vi aveva quell'anno stesso mandato il figlio LUDOVICO II.
Questi era partito dalla Francia nella primavera di quell'anno alla testa di un forte esercito ed accompagnato da conti e prelati, tra cui lo zio Drogone, vescovo di Metz; a nove miglia da Roma era stata ossequiato dai dignitari del clero, ad un miglio dalla città dalle corporazioni della milizia e dal popolo ed alla porta della basilica di S. Pietro dal Pontefice, e con lui era andato ad inginocchiarsi davanti alla tomba dell'Apostolo.

Qualche giorno dopo il Papa e il popolo romano avevano prestato il giuramento di fedeltà a Lotario e il 15 giugno (844) LUDOVICO II era stato coronato con grande pompa re d'Italia.
A Roma era andato a trovare il re il longobardo SICONOLFO per implorare il suo aiuto contro il rivale RADELCHI e farsi concedere l'investitura dell'intero ducato beneventano, ma le preghiere e i suoi ricchi doni non avevano fatto breccia nell'animo di Ludovico, e Siconolfo dovette tornarsene nell'Italia meridionale a continuare la guerra con le sole sue forze.
Poco dopo anche Ludovico aveva lasciato Roma per rientrare a Pavia, e in questa città si trovava quando nel agosto dell'846, gli giungeva la notizia della comparsa dei Musulmani a Ostia, che erano arrivati sotto le mura dell'antica capitale dell'impero, che avevano profanato e depredato San Pietro.

Grande impressione dovette causare questo avvenimento nell'animo di Ludovico visto che si affrettò a recarsi in Francia dal padre per informarlo subito del fatto e discutere dei provvedimenti da prendere per la difesa di Roma e della basilica dell'Apostolo. La discussione fu portata in un'assemblea tenuta nell'ottobre dell'846 e qui fu stabilito che la Chiesa fosse restaurata e munita di un forte muro di cinta che la proteggesse dagli assalti degli infedeli e che alle spese partecipassero tutti i sudditi del regno dotati di benefici o di beni immobili.
Il 27 gennaio 847, moriva papa Sergio II, sul soglio vi saliva il 1° aprile papa LEONE IV. Sarà lui gestire questi interventi difensivi.

Ma questo provvedimento preso all'assemblea franca non poteva rimanere isolato, né risolveva la questione della sicurezza dell'Italia. La sorte della Sicilia insegnava quanto grande era la tenacia musulmana e come, dopo le scorrerie, gli Arabi erano soliti far seguire alle loro conquiste gli insediamenti.
Queste, era ormai cosa nota, erano agevolate -lo abbiamo visto- dalle rivalità e dai disordini del ducato beneventano, e finché tale stato di cose durava, il ducato e quindi l'Italia meridionale, non poteva opporre nessuna resistenza ai Musulmani anzi i due reciprocamente insofferenti uno all'altro, avrebbero continuato ad aprir loro le porte (più sopra lo abbiamo visto fare da entrambi i due rivali). Occorreva pertanto provvedere da quella parte mettendo fine all'anarchia che vi regnava.

Il ducato beneventano sebbene, di fatto, era indipendente non aveva mai cessato di essere, sia pure nominalmente, sotto la sovranità franca; questa sovranità anzi recentemente a Roma era stata più che confermata, negando Ludovico (anche questo lo abbiamo visto sopra) la richiesta fatta da Siconolfo di concedergli l'intera investitura del ducato. Per queste ragioni Ludovico si considerava in diritto d'intervenire nelle faccende interne del ducato.

Nella medesima assemblea dell'ottobre dell'846 si stabilì anche di fare una spedizione nell'Italia meridionale che aveva due scopi: scacciare i Musulmani dalla penisola e pacificare il ducato beneventano dividendolo in parti uguali tra Radelchi e Siconolfo. La spedizione nello stesso tempo avrebbe dato motivo a Ludovico di affermare la sovranità dei Franchi su quell'estrema parte dei domini dell'imperatore Lotario.
Doveva capitanare la spedizione Ludovico II, il quale con l'esercito d'Italia rinforzato dalle milizie transalpine, il 15 marzo dell'847 si sarebbe trovato a Larino; la missione politica era affidata a tre messi imperiali che dovevano procedere alla divisione del ducato con la cooperazione del duca di Napoli. Di aiuto alla spedizione doveva esserci anche Venezia inviando una flotta. Non abbiamo molte notizie su questa spedizione che alcuni storici dicono essere avvenuta prima, altri dopo l'849. Sappiamo però che vi partecipò il marchese di Spoleto e che Radelchi consegnò agli imperiali di Ludovico, i Musulmani di Benevento e il loro capo Massar, prode quarto generoso.

Di questo capo saraceno -narra MICHELE AMARI- sulla scorta di un cronista del tempo "che in una scorreria di otto giorni, nell'autunno dell'846, Massar uscito da Benevento, arrecò gravi danni al monastero di Santa Maria in Cingola e a quel di San Vito presso Isernia; distrusse il castello di Telese; e si spinse fino a Monte Cassino, Aquino ed Aree, depredando e distruggendo ogni cosa, fuorché il Monastero Cassinese: dove, per non fare offese ai monaci, quando il proprio cane afferrò un'oca dei frati, gli corse dietro con lo scudiscio, fin quando il cane non trasse di bocca il volatile, poi si piantò davanti alla porta del monastero, dicendo ai suoi scagnozzi di non entrare se non erano meno docili del cane".
Questa forse fu una lealtà verso Radelchi che non amava inimicarsi l'abate di Monte Cassino. Ma forse anche alla generosità dell'Arabo. Nel giugno del 847, sconquassata da terremoti tutta la provincia con Isernia ridotta a un mucchio di rovine, alcuni suoi ceffi suggerirono a Massar che era una buona occasione per saccheggiar quella città quasi abbandonata. Lui rispose: "Il Signor del creato ha fatto sentire la sua collera e io dovrei aggravarla? No, non andrò".
Nonostante questa indole, Massar e i suoi, furono poi dalle truppe di Ludovico catturati e condotti al campo dei franchi; alla vigilia delle Pentecoste legati ai pali si divertirono tutti a infierire su di loro proprio nelle "costole", a colpi di lancia, fino a ucciderli e ridurli a brandelli. Fu insomma una bella appropriata festa "cristiana" a spese degli infedeli che avevano un altro profeta, ma sempre lo stesso Dio.
Vendicò pochi mesi dopo lo scempio, l'emiro siciliano Abbás ibn-Fadhl, delle cui gesta si è già parlato; anche lui aveva il suo giorno (già una volta, questo "dì", lo abbiamo visto celebrare ad Enna) il quale, sbarcato nella terra ferma, prima devastò le campagne, poi si accani in una battaglia con i cristiani, li sconfisse, prese i prigionieri, e portati questi al campo fecero festa, tagliò a tutti la testa, fece un bel lugubre carico e le inviò tutte come trofei a Palermo.

Con questa e altre sconfitte subite, anche se ci furono alcune vittorie, la spedizione di Ludovico dal lato militare non raggiunse gli scopi che Lotario si era prefisso perché i Mussulmani non furono scacciati da tutte le terre del ducato e la Puglia rimase in loro potere; ma dal lato politico fu feconda di risultati. I due rivali beneventani conclusero un trattato di pace e giurarono obbedienza al re franco; il ducato fu diviso in due principati, di Salerno e di Benevento: al primo furono uniti i gastaldati di Taranto, Cassano, Cosenza, Laino, Conza, Sarno, Cimitile, Capua, Teano, Sora, Latinio, Montella, Furcula e parte di quello di Acerenza, al secondo fu assegnato il resto con le città di Benevento, Brindisi, Bari, Canosa, Lucera, Siponto, Ascoli, Bovino, Sant'Agata, Telese, Alife, Isernia, Boiano, Larino, Biferno e Campobasso.

La divisione - come si vede - teneva conto dei paesi soggetti ancora ai Saraceni e che Siconolfo e Radelchi s'impegnavano di liberare. Inoltre i due nel trattato s'impegnavano di difendersi a vicenda dai nemici esterni, accordavano il ritorno agli esuli, il condono dei danni e davano garanzie ai beni privati. Se la spedizione di Ludovico aveva fiaccato in parte la baldanza musulmana nell'Italia meridionale non aveva però allontanato il pericolo di nuove invasioni né tolta ai Saraceni la possibilità di fare nuove incursioni e tanti bottini a spese delle sfortunate città prese di mira.
A Roma, dove con il nuovo papa LEONE IV, fremevano i lavori per cingere di mura le basiliche esterne ed erano già state costruite nell'849 due torri a Porto e si era sbarrato il Tevere con catene di ferro, giunse la notizia che sulle coste della Sardegna si concentravano numerose forze di Saraceni d'Africa con il proposito di fare dell'isola una base per poi più agevolmente compiere della scorrerie sulle coste italiane.

La notizia era giunta anche a Napoli, a Gaeta e ad Amalfi, e queste città, non tollerando che i Saraceni spadroneggiassero sul Tirreno e infestassero e saccheggiassero le coste della penisola, con un nuovo spirito che non era ancora mai apparso in Italia (alcuni affermano che fu il primo tentativo patriottico d'Italia) armarono i loro navigli, affidarono il comando al prode CESARIO e li mandarono davanti ad Ostia.
LEONE IV, che sapeva dei rapporti d'amicizia intercorsi nel passato tra Musulmani e Napoletani, perfino a lui non sembrava vero quello "spirito", sospettando un'insidia, volle che Cesario giurasse di essere venuto come amico ed alleato e, quando fu convinto che le navi della lega campana erano accorse veramente per difendere Roma dai saraceni, volle lui stesso condurre le sue milizie romane e quelle del ducato al campo per unirle a quelle amalfitane-napoletane già pronte per sferrare l'offensiva per terra e per mare agli arabi di Ostia.

I soldati, i marinai, alla vista del Pontefice, gli s'inginocchiarono davanti, e lo pregarono che li benedicesse e li comunicasse per poi avere maggior forza nel momento dello scontro. Il Pontefice esaudì le preghiere dei campioni di fede e in questa occasione "anche di patria" che palpitava nel cuore di quei rudi naviganti, poi celebrò la messa, comunicò i combattenti, diede l'apostolica benedizione, pregò Iddio che volgesse ai Cristiani la vittoria sugli infedeli, e infine se ne tornò a Roma.

Il giorno dopo comparvero all'orizzonte numerosissime le navi dei Musulmani, schierate in ordine di battaglia e subito i guerrieri romani e ducali montarono sui loro navigli, pronti per aggredire il nemico, mentre la flotta napoletana-amalfitana, guidata da Cesario, iniziò i suoi movimenti per affrontare frontalmente l'armata musulmana.

Il cozzo fu tremendo; ma per alcune ore, le sorti della battaglia furono molto incerte, quando, ad un tratto, si oscurò il cielo, un vento impetuoso si levò, s'ingrossarono le onde, fu sconvolto tutto il mare, le navi senza governo e le vele lacerate galleggiavano come fuscelli, altre il vento di libeccio le spingeva sulla spiaggia, poi le risucchiava, e tornava a ributtarle sfasciate sul lido.

Nella violenza della tempesta rimasero salde le navi italiane, costruite non solo più solide ma erano anche abilmente manovrate dagli esperti navigatori di Napoli e di Amalfi che conoscevano bene la violenza di quel libeccio, e prevedendo il peggio, erano arretrati, pronti ad entrare nel porto; quelle dei Saraceni invece, piccole, meno resistenti, montate da ciurme poco esperte, furono prima sballottate dai venti e dalla tempesta poi quasi tutte andarono a picco nella furia dei marosi, o arenate e sfasciate sulla scogliera e il lido.

Un'apocalittica strage di Musulmani, morti quasi tutti annegati; quelli finiti in mare, che imploravano di essere salvati dagli stessi cristiani, furono fatti prigionieri, portati poi a Roma e adibiti ai lavori di quelle nuove mura per cingere la città, e che presero il nome dello stesso papa Leone: "Mure Leonine", terminate nel 852.

"…Gloriosa battaglia, - scrive il Romano - delle più belle combattute in Italia per una causa nazionale! Eppure di questa splendida impresa non rimase che l'oscuro ricordo lasciato dai cronisti, poi nelle genti anche il ricordo venne a mancare, quando, attraverso le mutazioni civili che avvennero nell'Italia meridionale, la monarchia normanna questi ricordi li soffocò, insieme con l'indipendenza; e perfino le limpide memorie delle repubbliche marittime di Napoli, di Amalfi e di Gaeta furono offuscate, infine dimenticate"
La storia deve riconoscere ad essa e a CESARIO il merito di quella che, secondo alcuni, fu la più insigne vittoria navale dei cristiani sui musulmani, prima di Lepanto.

"Coscienza nazionale", "indipendenza", "patria", "Italia Unita", erano, e rimasero per altri dieci secoli parole abominevoli, ogni tanto furono qui e là nella penisola invocate dalla "plebe", e che invece di imporsi come "popolo", non era altro che -dissero- un'accozzaglia, i "cospiratori" dell'ordine costituito "già" dalla divina provvidenza, e dai sovrani "unti dal signore", i re di una plebe per "volontà divina".

La storia civile italiana, che non trascurò i più insignificanti episodi della nostra vita comunale, dimenticò o quasi gli sforzi e l'ardire generoso con cui i prodi e abili marinai di Amalfi e di Napoli fecero le prime leghe e combatterono le prime battaglie che furono pure -dal tempo dei Romani- le prime vittorie riportate da Italiani "italiani" contro gli stranieri. Cancellata dai fasti civili, la memoria di quei trofei rimase solo nella liturgia e nelle tradizioni ecclesiastiche che ne attribuirono il merito alla Chiesa, ai "miracoli",e che il vento "aveva combattuto per i cristiani", e ancora oggi la vittoria di Ostia, immortalata da Raffaello in un affresco del Vaticano, vive nel mondo dell'arte come un trionfo del Pontificato romano.
(Ma non non mancò Raffaello di far campeggiare di fronte al Papa la figura del napoletano coi suoi prodi guerrieri).
Roma espresse poco la sua gratitudine ad Amalfi e a Napoli. E gli "unti del signore" che vennero molti secoli dopo, nell'ambita unità, ancora meno. Non li chiamarono nemmeno più "plebei", li chiamarono "briganti".
Scrisse in proposito il Gleijeses : "Noi non riteniamo che sia esagerazione municipalistica, come dice il Cassandro, l'affermazione dello Schipa che questa vittoria di Ostia sia stata la più insigne vittoria navale dei Cristiani sui Musulmani prima di Lepanto. Questa battaglia è un vanto dei napoletani e poiché tutti ci rinfacciano tanti difetti e tanti torti, non vediamo perché, potendo vantare qualcosa, dobbiamo astenercene".

FINE

Lasciamo il meridione d'Italia e ritorniamo proprio a Roma,
al papato degli ultimi anni, ripartendo da quell'assedio di Ostia
quando era appena salito sul soglio Leone IV
E' il periodo che va dal 850 al 867 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi

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