BIOGRAFIE

LUIGI EINAUDI

Il primo capo dello Stato eletto dal Parlamento Repubblicano


CON EINAUDI SI VA A SCUOLA DI  
 LIBERALISMO E DI LIBERISMO

"Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai 
né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo"
"non confondiamo  il "governare" col "comandare".

LUIGI EINAUDI era nato a Carrù (Cuneo) il 24 marzo 1874. Laureatosi in legge a soli 21 anni, nel 1902 era già docente all'Università di Torino occupando la cattedra di Scienza delle finanze con l'incarico di Legislazione industriale ed economica politica di quel Politecnico. Due anni dopo lo troviamo  sempre insegnante di Scienza delle finanze all'Università Bocconi di Milano.

Nel 1912 apparve un originale contributo per la riforma fiscale con una nuova rivoluzionaria teoria finanziaria. Era di un giovane poco più che trentenne, LUIGI EINAUDI che la inserisce pubblicandola in un suo saggio dal titolo: Concetto di reddito imponibile e sistema di imposte sul reddito consumato. Ma già sul Corriere della Sera del 25 gennaio del 1909, il trentenne economista aveva già iniziato  una serie di articoli, proponendo una vera e propria rivoluzione fiscale. Far prelevare dallo Stato a tutti i cittadini un'imposta comunale di famiglia in base al reddito prodotto dai salari, o dalle attività, o dagli immobili o altro, applicando un aliquota. Farà in seguito molta strada questa sua idea, porterà infatti alla dichiarazione annuale delle imposte sui redditi delle persone fisiche, l'attuale 740.

* Nel 1919 in ottobre Francesco Saverio Nitti lo nomina Senatore del Regno.

Oltre che redattore de "La Stampa" di Torino e del "Corriere della Sera" di Milano fino al 1926, Luigi Einaudi è corrispondente  finanziario ed economico del settimanale "The Economist".
Ma già dal 1900 e fino al 1935 dirige la rivista "La Riforma Sociale" (famose le dispute con Croce; ne parleremo più avanti), poi la "Rivista di Storia Economica" dal 1936 al 1943.
Un saggio su "Liberismo e comunismo" appare anche su "Argomenti" del dicembre 1941. 

Lasciata l'attività giornalistica sul Corriere della Sera durante gli anni del fascismo (quando Mussolini costrinse il ritiro del direttore Albertini), dopo il 25 luglio 1943 torna a collaborare con il quotidiano milanese, oltre che essere richiamato a rivestire nuovamente la carica di rettore nell'ateneo Torinese.
Ma è un soggiorno il suo di brevissima durata. 

Infatti, dopo l'8 settembre si rifugia in Svizzera dove gli viene offerta una cattedra all'università di Ginevra. Rientrerà in Italia il 5 gennaio del 1945.
Nel frattempo inizia a redigere una serie di articoli economici e politici per "Il Risorgimento Liberale".

Articoli caustici, quelli politici, che però non fu in grado di modificare

"Via i prefetti" - aveva tuonato LUIGI EINAUDI rientrando dalla Svizzera con  l'Italia liberata- "via tutti i suoi uffici e le sue ramificazioni. Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata. Il prefetto se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata é scomparsa. Non accadrà nessun male se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'Unità del Paese non é data da prefetti e da provveditorati agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni romane. L'unità del Paese é fatta dagli italiani".

Buoni i propositi, ma ci fu politicamente l'incapacità di realizzarli dentro un "sistema" che non era cambiato, ma aveva solo cambiato la camicia. Lui stesso, proprio lui, Luigi Einaudi, poi nominato Presidente della Repubblica nel 1948, riconfermerà molti vecchi prefetti del regime (22), e (proprio lui) ne farà degli altri che con il regime avevano iniziato la loro carriera. E in quanto alla "macchina" sopravviveranno non solo gli Enti (con un altro nome) del regime, ma persino quelli che Luigi Lanaro (in Storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, 1996) definisce "Enti autarchici territoriali"nati nel lontano 1865, e che "peseranno come macigni sullo scrittoio del Presidente" a ricordargli il fallimento delle sue speranze di riforme".

Ben diversi invece i suoi autorevoli interventi come esperto in scienza delle finanze.
Dal 1945-1946 è eletto Componente della Consulta Nazionale. E come deputato all'Assemblea Costituente  (Unione Democratica Nazionale) Luigi Einaudi dà il suo influente contributo ai lavori.
Fin dal suo rientro, nominato Governatore della Banca d'Italia, il 12 settembre successivo con questa funzione, redige una importantissima relazione per il Governo (fatto di politici e non di tecnici) sulla critica questione del cambio della moneta. Cioè sul complesso meccanismo della sostituzione delle vecchie lire e delle am-lire (usate dagli anglo-americani di stanza in Italia) con una nuova moneta.

Luigi Einaudi - in quei frangenti il più competente in materia e il più autorevole- portò a conoscenza la gravità della situazione. Occorreva un intervento radicale, estremamente necessario per mettere ordine nel movimento di valuta e per combattere l'impressionante inflazione in atto. 
Una situazione che si protraeva dalla fine della guerra e dove non sembravano proprio esserci soluzioni se non quella traumatica di una grande svalutazione, pari alla famigerata Weimar. Il cambio ufficiale del dollaro era infatti arrivato a 225 lire, ma sul mercato libero raggiungeva le 600 lire. (cioè superiore al 200%).
 Una situazione insostenibile che culminerà ma finirà con dei drastici provvedimenti che porteranno la lira a essere svalutata del 68,4 %, quindi il dollaro a essere adeguato (apparentemente) a fine anno al cambio ufficiale di 575 lire.

Fu invece contrario (attribuendole a difficoltà tecniche ma soprattutto politiche) che con il cambio della moneta si dovesse procedere anche a un rigoroso e capillare accertamento di natura fiscale e tributario per colpire quegli affaristi e quegli speculatori arricchitisi durante la guerra.
Sotto il profilo morale l'operazione era forse corretta, ma era populistica, avrebbe solo scatenato un "processo alle streghe". Si scelse così il male minore.

1947 - E' Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro delle Finanze e del Tesoro, del Bilancio (conservando l'incarico di Vice Presidente del Consiglio) (1947-1948, nel IV Governo De Gasperi).

L' 11 maggio 1948 è eletto Presidente della Repubblica  (al quarto scrutinio con 518 voti su 872 - 320 voti li ottiene Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre)
Il 28 aprile 1955 Luigi Einaudi termina il settennato, lasciando il Quirinale a Giovanni Gronchi,
e diventa Senatore a vita quale ex Presidente della Repubblica.

  Luigi Einaudi fu un Presidente discreto e competente che, nel 1953, seppe affrontare la prima grave crisi politica italiana (fallimento della “Legge Truffa”, ritiro dalle scena politica di De Gasperi e successiva instabilità degli esecutivi) valendosi di tutti i propri poteri costituzionali ed opponendosi ad ogni indebita interferenza di partiti nelle funzioni presidenziali.

Sul suo profilo ci affidiamo al saggio scritto da GIAN LUIGI FALABRINO
( che appare a fondo pagina su questo stesso sito  "Civiltà del liberismo" )

Per capire liberalismo e liberismo non c'è maestro migliore di chi viene citato oggi troppe volte a sproposito, Luigi Einaudi.
Riprendendo una sua vecchia polemica con Croce, e condannando ogni forma di comunismo, nel 1948 Einaudi scriveva sul "Corriere della Sera" un elogio della "libertà dell'uomo comune" accettando la tesi che la libertà politica debba essere accompagnata dalla libertà economica: "A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare i bisogni elementari della vita? Fa d'uopo dare all'uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica... La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica... Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l'esercizio effettivo, pratico, della libertà: all'un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all'altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà".

Queste tesi erano l'enunciazione sintetica e giornalistica dei principi che Einaudi aveva dibattuto con Croce nella lunga discussione che era cominciata in pieno fascismo, nel 1928 e che era continuata fino al 1949. Era stato un dialogo tra sordi: Croce disprezzava i "sacri principi dell'89" e credeva nella libertà dello Spirito, che sopravvive anche nelle galere e sul patibolo: il sistema politico ed economico più opprimente non può impedire all'uomo di pensare, non può impedire la libertà del suo pensiero. In qualunque condizione si sia e in qualunque azione si faccia, la decisione e la responsabilità sono soltanto nostre: coacti, tamen volunt. Così, l'uomo è libero anche davanti al tiranno che lo pone di fronte al dilemma: o ti sottometti, e salvi la vita a tuo figlio, o ti ribelli e io l'uccido. Sì, la scelta, anche questa scelta, è possibile, ma non è questa la condizione che la libertà invoca per sé stessa e per l'opera di civiltà, di umanamento che essa è chiamata a compiere. 
Il problema delle condizioni della libertà era invece ben presente a Einaudi, estraneo all'idealismo filosofico ed erede della tradizione liberale personalistica: la scelta coatta era sentita da lui come offesa alla dignità dell'uomo, come sottomissione della libertà all'arbitrio e all'immoralità.

E' curioso che per tutti gli anni della discussione tra Croce ed Einaudi, nessuno dei due accennò mai ai differenti presupposti liberali cui essi si riferivano: la libertà dello Spirito, la libertà dell'individuo. In una cosa però concordavano. Nel 1928, su "La Riforma Sociale", Einaudi accettava la tesi di Croce, secondo il quale il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo: il primo "Fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo".

 Lo stabilire la graduatoria dei fini della vita sociale non è compito dell'economista: "Croce ha su questo punto parole scultorie. Chi deve decidere non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libido individuale, e ricchezza solo l'accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana"

Da Adamo Smith a Marshall questa è sempre stata "la premessa e il fine delle fatiche degli economisti, non mai il procacciamento dei beni materiali"

Ancora su "La riforma sociale", nel 1931 Einaudi chiarì meglio il suo pensiero, "osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fatto non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico morale religioso; ma la soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora... Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo".

Aggiungeva poi Einaudi che, dalla frequenza dei casi nei quali gli economisti raccomandavano soluzioni liberiste, è sorto un significato "religioso" della massima liberistica. "Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro, l'azione libera dell'individuo coinciderebbe sempre con l'interesse collettivo". Ma lo stesso Adamo Smith, maestro di questa "religiosità", si è contraddetto troppe volte, fino a elencare "le ragioni di intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all'azione individuale od a questo contrastanti", e spesso ha insistito sull'opposizione fra classi e classi, fra i singoli e la collettività.

Molti anni dopo, su "Argomenti" del dicembre 1941, in un saggio su "Liberismo e comunismo", Einaudi insisteva sul fatto che il liberismo non è il lasciar fare, ma è l'intervento dello stato che fissa i limiti entro i quali il privato può muoversi, cioè i limiti delle forze che potrebbero ostacolare la libera concorrenza, e precisava: "L'intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza non è perciò tanto limitato come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo, e l'altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l'operare pieno della libera concorrenza".

In questo secondo caso, la differenza tra l'interventista (o comunista) e il liberista "non sta nella 'quantità' dell'intervento, bensì nel 'tipo' di esso... Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio muoverti"

Il regime liberistico appare dunque non come l'assenza di leggi e regole, ma come un sistema di leggi, fatte osservare da magistrati indipendenti dal governo, per permettere agli uomini e alle imprese di lavorare nel rispetto degli altri: "essi debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità".

Einaudi sapeva benissimo che liberismo e liberalismo non sempre coincidono. Può accadere, scriveva, che il liberale sia anche liberista, come Cavour tra il 1850 e il 1860; ma può accadere che il liberismo doganale di Chevalier coincida con la dittatura monarchica di Napoleone III. 

Tuttavia non era mai accaduto che un paravento liberista venisse usato prima per puntellare un monopolio traballante, poi per rinforzarlo, evirando il concorrente pubblico, in una confusione tra interessi privati e potere politico che sarebbe impensabile in qualunque altro paese europeo e dell'America settentrionale, e che...

 ... Einaudi non avrebbe potuto neppure immaginare.

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* Luigi Einaudi è stato autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche, soprattutto nelle materie economiche, alcune delle quali tradotte nelle principali lingue straniere.
Questi altissimi meriti hanno avuto ampi riconoscimenti, tra i quali si ricordano: Socio e Vice-Presidente della Accademia dei Lincei; Socio della Accademia delle Scienze di Torino; Socio dell'Institut International de Statistique de L'Aja; Socio dell'Econometric Society di Chicago; Socio onorario dell'American Academy of Arts and Sciences di Boston; Socio dell'American Academy of Political and Social Science di Filadelfia; Socio onorario della American Economic Associciation; Socio onorario della Economic History Association di New York; Presidente onorario della International Economic Association; Socio corrispondente della Societè d'Economie Politique di Parigi; Vice Presidente della Economic History Society di Cambridge; Socio corrispondente del Coben Club di Londra; Socio corrispondente della Oesterreichische Akademie der Wissenschaften di Vienna. Gli sono state conferite le lauree"honoris causa" dalle Università di Parigi e di Algeri.

* Fra le altre cose Luigi Einaudi si è sempre dedicato personalmente alla conduzione della sua azienda agricola presso Dogliani, applicandovi i più moderni sistemi colturali.
Luigi Einaudi era coniugato con Ida Pellegrini dalla quale ha avuto 3 figli.

LUIGI EINAUDI nato a Carrù (Cuneo) il 24 marzo 1874
è deceduto a Roma il 30 ottobre 1961 all'età di 87 anni.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

* Gli scritti di Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo sono principalmente:
* Liberismo, liberalismo e origini della guerra, in "La riforma sociale", settembre ottobre 1928
* Liberismo e liberalismo, in "La riforma sociale", marzo - aprile 1933
* Le premesse del ragionamento economico, in "Rivista di Storia economica", marzo 1941
* Liberismo e comunismo, in "Argomenti", dicembre 1941
* Chi vuole la libertà, in "Il Corriere della Sera", 13 aprile 1948
Questi e altri scritti sono stati ripubblicati in:
* Il buongoverno, di Luigi Einaudi, a cura di Ernesto Rossi, Laterza 1954.
Per i differenti principi liberali ai quali Croce ed Einaudi si ispiravano, 
e per la conseguente discussone o polemica, si vedano specialmente:
* Filosofia della pratica (economia ed etica), Benedetto Croce, Laterza 1950
* Etica e politica, Benedetto Croce, Laterza 1943
* Il carattere della filosofia moderna, Benedetto Croce, Laterza 1941
* Pagine politiche, Benedetto Croce, Laterza 1945
* Storia d'Europa nel secolo XIX, Benedetto Croce, Laterza 1948
* L'idea liberale, Benedetto Croce, Laterza 1944
* La teoria della libertà, Benedetto Croce, Laterza 1945
* L'ultimo Croce e il soggetto della Storia, Norberto Bobbio, in "Rivista di filosofia", Taylor, luglio 1953
* Benedetto Croce e il liberalismo, in "Rivista di filosofia", Norberto Bobbio, luglio 1955
* La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Aldo Mautino, (a cura di Norberto Bobbio), Laterza 1953
* Liberismo e liberalismo, Benedetto Croce - Luigi Einaudi, a cura di Paolo Solari, Ricciardi 1957


CIVILTA' DEL LIBERISMO

di GIAN LUIGI FALABRINO
vice-presidente della Scuola di Giornalismo di Milano

 

Oggi, tutti o quasi tutti si dicono liberali. Berlusconi (i suoi avvocati, gli attori e presentatori delle sue reti televisive, diventati ministri e autorità) e i politici dell'opposta parte politica, parlano sempre di liberalismo e liberismo, senza sapere di che si tratta e contraddicendoli nei fatti.

Il monopolista delle televisioni e della pubblicità si fa paladino della libertà d'impresa dei cosiddetti quattro milioni di liberi imprenditori, e li vuole difendere da un comunismo che è fallito dovunque e che in Italia è circoscritto all'ideologia dei sopravvissuti di Rifondazione.

Quanto al liberalismo, ne dà prove ormai quotidiane, sia cercando di metter fine alle inchieste di Mani pulite, che da anni lo minacciano molto da vicino, sia attaccando duramente un uomo come Bobbio che aveva accusato Forza Italia di avere dietro o davanti forze fasciste: brutto segno che conferma proprio la diagnosi bobbiana del fascismo psicologico e politico che si annida in chi non tollera critiche e confonde il "governare" col "comandare".

Bisogna tornare a scuola di liberalismo e di liberismo: non c'è maestro migliore di chi viene citato oggi troppe volte a sproposito, Luigi Einaudi. Riprendendo una sua vecchia polemica con Croce, e condannando ogni forma di comunismo, nel 1948 Einaudi scriveva sul "Corriere della Sera" un elogio della "libertà dell'uomo comune" accettando la tesi che la libertà politica debba essere accompagnata dalla libertà economica: "A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare i bisogni elementari della vita? Fa d'uopo dare all'uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica... La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica... Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l'esercizio effettivo, pratico, della libertà: all'un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all'altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà".

Queste tesi erano l'enunciazione sintetica e giornalistica dei principi che Einaudi aveva dibattuto con Croce nella lunga discussione che era cominciata in pieno fascismo, nel 1928 e che era continuata fino al 1949. Era stato un dialogo tra sordi: Croce disprezzava i "sacri principi dell'89" e credeva nella libertà dello Spirito, che sopravvive anche nelle galere e sul patibolo: il sistema politico ed economico più opprimente non può impedire all'uomo di pensare, non può impedire la libertà del suo pensiero. In qualunque condizione si sia e in qualunque azione si faccia, la decisione e la responsabilità sono soltanto nostre: coacti, tamen volunt.

Così, l'uomo è libero anche davanti al tiranno che lo pone di fronte al dilemma: o ti sottometti, e salvi la vita a tuo figlio, o ti ribelli e io l'uccido. Sì, la scelta, anche questa scelta, è possibile, ma non è questa la condizione che la libertà invoca per sé stessa e per l'opera di civiltà, di umanamento che essa è chiamata a compiere. 
Il problema delle condizioni della libertà era invece ben presente a Einaudi, estraneo all'idealismo filosofico ed erede della tradizione liberale personalistica: la scelta coatta era sentita da lui come offesa alla dignità dell'uomo, come sottomissione della libertà all'arbitrio e all'immoralità.

E' curioso che per tutti gli anni della discussione tra Croce ed Einaudi, nessuno dei due accennò mai ai differenti presupposti liberali cui essi si riferivano: la libertà dello Spirito, la libertà dell'individuo. In una cosa però concordavano. Nel 1928, su "La Riforma Sociale", Einaudi accettava la tesi di Croce, secondo il quale il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo: il primo "Fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo".

 Lo stabilire la graduatoria dei fini della vita sociale non è compito dell'economista: "Croce ha su questo punto parole scultorie. Chi deve decidere non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l'accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana"

Da Adamo Smith a Marshall questa è sempre stata "la premessa e il fine delle fatiche degli economisti, non mai il procacciamento dei beni materiali"

Ancora su "La riforma sociale", nel 1931 Einaudi chiarì meglio il suo pensiero, "osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fatto non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico morale religioso; ma la soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora... Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo".

Aggiungeva poi Einaudi che, dalla frequenza dei casi nei quali gli economisti raccomandavano soluzioni liberiste, è sorto un significato "religioso" della massima liberistica. "Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro, l'azione libera dell'individuo coinciderebbe sempre con l'interesse collettivo". Ma lo stesso Adamo Smith, maestro di questa "religiosità", si è contraddetto troppe volte, fino a elencare "le ragioni di intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all'azione individuale od a questo contrastanti", e spesso ha insistito sull'opposizione fra classi e classi, fra i singoli e la collettività.

Molti anni dopo, su "Argomenti" del dicembre 1941, in un saggio su "Liberismo e comunismo", Einaudi insisteva sul fatto che il liberismo non è il lasciar fare, ma è l'intervento dello stato che fissa i limiti entro i quali il privato può muoversi, cioè i limiti delle forze che potrebbero ostacolare la libera concorrenza, e precisava: "L'intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza non è perciò tanto limitato come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo, e l'altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l'operare pieno della libera concorrenza".

In questo secondo caso, la differenza tra l'interventista (o comunista) e il liberista "non sta nella 'quantità' dell'intervento, bensì nel 'tipo' di esso... Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio muoverti"

Il regime liberistico appare dunque non come l'assenza di leggi e regole, ma come un sistema di leggi, fatte osservare da magistrati indipendenti dal governo, per permettere agli uomini e alle imprese di lavorare nel rispetto degli altri: "essi debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità".

Einaudi sapeva benissimo che liberismo e liberalismo non sempre coincidono. Può accadere, scriveva, che il liberale sia anche liberista, come Cavour tra il 1850 e il 1860; ma può accadere che il liberismo doganale di Chevalier coincida con la dittatura monarchica di Napoleone III. 

Tuttavia non era mai accaduto che un paravento liberista venisse usato prima per puntellare un monopolio traballante, poi per rinforzarlo, evirando il concorrente pubblico, in una confusione tra interessi privati e potere politico che sarebbe impensabile in qualunque altro paese europeo e dell'America settentrionale, e che Einaudi non avrebbe potuto neppure immaginare.

GIAN LUIGI FALABRINO
vice-presidente della Scuola di Giornalismo di Milano


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Gli scritti di Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo sono principalmente:
Liberismo, liberalismo e origini della guerra, in "La riforma sociale", settembre ottobre 1928
Liberismo e liberalismo, in "La riforma sociale", marzo - aprile 1933
Le premesse del ragionamento economico, in "Rivista di Storia economica", marzo 1941
Liberismo e comunismo, in "Argomenti", dicembre 1941
Chi vuole la libertà, in "Il Corriere della Sera", 13 aprile 1948
Questi e altri scritti sono stati ripubblicati in:
Il buongoverno, di Luigi Einaudi, a cura di Ernesto Rossi, Laterza 1954.
Per i differenti principi liberali ai quali Croce ed Einaudi si ispiravano, e per la conseguente discussone o polemica, si vedano specialmente:
Filosofia della pratica (economia ed etica), Benedetto Croce, Laterza 1950
Etica e politica, Benedetto Croce, Laterza 1943
Il carattere della filosofia moderna, Benedetto Croce, Laterza 1941
Pagine politiche, Benedetto Croce, Laterza 1945
Storia d'Europa nel secolo XIX, Benedetto Croce, Laterza 1948
L'idea liberale, Benedetto Croce, Laterza 1944
La teoria della libertà, Benedetto Croce, Laterza 1945
L'ultimo Croce e il soggetto della Storia, Norberto Bobbio, in "Rivista di filosofia", Taylor, luglio 1953
Benedetto Croce e il liberalismo, in "Rivista di filosofia", Norberto Bobbio, luglio 1955
La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Aldo Mautino, (a cura di Norberto Bobbio), Laterza 1953
Liberismo e liberalismo, Benedetto Croce - Luigi Einaudi, a cura di Paolo Solari, Ricciardi 1957

Ringrazio per l'articolo  
il direttore Gianola
di Storia in Network

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