IMMANUEL KANT
Uno dei filosofi più importanti nella storia del pensiero occidentale.
Il suo interesse, rivolto in un primo periodo ai problemi scientifici e cosmologici,
si rivolse poi prevalentemente ai problemi della conoscenza umana
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KANT E LA MODERNITÁ


Nella SECONDA PARTE:
BIOGRAFIA E OPERE PRINCIPALI - "LA CRITICA DELLA RAGION PURA" -
ETICA TRASCENDENTALE - ANALITICA TRASCENDENTALE -
DIALETTICA TRASCENDENTALE

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Nella TERZA PARTE: LA « CRITICA DELLA RAGION PRATICA » - "DELLA RELIGIONE E DELLA RAGIONE" -
"DELLA POLITICA E DELLA PACE PERPETUA" - CRITICA E VALUTAZIONI
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DA VOLTAIRE A KANT
- DA LOCKE A KANT
- DA ROUSSEAU A KANT
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Nella QUARTA PARTE: (APPROFONDIMENTI) EVOLUZIONE PRE-CRITICA -

NOVA DILUCIDATIO
- FALSA SOTTIGLIEZZA -
SOGNI DI UN VISIONARIO
- DISSERTAZIONE DEL 70
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Il filosofo Emanuele Kant ha esercitato una influenza enorme non solo sul pensiero dell'800 ma anche ai nostri giorni è considerato un termine di riferimento per chiunque intraprenda studi di filosofia e pertanto ha un posto di assoluto rilievo anche nei nostri licei. Ma il suo pensiero d'altra parte appare complesso, spesso astruso, poco comprensibile. Poco compreso dai nostri alunni fu di difficile comprensione anche ai suoi tempi e soprattutto non è mai esistita un "Kantismo" come un insieme di filosofi che condividano certi concetti fondamentali del fondatore ( cosi come è invece esistito il marxismo, il tomismo, l'idealismo) : tutti fanno riferimento al suo pensiero ma nessuno poi lo segue veramente. Come mai? Perchè questa che potremo definire una anomalia?

Il motivo è che il suo pensiero a parte ogni considerazione critica particolare è considerato uno dei fondamenti del pensiero moderno: in questo articolo cercheremo di spiegarne il perchè.

Per rendere più chiaro la esposizione rovesciamo il discorso: vediamo prima in che cosa consiste la "modernità" e poi vediamo in che senso il pensiero kantiano ne è un presupposto o meglio, direi, una espressione.

Noi chiamiamo qui "modernità "quella civiltà che si è sviluppato negli ultimi due secoli (ma aveva avuto gia i prodromi prima) e che ha creato una frattura fra il nostro mondo e quello che diremo pre-moderno: l'uomo "moderno" si è sviluppato prima in occidente: nell'800 la civiltà europea con una "marcia trionfale" si è affermato su tutti i continenti e nel 900 si è poi diffusa dovunque (ma soprattutto in Giappone e più recentemente in Cina) E' nato cosi il mondo moderno con l'industrializzazione, il mirabile sviluppo scientifico e tecnico, lo stato di diritto, la democrazia, la libertà, l'uguaglianza, l'emancipazione femminile.

Io non dirò che questo mondo è migliore degli altri (sarebbe altro problema): mi limito a notare che ha avuto un "enorme successo": benessere, civiltà e modernità sembrano quasi sinonimi.

Bisogna allora comprendere la differenza sostanziale, essenziale fra la "mentalità dell'uomo "moderno" e quella quella del "pre-moderno"

Il "pre- moderno" ritiene che il mondo sia retto da immutabili leggi divine (o naturali) alle quali bisogna adeguarsi:
la saggezza consiste nell'adeguare noi alla realtà.

L' uomo moderno ritiene che la realtà possa essere modificata:
la saggezza consiste nell'adeguare la realtà a noi.

Esemplificando il "pre- moderno" dice: se Dio (o la natura) avesse voluto che l'uomo volasse, allora gli avrebbe fatto le ali.

Il "moderno" dice: poichè Dio (o la natura ) non ci ha fatto le ali occorre che ce le costruiamo noi.

La mentalità pre-moderna porta alla passività: le cose avvengono solo se vuole Dio (inch'allah, dicono gli arabi); la mentalità moderna all'azione: ciò che avviene è frutto di cause identificabili e modificabili.

Il lettore si chiederà che c'entra questo con le antinomie della R. P. o le forme trascendentali o le categorie di Kantiana memoria. A prima vista niente: ma approfondendo, in effetti essi sono gli strumenti concettuali (astrusi, magari superati, forse anche inaccettabili) con i quali Kant apre la strada alla fondazione della modernità.

L'essenza infatti del pensiero Kantiano viene espressa dal famoso paragone della "rivoluzione copernicana": "Come Copernico aveva messo al centro del cielo il sole e non la terra cosi Kant mette al centro della conoscenza non la realtà (l'oggetto) ma l'uomo( il soggetto)." In altri termini Kant concepisce la realtà dell'uomo non come come qualcosa di dato, oggettivo (voluto da Dio o dalla natura) e come tale immodificabile ma come una costruzione propria dell'uomo. In questo senso profondo Kant apre il "mondo moderno"

Il pensiero kantiano prende le mosse dalle scoperte scientifiche del suo tempo, (soprattutto da quella della legge gravitazione universale di Newton): egli si chiede perchè la scienza naturale ha raggiunti risultati sicuri e certi mentre la metafisica invece ripete all'infinito gli stessi ragionamenti senza che sia possibile riuscire a raggiungere una verità da tutti condivisibile: la risposta è che la scienza naturale si basa sulle strutture mentali dell'uomo e pertanto raggiunge risultati affidabili e certi, mentre la metafisica vorrebbe conoscere il mondo al di la delle nostre strutture mentali; ma ma non è possibile conoscere quello che le nostre strutture mentali non possono recepire e pertanto si finisce con il cadere in ragionamenti inconcludenti. Ciò che possiamo conoscere è solo quello che noi stessi abbiamo costruito mentalmente.

(Cosa scriveva Maxwell? "A un certo punto non fu più la biologia a dominare il destino dell'uomo, ma il prodotto del suo cervello: la cultura. L'Universo ha elargito un grande dono all'uomo: con i suoi migliori atomi ha creato una parte di sè stesso dentro la sua mente per studiare il resto di sè. Cosicchè: Le uniche leggi della materia sono quelle che la nostra mente deve architettare e le uniche leggi della mente sono architettate per essa dalla materia" (Maxwell)

Vediamo ora brevemente come tali concetti si risolvono nei singoli campi della conoscenza umana

SPAZIO e TEMPO: non sono realtà esterne a noi ma solo un "nostro" modo di organizzare i dati sensibili della realtà: noi percepiamo le cose l'uno accanto all'altro (spazio) e l'uno dopo l'altro (tempo) non perche essi effettivamente siano nello spazio e nel tempo ma perchè questo è il "nostro" modo di percepirli. Quindi il mondo come noi le vediamo è una nostra costruzione.

MATEMATICA : la geometria si fonde sullo spazio, l'aritmetica sul tempo: poiche spazio e tempo sono "nostri" modi di percepire la realtà ne consegue che la matematica quindi è una nostra costruzione: per due punti passa una sola retta non perchè Dio (o la natura) vuole così, ma perchè questo è il nostro modo di concepire lo spazio

LA SCIENZA NATURALE : i principi fondamentali (per esempio il principio di causa) sono nostri modi di organizzare (costruire) le realtà: la scienza quindi non consiste nel trovare le leggi che Dio (o la natura) ha prodotto ma è una "nostra" costruzione mentale.

METAFISICA (religione): non respinge la religione anzi è un sincero credente: ritiene pero che problemi come quelli religiosi siano affrontabili in ambiti diversi da quelli scientifici. La religione è una esigenza dell'uomo ma non può essere attinta, dimostrata come un fatto scientifico: il che vuol dire pure che un fatto particolare non può essere spiegato con l'intervento diretto di Dio: pertanto i fatti non sono immodificabili in quanto espressione della volontà diretta di Dio

MORALE: non consiste nell'adeguarsi alle leggi di di Dio (o della natura) ma è l'uomo stesso che pone, crea i suoi valori morali

ESTETICA: non esiste il bello in sè: è l'uomo che dichiara belli gli oggetti che corrispondono a un certo suo sentimento dell'armonia: la bellezza non è creazione di Dio (o della natura) ma è un nostro sentimento che noi proiettiamo (riflettiamo) sul mondo esterno

Presupposti nuovi, profondamente nuovi rispetto ai postulati pre-moderni: ecco perchè ogni filosofo che poi verrà dopo Kant riconoscerà il suo debito di riconoscenza a lui e noi usiamo comunemente e giustamente dividere la storia della filosofia in pre-Kantiana (cioè pre-moderna) e post Kantiana (cioè moderna)

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(Seconda Parte)

BIOGRAFIA E OPERE PRINCIPALI - "LA CRITICA DELLA RAGION PURA"
ETICA TRASCENDENTALE - ANALITICA TRASCENDENTALE - DIALETTICA TRASCENDENTALE

 

Queste sono tre celebri massime di Kant:
1) "Agisci in modo che la massima tua volontà possa sempre valere
come principio di una legislazione universale".
2) "Agisci come se tu potessi volere che la massima della tua azione
divenisse legge universale della natura"
3) "Agisci in modo da trattare l'umanità, nella tua come nell'altrui persona,
sempre come fine, mai come semplice mezzo".

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MAI sistema di pensiero dominò un'epoca come la filosofia di Emanuele Kant dominò il pensiero del XIX secolo. Dopo quasi sessant'anni di studio tranquillo e appartato, il misterioso scozzese di Kónigsberg risvegliò il mondo dal « letargo dogmatico », nel 1781, con la sua famosa Critica della ragion pura; e da quell'anno fino a noi la «filosofia critica» ha dominato l'idealismo europeo.

La filosofia di Schopenhauer salì a fugace potenza sospinta dall'ondata romantica che si sollevò nel 1848; la teoria dell'evoluzione abbatté ogni altro ostacolo dinanzi a sé dopo il 1859 e l'esilarante iconoclastia di Nietzsche occupò il centro della scena filosofica verso la fine del secolo. Ma questi erano movimenti secondari e superficiali; sotto sotto, la forte corrente perenne del movimento kantiano continuava e si faceva sempre più strada; fino a che oggi i suoi teoremi essenziali sono diventati gli assiomi di tutta la filosofia matura. Nietzsche s'inchina a Kant e passa oltre (La volontà di potenza, II, parte I); Schopenhauer chiama la Critica «l'opera più importante della letteratura tedesca», e considera infantili tutti coloro che non hanno capito Kant (Il mondo come volontà e come idea, Londra, 1883; I, 30); Spencer non poteva comprendere Kant, e forse per questo non ascese alle più alte vette della filosofia. Ripetiamo pure la frase di Hegel a proposito di Spinoza: "per essere filosofo, bisogna prima esser stato kantiano".

Diventiamo, dunque, kantiani subito. Ma non si può diventarlo di punto in bianco; in filosofia come in politica, la distanza minore tra due punti non è la linea retta. Kant è l'ultimo scrittore del mondo che dovremmo leggere per capire Kant. Il nostro filosofo e simile e dissimile da Geova; parla attraverso le nubi, ma senza la luce della folgore. Disdegna gli esempi di tutto ciò che è concreto; la sua opera sarebbe riuscita troppo lunga (C.D.R.P, Londra 1881, II, pag XXVII.). (Ma pur così abbreviata, essa é di circa 800 pagine). Solo i filosofi di professione dovevano leggerla; e quelli non hanno bisogno di tante delucidazioni. Eppure, quando Kant consegnò il manoscritto della Critica all'amico Herz, che se ne intendeva di speculazione filosofica, questi glielo rese dopo averlo letto a metà, dicendo che avrebbe temuto di diventar pazzo, se ne avesse continuato la lettura. Come dobbiamo comportarci noi con questo filosofo?

Avviciniamoci a lui indirettamente e con cautela, partendo da una sicura e rispettosa distanza, anzi da punti diversi della circonferenza che racchiude il nostro soggetto, e cerchiamo poi, brancolando, la nostra strada verso quel centro artificioso, in cui la più difficile di tutte le filosofie ha nascosto il proprio segreto e il proprio tesoro.


Ad aiutarci a conoscere bene Kant, ricorriamo alla stupenda opera di Will Durant:
The Story of Philosophy
, New York, 1926.

Nella TERZA e QUARTA PARTE,
abbiamo invece l'intervento attualistico del Prof.
Giovanni De Sio Cesari.


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BIOGRAFIA e OPERE PRINCIPALI

1724
 
Immanuel Kant nasce a Köenigsberg, capitale della Prussia orientale, il 22 aprile, da Johann Georg Kant (1683-1747) di professione sellaio, originario di una povera famiglia che aveva lasciato la Scozia qualche centinaio d'anni prima della nascita d'Immanuel, quarto di undici figli, di cui sei morti in giovane età. L'unico fratello rimasto, diventerà pastore protestante.
La madre - Anna Regina Reuter- era una rigida seguace pietista - cioè, affiliata ad una setta religiosa, la quale, come i metodisti inglesi, insisteva sul più assoluto rigore delle pratiche religiose e della fede. Immanuel era tanto immerso nella religione da mattina a sera, che, da un lato, fu spinto a una reazione, e si tenne lontano dalla chiesa per tutta la sua vita di adulto: dall'altro, conservò fino alla morte il carattere del puritano tedesco, e, diventando vecchio, sentì un profondo desiderio di preservare, per sé e per il mondo, per lo meno le radici della fede, che sua madre gli aveva inculcato fin dalla prima infanzia.
Un'infanzia serena quella di Immanuel, sebbene non facile per le modeste condizioni della sua famiglia.

1732-1739
 
Forse sotto la pressione della madre, nei primi anni di scuola lo troviamo nel Collegium Fredericianum, diretto dal pastore Franz Albert Schultz, guarda caso, il più noto pietista del tempo. Kant mostra invece una particolare predilezione per le lingue classiche, per la matematica e per la scienza. La sua destinazione però sembra segnata.

1740

 Ed infatti, si iscrive all'Università studiando sì teologia ma con scarso entusiasmo. Ha come maestro Martin Knutzen, tipico esponente della cultura accademica germanica settecentesca, influenzata dalla scuola cartesiana e da quella leibniziana spesso in contrasto. Tuttavia è proprio questo maestro a trasmettere a Kant l'interesse per la filosofia newtoniana; e oltre che partecipare ad accesi dibattiti, Kant nella sua tesi di laurea fa pure un tentativo di conciliazione delle due correnti di pensiero.
Un giovane, educato nell'età di Federico e di Voltaire, non poteva isolarsi dalla corrente scettica del suo tempo. Quello che va pensando Kant fin dall'inizio è che la filosofia deve trovare al più presto un'unità di metodo e di contenuti per potersi incontrare fruttuosamente con la fisica di Newton, che si è ormai imposta in modo universale come conquiste definitive dello spirito umano.
Kant fu profondamente influenzato anche da chi, più tardi, cercò di ripudiare, e forse più che da tutti gli altri, dal suo nemico preferito, Hume (di lui, Kant disse "mi ridestò dal sogno dogmatico"), i cui scritti costituirono forse uno degli stimoli principali e che indussero Kant a tentare una sintesi tra il razionalismo e empirismo. Vedremo poi il notevole fenomeno di un filosofo che supera il conservatorismo della sua maturità e ritorna quasi, nell'ultima sua opera, e all'età di circa settant'anni, a un virile liberalismo, che lo avrebbe condotto al martirio, se non lo avessero protetto l'età e la fama.

Già a metà della sua opera di restaurazione religiosa, sentiamo, con frequenza sorprendente, la voce di un altro Kant, che potremmo quasi scambiare per quella di Voltaire. Schopenhauer disse che « non fu il minor merito di Federico il Grande se, sotto il suo regno, Kant poté svilupparsi e osò pubblicare la sua Critica della ragion pura. Sotto qualsiasi altro governo un professore stipendiato... (quindi, in Germania, un impiegato governativo) ... non avrebbe certo osato una cosa simile. Kant fu obbligato a promettere all'immediato successore del gran Re che non avrebbe scritto più ». Fu appunto prova di questa libertà il fatto che Kant dedicasse la Critica a Zedlitz, il ministro dell'istruzione sotto Federico, uomo di larghe vedute e amante del progresso.

1746

Conseguita la laurea si dedica per quasi un decennio all'insegnamento privato, come precettore presso famiglie nobili della Prussia orientale.

1755

 Lasciato l'insegnamento privato, torna a Konigsberg, dove ottiene l'incarico di insegnamento presso quell'Università (posto che conservò fino al 1801, all'età di 75 anni). Fa molte ore di lezioni, insegnando un po' di tutto, matematica, fisica, geografia, pedagogia, ma con una retribuzione molto scarsa.
Per quindici anni fu lasciato a quel modesto impiego. La sua domanda per una cattedra di professore ordinario fu respinta due volte. Finalmente, nel 1770, fu nominato professore di logica e metafisica.
Il suo insegnamento lo inaugura con la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in cui espone la fondazione trascendentale delle scienze matematiche,
e segna la conclusione del periodo pre-critico. Con essa la meditazione Kantiana giunge a un punto di maturazione ma lascia aperta la questione delle scienze fisiche, che si ripromette di risolvere in uno scritto successivo; ma dopo dieci anni Kant non aveva ancora onorato la promessa.

In questi anni di esperienza come insegnante, scrisse un libro di testo di pedagogia, di cui egli stesso diceva contenesse molti precetti eccellenti, da lui però mai applicati. Eppure, egli era forse miglior maestro che scrittore; e due generazioni di studenti impararono ad amare quel piccolo omino, alto un metro mezzo.
Uno de' suoi principi pratici era quello di occuparsi maggiormente dei suoi alunni di media capacità; diceva che gli stupidi non valevan la pena di essere aiutati e che i genii se la sarebbero cavata da sé.

Nessuno si sarebbe aspettato ch'egli atterrisse il mondo con un nuovo sistema metafisico; pareva che atterrire qualcuno fosse l'ultimo delitto imputabile a quel timido e modesto professore. Egli stesso non si riprometteva nulla del genere; a quarantadue anni scriveva: «Ho la fortuna d'essere un innamorato della metafisica; ma finora la mia signora mi ha elargito ben pochi favori».
In quel tempo egli parlava dell'«abisso senza fondo della metafisica», e diceva che la metafisica era «un cupo oceano senza sponde e senza faro», sparso di molti naufragi filosofici
(In Paulsen: E. Kant, New York, 1910, pag.82). Poteva persino attaccare i metafisici, come coloro che se ne stavano sulle alte torri della speculazione, «dove generalmente domina un gran vento» (ib.pag.56). Non prevedeva che la più tremenda di tutte le tempeste metafisiche l'avrebbe scatenata lui.

Durante quegli anni tranquilli (periodo pre-critico), il suo interesse si concentrò più sulla fisica che sulla metafisica. Scrisse sui pianeti, i terremoti, il fuoco, i venti, l'etere, i vulcani, la geografia, l'etnologia e cento altre cose del genere, che quasi sempre non hanno nulla a che fare con la metafisica. La sua Teoria dei cieli
(Koenigsberg-Leipzig 1755) proponeva qualcosa di molto simile alle nebulose ipotesi di Laplace, e tentò una spiegazione meccanica di ogni movimento e sviluppo sidereo. Kant pensava che tutti i pianeti sono stati o saranno abitati; tutti quelli situati più lontano dal sole, avendo avuto il massimo periodo di sviluppo, ospitano probabilmente una specie di organismi intelligenti superiore a quella prodotta ne' nostri pianeti.

La sua Antropologia (la quale consta di una raccolta di conferenze) prospettò la possibilità di un'origine animale dell'uomo. Kant diceva che, se, nell'età preistorica, quando l'uomo era ancora in balia delle belve, l'infante umano avesse gridato, aprendo gli occhi al mondo, tanto forte quanto grida oggi, sarebbe stato scovato e divorato dalle bestie da preda: con tutta probabilità, dunque, l'uomo era dapprima assai diverso da quello che é divenuto con la civiltà. E Kant proseguiva argutamente: «Non sappiamo come la natura abbia raggiunto un tale sviluppo, e da quali cause esso fosse aiutato. Quest'osservazione ci porta assai lontano. Suggerisce l'idea che il presente periodo della storia, in seguito a una grande rivoluzione fisica, possa essere seguito da un terzo, in cui l'orangotano e lo scimpanzé sviluppino gli organi che servono a camminare, toccare, parlare, secondo la struttura articolata di un essere umano, con un organo centrale per l'uso della ragione, e gradatamente si perfezionino alla scuola d'istituzioni sociali».
Forse questo schizzo del futuro era un garbato modo di Kant per lanciare indirettamente la sua idea sulla effettiva evoluzione dell'uomo dalla bestia?"
(Wallace, E. Kant, Philadelphia, 1882, pag.115).
Nello sviluppo della filosofia di Kant, il periodo pre-critico abbraccia opere sino al 1769. Monadologia physica (1756), L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763), Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale (1764), Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (1766).
Il periodo critico, si apre invece con la già ricordata dissertazione Intorno alla forma e ai principi del mondo sensibile e di quello intelleggibile (1770) e comprende le opere maggiori di Kant: Critica della ragion pura (1781), Prolegomeni a ogni metafisica futura che potra presentarsi come scienza (1783), Critica della ragio pratica (1788), Critica del giudizio (1790), La religione entro i limiti della pura ragione (1783), Per la pace perpetua (1795), Metafisica dei costumi (1797), Antropologia (1798). Da aggiungere Opus postumum, che è una raccolta sistematica dei più importanti scritti, curati dai suoi discepoli dei corsi universitari del maestro nell'arco di quasi trentanni, e quasi mezzo secolo di insegnamento.

Così assistiamo alla lenta evoluzione di questo ometto semplice, gracile, di bassa statura, modesto, timido, che conteneva nella testa o vi generava la più profonda rivoluzione nel campo della filosofia moderna. La vita di Kant, dice un suo biografo, trascorre come il più regolare dei verbi regolari. «Alzarsi, bere il caffè, scrivere, far lezione, pranzare, andare a passeggio, - dice Heine, - tutto aveva la sua ora precisa. E quando Emanuele Kant, in soprabito grigio, col bastone in mano, appariva sulla porta di casa e s'avviava a lenti passi verso il breve viale di tigli, che ancora è chiamato la «passeggiata del filosofo», i vicini sapevano che erano le tre e mezza in punto. Faceva la sua passeggiata in ogni stagione; e quando il tempo era brutto, o le nuvole grigie minacciavano pioggia, il suo vecchio servo Lampe gli sgambettava dietro, tutto premuroso, con un grande ombrello sotto il braccio, come un simbolo della prudenza ».

La sua debolezza fisica lo obbligava ad aversi la massima cura; e si regolava da sé, senza ricorrere al dottore; questo sistema gli pareva più sicuro; e visse sino all'età di 80 anni. A 70, scrisse un saggio
Sulla potenza dello spirito nel dominio del senso di malessere fisico con la forza della risoluzione.
Una delle sue massime favorite era quella di respirar solo per il naso, specialmente fuori di casa; perciò non permetteva che nessuno gli parlasse durante le sue passeggiate in autunno, in inverno e in primavera; meglio il silenzio che un raffreddore. Applicava la filosofia persino a sostenere le calze con due fettucce che passavano lungo la gamba e andavano a finire nella tasca dei calzoni, dove terminavano con due molle, contenute in due piccole scatole. Ponderava molto tutto prima d'agire, e rimase perciò celibe per tutta la vita. Due volte pensò di offrir la sua mano a una donna; ma ci pensò tanto, che una volta la signorina sposò un uomo più coraggioso, e la seconda, la signorina lasciò Kónigsberg prima che il filosofo si decidesse. Forse egli sentiva, come Nietzsche, che il matrimonio lo avrebbe ostacolato nell'onesta ricerca della verità: «un uomo sposato, - usava dire Talleyrand, - farà qualsiasi cosa per il denaro». E Kant aveva scritto, a ventidue anni, con tutto il bell'entusiasmo della gioventù onnipotente «Ho già deciso quale linea terrò nella mia vita: adotterò un metodo d'esistenza, e nulla m'impedirà di attenermi ad esso».
(Wallace, ib, pag.100)

E così, in povertà e nell'oscurità, egli continuò ad abbozzare, scrivere e riscrivere la sua magnum opus, per quasi quindici anni: la terminò nel 1781, all'età di cinquantasette anni. Mai uomo maturò così lentamente; e, ripetiamo, nessun libro allarmò e scompigliò tanto il mondo filosofico.


In un successivo capitolo (nella Seconda Parte) tratteremo
DA VOLTAIRE A KANT - DA LOCKE A KANT - DA ROUSSEAU A KANT
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Qui affrontiamo subito la magnum opus

LA CRITICA DELLA RAGION PURA (*)

(*) Una nota del Durant: - "Una parola su quanto si deve leggere. Kant stesso è quasi inintelligibile agli esordienti, perchè il suo pensiero è isolato da una terminologia strana e intricata. Forse l'introduzione più semplice è il Kant di Wallace, nella collezione Blackwood dei Classici filosofi. Più pesante ed elevato è l'Immanuel Kant di Paulsen. L'Immanuel Kant di Chamberlain (2 vol.; New York, 1914) è interessante, ma indeciso e digressivo. Una buona critica di Kant si trova nell'opera di Schopenhauer: «Il mondo come volontà e rappresentazione», II, I, 159. Ma caveat emptor".


IL TITOLO

Che cosa significa il titolo? Critica non è precisamente una critica nel vero senso della parola, ma un'analisi critica; Kant non attacca la «ragion pura», se non alla fine, per mostrarne le limitazioni; vuol piuttosto dimostrarne la possibilità ed esaltarla al di sopra della conoscenza impura, che ci viene per i sinuosi canali del senso. Per ragione «pura» bisogna intendere la conoscenza che non ci viene attraverso i sensi, ma che è indipendente da qualsiasi esperienza di essi; la conoscenza che ci appartiene per la natura inerente e per la struttura della nostra mente.
In fin dei conti, Kant lancia una sfida a Locke e alla scuola inglese la conoscenza non è totalmente derivata dai sensi. Hume pensava d'aver dimostrato non esistere né anima né scienza; che le nostre menti sono soltanto progressioni e associazioni delle nostre idee; e che le nostre certezze sono soltanto probabilità in perpetuo pericolo di violazione. Queste false conclusioni, dice Kant, sono il risultato di false premesse: voi presumete che ogni conoscenza venga da sensazioni «separate e distint»; naturalmente, queste non possono darvi la necessità, o successioni invariabili, di cui possiate essere definitivamente certi; ed è naturale che non possiate aspettarvi di «vedere la vostra anima, nemmeno con gli occhi del vostro senso interiore».

Ammettiamo pure che l'assoluta certezza della conoscenza è impossibile, se ogni conoscenza viene dalla sensazione, da un mondo esterno indipendente, che non è obbligato a darci una formale promessa di regolarità di condotta. Ma, se la nostra conoscenza fosse indipendente dall'esperienza de' sensi cioè una conoscenza la cui verità è a noi certa a priori, prima di qualsiasi esperienza? Allora, la verità assoluta e la scienza assoluta sarebbero possibili, non vi pare? Esiste una conoscenza assoluta? Ecco il problema che si pone la prima Critica. «Io chiedo che cosa possiamo sperar di raggiungere con la ragione, quando siano allontanati il materiale e l'aiuto dell'esperienza »
(C.D.R.P, prefaz. pag.XXIV).

La Critica diventa una minuta biologia del pensiero, un esame dell'origine e dell'evoluzione dei concetti, un'analisi della innata struttura mentale. Questo, secondo Kant, è il problema della metafisica. "In questo libro ho soprattutto mirato alla perfezione: e oso sostenere che non dovrebbe esistere un solo problema metafisico che non sia stato risolto qui, o alla soluzione del quale non sia stata qui trovata la chiave»
(ib. pag. XXIII). Exegi monumentum aere perennius! Con tale egoismo la natura ci sprona alla creazione.
La Critica espone subito la sua tesi. «L'esperienza non è assolutamente l'unico campo in cui la nostra intelligenza possa essere delimitata. L'esperienza ci dice ciò che esiste, ma non ci dice che ciò che esiste dev'essere necessariamente com'è, e non altrimenti. Perciò, essa non ci dà mai verità realmente generali; e la nostra ragione, la quale tende a questo genere di conoscenza, ne è eccitata più che soddisfatta. Le virtù generali, che, al medesimo tempo, portano il carattere di una necessità interiore, debbono essere indipendenti dall'esperienza, chiare e certe in sè medesime»
(ib. pag. 1) . Cioè, esse debbono essere vere, qualunque sia la nostra esperienza posteriore; vere anche prima dell'esperienza, vere a priori.

«La matematica ci dà un magnifico esempio di quanto si possa procedere indipendentemente da ogni esperienza, nella conoscenza a priori »
(ib. pag. 4). La conoscenza matematica è necessaria e sicura; non possiamo concepire esperienza futura che la violi. Possiamo credere che il sole «sorgerà » domani ad occidente, che un altro giorno qualunque, in un qualsiasi mondo d'asbesto, il fuoco non brucerà il legno (l'asbesto, nell'antichità era l'amianto, e si credeva che una volta acceso non si potesse più spegnere - Ndr); ma per nessuna ragione possiamo ammettere che due per due dia un numero diverso da quattro. Queste verità sono vere prima dell'esperienza; non dipendono dall'esperienza passata, presente o futura. Perciò, esse sono verità assolute e necessarie; non si può concepire che esse possano mai diventare false. Ma donde viene questo carattere di assolutezza e necessità? Non dall'esperienza; giacché l'esperienza ci dà solo sensazioni ed eventi separati, i quali possono mutare la loro sequenza in un tempo a venire. Queste verità derivano il proprio carattere di necessità dalla struttura inerente alla nostra mente, dal modo naturale e inevitabile in cui la nostra mente deve agire. Giacché la mente dell'uomo (e qui finalmente é la grande tesi di Kant) non é cera passiva, su cui l'esperienza e la sensazione scrivono la loro volontà assoluta e capricciosa, e nemmeno é un nome astratto per una serie o un gruppo di stati mentali; é un organo attivo, che foggia e coordina le sensazioni in idee, un organo che trasforma la molteplicità caotica dell'esperienza nell'ordinata unità del pensiero.
Ma come?

ETICA TRASCENDENTALE

Il tentativo di rispondere a questa domanda, studiando la organicità inerente alla mente, oppure le leggi innate del pensiero, è chiamato da Kant «filosofia trascendentale», perché é un problema che trascende l'esperienza de' sensi. «Chiamo trascendentale quella conoscenza che si occupa non tanto degli oggetti, quanto de' nostri concetti e oggetti a priori
(ib. pag. 10), con i nostri metodi di correlazione tra esperienza e conoscenza. Si hanno due gradi o stadi in questo processo di elaborazione della materia prima, fornita dalla sensazione, in prodotto finito del pensiero. Il primo stadio è la coordinazione delle sensazioni, applicando loro le forme di percezione - spazio e tempo; il secondo stadio e la coordinazione delle percezioni sviluppate, applicando loro le forme di concezione - le «categorie » del pensiero.

Kant, usando la parola estetica nel suo senso originale ed etimologico, applicata alla sensazione o al sentimento, chiama lo studio del primo stadio « estetica trascendentale »; e usando la parola logica, per indicare la scienza delle forme del pensiero, chiama lo studio del secondo stadio «logica trascendentale», Sono parole terribili, che acquistano significato man mano che l'esposizione procede; giunti su questo culmine, sarà relativamente chiara la via che conduce a Kant.

Ed ora, che cosa intendiamo per sensazioni e percezioni? - e come cambia la mente le prime nelle seconde? La sensazione è in sé la percezione di uno stimolo; abbiamo un gusto sulla lingua, un odore nelle narici, un suono nelle orecchie, una temperatura sulla pelle, un lampo di luce sulla rètina, una pressione sulle dita: tutto questo è il principio greggio dell'esperienza; ciò che il neonato ha ne' primi giorni della sua brancolante vita mentale non è ancora conoscenza. Ma lasciate che queste sensazioni varie si raggruppino attorno ad un oggetto nello spazio e nel tempo - per esempio, una mela; lasciate che l'odore nelle narici, il gusto sulla lingua, la luce sulla rètina, la pressione delle dita e della mano che rivela la forma dell'oggetto, si riuniscano e si raggruppino attorno ad esso: ecco ora la percezione non tanto di uno stimolo, ma di un oggetto specifico; la percezione nel vero senso della parola. La sensazione è divenuta conoscenza.

Ma vediamo: questo passaggio, questo raggruppamento è stato automatico? Le sensazioni hanno formato per conto proprio, spontaneamente e naturalmente, un ordine e un insieme, tanto da trasformarsi in percezione? Si, risposero Locke e Hume. Niente affatto, risponde Kant.
Giacchè queste sensazioni varie ci vengono attraverso diversi canali del senso, per mezzo di migliaia di «nervi conduttori», che passano dalla pelle, dall'occhio, dall'orecchio e dalla lingua nel cervello: che confusione di richiami deve sorgere nella mente, quand'essi vi si affollano tutti, cercando di fermare la nostra attenzione! Non c'è da meravigliarsi che Platone parlasse della « plebe de' sensi ». Lasciati a se stessi, essi rimangono una « plebe », un miscuglio caotico, pietosamente impotente, in attesa di venir ordinati in concetto, scopo e potenza. Altrettanto impotenti sarebbero i messaggi portati a un generale da mille settori della linea di battaglia, se non venissero coordinati e raccolti in una unica comprensione e in un solo comando. Esiste un legislatore di questa plebe, una potenza dirigente e coordinatrice, la quale non soltanto riceve, ma raccoglie questi atomi di sensazione e li trasforma in senso.
(Chi conosce l'attuale neuroscienza, resta stupefatto davanti a queste anticipazioni. - Ndr)

Innanzi tutto, osservate che non tutti i messaggi vengono accettati. In questo istante, una miriade di forze agiscono sul nostro corpo; una tempesta di stimoli percuote i tentacoli de' nervi, che, come l'ameba, voi cacciate fuori per sperimentare il mondo esterno: ma non tutti vengono ricevuti; vengono scelte soltanto le sensazioni che possono essere foggiate in percezioni, secondo il vostro bisogno presente, oppure che portano quegli imperiosi messaggi di pericolo, che sono sempre rilevanti. L'orologio batte le ore e voi non l'udite; ma lo stesso suono, non più forte del precedente, sarà udito subito, se ne avete bisogno. La madre, addormentata presso la culla del suo neonato, è sorda ad ogni rumore di vita che la circonda; ma se il piccino si muove, la madre fa ogni sforzo per ricuperare la sua vigile attenzione, con tanta sollecitudine quanta ne mette il palombaro a risalire alla superficie del mare. Se il nostro scopo è quello di fare un'addizione, lo stimolo « due e tre » conduce alla risposta « cinque »; se lo scopo è la moltiplicazione, lo stesso stimolo, le stesse sensazioni uditive, « due x tre » portano alla risposta « sei ». L'associazione delle sensazioni o idee non avviene soltanto per contiguità nello spazio e nel tempo, né per somiglianza, né per freschezza, frequenza o intensità di esperienza; è soprattutto determinata dallo scopo della mente. Sensazioni e pensieri sono servi, essi attendono d'esser chiamati, non vengono a noi, se non ne abbiamo bisogno. Esiste un agente di selezione e direzione, che li adopera e ne è il padrone. Oltre le sensazioni e le idee esiste anche la mente.
(mente: un ammasso di molecole e atomi, con un reticolo di gangli e assoni verso neuroni e soprattutto sinapsi la cui differenza del potenziale elettrochimico ionico delle rispettive membrane creano impulsi afferenti o efferenti).

Quest'agente di selezione e coordinamento, secondo Kant, usa, innanzitutto, due metodi semplici per la classificazione del materiale che gli si presenta: il senso dello spazio e il senso del tempo. Come il generale coordina i messaggi recatigli secondo il punto da cui essi giungono, e il tempo in cui furono scritti; e trova così un ordine e una sistemazione per tutti; così la mente colloca le sensazioni nello spazio e nel tempo, le attribuisce a questo o a quell'oggetto, al tempo presente o al passato. Spazio e tempo non sono cose percepite, ma modi di percezione, modi di mettere il senso nella sensazione; spazio e tempo sono organi della percezione.
Essi sono a priori, giacché ogni esperienza ordinata li comprende e li presuppone. Senza di essi, le sensazioni non diventerebbero mai percezioni. Sono a priori, perchè e inconcepibile qualsiasi nostra esperienza futura, che non li implichi. E perchè sono a priori, le loro leggi, che sono leggi matematiche, sono a priori esse pure, assolute e necessarie in un mondo senza fine. Non è soltanto probabile, é certo che non troveremo mai una linea retta che non sia la minima distanza tra due punti. Almeno la matematica si salva dallo scetticismo dissolvente di Davide Hume.

Possono tutte le scienze salvarsi allo stesso modo? Sì, se il loro principio di base, la legge di causalità - che, cioè, una data causa deve sempre esser seguita da un dato effetto - può dimostrarsi, come lo spazio e il tempo, talmente inerente ad ogni procedimento dell'intelletto, che nessuna esperienza futura possa esser concepita capace di violarlo o evitarlo. La causalità è forse, a priori, anche un requisito necessario e indispensabile, una condizione di ogni pensiero?


ANALITICA TRASCENDENTALE

Così passiamo dall'ampio campo della sensazione e percezione all'oscuro e ristretto ambito del pensiero; dall'« estetica trascendentale » alla « logica trascendentale ». E prima di tutto, passiamo alla designazione e all'analisi di quegli elementi nel nostro pensiero, che non sono dati tanto dalla percezione alla mente, quanto dalla mente alla percezione; a quelle leve, che innalzano la conoscenza «percettuale» degli oggetti alla conoscenza «concettuale» delle relazioni, conseguenze e leggi; istrumenti della mente che raffinano la esperienza e la trasformano in scienza. Come le percezioni disponevano le sensazioni attorno agli oggetti nello spazio e nel tempo, così la concezione ordina le percezioni soggette ad eventi attorno alle idee di causa, unità, relazione reciproca, necessità, contingenza, ecc. Queste ed altre «categorie» sono la struttura in cui le percezioni vengono ricevute, e dalla quale esse sono classificate e trasformate nei concetti ordinati del pensiero.

Ecco l'essenza vera e il carattere della mente; la mente è la "coordinazione dell'esperienza".
Qui, osservate ancora l'attività di questa mente, che, per Locke e Hume, era una semplice «cera passiva», esposta. alle pressioni dell'esperienza de' sensi. Considerate un sistema di pensiero come quello di Aristotele: è concepibile che quell'ordinamento quasi cosmico di dati potesse venire dalla spontaneità automatica e anarchica dei dati stessi? Ecco un magnifico catalogo a schede di una biblioteca, disposto intelligentemente in ordine alfabetico, per servire alla consultazione. Immaginate ora tutte quelle schede gettate a terra, sparse al suolo in perfetto disordine. Potete voi concepire, ora, che quelle schede sparpagliate, alzandosi da sé, alla Munchhausen, passino tranquillamente dal disordine perfetto all'ordine alfabetico preciso nel loro schedario, ed ogni scatola dello schedario ritrovi la sua vicina, - fin che tutto ritorni ordine, senso, coordinazione? Che storia miracolosa ci hanno fatto credere, in fondo, questi scettici.
La sensazione é composta da stimoli disorganizzati, la percezione è sensazione organizzata, la concezione è percezione organizzata, la saggezza è vita organizzata; ognuna di esse è un grado più alto di ordine, conseguenza, unità.

D'onde viene quest'ordine, questa conseguenza, quest'unità? Non certo dalle cose stesse; giacché esse ci sono rese note soltanto dalle sensazioni, le quali giungono subito in moltitudine disordinata, passando per mille canali; e il nostro scopo che mette ordine, conseguenza ed unità in quell'arbitrio inopportuno; noi stessi, le nostre personalità, le nostre menti, portano luce su questi oceani. Locke sbagliava dicendo che «nulla esiste nell'intelletto se non in quanto era prima nei sensi»; Leibniz aveva ragione, aggiungendo: «nulla, se non l' intelletto stesso». Kant dice: «Le percezioni senza concezioni sono cieche». Se le percezioni si unissero automaticamente nel pensiero ordinato, se la mente non fosse uno sforzo attivo che fa ordine dal caos, come potrebbe la medesima esperienza lasciare un uomo mediocre, e, in un'anima più attiva e instancabile, venire inalzata alla luce della saggezza e alla magnifica logica della verità?

Il mondo, dunque, non ha ordine per se stesso, ma perché il pensiero, che conosce il mondo, é per se stesso un ordine, il primo stadio in quella classificazione d'esperienza, che, infine, é scienza e filosofia. Le leggi del pensiero sono anche leggi delle cose, giacché le cose ci sono rese note solo per mezzo di questo pensiero, il quale deve obbedire a queste leggi, poiché esso ed esse sono un'unica cosa; secondo quanto Hegel disse più tardi, le leggi della logica e quella della natura sono tutt'uno, e logica e metafisica si assorbono a vicenda. I principi generalizzati della scienza sono necessari, perché sono, in fondo, le leggi del pensiero contenute e presupposte in ogni esperienza passata, presente e futura. La scienza è assoluta, la verità è eterna.


DIALETTICA TRASCENDENTALE

Nondimeno, questa certezza, questa assolutezza delle massime generalizzazioni della logica e della scienza è paradossalmente limitata e relativa; limitata strettamente al campo dell'esperienza attuale, e relativa strettamente al nostro umano modo d'esperienza. Poiché, se la nostra analisi è stata corretta, il mondo - così come noi lo conosciamo - è una costruzione, un prodotto finito, quasi - diremo - un articolo manufatto, cui la mente contribuisce tanto con le sue forme foggiatrici, quanto la cosa contribuisce con i suoi stimoli (così percepiamo rotonda la superficie della tavola, mentre la nostra sensazione e di un'ellissi). L'oggetto, com'esso ci appare, è un fenomeno, un'apparenza, forse assai diverso dall'oggetto esterno prima ch'esso giungesse a conoscenza dei nostri sensi; non possiamo mai sapere che cos'era quell'oggetto originale; la «cosa in se» può essere un oggetto del pensiero o deduzione (un « noumeno »), ma non può essere sperimentato, - giacché, se fosse sperimentato, esso muterebbe nel suo passaggio per il senso e per il pensiero. «Ci è completamente sconosciuto quali oggetti possano esistere di per se stessi, all'infuori della recettività dei nostri sensi. Non conosciamo che il nostro modo di percepirli; e questo modo è proprio a ciascuno di noi e non necessariamente condiviso da ogni essere nemmeno (senza dubbio) da ogni essere umano »
(ib. pag.37).

La luna, come noi la conosciamo, non è che un insieme di sensazioni (come Hume vedeva), unificate (come Hume non vedeva) dalla nostra struttura mentale innata, per mezzo dell'elaborazione di sensazioni in percezioni, e di queste in concezioni di idee; insomma, la luna non è per noi che le nostre idee.
Non che Kant metta mai in dubbio l'esistenza della « materia » e il mondo esterno; ma aggiunge che non ne sappiamo nulla di preciso, se non che essi esistono. La nostra conoscenza esatta è sulla loro apparenza, i loro fenomeni, le sensazioni che noi ne abbiamo. Idealismo non significa, come crede il profano, che nulla esista all'infuori del soggetto che osserva; ma che una buona parte di ogni oggetto è creata dalle forme di percezione e d'intelletto: noi conosciamo l'oggetto come trasformato in idea; non possiamo sapere che cosa esso sia prima di questa trasformazione. La scienza, dopo tutto, è ingenua; suppone di aver a che fare con le cose in sé, nella loro pura realtà esterna e incorrotta; la filosofia è un po' più sofisticata e s'accorge che tutto il materiale della scienza consiste di sensazioni, percezioni e concezioni, più che di cose. Schopenhauer dice: «Il maggior merito di Kant e la distinzione del fenomeno dalla cosa in se stessa».

 

Ne segue che ogni tentativo, fatto dalla scienza o dalla religione, per dire proprio che cosa sia l'ultima realtà, deve ridursi ad una semplice ipotesi : «l'intelletto non può mai giungere oltre i limiti della sensibilità» (ib. pag.215). Questa scienza trascendentale si perde in « antinomie », e questa teologia trascendentale si perde in « paralogismi ». La crudele funzione della «dialettica trascendentale » è di esaminare quanto valgono questi tentativi della ragione per sfuggire al circolo chiuso delle sensazioni e delle apparenze nel mondo inconoscibile delle cose « in se stesse ».

Le antinomie sono i dilemmi nati da una scienza che tenta di scavalcare l'esperienza. Così, per esempio, quando la conoscenza tenta di decidere se il mondo sia finito o infinito nello spazio, il pensiero si ribella ad ambedue queste supposizioni: oltre ogni limite, siamo portati a concepire qualcosa ancora, all'infinito; eppure l'infinito è di per sé inconcepibile. E ancora: ebbe il mondo un principio nel tempo? Non possiamo concepire l'eternità; ma allora, non possiamo nemmeno concepire alcun punto nel passato senza sentire subito che esisteva qualcosa prima di esso. Oppure la catena di cause che la scienza studia, ha essa forse un principio, una causa prima? Si, giacche una catena infinita non è concepibile; no, perché una causa prima non causata è altrettanto inconcepibile. Esiste un'uscita da questi vicoli ciechi del pensiero? Essa esiste, dice Kant, se ricordiamo che spazio, tempo e causa sono modi di percezione e concezione, che debbono entrare nella nostra esperienza, poiché essi sono il tessuto e la struttura dell'esperienza; questi dilemmi nascono dalla ipotesi che spazio, tempo e causa siano cose esterne, indipendenti dalla percezione. Non avremo mai esperienza, se non interpreteremo in termini di spazio, tempo e causa; ma non avremo mai filosofia, se dimentichiamo che queste non sono cose, ma modi d'interpretazione e intendimento.


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(Qui vale la pena ricordare un'affermazione del grande John Eccles, il più grande neuroscienziato (Nobel 1963), in "La conoscenza del cervello", Edit. Piccin, pag. 249: "Consideriamo brevemente il libero arbitrio. Non intendo lasciarmi andare a una disputa filosofica su questo tema fin troppo discusso. Tutto ciò che ho da dire è che il libero arbitrio è un fatto di esperienza. E' qualcosa che ciascuno di noi prova. Nessuno avrebbe immaginato che il libero arbitrio esistesse se non ne avesse fatto esperienza, con il che io intendo la capacità di effettuare delle azioni che sono state programmate nel pensiero, o almeno il tentare di effettuarle. Il libero arbitrio è spesso negato per il motivo che non si può spiegarlo, che esso implica degli eventi inspiegabili con la fisica e la fisiologia odierna. A questo io rispondo che la nostra incapacità può derivare dal fatto che la fisica e la fisiologia non sono ancora sufficientemente sviluppate rispetto all'enorme complessità dei moduli di attività neuronica in gioco. La sottigliezza, l'immensa complessità dei disegni tracciati nello spazio e nel tempo da questo "telaio incantato" di Sherrington, e le proprietà essenziali di questo sistema sono al di là di qualsiasi livello di indagine possibile con la fisica e la fisiologia di oggi, e forse con la fisica e la fisiologia di un lungo tempo a venire"
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Così è del paralogismo della « teologia razionale » - la quale cerca di provare con la ragione teoretica che l'anima è una sostanza incorruttibile, che la volontà è libera e al di sopra della legge di causa ed effetto, e che esiste un «essere necessario», Dio, come presupposto di ogni realtà. La dialettica trascendentale deve ricordare alla teologia che sostanza, causa e necessità sono categorie finite, modi di disposizione e classificazione, che la mente applica all'esperienza dei sensi, e certamente validi solo per i fenomeni che appaiono a questa esperienza; non possiamo applicare queste concezioni al mondo noumenale (o puramente dedotto e congetturale). La religione non può esser provata dalla ragione teoretica.

Così finisce la prima Critica. Si potrebbe bene immaginare Davide Hume, ancor più scozzese di Kant, osservarne i risultati con un sorriso sardonico. Ecco un libro tremendo, lungo ottocento pagine; gravato oltre misura da una ponderosa terminologia; il quale si propone di risolvere tutti i problemi di metafisica, e di salvare, incidentalmente, l'assolutismo della scienza e la verità essenziale della religione. Che cosa aveva fatto il libro, in fin dei conti? Aveva distrutto il mondo ingenuo della scienza e lo aveva limitato se non in grado, certamente nello scopo, - ad un mondo di pura superficie ed apparenza, oltre il quale poteva dare soltanto « antimonie » ridicole; così la scienza era «salva !»

Il libro, nelle sue parti più eloquenti ed acute aveva osservato che gli oggetti della fede - un'anima libera e immortale, un creatore benevolo - non si sarebbero mai potuti provare con la ragione; così la religione era «salva» ! Non c'è da meravigliarsi se gli ecclesiastici di Germania protestavano acerbamente contro questa salvezza e si vendicarono chiamando Emanuele Kant il loro cane.

E nemmeno possiamo meravigliarci se Heine paragonò il piccolo professore di Konigsberga al terribile Robespierre: questi aveva soltanto ucciso un re e qualche migliaio di Francesi - cosa che un Francese poteva perdonargli; ma Kant, diceva Heine, ha ucciso Dio, ha messo in dubbio le tesi più preziose della teologia. «Quale profonda differenza tra la virtù esteriore di quest'uomo e i suoi pensieri distruttori, capaci di sconvolgere il mondo! Se i cittadini di Konigsberga avessero sospettato tutta l'importanza di quei pensieri, avrebbero provato più orrore alla presenza di quest'uomo che a quella di un boia, il quale uccide soltanto creature umane. Ma quella buona gente non vedeva in lui che un professore di filosofia; e quando, all'ora fissa, egli passava, gli facevan col capo un saluto cordiale e regolavano il loro orologio»
(Heine, Miscellanee di prosa, Philadelphia, 1876, pag. 146).

Era questa una caricatura o una rivelazione?


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Terza Parte:

LA « CRITICA DELLA RAGION PRATICA » - "DELLA RELIGIONE E DELLA RAGIONE"
"DELLA POLITICA E DELLA PACE PERPETUA" - CRITICA E VALUTAZIONI

DA VOLTAIRE A KANT - DA LOCKE A KANT - DA ROUSSEAU A KANT

LA « CRITICA DELLA RAGION PRATICA »

Se la religione non si può basare sulla scienza e sulla teologia, su che cosa può essa, dunque, basarsi ? Sulla morale. La base, in teologia, è troppo malsicura; era meglio abbandonarla, anzi distruggerla; la fede dev'esser posta oltre la portata o il regno della ragione. Allora, però, la base morale della religione dev'essere assoluta, non derivata dalla discutibile esperienza de' sensi o da una precaria deduzione; non condotta dall'ingerenza della ragione fallace; dev'essere derivata dall'io interiore, con una diretta percezione e intuizione. Dobbiamo trovare una etica universale e necessaria; de' principi di morale a priori, assoluti e
certi come la matematica. Dobbiamo dimostrare che « la ragion pura può essere pratica; cioé, può determinare da se la volontà, indipendentemente da qualsiasi empirismo»
(Critica della ragion pratica, p. 31), che il senso morale é innato e non derivato dall'esperienza. L'imperativo morale, di cui abbiamo bisogno come base della religione, dev'essere un imperativo assoluto, categorico.

Ora, la realtà più meravigliosa in tutta la nostra esperienza è precisamente il nostro senso morale, il nostro sentimento inevitabile, dinanzi alla tentazione, il quale ci avverte che la tal cosa non va. Noi possiamo resistere a questo sentimento, ma esso esiste nostro malgrado. Le matin le fais des projects, et le soir je fais des sottises (« La mattina prendo buone risoluzioni; la sera commetto follie »); ma sappiamo che sono sottises e non ci lasciamo nuovamente sedurre. Che cosa produce il rimorso di coscienza e la nuova risoluzione? L'imperativo categorico in noi, l'incondizionato comando della nostra coscienza, che ci dice di «agire come se la massima della nostra azione dovesse divenire, per volontà nostra, una legge universale di natura» (Ragion pratica, p. 139).

Sappiamo, non per ragionamento, ma per un vivo sentimento immediato, che dobbiamo evitare una condotta, la quale renderebbe la vita sociale impossibile, se venisse adottata da tutti. Voglio sfuggire a una situazione critica con una menzogna? Ma « se posso desiderar di mentire, non posso assolutamente desiderare che la menzogna sia una legge universale. Giacche, con una legge simile, non esisterebbero le promesse » (Ibid. p. 1g. (5) Ibid. p. 227). Da ciò, il senso, in me, che non debbo mentire, anche se la menzogna può tornare a mio vantaggio. La prudenza é ipotetica; il suo motto é questo : - Onestà, quando essa é la politica migliore; ma la legge morale ne' nostri cuori non è incondizionata e assoluta.

E un'azione é buona, non perché dà buoni risultati, o perché è saggia, ma perché é compiuta in obbedienza a quest'ultimo senso del dovere, a questa legge morale che non viene dalla nostra esperienza personale, ma detta legge imperiosamente e a priori a tutto il nostro modo d'agire, passato, presente e futuro. L'unica cosa assolutamente buona in questo mondo é una buona volontà - la volontà di obbedire alla legge morale, senza pensare al nostro vantaggio o danno personale. La vostra felicità non importa: fate il vostro dovere. «La morale é precisamente la dottrina che ci insegna non come possiamo renderci felici, ma come possiamo renderci degni della felicità »
(ibid. p. 227). Cerchiamo la felicità degli altri, ma per noi cerchiamo la perfezione - non importa se essa ci porti felicità o dolore ( Prefaz. agli Elementi metafisici di Etica). Raggiungere la perfezione in noi stessi e la felicità negli altri, « agire come si agirebbe verso l'umanità, tanto se si tratta della tua persona che di quella degli altri, in ogni caso come fine, non soltanto come mezzo» (Metafisica della morale, Londra, 1909, pag. 47) - ecco, come sentiamo, nel nostro intimo, una parte dell'imperativo categorico.

Viviamo secondo questo principio e creeremo presto una comunità ideale di esseri razionali; per crearla, non dobbiamo far altro che agire come se già le appartenessimo; dobbiamo applicare la legge perfetta nello stato perfetto. Direte che è una etica severa questo considerar il dovere al di sopra della bellezza, la morale più della felicità; ma soltanto così possiamo cessare di esser bestie e incominciare ad essere dei.
Notate, però, che questo assoluto comando del dovere prova finalmente la libertà della nostra volontà; come avremmo potuto concepire la nozione di dovere, se non ci fossimo sentiti liberi? Non possiamo provare questa libertà con la ragione teoretica; la proviamo sentendola direttamente nelle crisi in cui s'impone una scelta morale. Sentiamo questa libertà come l'essenza vera della nostra personalità interiore, del « puro io »; sentiamo dentro di noi l'attività spontanea di uno spirito che foggia l'esperienza e sceglie le mete. Le nostre azioni, una volta iniziate, sembra seguano leggi fisse e invariabili, ma solo perché ne percepiamo il risultato attraverso il senso, il quale riveste tutto ciò che trasmette dell'apparenza di quella legge causale, creata dalla nostra mente stessa. Ad ogni modo, noi siamo oltre e al di sopra delle leggi che escogitiamo per capire il mondo della nostra esperienza; ognuno di noi è un centro di forza iniziatrice e di potenza creatrice. In un certo modo, che sentiamo ma che non possiamo provare, ognuno di noi è libero.

E ancora, noi sentiamo di essere immortali, quantunque non possiamo provarlo. Sentiamo che la vita non è come quei drammi - tanto cari alla gente - in cui ogni malvagio è punito ed ogni buon'azione trova la sua ricompensa; ogni giorno impariamo di nuovo che la saggezza del serpente se la cava meglio della dolcezza della colomba, e che ogni ladro può trionfare se ruba abbastanza.

Se la sola utilità e convenienza mondana fossero la giustificazione della virtù, non sarebbe saggio esser troppo buoni. Eppure, sapendo tutto questo, sentendocelo continuamente rinfacciare con insistenza brutale, sentiamo pur sempre il richiamo alla virtù, sappiamo che dovremmo fare il bene inutile. Come potrebbe sopravvivere questo senso del bene, se non sentissimo nel cuore che questa vita e solo una parte della vita, questo sogno terreno solo un preludio embrionale a una rinascita, a un nuovo risveglio; se non sapessimo vagamente che nell'altra più lunga vita la bilancia ritroverà il suo equilibrio, ed un bicchier d'acqua dato generosamente sarà reso a mille doppi?

Finalmente, e per la stessa ragione, un Dio esiste. Se il senso del dovere implica e giustifica una fede in compensi futuri, « il postulato dell'immortalità... deve condurre alla supposizione dell'esistenza di una causa adeguata al suo effetto; in altre parole, deve accettare l'esistenza di Dio »
(Ragion pratica, p. 220). Questa, ancora, non è una prova data dalla « ragione »; il senso morale, il quale ha da fare col mondo delle nostre azioni, deve avere la priorità sulla logica teoretica, basata sui fenomeni de' sensi. La nostra ragione ci lascia liberi di credere che, dietro la cosa-in-sé esiste un Dio giusto; il nostro senso morale c'impone di crederlo. Rousseau aveva ragione: al di sopra della logica della testa sta il sentimento del cuore. Pascal aveva ragione: "il cuore ha ragioni sue, che la testa non potrà mai capire".


DELLA RELIGIONE E DELLA RAGIONE

Tutto questo vi sembra meschino, timido, conservatore? Non lo era certo: al contrario, questo ardito rinnegamento della teologia « razionale », questa franca riduzione della religione alla fede morale e alla speranza, sollevò le proteste di tutti gli ortodossi di Germania. Per approntare questa «potenza de' quaranta pastori» (come avrebbe detto Byron) era necessario un coraggio maggiore di quello che generalmente si associa al nome di Kant.

Che fosse abbastanza coraggioso, si vide con tutta chiarezza quand'egli pubblicò - a sessantasei anni - la sua
Critica del giudizio, e a sessantanove la sua Religione entro i limiti della ragion pura. Nel primo di questi libri Kant riprende la discussione di quella tesi sul disegno, che nella prima Critica aveva ripudiato come prova insufficiente dell'esistenza di Dio. Egli incomincia a mettere in correlazione disegno e bellezza; il bello, secondo lui, è tutto ciò che rivela simmetria è unità di struttura, come se fosse stato disegnato dall'intelligenza. Osserva di sfuggita (e Schopenhauer si servì qui a dovere per la sua teoria dell'arte) che la contemplazione di un disegno simmetrico dà sempre un piacere disinteressato; e che «un interesse nella bellezza della natura in se é sempre un inizio di bontà» (Critica del giudizio, 29). Molti oggetti in natura mostrano una tale bellezza, simmetria e unità, da condurci alla nozione del disegno soprannaturale. Ma d'altra parte, dice Kant, anche in natura troviamo molti esempi di rovina e di caos, di ripetizione e moltiplicazione inutili; la natura preserva la vita, ma a costo di quante sofferenze e di quante morti !

L'apparenza del disegno esteriore non è, quindi, una prova conclusiva della Provvidenza. I teologi, che usan tanto l'idea, dovrebbero invece abbandonarla, e gli scienziati, che l'hanno abbandonata, dovrebbero usarla : è una guida magnifica e conduce a mille rivelazioni.

Giacché un disegno esiste, indubbiamente; ma é un disegno interiore, il disegno delle parti per il tutto; e se la scienza vuol interpretare le parti d'un organismo, secondo il loro significato, per il tutto, avrà un mirabile equilibrio per l'altro principio euristico - la concezione meccanica della vita - che porta anche a fruttuose scoperte, ma che, da solo, non può spiegare nemmeno il crescere d'un filo d'erba.

Il saggio sulla religione è un'opera notevole per un uomo di sessantanove anni; é forse il libro più ardito di Kant. Poiché la religione non dev'esser basata sulla logica della ragione teoretica, ma sulla ragione pratica del senso morale, ne segue che ogni Bibbia o rivelazione dev'esser giudicata per il suo valore morale, e non può essa stessa essere il giudice di un codice morale. La chiesa e il dogma hanno solo valore in quanto che aiutano lo sviluppo morale della razza.

Quando semplici credi o cerimonie usurpano la priorità sulla eccellenza morale, come prove di religione, la religione è scomparsa. La vera chiesa é una comunità di persone, sebbene sparse e divise, le quali sono unite dalla devozione a una comune legge morale. Per fondare una simile comunità, Cristo visse e morì; appunto una simile chiesa egli sosteneva in contrasto al clericalismo de' Farisei. Ma un altro clericalismo ha quasi schiacciato questa nobile concezione.
«Cristo ha portato il regno di Dio più vicino alla terra; ma è stato frainteso; e invece del regno di Dio, il regno del prete é stato fondato tra noi » ( Citato in Chamberlain, Emanuele Kant, I, 520).

Credo e rituale hanno di nuovo sostituito la vita buona, e gli uomini, invece di essere uniti dalla religione, sono per essa divisi in mille sette; ed ogni sorta di « pie assurdità » vengono inculcate come una « specie di servizio alla corte di Dio, per mezzo del quale una persona si può guadagnare il favore del re de' cieli adulandolo ».

E ancora, i miracoli non possono provare una religione, giacché non possiamo fidarci completamente de' testimoni che li attestano; e la preghiera é inutile, se mira a sospendere le leggi naturali, che permangono per esperienza. Finalmente, il nadir della perversione è raggiunto, quando la chiesa diviene un istrumento nelle mani di un governo reazionario; quando il clero, il cui compito é quello di consolare e guidare l'umanità tormentata con la fede religiosa, la speranza e la carità, è strumento di oscurantismo teologico e di oppressione politica.

L'audacia di tali conclusioni consiste appunto nel fatto che tutto questo avveniva in Prussia. Federico il Grande era nato nel 1786, e gli era succeduto Federico Guglielmo II, cui la politica liberale del predecessore parve avere un troppo forte sapore antipatriottico di illuminismo francese. Zedlitz, che era stato ministro dell'istruzione sotto Federico, fu licenziato; il suo posto fu occupato dal pietista Wóllner. Wóllner era stato descritto da Federico come «prete infido e intrigante»; egli passava il suo tempo tra l'alchimia e i misteri dei Rosacroce, e salì al potere offrendo se stesso come «indegno strumento» alla politica del nuovo monarca, che voleva ristabilire la fede ortodossa con la coercizione
( Enciclopedia Britannica, art. su Federico Guglielmo II).


Nel 1788 Wóllner promulgo un decreto, il quale proibiva qualsiasi insegnamento, nelle scuole o nelle università, che non fosse conforme alle regole del protestantesimo luterano; istituì una rigorosa censura su ogni forma di pubblicazioni, e ordinò il licenziamento di ogni insegnante sospetto di qualsiasi eresia. Dapprima Kant non fu molestato, perché era vecchio e perché - come diceva un consigliere di corte - pochi lo leggevano, e chi lo leggeva non lo capiva. Ma il saggio sulla religione era intelligibile; e sebbene animato da un sincero fervore religioso, aveva troppo sapore volteriano per sfuggire alla nuova censura. La
Berliner Monatschrift, che voleva pubblicare il saggio, ricevette l'ordine di sopprimerlo.
Kant agì allora con un vigore ed un coraggio veramente incredibili in un uomo di quasi settant'anni. Mandò il suo saggio a qualche buon amico a Jena, che glielo fece pubblicare dalla stamperia dell'università. Jena non era in Prussia e si trovava allora sotto la giurisdizione dello stesso duca liberale di Weimar che ospitava Goethe.

 

La conseguenza fu che, nel 1794, Kant -ricevette un eloquente ordine di gabinetto del re di Prussia, che diceva: «La nostra sovrana persona è stata veramente spiacente di constatare com'ella faccia malo uso della sua filosofia per mirare a distruggere molte delle più importanti e fondamentali dottrine della Sacra Scrittura e della Cristianità. Le chiediamo immediatamente esatto conto di ciò e attendiamo che, per il futuro, ella non vorrà esser causa di scandalo, ma che, invece, secondo i suoi doveri, ella userà il suo ingegno e la sua autorità, per modo che le nostre paterne intenzioni possano esser sempre meglio raggiunte. Se ella continuerà ad opporsi a quest'ordine, si attenda spiacevoli conseguenze» (In Paulsen, pag. 49).

Kant rispose che ogni studioso aveva diritto di formarsi giudizi indipendenti in materia di religione è di render note le proprie opinioni; ma che durante il regno del sovrano attuale avrebbe conservato il silenzio.
Qualche biografo, molto coraggioso nel giudicare gli altri, lo ha condannato per questa concessione; ma dobbiamo ricordare che Kant aveva settant'anni, che era cagionevole di salute e non fatto per la lotta e infine .... ch'egli aveva già annunziato il suo messaggio al mondo.


DELLA POLITICA E DELLA PACE PERPETUA

Il Governo prussiano avrebbe perdonato la teologia di Kant, se egli non fosse stato egualmente colpevole di eresie politiche. Tre anni dopo l'ascesa al trono di Federico Guglielmo II, la Rivoluzione Francese aveva fatto tremare tutti i troni di Europa. In un tempo in cui la maggior parte dei docenti nelle università prussiane si erano rifugiati sotto le ali della monarchia legittimista, Kant, già sessantacinquenne, salutò la Rivoluzione con gioia, e con le lacrime agli occhi disse ai suoi amici: « Ora posso dire come Simeone, - Signore, lascia morire in pace il tuo servo, giacché i miei occhi hanno veduto la tua salvezza»
(Wallace, pag. 4).

Nel 1784, egli aveva pubblicato una breve esposizione della sua teoria politica sotto il titolo:
"Il principio naturale dell'ordine politico considerato in connessione all'idea di una storia universale cosmopolita".
Kant incomincia col riconoscere, in questa lotta dell'uomo contro tutti, che aveva tanto spaventato Hobbes, il metodo della natura di sviluppare le capacità occulte della vita; la lotta é la compagna indispensabile del progresso. Se gli uomini fossero interamente socievoli, si avrebbe un ristagno; una certa misura di individualismo e di competizione è necessaria per far sì che la razza umana sopravviva è cresca. «Senza qualità di genere antisociale.. gli uomini avrebbero condotto una vita da pastori d'Arcadia, in completa armonia, sempre soddisfatti e amandosi reciprocamente; ma in questo caso tutte le loro capacita sarebbero rimaste sempre nascoste nel proprio germe"». (Quindi, Kant non era un servile seguace di Rousseau).
"Ringraziamo, dunque, la natura di questa insocievolezza, di questa gelosa invidia e vanità, di questa sete insaziabile di possesso e di potere...L'uomo desidera la concordia; ma la natura sa meglio che cosa va bene, per le sue specie; ed essa vuole la discordia, perché l'uomo sia obbligato ad esercitare sempre una potenza nuova, e un ulteriore sviluppo delle sue capacità naturali".

La lotta per l'esistenza dunque, nel complesso non é un male. Ad ogni modo, l'uomo si accorge subito che dev'esser costretta in certi limiti e regolata da leggi, costumi e norme; da cui l'origine e lo sviluppo della società civile.
Ma ora "la stessa insocievolezza che costrinsegli uomini ad unirsi in società, diventa ancora la causa del fatto, che ogni comunità assume l'attitudine di libertà sfrenata nelle sue relazioni esterne, - come, per esempio, nel caso di uno Stato in relazione aglialtri; e di conseguenza, ogni Stato deve accettare da qualsiasi altro la stessa specie di mali che una volta opprimevano gli individui e li costrinsero ad entrare in una collettività civile, regolata dalla legge»
(La pace perpetua ed altri saggi, Boston, 1914, p. 14).

E' tempo che le nazioni, come gli uomini, emergano dallo stato selvaggio di natura e contraggano patti per mantenere la pace. Tutto il significato e il movimento della storia e la sempre maggior limitazione della guerra e della violenza, e il continuo ampliarsi dell'area della pace. «La storia della razza umana, vista nell'insieme, può esser considerata come la realizzazione d'un occulto disegno della natura, quello, cioé, di creare una costituzione politica, internamente ed esternamente perfetta, come un unico Stato, in cui tutte le attitudini da esso inculcate negli uomini possano svilupparsi perfettamente »
( Ibid. pag. 19).

Se non esiste un simile progresso, gli sforzi delle civiltà future saranno come quelli di Sisifo, il quale «sospingeva sempre di nuovo su per l'erta di un alto monte un'enorme pietra rotonda», solo per farla poi rotolar giù lungo la china, non appena fosse pervenuta alla cima. La storia non sarebbe allora che un'infinita follia tortuosa; «e potremmo immaginare, come gli Indi, che la terra è un luogo di espiazione di antichi peccati dimenticati »
(Ibid. pag. 58).

Il saggio sulla
«Pace perpetua» (pubblicato nel 1795, quando Kant aveva settantun anni) è un nobile sviluppo di questo schema. Kant sa quanto sia facile ridere di questa espressione; e scrive sotto il suo titolo: «Queste parole furono poste una volta - con intenzione ironica - da un oste olandese sull'insegna della sua bettola, in cui era raffigurato un cimitero" (ib. pag. 68).

Kant aveva prima lamentato, come pare debba lamentarsi ogni generazione, che «i sovrani non abbiano danaro da spendere per l'istruzione pubblica... giacché tutte le loro risorse sono stanziate nel bilancio della prossima guerra»
(ib. pag. 21).

Le nazioni non saranno realmente civili, finché tutti gli eserciti permanenti non siano aboliti. (L'audacia di questa proposizione é maggiormente palese, se ricordiamo che fu appunto la Prussia stessa, sotto il padre di Federico il Grande, a istituire per prima la coscrizione).


«Gli eserciti permanenti eccitano gli Stati a rivaleggiare fra loro nel numero dei soldati, il quale non ha limiti. Per le spese che ne derivano, la pace diventa, a lungo andare, piú oppressiva di una breve guerra; e così gli eserciti permanenti sono causa di guerre aggressive, intraprese per liberarsi d'un simile peso»
(ib. pag. 21).
Giacché, in tempo di guerra, l'esercito si manterrebbe da sé a spese della nazione, facendo requisizioni, esigendo acquartieramenti e rapinando; preferibilmente in territorio nemico, ma, se necessario, anche nel proprio paese; ed anche questo sarebbe sempre meglio che mantenere l'esercito con i fondi governativi».

Secondo Kant, gran parte di questo militarismo dipendeva dall'espansione europea in America, Africa ed Asia; con le inerenti contese dei ladri sul loro bottino.
«Se paragoniamo l'inospitalità dei popoli barbari... con il contegno inumano degli Stati civili, e specialmente commerciali, del nostro continente, le ingiustizie ch'essi commettono nei loro primi contatti con i paesi e i popoli stranieri, ci colmano di orrore; una semplice visita a quei popoli viene da essi considerata come l'equivalente di una conquista. L'America, la terra dei negri, le isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc., appena scoperti, furono trattati come paesi di nessuno; poiché gli aborigeni furono calcolati zero... E tutto questo da parte di nazioni che fanno gran vanto della loro pietà e che, mentre commettevano iniquità su iniquità, consideravano se stesse come gli eletti della fede ortodossa»
(ib. pag. 68).

La vecchia volpe di Konigsberga non taceva ancora!
Kant attribuiva questa avidità imperialistica alla costituzione oligarchica degli Stati europei; le spoglie andavano a pochi eletti e rimanevano sostanzialmente anche dopo la divisione. Se la democrazia venisse instaurata, e tutti avessero la propria parte nel potere politico, le spoglie dei ladrocini internazionali dovrebbero esser talmente divise, da costituire una tentazione a cui si resiste. Quindi, il....

«primo articolo da iscriversi fra le condizioni della pace perpetua» è questo: «La costituzione civile di ogni Stato sarà repubblicana, e non sarà dichiarata se non col plebiscito di tutti i cittadini» (ib. pagg. 76-77).

Quando coloro che devono fare la guerra avranno il diritto di decidere tra la guerra e la pace, la storia non sarà più scritta col sangue. «D'altro canto, in una costituzione, in cui il suddito non è un membro dello Stato con diritto a voto, e che non è, quindi, repubblicana, la risoluzione di far la guerra è la cosa della minima importanza. Giacché, in questo caso, il sovrano, che - come tale - non é un semplice cittadino, ma il padrone dello Stato, non si trova affatto nella necessità di soffrire personalmente a causa della guerra, né deve sacrificare ad essa i piaceri della tavola e della caccia, i suoi stupendi palazzi, le feste di corte, o simili. Egli può, quindi, intraprendere una guerra per ragioni insignificanti, come se si trattasse d'una partita di caccia; e in quanto poi alla sua correttezza, egli può non darne affatto giustificazione ai corpi diplomatici, i quali sono sempre anche troppo disposti a prestare i propri servigi a questo scopo» (Ibid).

Quanta contemporanea verità in queste parole !

L'apparente vittoria della Rivoluzione sulle armate della reazione nel 1795 fece sperare a Kant che le repubbliche sarebbero allora nate in tutta Europa, e che ne sarebbero scaturiti ordinamenti interni, basati sulla democrazia, senza schiavitù e senza sfruttamento, e votati alla pace.

Dopo tutto, la funzione del governo consiste nell'aiutare lo sviluppo dell'individuo, non nell'adoperarlo e maltrattarlo. «Ogni uomo va rispettato, come avente un fine assoluto in sé; ed è un delitto contro la dignità di cui é investito come essere umano, usarlo come semplice mezzo per qualsiasi scopo esterno» ( In Paulsen, pag. 340).


Anche questo fa parte integrante di quell'imperativo categorico, senza il quale la religione é una farsa ipocrita. Kant domanda, quindi, l'eguaglianza: non di attitudini, ma di possibilità per lo sviluppo e l'applicazione delle attitudini; egli rigetta ogni prerogativa di nascita e di ceto, e attribuisce ogni privilegio ereditario a qualche violenta conquista del passato. In mezzo all'oscurantismo, alla reazione, e alla coalizione di tutta l'Europa monarchica contro la Rivoluzione, egli si schiera - malgrado i suoi settant'anni - per il nuovo ordinamento, per l'instaurazione della democrazia e della libertà ovunque. Mai vegliardo aveva parlato tanto coraggiosamente con la voce di un giovane.

Ma egli era esaurito; aveva corso la sua parte e si era cimentato nella lotta. Pian piano egli andò decadendo in una senilità infantile, la quale finì poi per esser una pazzia innocua; ad una ad una le sue sensibilità e le sue forze lo abbandonarono; e nel 1804, a settantanove anni, egli morì, di una morte tranquilla e naturale, come una foglia che cade dall'albero.

CRITICA E VALUTAZIONE

Ed ora, come si presenta oggi questa complessa struttura di logica metafisica, psicologia, etica e politica, dopo le tempeste filosofiche di un secoló? Fa piacere rispondere che molto del grande edificio rimane; e che la «filosofia critica» rappresenta un avvenimento d'importanza permanente nella storia del pensiero. Ma moltii particolari e sovrastrutture del grande edificio sono crollate.
Prima di tutto, lo spazio è proprio una semplice «forma di sensibilità », che non ha realtà oggettiva indipendente dalla mente che lo osserva? Sì e no. Sì: giacché lo spazio è un vuoto concetto, se non è riempito di oggetti percepiti; «spazio» significa soltanto che certi oggetti sono, per la mente che osserva, in questa o quella posizione, o distanza, in relazione ad altri oggetti percepiti; e nessun'altra percezione è possibile se non quella di oggetti nello spazio: lo spazio é, quindi, certamente una «forma necessaria del senso esteriore ».
E no: giacché, senza dubbio, simili fatti dello spazio, come l'orbita ellittica percorsa annualmente dalla terra attorno al sole, anche se percepibili solo dalla mente, sono ad ogni modo indipendenti da ogni percezione: il profondo e cupo oceano azzurro esisteva prima che Byron lo cantasse e continuò ad esistere dopo la sua scomparsa. E nemmeno lo spazio é una «costruzione» della mente per la coordinazione di sensazioni all'infuori dello spazio; noi percepiamo lo spazio direttamente attraverso la nostra simultanea percezione di oggetti e punti diversi - come quando vediamo un insetto muoversi su uno sfondo fermo.

Così il tempo, come senso del prima e del poi, o come misura di moto, è naturalmente soggettivo e assolutamente relativo; ma un albero crescerà, appassirà e cadrà, anche se il tratto di tempo non é misurato o percepito. La verità è che Kant voleva ad ogni costo provare la soggettività dello spazio, come rifugio contro il materialismo; temeva di affrontar la tesi che lo spazio é oggettivo e universale, che Dio deve esistere nello spazio e, quindi, essere materiale. Avrebbe potuto accontentarsi dell'idealismo critico, il quale dimostra che ogni realtà é conosciuta da noi originalmente, come le nostre sensazioni e le nostre idee.
La vecchia volpe azzannava più che non potesse masticare.

(La vitalità persistente della teoria di Kant sulla conoscenza appare nella sua interezza nello scienziato pratico Charles P. Steinmetz: «Tutte le nostre percezioni dei sensi sono limitate dalle concezioni di tempo e di spazio e attaccate ad esse. Kant, il massimo e più critico di tutti i filosofi, nega che tempo e spazio sono prodotti dell'esperienza, ma dimostra come essi siano categorie - concezioni con cui la nostra mente riveste le percezioni del senso. La fisica moderna è giunta alla medesima conclusione nella teoria dell'attività, per cui spazio assoluto e tempo assoluto non esistono, ma tempo e spazio esistono solo ed in quanto cose od eventi li riempiano; essi sono, cioè, forme di percezione ».
(Discorso alla Chiesa Unitaria, Shenectady, 1923).

Avrebbe anche potuto accontentarsi della relatività della verità scientifica, senza tendere al miraggio della verità assoluta. Studi recenti, come quelli di Pearson in Inghilterra, Mach in Germania e Henri Poincaré in Francia, sono più d'accordo con Hume che con Kant: ogni scienza, anche la matematica più rigorosa, è relativa nella sua verità. La scienza in sè non se ne preoccupa; si contenta d'un alto grado di probabilità. Dopo tutto, la conoscenza « necessaria » non è forse necessaria?

Il merito grande di Kant consiste nell'aver dimostrato, una volta per tutte, che il mondo esteriore ci è noto soltanto come sensazione; e che la mente non è una semplice tabula rasa, inerte vittima della sensazione, ma un agente positivo, il quale sceglie e ricostruisce l'esperienza di mano in mano che essa arriva. Possiamo far restrizioni a questa teoria, senza però diminuirne minimamente la grandezza. Possiamo sorridere, con Schopenhauer, alla esatta dozzina di categorie, raggruppate a tre per tre, e poi allungate, contratte e interpretate erroneamente e spietatamente, perché si addicano a tutte le cose e le circuiscano
(Op. cit. vol. II, p. 23).

E possiamo anche mettere in dubbio se queste categorie, o forme interpretative del pensiero, siano innate, esistenti prima della sensazione e dell'esperienza; forse lo sono nell'individuo come Spencer concedeva - quantunque acquisite dalla razza; e poi forse acquisite anche dall'individuo le categorie possono essere solchi del pensiero, abitudini di percezione e concezione, gradatamente prodotte dalle sensazioni e percezioni, che si dispongono automaticamente, - prima in modo disordinato, poi con una specie di selezione naturale di forme dispositive, in modo ordinato, adatto e delucidatore. La memoria classifica e interpreta le sensazioni in percezioni, e le percezioni in idee; ma la memoria èun accrescimento. Questa unità della mente, che Kant crede innata ("l'unità trascendentale della coscienza intima"), è acquisita - e non da tutti; e può esser conquistata come perduta - nell'amnesia, oppure nella personalità alternante, oppure nella pazzia. I concetti sono una conquista, non un dono.

Il XIX secolo non volle troppo saperne dell'etica kantiana, della sua teoria di un senso morale innato, a priori. La filosofia dell'evoluzione sostenne irresistibilmente che il senso del dovere èun pegno sociale nell'individuo, la soddisfazione della coscienza èacquistata, sebbene la vaga disposizione al contegno sociale sia innata. L'individuo morale, l'uomo sociale non èuna «creazione speciale», che viene misteriosamente dalla mano di Dio, ma il tardo prodotto d'una lenta evoluzione. La morale non è assoluta; essa è un codice di condotta più o meno felicemente sviluppato per la sopravvivenza del gruppo, e variante secondo la natura e le circostanze del gruppo stesso; un popolo circondato da nemici, per esempio, considera immorale l'individualismo animoso e inquieto, che una nazione giovane e sicura nel suo benessere e nel suo isolamento accetterà come ingrediente necessario allo sfruttamento delle risorse naturali e alla formazione del carattere nazionale. Nessuna azione è buona di per se stessa, come Kant sostiene
(Ragion pratica, p. 31).

La sua gioventù pietistica, la sua vita severa di dovere senza fine e di piacere non certo frequente, lo avevano inclinato alla morale; giunse alla fine a patrocinare il dovere per amore del dovere stesso, e cadde così inavvertitamente nelle braccia dell'assolutismo prussiano
(Cfr. Prof. Dewey: Filosofia e politica tedesca).
C'e un po' del severo calvinismo scozzese in questa opposizione del dovere alla felicità; Kant continua Lutero e la riforma stoica, come Voltaire continua Montaigne e il Rinascimento epicureo. Egli rappresentava una severa reazione contro l'egoismo e l'edonismo, in cui Helvetius e Holbach avevano formulato la vita del loro tempo indifferente, proprio come Lutero aveva reagito contro il lusso e la mollezza dell'Italia mediterranea. Ma dopo un secolo di reazione contro l'assolutismo dell'etica kantiana, ci troviamo di nuovo immersi nel fango del sensualismo e dell'immoralità trionfanti nei grandi centri, dello spietato individualismo non frenato dalla coscienza democratica o dal senso dell'onore aristocratico; e forse arriverà presto il giorno, in cui una civiltà in disgregazione invocherà di nuovo il richiamo kantiano al dovere.

Il meraviglioso della filosofia di Kant sta nel vigoroso risveglio, nella seconda Critica, di quelle idee di Dio, libertà e immortalità, che la prima Critica aveva in apparenza distrutto. Paul Ree, il critico amico di Nietzsche dice: «Nelle opere di Kant ci si sente come ad una fiera di campagna. Potete comperar da lui qualsiasi cosa desideriate: libertà di volontà e prigionia della medesima, idealismo e sua confutazione, ateismo e il buon Dio. Come farebbe un giocoliere col suo cappello, Kant tira fuori dal concetto del dovere un Dio, l'immortalità e la libertà, - con grande sorpresa de' suoi lettori» (In Untermann, Scienza e Rivoluzione, Chicago, 1905, pag 81).

Anche Schopenhauer si ribella alla derivazione dell'immortalità dal bisogno di ricompensa: «La virtù di Kant, che dapprima si comportò così bene verso la felicità, perde poi la sua indipendenza e stende la mano per chiedere una mancia»
(In Paulsen, pag. 317).

LUI, il grande pessimista crede che Kant fosse proprio uno scettico, il quale, avendo perduto egli stesso la fede, esitasse a distrugger quella degli altri, per timore delle conseguenze sulla pubblica morale. «Kant scopre la mancanza di fondamento della Teologia speculativa, e lascia intatta la teologia popolare, anzi la conferma in forma più nobile, come una fede basata sul sentimento morale». Questo fu poi svisato dai filosofastri è ridotto a comprensione razionale e coscienza di Dio, ecc...; mentre Kant, demolendo antichi errori venerati e conoscendo il pericolo di una simile demolizione, voleva piuttosto, con la teologia morale, sostituire alcuni deboli sostegni temporanei, affinché le macerie non gli cadessero addosso ed egli potesse trovare il tempo di fuggire » (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 129).

Così pure Heine - e qui vediamo senza dubbio un'intenzionale caricatura, - rappresenta Kant, mentre, dopo aver distrutto la religione, se ne va a spasso col servo Lampe e s'accorge improvvisamente che gli occhi del vecchio servitore sono pieni di lacrime. «Allora Emanuele Kant ha compassione di lui, dimostrando così di essere non solo un grande filosofo, ma anche un buon uomo; e dice, tra il gentile e l'ironico: - Il vecchio Lampe avrà un Dio, altrimenti non può esser felice, come afferma la ragion pratica; per conto mio, la ragion pratica può anche garantire l'esistenza di Dio»
(Citato da Paulsen, pag. 8).

Se queste interpretazioni fossero vere, dovremmo chiamare la seconda Critica un anestetico trascendentale.
Ma queste audaci ricostruzioni di Kant interiore non vanno prese troppo seriamente. Il fervore di cui è pervaso il saggio sulla «
Religione entro i limiti della ragion pura» indica una sincerità troppo intensa per esser messa in dubbio; è il tentativo di mutar la base della religione dalla teologia alla morale, dal credo alla condotta, non avrebbe potuto esser fatto che da uno spirito profondamente religioso. «È proprio vero.. », egli scrisse a Moses Mendelssohn nel 1766, «...che io penso tante cose con la massima convinzione... cose che non ho mai il coraggio di palesare; ma non dirò mai una cosa che non penso» (In Paulsen, p. 53).

"Naturalmente, un trattato lungo ed oscuro come la grande Critica si presta a interpretazioni contrarie; una delle prime critiche del libro, fatta da Reinhold, pochi anni dopo che esso fu pubblicato, diceva quanto possiamo dire oggi La Critica della ragion pura é stata proclamata dai dogmatici il tentativo di uno scettico, che mina la certezza di ogni conoscenza; dagli scettici, un'opera di arrogante presunzione, che vuol erigere una nuova forma di dogmatismo sulle rovine di sistemi anteriori; - dai supernaturalisti, un artificio sottilmente studiato per minare i fondamenti storici della religione e stabilire le basi del naturalismo senza polemica; - dai materialisti, una contraddizione idealistica della realtà della materia; - dagli spiritualisti, un'ingiustificabile limitazione di ogni realtà al mondo corporeo, celato sotto il nome di dominio dell'esperienza »
(In Paulsen, p.114).

In verità, la gloria del libro sta appunto nell'apprezzamento di tutti questi punti di vista; e un'intelligenza aperta come quella di Kant s'accorgerà che egli li ha riconciliati tutti e fusi in una tale unità di verità complessa, quale la filosofia non aveva mai veduto in tutta la sua storia precedente.
Per quanto riguarda la sua influenza, possiamo dire che tutto il pensiero filosofico del XIX secolo s'aggirò attorno alle sue speculazioni. Dopo Kant, tutta la Germania s'occupò di metafisica; Schiller e Goethe la studiarono; Beethoven citò con ammirazione le sue famose parole sulle due meraviglie della vita - «il cielo stellato al di sopra, e la legge morale al di dentro»; e Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer crearono, in rapida successione, grandi sistemi di pensiero basati sull'idealismo del vecchio saggio di Konigsberga.

In quei balsamici giorni di metafisica tedesca Jean Paul Richter scriveva: «Dio ha dato la terra ai Francesi, agli Inglesi il mare, ai Tedeschi l'impero dell'aria».

La critica della ragione di Kant e la sua esaltazione del sentimento prepararono il volontarismo di Schopenhauer e di Nietzsche, l'intuizionismo di Bergson, e il pragmatismo di William James; la sua identificazione delle leggi del pensiero con le leggi della realtà diedero a Hegel tutto un sistema di filosofia; e la sua inconoscibile «cosa in sé medesima» ebbe influenza su Spencer più ch'egli stesso non credesse. Molta parte della oscurità di Carlyle va addebitata al suo tentativo di allegorizzare il già oscuro pensiero di Goethe e di Kant - che, cioé, le diverse religioni e filosofie non sono se non mutabili vesti di una eterna verità. Caird, Green, Wallace, Watson, Bradley e molti altri, in Inghlterra, debbono la loro ispirazione alla prima Critica; ed anche il fiero innovatore Nietzsche prende la sua epistemologia dal gran «Chinese di Konigsberga», la cui etica statica egli condanna così ferocemente.


Dopo un secolo di lotta tra l'idealismo di Kant, riformato in vari modi, e il materialismo dell'illuminismo, addolcito sotto varie forme, la vittoria sembra rimanere a Kant. Persino il grande materialista Helvetius scrisse paradossalmente: «Gli uomini, se posso osare questa espressione, sono i creatori della materia»
(In Chamberlain, I, p.86)
La filosofia non sarà più ingenua come ne' suoi primi e più semplici giorni; essa sarà sempre differente, da ora in poi, e più profonda, poiché Kant visse.


DA VOLTAIRE A KANT

Passiamo da una ragione teoretica senza fede, ad una fede religiosa senza ragione teoretica. Voltaire significa l'illuminismo, l'enciclopedia, l'età della ragione. L'ardente entusiasmo di Francis Bacon aveva ispirato a tutta l'Europa (eccettuato Rousseau) un'assoluta fiducia nel potere della scienza e della logica a risolvere ogni problema e ad illustrare l'« infinita perfettibilità » dell'uomo. Condorcet scrisse, in prigione, il suo
Quadro storico del progresso dello spirito umano (1793), il quale esprimeva la sublime fiducia del XVIII secolo nel sapere e nella ragione, e chiedeva solo una cultura universale quale unica chiave all'Utopia. Anche i sobri Tedeschi ebbero la loro Aufklarung (illuminiscismo), il loro razionalista Cristiano Wolff e il loro fiducioso Lessing. E gli eccitabili Parigini della Rivoluzione drammatizzarono quest'apoteosi dell'intelligenza, adorando la «Dea Ragione», impersonata in una graziosa donna del popolo.
In Spinoza, questa fede nella ragione aveva raggiunto una magnifica struttura geometrica e logica: l'universo era un sistema matematico e poteva essere descritto a priori, con una pura deduzione da assiomi acccettati. In Hobbes, il razionalismo di Bacone era divenuto un ateismo e un materialismo inflessibili; nulla esisteva se non «atomi a vuoto».
Da Spinoza a Diderot, i residui della fede si trovarono nel solco aperto dalla ragione, che si faceva strada: a poco a poco, i vecchi dogmi scomparvero; la cattedrale gotica della credenza medioevale crollò, con tutte le sue meravigliose e grottesche ornamentazioni; con i Borboni cadde dal trono anche l'antico Dio, il cielo spirituale svanì nella volta celeste, e l'inferno non fu più che un'espressione ad effetto. Helvetius e Holbach resero talmente di moda l'ateismo nei salotti francesi, che esso fu accettato persino dal clero; e Le Mettrie andò a spacciarlo in Germania sotto gli auspici del re di Prussia. Quando, nel 1784, Lessing scandalizzò Jacobi, dichiarando di essere un seguace di Spinoza, la fede aveva raggiunto il suo nadir, e la ragione trionfava.

Davide Hume, il quale ebbe una parte così importante nell'assalto dell'illuminismo alla fede soprannaturale, disse che quando la ragione é contro un uomo, questi si ribella ben presto alla ragione. La fede e la speranza religiosa, annunciata da centomila campanili, sorgenti ovunque dal suolo europeo, avevano radici troppo profonde nelle istituzioni sociali e nel cuore umano, da imporre una facile resa all'ostile verdetto della ragione; era inevitabile che questa fede e questa speranza, così condannate, mettessero in dubbio la competenza del giudice e invocassero un esame della ragione, come della religione.
Che cosa era questa mente, la quale- proponeva di distruggere con un sillogismo le credenze di migliaia d'anni e di milioni di uomini? Che cosa aveva essa d'infallibile? Oppure era un organo umano eguale agli altri, con funzioni e poteri assai limitati? Era giunta l'ora di giudicare questo giudice, di esaminare questo spietato tribunale rivoluzionario, che, con tanta prodigalità, pronunziava sentenze di morte contro ogni antica speranza. Era giunto il tempo per una critica della ragione.


DA LOCKE A KANT

Il terreno per quest'esame era stato preparato da Locke, Berkeley e Hume; sebbene i loro risultati fossero apparentemente ostili alla religione.
Giovanni Locke (1632-1704) aveva proposto d'applicare alla psicologia le prove e i metodi induttivi di Bacone: nel suo grande "Saggio sulla intelligenza umana" (1689), la ragione, per la prima volta nel pensiero moderno, si era ripiegata su se stessa, e la filosofia aveva incominciato ad esaminare criticamente lo strumento, di cui per lungo tempo aveva avuto tanta fiducia. Questo movimento introspettivo crebbe in filosofia passo passo col romanzo introspettivo creato da Richardson e da Rousseau; come il colore sentimentale ed emotivo di "
Clarissa Harlowe" e de "La nouvelle Héloise" trovò il suo corrispondente nell'esaltazione filosofica dell'istinto e del sentimento sull'intelletto e sulla ragione.

D'onde scaturisce il sapere? Abbiamo noi, come parecchia brava gente crede, idee innate, per esempio, sul giusto e sull'errore, su Dio - idee innate nella mente dalla nascita, anteriori ad ogni esperienza? Alcuni teologi, timorosi che la fede nella deità dovesse scomparire, perché Dio non era ancora stato veduto con nessun telescopio, avevan creduto che la fede e la morale avrebbero potuto rafforzarsi se si fosse dimostrato che le loro idee centrali e fondamentali erano innate in ogni anima normale. Ma Locke, sebbene buon cristiano, pronto a discutere nel modo più eloquente su «la ragionevolezza del Cristianesimo», non poteva accettare queste ipotesi; egli sostenne tranquillamente che tutto il nostro sapere scaturisce dall'esperienza, attraverso i nostri sensi - che « non esiste nulla nella mente, se non quanto fu prima nei sensi». La mente, al momento della nascita, é come un foglio bianco, tabula rasa; e l'esperienza dei sensi scrive su di esso in mille modi, finché la sensazione genera la memoria e la memoria le idee. Tutto questo pareva condurre alla stupefacente conclusione che, potendo solo le cose materiali colpire i nostri sensi, noi conosciamo solo la materia e siamo costretti ad accettare una filosofia materialistica.
Se le sensazioni sono l'oggetto del pensiero, arguivano molti, la materia dev'essere l'oggetto della mente.

Niente affatto, obiettò il vescovo Giorgio Berkeley (I68i-I753); quest'analisi che Locke fa del sapere, dimostra piuttosto che la materia non esiste se non come forma della mente. Era un'idea brillante - ripudiare il materialismo col semplice espediente di provare che noi non sappiamo nulla della materia; in tutta Europa soltanto un'immaginazione gaelica poteva aver concepito questa magia metafisica. Ma guardate com'é ovvio, diceva il vescovo; non ci ha detto Locke che ogni nostra conoscenza deriva dalla sensazione? Quindi, la conoscenza di qualsiasi cosa deriva dalle nostre sensazioni di essa, e le idee da queste sensazioni. Una «cosa» é soltanto un insieme di percezioni - cioé, di sensazioni classificate e interpretate. Voi protestate dicendo che la vostra colazione é molto più sostanziosa di tutto un insieme di percezioni; e che un martello, il quale v'insegna il mestiere del falegname a scapito del vostro pollice, ha una magnifica materialità. Ma la vostra colazione é, prima di tutto, soltanto un insieme di sensazioni della vista, dell'odorato e del tatto; e poi del gusto; e poi di benessere e calore interno. Così, il martello é un insieme di sensazioni di colore, grandezza, forma, peso, tatto, ecc.; la sua realtà, per voi, non é nella sua materialità, ma nelle sensazioni che vi vengono dal vostro pollice percosso. Se non aveste i sensi, il martello non esisterebbe affatto per voi; potrebbe picchiare in eterno sul vostro pollice morto e non attirare la benché minima attenzione da parte vostra. Si tratta soltanto di un insieme di sensazioni, oppure di un insieme di ricordi; é una coordinazione della mente. Ogni materia, per quanto possiamo saperne noi, é una condizione mentale; è la sola realtà che conosciamo direttamente è il pensiero. Questo, per quanto riguarda il materialismo.

Ma il vescovo irlandese aveva fatto i conti senza lo scettico scozzese. Davide Hume (1711-1776) all'età di ventisei anni strabiliò la Cristianità intera con il suo Trattato sull'umana natura, profondamente eretico - una delle opere classiche e una delle meraviglie della filosofia moderna. Conosciamo la mente, diceva Hume, soltanto in quanto conosciamo la materia: con la percezione, quantunque interiore, in questo caso. Noi non percepiamo mai un' entità come la « mente »; percepiamo soltanto idee singole, ricordi, sentimenti, ecc. La mente non è una sostanza, un organo che ha idee: è solo un nome astratto per un insieme di idee; percezioni, memoria, sentimenti sono la mente non esiste un'anima sensibile dietro i processi del pensiero. Apparentemente, Hume aveva distrutto del tutto la ragione, come Berkeley aveva distrutto la materia. Non era rimasto più nulla; e la filosofia si trovò in mezzo a un mucchio di rovine prodotte da se stessa.

Ma Hume non fu contento di abbattere la religione ortodossa, distruggendo il concetto di anima; egli propose anche di abbattere la scienza, dissolvendo il concetto di legge. Da Giordano Bruno e Galileo, la scienza e la filosofia avevano tenuto in gran conto la legge naturale, della « necessità » nella successione dell'effetto alla causa; Spinoza aveva basato la sua maestosa metafisica su questa rigorosa concezione. Ma Hume fece osservare che noi non percepiamo cause né leggi, percepiamo solo eventi e conseguenze e ne deduciamo la motivazione e la necessità; una legge non è un eterno decreto necessario, cui gli eventi sono soggetti, ma semplicemente un sommario mentale e succinto della nostra caleidoscopica esperienza; non possiamo sapere se le conseguenze osservate riappariranno inalterate nella futura esperienza. « La legge » è un'abitudine osservata nella conseguenza degli eventi; ma nell'abitudine non esiste « necessità ».

Soltanto le formule matematiche obbediscono alla necessità - esse sole sono inerentemente e immutabilmente vere; e questo, solo perché tali formule sono tautologiche - il predicato è già contenuto nel soggetto; 3 x 3 = 9 è una verità eterna e necessaria, solo perché 3 x 3 e 9 sono la medesima cosa espressa in modo diverso; il predicato non aggiunge nulla al soggetto. La scienza, dunque, deve strettamente limitarsi alla matematica e all' esperimento diretto; non può fidarsi della non verificata deduzione della « legge ». Quando. scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, - scrive il nostro scettico precipitoso, - a quali rovine andiamo incontro ! Se prendiamo in mano un volume qualsiasi di metafisica elementare, per esempio, ci domandiamo : «Conterrà esso qualche ragionamento astratto, concernente la quantità o il numero? ». No. « Contiene, forse, qualche ragionamento sperimentale concernente una materia di fatto ed esistente? ». No. «Datelo, dunque, alle fiamme, giacche esso non può contener che sofisticherie ed illusioni»
(Citato da Royce nel suo « Spirito della filosofia moderna », Boston 1892, pag. 98)

Immaginate come queste parole rintronassero nelle orecchie dell'ortodosso. Qui, la tradizione epistemologica - la ricerca della natura, delle fonti e del valore del sapere - aveva cessato di essere un appoggio della religione; la spada, con cui il vescovo Berkeley aveva ucciso il drago del materialismo, si era volta contro la intelligenza immateriale e contro l'anima immortale; ed anche la scienza ne era rimasta gravemente danneggiata. Non dobbiamo, quindi, meravigliarci se Emanuele Kant, leggendo nel 1775 una traduzione delle opere di Davide Hume, restasse colpito da simili risultati e fosse scosso, com'egli stesso disse, dal « torpore dogmatico », nel quale egli aveva accettato, senza discussione, l'essenza della religione e le basi della scienza. Dovevano la scienza e la fede esser date in balia dello scettico? Che cosa si poteva fare per salvarle?

DA ROUSSEAU A KANT

Alla tesi dell'illuminismo, che, cioé, la ragione è favorevole al materialismo, Berkeley aveva tentato di rispondere che la materia non esiste. Ma Hume aveva subito obiettato che, allo stesso modo, non esiste nemmeno la ragione. Un'altra risposta era possibile - che la ragione non è la prova definitiva. Esistono conclusioni teoretiche, contro cui tutto il nostro essere si ribella; non abbiamo diritto d presumere che queste esigenze della nostra natura debbano cedere ai dettami di una logica, la quale non è, dopo tutto, se non una costruzione recente di una parte di noi, fragile e fallace. Quanto spesso i nostri istinti e sentimenti mettono da parte i piccoli sillogismi, che vorrebbero ci comportassimo come figure geometriche, e facessimo all'amore con una precisione matematica! Alcune volte, senza dubbio, - e specialmente nelle nuove complessità e artificiosità della vita urbana, - la ragione é la miglior guida; ma nelle gravi crisi della vita e nei massimi problemi che si riferiscono alla nostra condotta e alla nostra fede, noi facciamo più affidamento sui nostri sentimenti che sui nostri diagrammi. Se la ragione è contro la religione, tanto peggio per la religione!
Questa era effettivamente la tesi di Jean Jacques Rousseau (17121778), che, quasi unico in Francia, arrestò il materialismo e l'ateismo degl'illuministi. Che disdetta per una natura delicata e nervosa, esser caduta in pieno razionalismo e nell' edonismo quasi brutale degli enciclopedisti! Rousseau aveva avuto una giovinezza sofferente, ed era stato portato alla meditazione e all'introspezione dalla propria gracilità fisica e dall'attitudine ostile de' suoi genitori e maestri; era sfuggito agli aculei della realtà in un mondo - serra di sogni, - in cui le vittorie a lui negate nella vita e nell'amore potevano esser conseguite dalla sua immaginazione. Le
Confessioni rivelano un complesso inconciliabile della più raffinata sentimentalità con un senso ottuso delle convenienze e dell'onore, tutto pervaso da una pura convinzione della propria superiorità morale (La dottrina che ogni azione è motivata dalla caccia al piacere).

Nel 1749, l'accademia di Digione offri un premio per un saggio: sul tema:
« Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare la morale? ». Il saggio presentato da Rousseau vinse il premio. La cultura è assai più un male che un bene, egli sosteneva - con tutta l'insistenza e la sincerità di chi trova la cultura fuori dalla propria strada, e fa di tutto per dimostrare ch'essa non ha alcun valore. Considerate lo spaventoso disordine che la stampa aveva portato in Europa. Ovunque si affermi la filosofia, la salute morale della nazione decade. « Lo dicevano persino i filosofi tra loro: dacché erano apparsi gli uomini colti, erano scomparsi completamente gli uomini onesti ». « Oso dire che uno stato di riflessione è contrario alla natura; e che un uomo pensante » (un « intellettuale », come diremmo ora) « é un animale depravato ». Sarebbe meglio desistere dal nostro rapidissimo sviluppo dell'intelletto, e mirare piuttosto a educare il cuore e gli affetti. L'educazione non fa l'uomo buono, lo fa soltanto intelligente - generalmente per il male. L'istinto e il sentimento sono più degni di fiducia della ragione.

Nel suo famoso romanzo
La nouvelle Héloise (1761), Rousseau illustrò ampiamente la superiorità del sentimento sull'intelligenza; il sentimentalismo diventò di moda tra le signore dell'aristocrazia, ed anche tra gli uomini; la Francia fu, per un certo tempo, innaffiata di lacrime letterarie e poi vere; e il gran movimento intellettuale europeo nel XVIII secolo produsse la letteratura romantica emotiva del periodo dal 1789 al 1848. La corrente trascinò seco un profondo risveglio del sentimento religioso; le estasi del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand (1802) non erano che un'eco della Confessione di fede del Vicario Savoiardo, che Rousseau incluse nel suo grande saggio sull'educazione, Emilio (1762). L'argomento della Confessione era questo, in due parole: sebbene la ragione possa essere contraria alla fede in Dio e all'immortalità, il sentimento era assolutamente a favore di queste; perché non dovremmo fidarci dell'istinto, piuttosto che cedere alla disperazione di un arido scetticismo?

Quando Kant ebbe l'Emilio, dimenticò la sua giornaliera passeggiata sotto i tigli, per legger subito il libro sino alla fine. Fu un avvenimento nella sua vita trovare un altro uomo, che, a tentoni, si faceva strada nell'oscurità dell'ateismo, e arditamente affermava la priorità del sentimento sulla ragione teoretica. Ecco finalmente la seconda metà della risposta all'irreligione; ora, alla fine, tutti gli schernitori e gli scettici sarebbero stati battuti. Mettere assieme tutti questi fili della discussione, unire le idee di Berkeley e di Hume con i sentimenti di Rousseau, salvar la religione dalla ragione e, nello stesso tempo, salvar la scienza dallo scetticismo - ecco la missione di Emanuele Kant.


QUARTA PARTE:

EVOLUZIONE PRE-CRITICA - NOVA DILUCIDATIO - FALSA SOTTIGLIEZZA
SOGNI DI UN VISIONARIO
- DISSERTAZIONE DEL 70

EVOLUZIONE PRE-CRITICA

Talvolta si è considerato il pensiero kantiano, prima della composizione della Critica della Ragion Pura, come una serie di sbandamenti, di conversioni, sostanzialmente di avventure sconnesse e, a questo preteso vagabondare della mente Kantiana, è stato anche assegnato un nome: UMKIPPUNGEN, cioè - un traballare.
In verità questa visione del pensiero giovanile Kantiano, risulta ormai generalmente superata e i critici hanno cercato di individuare, nelle opere del primo periodo, gli elementi fondamentali che portano al dispiegarsi del suo pensiero maturo.
Ad esempio, il Tonelli affermava "la carriera filosofica, precritica di Kant non risultata meno travagliata e ricca di sorprese, ma questo corso avventuroso veniva organizzandosi intorno ad una unica intenzione palese che lo dirigeva quasi senza eccezione e che veniva a spiegarne le stesse titubanze e gli stessi pentimenti" ( 1 )
La ricostruzione classica del FISCHER presentava un Kant, prima razionalista, poi empirista e scettico. Secondo lo schema hegeliano, il criticismo infatti è il connubio o meglio, la sintesi fra razionalismo ed empirismo.

Come chiarisce OGGIONI "avrebbe derivato dalla corrente empirista, specialmente da Hume, I'idea del condizionamento empirico del pensiero, della necessità della materia offerta dalle sensazioni per realizzarsi dell' a-priorità della ragione, nel concreto atto spirituale - dal Razionalismo, l'idea della spontaneità , dell'autonomia e dell'a-priorità della funzione razionale, come principio che fonda e garantisce il valore metafisico del pensiero stesso che si realizza nel processo di esperienza". ( 2)
Senza certamente negare lo stimolo esercitato su di lui dalle correnti del pensiero filosofico a lui contemporaneo, tuttavia come pure osserva OGGIONI, "il vero fuoco verso cui convergono gli interessi del pensiero di Kant ,nel decennio in parola, e la preoccupazione poIemica e critica-metodologica ,lo sforzo di individuare una nuova via, efficace e feconda della ricerca". (3)

IIn questa prospettiva ci muoveremo per individuare gli elementi concettuali che vanno man mano maturandosi nella evoluzione filosofica del Kant pre-critico.

Va detto pure che il problema della formazione Kantiana va chiaramente inquadrata nel contesto culturale in cui si evolve.

Punto di riferimento essenziale è certamente da vedersi nei progressi della scienza che trova il suo punto più alto nella legge della gravitazione universale scoperta da Newton. Con essa, una breve formula matematica riusciva a spiegare fenomeni tanto diversi dal movimento degli astri alla caduta della leggendaria mela sui quali vanamente per millenni generazioni di sapienti si erano affaticati per scoprirne il mistero. La formula Newtoniana restò per oltre un secolo, un modello inimitabile è mai raggiunto della scienza e solo nel nostro secolo, per opera di Einstein su un piano scientifico e della moderna filosofia delle scienze (Popper ad esempio) sul piano filosofico se ne sono constatati i limiti.
La filosofia allora appare scossa. Come nota De Vleeschauwer "I fisici olandesi che sono presi a modello dall' Europa colta del XVIII secolo ... la Royal Society di Londra che guida la vita scientifica della grande isola e del continente, tutti gli scienziati positivi sparsi in Europa, si schierano a fianco di Newton e del metodo che egli ha fornito alla ricerca scientifica. La filosofia scossa nelle sue tradizionali posizioni, proprio a causa dell'ascesa vivace del movimento scientifico, si ritira sulla difensiva,ma anche così la resistenza diviene sempre piu debole." (4)

Ma se la scienza ha risolto in un solo colpo o quasi millenari problemi, ciò da che è dipeso? La risposta sembrò indubitale: da un NUOVO metodo di indagine. E forse la metafisica non può dare, anche essa, una risposta definitiva ai suoi problemi senza perdersi in dispute interminabili e inconcludenti? Occorrerà forse un nuovo metodo:il pensiero Kantiano nasce proprio da tutto ciò: esso vuole spiegare perchè si siano raggiunte certezze scientifiche e come si possano raggiungere certezze anche nel campo morale e metafisico.

Intorno al 1750 Newton riportava una completa vittoria su Cartesio, ma contemporaneamente il sistema di Leibniz veniva a impiantarsi saldamente nelle università tedesche grazie anche alla infaticabile attività del Wolf.
Pertanto, come rileva De Vleeschauwer, "tutto il secolo XVIII in Germania può essere condensato nella rivalità che oppone l' elemento Leibniziano conservatore e l'elemento internazionale progressista usato da tutti gli scienziati". ( 5 )


Il principio di causa, fondamento della scienza moderna, veniva subordinato a quello di ragione sufficiente.
In particolare, vivace era la polemica sulla natura dello spazio e del tempo.
Per i newtoniani, lo spazio e il tempo sono entità assolute, contenitori di tutti gli oggetti e gli eventi dell'universo.

Per il razionalismo invece, si giunge a negare l'assolutezza del tempo e dello spazio che vengono concepiti, non come condizione dell'esistenza di cose ed eventi, ma come effetto di essi.
E lentamente, in Kant, si fece strada la teoria originale della trascendentalità di spazio e tempo.
D'altra parte va pure maturandosi parallelamente, la convinzione che il metodo deduttivo - matematico di impronta cartesiana, non può essere generalizzato, non può risolvere soprattutto i problemi metafisici.

Altro elemento, che generalmente viene citato come fondamentale nella formazione Kantiana, è il pietismo.

Secondo il Tonelli tuttavia vi sarebbero molti equivoci al riguardo: "Tutti gli storici ne parlano invariabilmente, senza di fatto saper dire in che cosa essa consiste esattamente. Taluni si riferiscono in generale al carattere personale di Kant, carattere che invece in gioventù era mondano ed estetizzante, più che ascetico e rigorista come i biografi più moderni hanno chiaramente mostrato; altri rinviano invece, al famoso carattere rigoristico della morale kantiana, che di fatto non ha nulla da vedere con le formule morali del pietisti e che è un frutto della evoluzione più tarda di Kant di cui non vi è traccia nella morale pre-critica; altri, finalmente, si riferiscono con maggiore precisione, alla posizione di Kant rispetto alla religione nei suoi scritti, ma questa leggenda è stata sfatata da J. Bohatec ." Influenza pietistica,secondo noi, significa due cose. In Kant ci sembra in primo luogo e negativamente che abbia condiviso genericamente l'atteggiamento anti-Wolfiano dei tardi pietisti; e in secondo luogo, e positivamente che abbia gradualmente assorbito, non senza contrasti, importanti elementi del pensiero di Crusiius le cui dottrine furono la filosofia ufficiale o quasi solo per un breve periodo finale". (6)

A noi pare che al di là delle precisazioni particolari e dotte, l'atmosfera di profonda e seria religiosità improntata al pietismo, ha sollecitato nella formazione Kantiana l"ansia, il bisogno profondo della metafisica. "La metafisica di cui io ho in sorte di essere innamorato" dirà nei "sogni di un visionario".

In conclusione, in Kant, nel periodo pre-critico emergono, non senza contrasti, gli elementi essenziali del concetto di Ragione:da una parte, la certezza fondata sui dati dei sensi inquadrati dalle forme a priori, e dall'altra la possibilità di attingere al mondo noumenico per altra via.

Per rintracciare alcuni dei momenti di questo percorso formativo, noi esamineremo, nei paragrafi seguenti, alcune delle opere nel periodo pre-critico: la nova dilucidatio, la falsa sottigliezza, i sogni di un visionario, la dissertazione del 70.

1) Tonelli G., Studi sulla genesi del criticismo e delle sue fonti in memorie dell'Accademia delle scienze di Torino 1955 pag. VI.
2) Oggioni ,Kant empirista, ed Trevisini,Milano, pag. 17
3) Op. cit.,pag. 37
4) Herman-J de Vleeschauwer , L.'evoluzione del pensiero di Kant, Laterza, 1976 pag. 8
5)Op. cit. pag. 12
6)Op. cit. pag. IX

 

NOVA DILUCIDATIO

In ordine al nostro assunto, la prima opera Kantiana a cui accenniamo, seguendo l'ordine temporale della loro composizione è ' "PRINCIPIORUM PRIMORUM COGNITIONIS METAFISICAE NOVA DILUCIDATIO".
Essa fu redatta nel 1755 per motivi di ordine accademico per conseguire, cioè , quaIcosa di simile a quella che noi diremmo "Libera docenza", cosa di non certo poca importanza, data la situazione economica non certo brillante di questo periodo della sua vita.
Pertanto a non pochi critici, l'opera è sembrata forzata, imposta, come imposta appare la lingua latina che generalmente Kant non predilige.
La forma venne giudicata incerta e perfino il suo latino sembra claudicante al TONELLI ( l), ma in genere si ritiene che i temi siano trattati confusamente, che le soluzioni talvolta appaiono equivoche.
Con tutti i limiti, che certamente non sarebbe il caso in questa sede di esaminare, tuttavia l'opera riveste un indubbio interesse, al fine della nostra trattazione, perché mostra il primo porsi dell' interesse, sempre fondamentale in Kant, per la filosofia, la sua prima opera che affronta i problemi ontologici e non più quelli naturali.
L'interesse fondamentale dell'opera a noi pare che risieda nel riconoscimento che il principio di idendità non può essere appIicato in metafisica e che la ragion determinante non deriva dalla identità.

Ma esaminiamo brevemente il contenuto dell''opera.
Nel MONITUM avverte che non tirera' fuori "quaecunque in scriniis philosophorum'. (qualunque cosa si trovi nelle casse dei filosofi)" se bastano "pervulgata cognitione stabilitas e rectae rationi consonas habemus definitiones et axiomata"(2) (assiomi e definizioni che consideriamo stabilite nell'uso corrente e consone alla retta ragione): pare già delinearsi il programma, poi maturato, della dimostrazione della impossibilità di una scienza tutta analitica e la sua fondazione su principi trascendentali.

Nella 1a sezione si dimostra la impossibilità che tutto si possa dedurre da una unica proposizione: "Veritatum omnium non datur principium unicum, absolute primum catholicon" (3) (non c'e' un principio unico, assolutamente primo universale di tutte le verità). Se esso infatti fosse positivo, non potrebbe essere la base dei principi negativi, e al contrario se fosse negativo,non potrebbe reggere le proposizioni positive.
L'argomentazione ci pare puramente scolastica: non è il caso di approfondire la fondatezza della dimostrazione, ma di notare ancora il percorso Kantiano dell' impossibilità della deduzione puramente analitica. Come osserva il Tonelli, "insomma la logica formale che sul principio di idendità si fonda è, secondo Kant , una nobile curiosità teoretica, perfettamente priva di applicazioni in metafisica, in quanto che ciascuno e' capace di riconoscere immediatamente e senza insegnamento le implicazioni identiche di una certa posizione: inoltre non è detto che in tal modo, cioè con tale infecondo sviluppo tautologico ,si avanzi nel possesso della verità". (4)

La 2a Sezione è la più vasta e ha, come punto focale, la ragione determinante (sostanzialmente coincidente con quella che Leibniz chiamava ragione sufficiente).
Si afferma che "Nihil est verun sine ratione determinate (proposizione V) e che "Esistentiae suae rationem aliquid habere in se ipso, absonum est (5) (e' assurdo che qualcosa abbia in se stesso la ragione del proprio essere), ma poi si precisa che ciò vale solo per gli esseri contingenti, mentre "Datur ens,cuius esistentia praevertit ipsam et ipsius et omnium rerum possibilitatem , quod ideo absolute necessario existere dicitur. Vocatur deus (6) (Si dà un ente la cui esistenza antecede la possibilità stessa di questo medesimo ente e di tutte le cose e che pertanto si dice esistere in maniera assolutamente necessaria); viene chiamato Dio (proposizione VII). Da una parte pare negare che la esistenza possa essere ricavata dall' essenza, dal concetto, ma parimenti ammette il tradizionale principio dell'autosufficienza di Dio.
Si dimostra, quindi, che ogni cosa deve avere una ragione determinante "nihil contingenter exsistens potest carere ratione aexistentiam antecedenter determinante (nulla che esiste in maniera contingente può prescindere da una ragione che ne determini anteriormente l'esistenza"( proposizione VIII).

Le argomentazioni appaiono prettamente scolastiche, razionaliste.
Va notato su questo piano inoltre, che fra i corollari della Proposizione X, troviamo "quantitas realitatis absolute in mundo non mutatur nec augescendo nec decrescendo (8) (La quantita di realtà assoluta nel mondo non muta né crescendo, nè diminuendo). Viene dimostrato cioè, a partire dal principio di ragion determinate, la confusione fra principio metafisico e principio scientifico che è ancora chiaramente mantenuta. Viene però negato il principio leibniziano degli indiscernibili "rerum totius universitatis nullam alii per omnia esser similem" (non si dà alcuna cosa nell'universo intero simile per tutto a un' altra) e che ogni ente debba avere un effetto (nihil esse sine rationato quodcumque est sui abere consqeuentiam'. (9) (non vi è nulla senza razionato ossia ciò che comunque esiste ha una conseguenza).

Nella sezione 3a afferma due principi:
1) "nulla substant is accidere potest nutatio, nisi quatenus cum aliis connexae sunt, quarum dependentia reciproca mutuam status mutationem terminant" (10) (nessun mutamento può avvenire nelle sostanze se non per quanto sono in connessione con le altre:e' proprio questa dipendenza reciproca a determinare una mutua mutazione di stato).

2) "Substantiae finitae per solam ipsarum exsistentia nullis se relatationibus respiciunt, nulloque pIane commercio continetur nisi quatenus a communi esistentiae suae principio,divino nempe intellectu mutuis resectibus conformatae sustinetur" (11) (le sostanze finite non hanno, in base alla mera loro esistenza, nessuna relazione tra loro e non apparterebbero assolutamente ad alcun sistema di scambio se non fossero sostenute da un principio comune di esistenza ,cioè l'intelletto divino in modo da essere conformate a relazioni reciproche).

Si afferma cioè, da una parte che i rapporti fra le cose avvengono perché vi è una reIazione fra di esse e che d'altra parte, non vi sarebbero relazioni se le cose non derivassero da un unico ente: respinge quindi l'occasionalismo metafisico, l'armonia prestabilita, ma d' altra parte la causa ultima dei rapporti fra le cose, viene fatta risaIire a Dio.

Secondo Rovighi, "Kant resta essenzialmente un Leibniziano, anche Leibiz fondava in Dio i rapporti fra le monadi e sopra tutto Kamt è leibniziano nella dottrina dello spazio e del tempo. . . . . Newton , continua ad essere in penombra". ( 12)
Notiamo che, in seguito invece, la sua concezione sarà intesa come giustificatrice della scienza newtoniana.

Come nota Herman-J de Vleeschauwer : "Secondo Leibniz lo spazio è l'effetto delle cose, per Newton invece è presupposto delle cose. E' errato pensare che Kant segua Leibniz in questo periodo in quanto professa anche lui la relatività dello spazio. In effetti ancora qui adotta una teoria intermedia: segue Leibniz nella relatività dello spazio come ordine realizzato nello spazio ma nondimeno, si avvicina a Newton negando che questo ordine sia effetto della pura esistenza . Lo spazio è quindi l'effetto delle leggi dinamiche della natura". ( 13)

Ci vorrà ancora una lunga strada perché Kant traduca, in termini filosofici, la rivoluzione scientifica da Newton: ma il cammino ormai è iniziato; Kant lo percorrerà non senza involuzione ma fino in fondo.

Come osserva acutamente Vanni Rovighi, se le soluzioni della Diliucidatio appaiono confuse, "questo giudizio è forse il risultato di una confusione latente in noi stessi che nell'affrontare questo periodo lo valutiamo, quasi senza saperlo, alla luce delle soluzioni che sono state date più tardi agli stessi problemi. Se ci fosse possibile dimenticare tutto quanto Kant ha scritto dopo il 1770 la Delucidatio ci apparirebbe indubbiamente non contraddittoria, come spesso si pretende".(14)

A noi però pare che la lettura delle opere, del periodo precritico, vada fatta proprio in funzione del periodo critico, per cogliere in esse gli aspetti, quei concetti base che mettano in luce il formarsi del periodo critico e quindi gettino maggiore luce sul pensiero critico stesso.
Ed è ovvio che se la produzione Kantiana si fosse interrotta nel 1770 noi ora non saremmo qui a occuparcene.

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(1) Tonelli G.,Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, edizioni di Filosofia.,Torino, 1959,pag. 127
(2)Kant Principiorum primorum cognitionis matasfysicae nova dilucidatio,1755 in scritti precritici a cura di Carabellese cognitionis metaphysicae nova. dilucidatio, 1755 -1953 pag. 4
(3)lbidem pag. 5
(4) op.cit. pag. 14
(5) ibidem pag. 5
(6) ibidem pag. 17
(7) ibidem pag. 32
(8) ibidem pag. 35
9) ibidem pag. 5
(10) ibidem pag. 38
(11) Ibidem pag. 42
(12) Vanni Rovighi :Introduzione allo studio di Kant, La scuola Editrice, Brescia ,1968, pag. 53
(13) Herman-J de Vleeschauwer, L'evoluzione del pensiero di Kant, Laterza,1976 pag. 28
(14) ibidem pag. 61

 

FALSA SOTTIGLIEZZA

NeI 1762 Kant compose una piccola opera, radicalmente critica, del valore della logica aristotelico- scolastica paragonata a un colosso che ha la testa nelle nuvole dell'antichità e i piedi di argilla.
Si tratta di "Die falsche SpitzfirIdigkeit der vier syllogistichen Figuren erwiesen"(la falsa sottigliezza delle quattro figure del sillogismo), la quale appare intesa a demolire la pretesa propria deI razionalismo di Leibniz e Wolf, di poter dedurre tutto il sapere da un unico principio logico.

Infatti, il punto piu interessante dell'operetta è, come osserva Vanni Rovighi ( 1), la netta opposizione alla pretesa di dedurre tutta la realtà dal principio di contraddizione.
Si tratta di uno scritto compilato in poche ore (come riferisce Kant stesso), ma chiaramente frutto di una assidua e lunga meditazione.
Il Torelli (2) lo giudica "un coerente sviluppo delle dottrine logiche già accennate nella" Nova dilucidatio": viene infatti ribadito l'assunto basilare che, partendo dal principio di identità,non possono essere raggiunte le verità fondamentali che invece possono essere attinte tramite "gesunder Verstarld, gesunder vernunft" (un sano giudizio,una sana ragione, insomma una recta ratio a,volerla dire con termine tradizionale scolastico).
La metafisica viene quindi riconosciuta come indipendente dalla logica, non attingibile con gli strumenti della conoscenza razionale.
Si prefigura pertanto, l'autonomia della Ragione metafisica il che però, non significa che Kant voglia negare valore alla logica, come ossserva Oggioni, (3) la logica deve essere vivificata dal giudizio sul dato concreto:vi è insomma il richiamo all'empirismo che Oggioni definisce "rudimentale"in contrapposizione alIe inutili sottigliezze scolastiche.

Esaminiamo quindi, i punti essenziali dello scritto (4).
Inizia il discorso affermando che, giudicare significa comparare una nota con una cosa (predicato con un soggetto). La precettistica del sillogismo è quindi, ridotta a due punti essenziali che esprimono la stessa legge del pensiero, secondo il quale, in un confronto fra due giudizi "nota notae est nota rei ipsius" e "repugnans notae repugnat rei ipsi".
Nei paragrafi seguenti (dal 2 al 4), si dimostra come il principio sopra esposto, riduce il sillogismo a un giudizio mediato e quindi possa semplificare e chiarire la portata logica formale del sillogismo stesso.
Nel paragrafo 5 vi è la conclusione: la sillogistica tradizionale che schematizza figure e modi del sillogismo, è frutto di una inutile sottigliezza:non che le regole tradizionali siano false, ma si possono raggiungere gli stessi risultati con facilità applicando il principio che il sillogismo è un giudizio mediato.

Nella conclusione, Kant cerca di spingere la sua analisi sulle fondamenta gnoseologiche della conoscenza mediata.
Il giudizio viene ridotto all'apprensione immediata di una connessione immediatamente data e perciò, non dimostrabile: la deduzione quindi, collega fra di loro due cognizioni empiricamente date, ma non può dimostrare le connessioni logiche sulle quali si fonda.
Giudizio e ragionamento costituiscono, quindi, la conoscenza propriamente detta, superiore, intellettiva, razionale.
Secondo Oggioni, (5) questa teoria è caratterizzata da tre aspetti fondamentali:
1) antitradizionale o antidogmatico, in quanto non riducibile ad una pura operazione di analisi concettuale;
2) sintetico-empiristico, in quanto il giudizio connette due contenuti forniti dell'esperienza;
3) anti-fenomenistica o anti-psicologistico, in quanto il giudizio non è passività, bensì operazione logica di distinzione e connessione.
A noi pare che nel lungo cammino verso il criticismo, Kant abbia percorso un altro tratto di strada: la metafisica non può essere ricavata per deduzione e, d'altra parte poi appare chiaro che un
giudizio in ultima analisi deve basarsi su una apprensione immediata, empirica.
Vero e' che non siamo certamente ancora al Criticismo: infatti l'attività sintetica del soggetto viene ancora considerata come un riflesso della esperienza e non come ordine posto dal soggetto.
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1) Vanni Rovighi S., Introduzione allo studio di Kant, La scuola Editrice,Brescia ,1968, pag. 78
(2)Tonelli G. ,Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, edizioni di Filosofia,Torino, 1959 pag. 204 e segg.
(4)La falsa sottigliezza delle quattro figure solligistiche ,trad. di G Mangione, in "rivista critica di storia della filosofia, 29,1965
(5) Qp. cit. pag. 59 e segg.

 

SOGNI DI UN VISIONARIO

Nel 1765, Kant compose un'opera che, per il genere, è unica nella sua produzione.
In quegli anni aveva trovata una notevole diffusione e successo, un'opera della svedese SWEDENBORG, dal titolo "Arcana coelestia". In essa l'autore asseriva di essere in contatto con il mondo degli spiriti dei quali riportava i messaggi. Kant allora in risposta scrisse "Traume eines geistersheres erlautert durch die Traume der Metaphisik" (sogni di un visionario chiarito con i sogni della metafisica) . Si tratta di una satira, a volte scherzosa, a volte sferzante, che vuoI mettere in mostra tutta la inconsistenza di tali visioni per risalire quindi, ed è questo il punto essenziale che a noi interessa, alla impossibilità di una metafisica intesa come scienza. In tal modo uno dei presupposti del Criticismo viene a emergere dalla ormai lunga meditazione Kantiana.

Esaminiamo brevemente l'opera.
Essa è preceduta da una prefazione che indica il senso generale dell'opera. Si pone subito la inconoscibilità del mondo metafisico, solo oggetto di sogni e non di indagine scientifica: "Il regno delle ombre è il paradiso dei sognatori.Quivi essi trovano una terra sconfinata dove stabilirsi a piacimento. Esalazione ipocondriache, chiacchiere da balia e miracoli claustrali, non fanno mancare loro il materiale di costruzione. I filosofi ne disegnano la pianta e la rimutano o la rigettano come è loro abitudine". (1)

Segue quindi, una frecciata avvelenata al cattolicesimo che va spiegata, a nostro parere, non solo come l'espressione del Luteranesimo e del Pietismo che è l'orizzonte spirituale nel quale sempre Kant si mosse che era (e resta) assolutamente ostile a ogni idea di miracolo e di intervento "diretto" del divino nel mondo umano, ma anche e più specificatamente, come rigetto di una fondazione scientifica, di una metafisica di derivazione tomistica. Per il tomista Dante, si può conoscere delle macchie lunari con lo stesso metodo con il quale si conosce delle essenze angeliche ed infatti egli ne tratta nello stesso luogo, ma per Kant invece la distinzione fra scienza e metafisica è ormai avvertita chiaramente. L'atteggiamento della Chiesa Cattolica viene visto some impostura: "Solo la Santa Roma ha ivi delle province che rendono molto: le due corone del regno invisibile, sostengono la terza come il caduco diadema della sua sovranità temporale e le chiavi che schiudono due porte dell'altro mondo, aprono al tempo stesso, le casse di quello presente. Siffatti diritti del regno degli spiriti, quanto questo è dimostrato con le ragioni della politica, si levano molto al di la di tutte le impotenti obiezioni dei pedanti sapienti e il loro uso e abuso è già troppo venerabile per sentire la necessità di esporsi a scellerato esame".(2)

Si afferma quindi decisamente, la impraticabilità della via scientifica alla metafisica in quanto non è possibile né conferma, né smentita senza ragione: "Il non credere, senza ragione, nulla del molto che viene raccontato con qualche apparenza, è un pregiudizio altrettanto sciocco quanto il credere senza esame tutto ciò che la voce comune dice" (3) e, pertanto, in ricerche di tal genere, nulla si trova di quanto non c'è nulla da trovare. E così racconta Kant di se stesso: l'autore riconosce con una certa mortificazione di essere stato così ingenuo di essersi messo a indagare la verità di alcuni racconti di tale specie. Egli trovò, come ordinariamente dove non si ha da cercare nulla, egli non trovò nulla" (4).

L'opera quindi si divide in due parti: nella prima dogmatica e speculativa, si rigetta ogni possibilità di affermazione o negazione intorno a fatti attinenti al mondo degli spiriti, mentre nella seconda si tratta più specificatamente delle pretese esperienze di SHEDENBORG.
Nel 1° capitolo della prima parte, egli rileva le contraddizioni e le difficoltà di concepire lo spirito, in rapporto allo spazio che rende impossibile la rappresentazione effettiva di uno spirito "Tali nature spirituali sarebbero presenti, nello spazio in modo che questo nonostante tale presenza rimanga penetrabile per esseri corporei, giacché la presenza di quelle, importerebbe bensì una attività nello spazio ma non un riempimento. E d'altra parte, come spiegare la influenza fra spirito e corpi "Come mai una sostanza immateriale si troverebbe sulla via della materia .. .. e come potrebbero le cose corporee esercitare effetti su un essere estraneo, il quale non opporrebbe loro la impenetrabilità?" (4)
"In realtà non sappiamo cosa sia uno spirito" e si può pertanto ammettere la possibilità di esseri immateriali senza tema di venir contraddetti, sebbene anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità e quindi " nella confutazione di opposti argomenti il che è per i dotti l'abilità nel dimostrare uno la ignoranza dell'altro". (5)

Nel 2° capitolo le critiche ai racconti dello Swendernborg si fanno precise: non rientra nel nostro assunto esaminarle: solo notiamo, considerati impossibili, essi diventano parto di una mente folle, sogni appunto di un visionario.
Il terzo capitolo costituisce la conclusione dell'opera. Da una parte si conclude sulla impossibilità di una conoscenza non basata sui dati sensibili "quando certe pretese esperienze non si possono ridurre a legge sensibile concorde per la maggior parte degli uomini e quindi proverebbe soltanto una irregolarità nella testimonianza dei sensi (come è appunto il caso dei racconti spiritici che circolano), è consigliabile soltanto di troncarle: giacché allora la mancanza di accordo e di uniformità toglie ogni forza probativa alla conoscenza storica e la rende incapace di servire di base ad una legge dell'esperienza su cui
l'intelletto possa giudicare"
( 12) e ancora "la ragione umana non fu fornita di ali potenti a sufficienza per vagliare così alto tra le nubi, i segreti dell'altro mondo".(13)

Nel 2° capitolo è interessante l"accenno alla possibilità di una moralità ancorata alla volontà universale, paragonata alla legge di gravitazione di Newton "così Newton la sicura legge degli sforzi di ogni materia ad avvicinarsi reciprocamente chiamò gravitazione...... così non dovrebbe essere possibile rappresentarsi come conseguenza di una forza attiva con cui le nature spirituali influiscano una sull'altra?" (6)
Nel momento cioè, nelle quali si vede l'impossibilità di fondare l'eticità sulle nebbie della metafisica si cerca la strada, poi percorsa per intera nella Critica della Ragion Pratica di affermare la autonomia della morale e la sua possibilità di fondare essa stessa la metafisica."
(7)

Nel 3° capitolo si rivendica il carattere universale della scienza in contrapposto a visioni che non vengono espressamente e perentoriamente dichiarate fallaci, ma che restano chiuse in una credenza personale, non suscettibile di fondazione super-individuale di fronte agli architetti dei diversi mondi campati in aria dei quali ciascuno tranquillamente occupa il suo con esclusione degli altri standosi uno nell'ordine che Wolff ha costituito con poco materiale di esperienza, ma più concetti surrettizi e l'altro quello che Crusius ha prodotto dal nulla con la magica forza di alcune parole, pensabili e impensabili; dinanzi alla contraddizione delle loro visioni pazienteremo finché questi signori siano usciti dai loro sogni". (8)

Si accentua il carattere di sogno della metafisica "Aristotele afferma che, vegliando, noi abbiamo un mondo comune ma, sognando, ciascuno ha il suo. A me sembra che si possa invertire l' ultima posizione e dire:quando tra diversi uomini, ciascuno ha il suo proprio mondo, è da presumere che essi sognino" (9).

Nel capitolo IV, la conclusione fondamentale, richiama i limiti della conoscenza ". .che della vita della natura, i diversi fenomeni e le loro leggi sono tutto quanto ci è dato di conoscere, ma che il principio di questa vita, cioè la natura spirituale che non si conosce ma si suppone non può mai essere pensata positivamente perché non se ne possono trovare i dati in tutte le nostre azioni". (10)
La conoscenza, in altri termini, non può prescindere dai dati dell'esperienza.

La seconda parte tratta delle pretese esperienze mistiche di Swedenborg, aprendo la strada a una fondazione dell'etica, a prescindere da un mondo soprasensibile.
Nel capitolo primo è interessante ancora la sottolineatura dell'ansia, della conoscenza che entra in conflitto con i limiti della possibilità "La debolezza dell'umano intelletto, unita al suo desiderio di sapere, fa si che a principio si raccolgano indifferentemente verità e inganno, ma a poco a poco i concetti si affinano e una piccola parte rimane, mentre il resto viene buttato nella spazzatura". (11)
La credulità umana nasce insomma sempre da un bisogno incomprimibile di conoscere, anche se solo la ragione critica ci mostra i limiti della nostra conoscenza.

Nel 2° capitolo le critiche ai racconti di J Swedeborg si fanno più precise: non rientra nel nostro assunto esaminare: solo notiamo che considerati impossibili essi diventano parto di una mente folle, sogni appunto di un visionario.

Il 3° capitolo costituisce la conclusione dell'opera. Da una parte si conclude sulla impossibilita di una conoscenza non basata sui dati sensibili "quando certe pretese esperienze non si possono ridurre a una legge sensibile concorde per la maggior parte degli uomini e proverebbero soltanto una irregolarità nella testimonianza dei sensi (come è appunto il caso dei racconti spiritici che circolano) è consigliabile soltanto di troncarle: giacchè allora la mancanza di accordo e di uniformità,toglie ogni forza probativa alla conoscenza storica e la rende incapace di servire di base ad una legge dell'esperienza su cui l'intelletto possa giudicare"(12) e ancora "la ragione umana non fu fornita di ali potenti a sufficienza per tagliare così alto tra le nubi i segreti dell'altro mondo".(13)

L'opera, nel complesso, fu giudicata dal Fischer una manifestazione di un Kant sarcastico verso i problemi della metafisica, di un Kant ormai scettico del tutto, disincantato verso tali problemi: in verità nella stessa opera, è pure riportata la sua confessione più profonda : "la metafisica della quale io ho in sorte di essere innamorato, quantunque solo raramente possa gloriarmi del suo favore".

Come giustamente, a nostro parere, afferma Herman-J de Vleeschauwer "Kant attesta qui la certezza assoluta che possiede circa la falsità della metafisica Wolfiana e contemporaneamente, confessando l'amore per la metafisica e una certa esitazione per sua possibilità come scienza".
L'errore metodologico fondamentale, consiste nell'applicazione del metodo sintetico delle matematiche applicato, senza discernimento a scienza di fatti. Ne consegue che non è LA metafisica ad essere rinnegata ma, UNA metafisica in particolare, quella che ha il difetto metodologico riconosciuto". (14)

De Vleeschauwer ritiene pure, che la critica alla metafisica fosse dovuta più che a una influenza scettica di Hume, alI' idea della autonomia della morale dalla metafisica proposta da Rousseau autore, del quale in quel periodo Kant era assiduo lettore ed ammiratore.
"Rousseau, molto più di Hume, è responsabile del preteso scetticismo di Kant che , in fin dei conti, è solo un pessimismo passeggero".(15)

A noi pare veramente che non si tratta di discutere se in quel momento possa pensarsi a un'influenza maggiore del Rousseau o di Hume, ma piuttosto di notare il progressivo disvelarsi del concetto Kantiano di ragione che procede secondo il suo proprio cammino e questo e quell'autore letti in quel momento, debbano considerarsi, non gli ispiratori ma le occasionali conferme di un suo cammino autonomo.
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(1) Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica in Scritti precritici a cura di P...Carabellese ed Laterza, Bari ,1953 pag.367
(2) ibidem pag. 367
(3) ibidem pag. 368
(4) ibidem pag. 378
(5) ibidem pag. 379
(6) ibidem pag. 386
(7) Guzzo, A., Kant precritico, Bocca editori, Torino,1924 pag. 386
(8) op. cit. pag. 393
(9) op. cit. pag. 393
(10) op. cit. pag. 404
(11) Op. cit. pag.408
(12) Op. c i t .pag.425
(13) op. cit. pag.427
(14)Herman-J de Vleeschauwe~, L'evoluzione del pensiero di Kant, Laterza,1976 pag. 42
(15) ibidem pag. 44

 

DISSERTAZIONE DEL 70

Viene generalmente indicata con il termine di "Dissertazione del 70" l'opera che Kant scrisse appunto in quell'anno per ottenere la nomina a professore "ordinario" di logica e metafisica.

Il titolo originario dell'opera è: "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis dissertatio" ed essa segna la conclusione del periodo pre-critico: con essa la meditazione Kantiana giunge al un punto di maturazione: passeranno però altri undici anni perchè Kant possa finalmente comporre la prima delle sue opere maggiori: la Critica della Ragion Pura

La dissertazione costituisce dunque la conclusione di una lunga meditazione alla fine della quale sono state poste le basi del Criticismo, anche se forse il passo più importante cioè la inattingibilità della metafisica non è stato ancora compiuto definitivamente.

Ma esaminiamo brevemente l'opera:
Nella Sezione Prima che comprende i paragrafi 1 e 2 Kant intende spiegare la nozione stessa di mondo. In essa è essenziale la composizione e la scomposizione delle parti "ma cio non si verifica se non quando si ritorni dal tutto dato a tutte le parti possibili cioè per mezzo della analisi che a sua voIta impIica la condizione del tempo" (1)
Pertanto Kant ritiene impossibili le progressioni infinite in quanto non possono essere pensate in un tempo finito. Ciò pero non lo porta a dichiararli assurdi in quanto " non è ugualmente impossibile ciò che essendo oggetto della ragione pura semplicemente non è sottoposto alle leggi della conoscenza intuitiva" ( 2).
Appare già quindi una divergenza fra sensibile e intelligibile e sono avvertiti i limiti del sapere umano: tuttavia ciò che supera l'intuizione sensibile non pare del tutto fuori dalla conoscenza : la Sezione Prima conclude infatti con queste parole "Chi si vuole trarre fuori da questa spinosa questione tenga presente che la coordinazione di parecchi elementi sia successiva che simultanea non riguarda il concetto intellettivo del tutto ma soltanto le condizioni della intuizione sensibile; cosi anche se esse non sono suscettibili in modo sensitivo non cessano per questo di essere concetti dell'intelletto: per percepire pero questo basta che elementi coordinati siano in qualche modo dati e che tutti siano pensati come relative unità" (3)

La Seconda Sezione affronta la distinzione fra sensibilità e intuizione, fra uso logico e uso reale dell'ntelletto, aspetto della "Dissertazione" che è maggiormente interessante per il nostro assunto
Al 3° paragrafo dà una chiara definizione di sensibilità (sensualitas) e di intelligenza (rationalitas). La prima viene definita come "ricettività del soggetto per mezzo della quale è possibile che le condizioni rappresentative di esso siano modificate in un determinato modo alla presenza di un oggetto" mentre la seconda "è la facoltà del soggetto per messo della quale esso può rappresentarsi quelle cose che per le loro qualità non possono colpire i sensi" La conoscenza sensitiva viene quindi definita "fenomeno" e quella intellettiva "noumeno"(4).

Come si noterà le definizioni restano in un ambito realistico: nel 3 paragrafo si chiarisce che la sensazione è effetto dell'oggetto ma tuttavia presuppone "una legge insita nella mente che serve a coordinare fra loro le sensazioni nate alla presenza dell"oggetto" (5) e nel par. 5 si ribadisce che "alla conoscenza sensibile appartiene pertanto sia la materia che è la sensazione in considerazione della quale le conoscenze sono chiamate sensibili, sia la forma ,in virtù della quale,anche se la si trova senza alcuna sensazione, le rappresentazioni sono chiamate sensitive"(6).

Da ciò scaturisce quelli che kant definisce uso logico e uso reale dell'intelletto: "L'uso dell'intelletto è duplice: al primo di essi sono assegnati i concetti stessi sia delle cose sia delle relazioni e questo è l'uso reale: al secondo invece comunque essi siano assegnati semplicemente sono subordinati gli inferiori ai superiori (per le note comuni) e sono messi in relazione tra loro secondo il principio di contraddizione e questo è detto logico"(7)

Subito dopo Kant precisa che "L'uso logico dell'intelletto è comune a tutte le scienze non cosi" l"uso reale" Non è quindi il connettere fra di loro le nozioni logicamente che qualifica come intellettuale : le conoscenze sensitive sono infatti sempre logicamente connesse." (8). Si precisa infatti la distinzione fra
apparenza ed esperienza: "l'apparenza è ciò che prevede l'uso logico delI'intelletto mentre la seconda è la conoscenza riflessa e nasce da più apparenze comparate con l'intelletto."(8).

Conseguentemente "Dall'apparenza all'esperienza non vi è altra via che quella della riflessione secondo l'uso logico dell' intelletto" In sostanza quindi Kant ha esposto, ci pare, il caposaldo del suo concetto di Ragione: la apparenza diviene conoscenza nella misura nella quale ad essa si applicano le categorie logiche.

Nel paragrafo 6° viene tratta una importante conclusione " a torto si definisce il sensitivo come ciò che è conosciuto piuttosto confusamente e l'intellettuale come ciò di cui si ha conoscenza distinta "(11).

Di fronte quindi al razionalismo si respinge la riduzione dei gradi del conoscere solo a una differenza di distinzione con la conseguente concezione della conoscenza sensibile come una conoscenza intellettiva confusa. Infatti Kant ribadisce che "possono darsi conoscenze di cose sensitive completamente distinte e intellettive molto confuse"
Molto interessanti gli esempi che vengono fatti subito dopo: "la geometria e la metafisica: la prima infatti è considerata conoscenza sensibile è ritenuta perfettamente chiara mentre la metafisica, cosa intellettiva rimane sempre su un piano non distinto in quanto essa si affatichi a dissipare le nebbie della confusione che offuscano l'intelligenza comune, sebbene non sempre con lo stesso felice successo che ha la geometria" ( 12).

Sono qui esposti quindi altri capisaldi del concetto di ragione Kantiana:la non subordinazione della conoscenza sensibile a quella intellettiva, la chiarezza della geometria contrapposta. alle nebbie della metafisica, la classificazione della geometria come scienza sensitiva in opposizione alla concezione analitica del razionalismo.
Per quanto riguarda poi l'origine dei principi logici ritiene che "dovremmo cercare nei sensi ma nella natura stessa l'intelletto puro non come concetti innati ma astratti dalle leggi insite nella mente, riflettendo nelle sue attività in occasione dell'esperienza e perciò acquisiti "( 13 )
Alcuni autori (fra cui De Vleschaweuwer) parlano di un influsso Leibniziano a proposito di tale origine perché in fondo si parla pur sempre di idee che si trovano sempre nella mente ma a noi sembra che trascendentalità delle forme della conoscenza propria della ragione Kantiana non viene enunciata ma, in sostanza, ci pare che ci sia insita nella affermazione prima riportata:
"insita nella mente , riflettendo sulle sue attività in occasione di esperienza".

Dopo che nel paragrafo 8° ha distinto nell'intelletto un uso elenchico (cioè purificatore delle sensazioni dall'accidentale) e un uso dogmatico (cioè di indicazione dei modelli) troviamo al paragrafo 10° una importante affermazione sulla conoscibilità dell'intellegibile:"non è data agli uomini una intuizione di cose intellettive ma solamente una conoscenza simbolica e l'intellezione ci è permessa soltanto mediante concetti universali in astratto e non mediante un singolare in concreto" (14).

Come osserva opportunamente Lamacchia "questa è una dichiarazione determinante nella filosofia Kantiana. L' intelletto umano non conosce le cose per intuizione ma ne coglie ma soltanto concetti universali in astratto:la mente infatti può intuire qualcosa in concreto soltanto come oggetto nelle condizioni spazio-temporale"( 15).

La Sezione Terza viene generalmente ritenuta la più importane in quanto enuncia la teoria dello spazio e del tempo come condizioni soggettive della percezione sensibile che è forse la teoria che più colpisce chi si avvicina all'opera Kantiana. A parte qualche variazione sostanzialmente viene qui anticipata la trattazione del problema che viene fatta nella Estetica trascendentale e pertanto rimandiamo ad essa.

Nella SEZIONE QUARTA sostanzialmente si afferma che l'unità del mondo sensibile costituita da spazio e tempo deve avere come fondamento una unità nel mondo intellegibile
"La mente umana è colpita dagli oggetti esterni e il mondo si manifesta ad essa indefinitivamente solo nella misura. in cui la mente è sorretta con tutte le cause dalla stessa potenza infinita di un unico essere"( 16)
Sembra quindi una ripresa sia pure timida dei temi metafisici con un passaggio dal mondo del fenomeno a quello soprasensibile. Tuttavia subito dopo conclude "ma sembra più prudente date le conoscenze a noi concesso dai limiti del nostro intelletto scegliere un posto di rifugio piuttosto che avventurarci nell'alto mare di tali indagini mistiche, come fece il Malebranche, il cui pensiero è di poco lontano da quello che qui si espone: noi vediamo tutte le cose in Dio" (17)
Vi è in queste parole a nostro parere insieme la constatazione della impossibilità della metafisica e la profonda nostalgia di essa.

Nella SEZIONE QUINTA si tratta del metodo per la conoscenza delle cose sensitive e intellettive. In questa opera rimane quindi la dualità fra mondo intellegibile e mondo sensibile Tuttavia, come osserva il De Veeschuuwer " Quanto alla teoria del mondo intellegibile Kant espone ancora qualcosa di solamente provvisorio, ben lontano dalla definitivita." ( 18)
Il mondo sensibile viene nettamente distinto da quello della metafisica. Infatti nelle scienze del mondo sensibile l'uso DA' il mondo mentre mentre nella metafisica il metodo deve PRECEDERE la scienza. Infatti l'uso dell'intelletto in quelle scienze i cui concetti fondamentali e gli assiomi sono dati dall'intuizione sensitiva è se non un uso logico, cioe quello mediante il quale soltanto subordiniamo le une alle altre le conoscenze tra di loro in quanto l'universalità, conformemente al principio di contraddizione e le conseguenze dell'intuizione pura agli assiomi dell'intuizione" (19).

Non sembra quindi che vi sia pericolo di errore . Secondo de Vleeschauwer "il risultato è il concetto di esperienza o quello dell'oggetto empirico, costituito dalle percezioni materiali, dalla sottomissione di queste alle leggi originarie dell'intuizione (lo spazio e il tempo ) elevato a concetto grazie all'uso analitico o
logico dell'intelletto, Questo uso garantisce quindi la conoscenza delle cose empiriche ma solamente in quanto esaminiamo in esse le apparenze sensibili"
(20).

Era d'altra parte alla base della speculazione Kantiana la esigenza fondamentale di garantire la validità delle conquiste scientifiche del tempo
Osserva VANNI ROVIGHI "Kant si rendeva conto che le leggi della meccanica non erano tali che il negarle comportasse contraddizione: d'altra parte, affascinato come era dai risultati della nuova scienza cosi fecondi nei confronti delle interminabili dispute della metafisica li riteneva innegabili, e qui vediamo in
nuge il concetto di giudizio sintetico a priori, concetto che sarà svolto nella Critica della Ragion Pura: quello cioè di un giudizio (più esattamente bisognerebbe dire di una proposizione) che è innegabile pur senza essere tale che il negarla implichicontraddizione"
(21).

Invece nella metafisica l'errore è possibile; infatti:"nella filosofia pura, quale è la metafisica il cui uso dei principi è reale, cioè i concetti primitivi delle cose e delle relazioni e gli assiomi stessi sono dati originariamente per mezzo dello stesso intelletto puro e poichè non sono intuizioni non sono immuni da errori, e tutto ciò che si tenta prima di avere accortamente esaminato e fermamente fissato i suoi principi sembra che sia concepito arbitrariamente e che debba essere respinto tra i vani giochi della mente"(22).

In sostanza come osserva De Vleeschauwer "in opposizione formale con Leibniz, Kant fonda la alterità dei due mondi sulla distinzione generica fra le due facoltà in questione e fra le loro forme e principi . La distinzione graduaIe chiaro-oscuro viene sostituita dalla distinzione generica recettivo - spontanea . Ad una facoltà le cose sono date, l'altra le pensa di testa propria"(23)
Viene cosi definito il procedere kantiano inteso da una parte a legittimare il metodo delle scienze naturali considerato valido ed invece a contestare la possibilità stessa di una metafisica almeno fondata sugli stessi principi delle scienze naturali.
In particolare Kant vede il pericolo che principi validi solo per il mondo sensibile siano considerati in assoluto, come validi anche per il mondo intelleggibile.
Ne vengono individuati tre assiomi che erroneamente possono sembrare estensibile al di fuori degli oggetti sensibili:
1) Tutto cio che è , è in qualche luogo e in qualche tempo: si disputa cosi DOVE possa essere Dio:
2) Ogni quantità è finita e tutto ciò che è impossibile è contraddittorio
3) Tutto ciò che esiste in modo contingente in qualche tempo non è esistito

Ribadisce, cioe, Kant l'errore della confusione fra metodi della scienza naturale e della metafisica che è poi un tratto fondamentale del suo concetto di Ragione.
La conclusione è che "se un giorno tale metodo con una indagine più accurata sarà condotto a perfezione esso servirà da propedeutico e gioverà moltissimo a tutti coloro che vorranno penetrare nei recessi della metafisica" (24)

Nel complesso l'opera è stata variamente valutata. Secondo alcuni la metafisica viene chiaramente accettata e pertanto siamo in opposizione non solo rispetto alla fase critica ma anche ad altre opere precedenti. Per esempio afferma De Vleeschauwer "d'ora in poi questi prolegomeni epistemologici permetteranno a Kant di elaborare un metodo positivo della metafisica, la scienza dei principi che governano l"uso reale dell'intelletto grazie ai quale conosciamo l'essenza ontologica degli esseri. Il principio generale del metodo da seguire consiste nel liberare l'intelletto dal condizionamento sensibile che lo minaccia. Il contrario quindi dei TRAUME, il contrario di Newton? Ebbene, si!" (25).

Per altri però la differenza dai Traume non è poi tanta. Secondo VANNI ROVIGHI "puo sembrare che vi sia una grande differenza fra la "Dissertazione" del 70 e i "Sogni di un visionario" del 1776: nel contenuto la differenza non è molta e si può spiegare con il diverso carattere dei due scritti: l'una, una dissertazione accademica in cui bisogna andare con i piedi di piombo e non esporre una teoria se non è scientificamente elaborata: l'altro un saggio scritto in occasione di fatti dei quali tutti parlano, uno scritto in cui si esprime liberamente il proprio pensiero, anche se di questo pensiero non si possono ancora dare giustificazioni scientifiche" (26).

D'altra parte in effetti non tanto si delinea un metodo metafisico quanto si tratta della possibilità di esso, Ancora ritiene VANNI ROVIGHI: "il metodo che deve precedere la metafisica è in realtà il metodo della ragion pura... Kant confessa esplicitamente di non essere ancora venuto in chiaro di questo metodo e dice che si limiterà solo a considerare una parte, quella che riguarda il pericolo di confondere, di contaminare conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale" (27).

A noi pare che in effetti sia innegabile che Kant ammetta in questo scritto la possibilità della metafisica in senso tradizionale ma che in realtà tale possibilità, accettata a rigor di logica, sia pur sempre sostanzialmente lontana dallo spirito dell'autore: in sostanza stando alla lettera, la metafisica è possibile ma, stando allo spirito, essa viene respinta.
Illuminante a tale proposito appare una osservazione di VANNI ROVIGHI "La Sezione Quarta dedicata all'uso dogmatico occupa quattro pagine scarse, contro nove pagine nella Sezione Quinta dedicata all'uso confusivo dell'intelletto. Si aggiunga inoltre che delle quattro pagine dogmatiche una e mezzo è dedicata a due argomenti dei quali uno "non demostratum." e l'altro "ultra terminos certitodinis apodictae" Restano meno di tre pagine in rigorosamente dogmatiche in tutta la Dissertazione"

Possiamo concludere con il ritenere che il concetto di Ragione Kantiano, pertanto, è sì pronto ma non ancora viene enunciato

( 1) Kant, 1a forma e principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile ,trad. di Ada Lamacchia ed Liviana, Padova 1969 pag 42
2) ibidem pag '44

(3) ibidem pag 51
(4) ibidem pag 53
(5) ibidem pag 54
(6) ibidem pag 55
(7) ibidem pag 56
(8) ibidem pag 56
(9) ibidem pag 57
(10) ibidem pag 58
(11) ibidem paga 58
(12) ibidem paga 58
(13) ibidem pag 60
(14) ibidem pag 62
(15) ibidem paga 63 nota
(16) ibidem pag 92'
(17) ibidem pag. 93
(18) Herman-J d e Vleeschaulwer, L'evoluzione del pensiero di Kant, Laterza,1976 pag 58
19) Op.citata pag 96
20) Op. cit. pag 59
21) Vanni Rovighi. S. Introduzione allo studio di Kant, La Scuola editrice Brescia 1968 pag 57
del mondo sensibile e del Lamacchia ed. a Liviana pag 123) op, cit, pag. g6 I op. cit. pag. 5S I op. c i t. pag. III op. cit. pag. 6e op. cit. pag. 199 op. cit. pag. gg op. cit. pag. leg

ESTENSORE:
Prof. Giovanni De Sio Cesari

http://www.giovannidesio.it/

 

UNA OTTIMA ANALISI DEL "KANTISMO"
è quella del Ns Filosofo DIEGO FUSARO
http://www.filosofico.net/kant105.htm

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