POLITICA ECONOMIA

LA CATTEDRA DI "STORIA IN NETWORK"
per gentile concessione del direttore Franco Gianola

Lezione della prof. GIORGIA BALLARANI - Docente di Istituzioni di Economia politica presso l’università di Perugia

RAZIONALITÀ
E SIRENE PUBBLICITARIE

“Dal punto di vista dell’acquirente, se l’acquisto del bene pubblicizzato si rivelasse una delusione, il costo dell’aver seguito il consiglio della pubblicità risulterebbe superiore al beneficio, con la conseguenza che egli cesserebbe di seguire le indicazioni pubblicitarie. Il consumatore risponde positivamente alla pubblicità perché, così facendo, aumenta la sua utilità: egli non fa altro che perseguire il suo interesse”

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Tornano alla mente quei versi dell’Odissea in cui si raccontava dei compagni di Ulisse che dopo aver mangiato i fiori di loto smisero di desiderare il ritorno. Quei fiori davano l’oblio della patria, degli affetti, delle radici. L’oblio del passato. L’unica cosa da desiderare diventava un certo presente e la sua inerzia vegetativa: il nuovo imprescindibile bisogno, la nuova utilità erano rimanere sull’isola. Indubbiamente restandoci quegli uomini perseguivano quello che ritenevano il loro interesse; nessuno, neanche l’astuto Ulisse, avrebbe potuto affermare che quello non fosse il loro interesse, e il non perseguirlo avrebbe avuto per essi un costo elevatissimo rispetto al costo del perseguirlo, se non altro perché di quest’ultimo non erano a conoscenza.

La letteratura classica spiega le prove terribili che Dei antropomorfi riservavano ai mortali con la loro invidia e il loro desiderio di vendetta di fronte alla superbia e alla felicità degli uomini; molto spesso infatti essi avvertivano la necessità di ridefinire le giuste gerarchie di potere, in particolare quando gli uomini dimenticavano i loro limiti umani volendo somigliare agli Dei stessi. Con il risultato che gli uomini riconoscevano a quelle Entità divine, emanazione ed espressione di loro stessi e del loro gruppo umano, il potere di “interferire” nei loro pensieri, nelle loro azioni, nelle loro vite.
Per questo i marinai che credevano alle promesse di immortalità cantate dalle sirene si gettavano ipnotizzati in acqua nella convinzione di trovarvi il superamento della morte, l’appagamento dei desideri, la massimizzazione dell’ utilità e lasciandovi, invece, la vita.

Naturalmente ascoltando il canto delle sirene pubblicitarie il consumatore non corre rischi tanto seri. E’ molto probabile che la sua capacità di distinguere tra quello che davvero vuole o non vuole sia in molti casi (non sempre, naturalmente) in buona parte annullata, ma al massimo rischia di buttare via il suo denaro e di sentirsi frustrato e insoddisfatto dopo acquisti fatti seguendo quelli che egli ritiene siano suoi impulsi originari.
Anche l’olimpo del mondo produttivo, fatto di Dei maggiori e minori, è emanazione ed espressione della società, è da essa determinato e la determina, e non desidera la razionalità e la consapevolezza di sé, vale a dire la libertà, degli individui: al contrario, vuole fortemente che restino aperti spazi per “interferire” nelle scelte di consumo che consentano la conquista e il mantenimento del potere economico (e non solo economico).

Per il consumatore non è semplice andare contro corrente e, insieme, soddisfare il bisogno di appartenenza alla società in cui vive, perché questo gli richiede di non evitare l’osservazione degli eventi-loto e l’ascolto delle sirene, con tutti i rischi ‘mortali’ che queste due condizioni comportano.
Per fortuna può sempre scegliere di proteggersi con le corde della razionalità e di riflettere su quello che ha comunque voluto intelligentemente osservare e ascoltare. Con fatica, cercando di evitare la deriva del pensiero e l’atrofia mentale, ma senza tappi di cera.

1. Il controllo della domanda

Siamo di fronte ad un fenomeno complesso, utile o necessario per promuovere legittimamente gli interessi di chi lo utilizza ma che, con i suoi contenuti e con le sue modalità diffusive, finisce per coinvolgere - e spesso compromettere – un’ampia serie di interessi di altri, con conseguenze anche di rilevanti e preoccupanti dimensioni”2.
La pubblicità, l’uso della quale è per le imprese di comprensibile e cruciale importanza, viene qui osservata analizzando le posizioni di studiosi alcuni dei quali hanno prestato attenzione ai suoi effetti sulla performance delle imprese, mentre altri sono più interessati a quelli sulla formazione dei gusti e delle preferenze dei consumatori.
Un frequente atteggiamento del consumatore maturo nei confronti della pubblicità è quello di disincantata e sbuffante ricezione. Ciononostante la molteplicità dei messaggi e l’affollarsi delle proposte pubblicitarie possono determinare una specie di effetto “loto”, un effetto sonno, un guardare senza vedere e senza pensare, la risposta al quale è una ripetizione quasi ossessiva degli annunci, con aumento della loro spettacolarità e del loro tono, dello spazio sulla carta stampata e di quello televisivo, nella certezza che del fiume di cose che vengono dette qualcosa verrà comunque recepito. Molto andrà sprecato, ma molto arriverà ai consumatori.

Ciò viene confermato da numerosi studi sulle politiche pubblicitarie e sui loro effetti sulla performance delle imprese,3 studi che testimoniano il generale incremento dello sforzo finanziario destinato alla pubblicità. E ciò simultaneamente alla crescita di tecnologie e organizzazione, a conferma del contributo della pubblicità al controllo della domanda e della concorrenza. Tuttavia, le opinioni divergono fortemente riguardo alla desiderabilità sociale della pubblicità; e ciò perché essa, per la sua capacità di “persuadere”, è considerata da alcuni4 invasiva della sfera soggettiva del consumatore e causa del crearsi di posizioni di monopolio.

Naturalmente nella sua funzione informativa essa è salutata come un servizio utile al consumatore. L’informazione è un ingrediente di base nella formazione delle scelte e svolge un ruolo determinante nella definizione di uno schema di preferenze; inoltre, correggendo le asimmetrie informative, essa favorisce e migliora lo svolgimento degli scambi.
Al contrario, la persuasione, spesso intesa come manipolazione, tesa a creare, modificare o mantenere le preferenze per mezzo di associazioni emotive, si ritiene che alteri il saggio spontaneo di sostituzione fra beni e la reattività della domanda di essi alle variazioni del prezzo, forzando i comportamenti di consumo in direzioni che spontaneamente potrebbero non essere prese. Tali considerazioni portano ad una valutazione sostanzialmente negativa del fenomeno pubblicitario da un punto di vista morale.

Non c’è però, a sostegno di questa lettura di esso la scoperta di una relazione funzionale certa e generalizzabile fra elasticità della domanda e pubblicità. Gli effetti di questa possono variare così sensibilmente in settori diversi e per beni diversi5 o in diversi momenti anche per lo stesso bene e nello stesso settore, da rendere difficile trovare un nesso di causalità che porti a conclusioni generalmente accettabili.
Un altro approccio6 allo studio degli effetti economici della pubblicità e delle politiche del marchio dà un’interpretazione diametralmente opposta del fenomeno pubblicitario; le sue conclusioni riguardo all’influenza dei messaggi pubblicitari sul rapporto elasticità- prezzo e sul grado di concorrenza dei mercati portano ad una valutazione positiva del fenomeno pubblicitario, a partire proprio dal suo ruolo nella formazione delle preferenze di soggetti che si ritiene siano, invece, dotati di coscienza critica e capacità di autodifesa.
Tuttavia, nemmeno tali conclusioni sono così generalizzabili da costituire tout court un valido superamento del primo filone di pensiero: nuovamente l’impatto con la soggettività del consumatore, (ma anche con la diversa natura dei beni e con le dinamiche dei mercati), pone di fronte ad una materia complessa che impone la rinuncia ad una risposta univoca.

2. Il consumatore è ancora sovrano?

Alla partenza è d’obbligo comunque interrogarsi su cosa ne è della sovranità del consumatore, l’immagine del quale rimbalza da quella di un coccolato signore del mercato, intorno al quale tutti si danno tanto da fare, a quella di bersaglio del sistema dei consumi coatti che tutti cercano di sfruttare.
Si può rispondere in modo diverso a seconda che si avverta come dominante la forza informativa o quella persuasiva della pubblicità: a) il consumatore è più sovrano che mai perché più evoluto e informato; b) è meno sovrano o non lo è più affatto perché manipolato ; c) il consumatore attento e consapevole è ancora padrone delle sue scelte e sa utilizzare l’eventuale informazione pubblicitaria, ma i più, disattenti e inconsapevoli, sono in varia misura bersaglio di una creazione dei bisogni effettuata con una pubblicità in prevalenza poco informativa.7

Come è noto, la teoria della sovranità del consumatore afferma che beni e servizi vengono prodotti in risposta alle sue richieste. Dunque, ciò che in un sistema viene prodotto è per lo più determinato dagli acquisti che sono già stati fatti e da quelli che si presume verranno effettuati da individui razionali che massimizzano le loro funzioni di utilità. In questo senso si può ritenere buono un sistema economico che produce ciò di cui la gente ha bisogno.
E dei servizi di cui la gente ha bisogno fa parte l’informazione, soprattutto da quando la grande varietà di beni di cui è inondato il mercato rende problematica la scelta e sempre più frequente la frustrazione post-acquisto; per questo il servizio pubblicitario, in quanto informazione, è desiderato e un buon sistema economico lo assicura per appagare un preciso bisogno di un consumatore sovrano.
Ma dove il contenuto del servizio pubblicitario smette di essere informazione e diventa persuasione non è dato sapere, perché questo confine non è delineabile.

Praticamente tutta la pubblicità si propone come informativa. Ma accade spesso che nel messaggio l’informazione sia parziale, inesistente o addirittura ingannevole: molti messaggi pubblicitari non forniscono informazioni né sulla qualità né sul prezzo, o le forniscono opportunamente ridotte e confezionate; l’illusione però di ricevere della buona informazione riduce la cautela del consumatore e la sua capacità di difendersi. Sarebbe più cauto in assenza di informazione. Oppure accade che al nome della marca vengano associati immagini e suoni capaci di produrre studiati effetti emotivi sul consumatore. Tale messaggio, aggirando la razionalità, si ritiene esponga il consumatore solo a suggestione, portandolo a modificare le sue preferenze e a riconsiderare le sue funzioni di utilità.

E’ fondamentale la ripetitività dei messaggi pubblicitari, somministrati secondo le caratteristiche psicologiche, economiche e culturali dei loro presunti destinatari: questi potranno così essere informati correttamente, oppure confusi e indotti a pensare che esistano fra i beni differenze che in realtà non esistono. Ma soprattutto, attraverso analogie, metafore, metonimie è possibile che i consumatori siano indotti a spostare la loro attenzione dalle caratteristiche del prodotto, non così speciali né così diverse da quelle di beni simili, alla promessa di qualcosa che si trova nella loro fantasia, qualcosa che il prodotto permette, promette, potrebbe rendere possibile. Le motivazioni e la stessa idea di utilità che si determinano nel consumatore devono garantire non l’acquisto occasionale, ma abitudini di acquisto, meno sensibili possibile alle variazioni in aumento del prezzo e alla tentazione di consumare altri beni.

Oppure può semplicemente accadere che, nel rumore generico dei tanti messaggi su dentifrici o detersivi, ognuno dei quali vuole comunicare che c’è anche lui e che è il migliore, il risultato non sia tanto l’orientamento del consumatore verso l’uno o verso l’altro, quanto la spinta ad uscire a comprare qualcosa, ad esempio un vestito; quello che viene in definitiva trasmesso al destinatario dei messaggi pubblicitari è primaditutto un imperativo a consumare in una qualsiasi direzione, in un feedback in cui il destinatario del messaggio può anche rispondere in modo diverso rispetto alle aspettative del mittente dello stesso. In questo senso la pubblicità si propone come l’origine di una ideologia del consumo.

Se è così, l’acquisto di un bene diverso da quello pubblicizzato potrebbe creare nel consumatore l’illusione di una sua immunità ai messaggi pubblicitari, mentre gli passerebbe inosservato che il sistema dei consumi, lavorando prima per sé stesso e poi per i singoli prodotti, punta innanzitutto a mantenere aperto un contatto e una disponibilità all’acquisto.

3. Perché tutta questa pubblicità?

Le caratteristiche della moderna vita industriale giustificano il bisogno che le imprese hanno di creare e controllare la domanda: l’impiego di tecnologie sofisticate, gli orizzonti di lungo periodo nella produzione, la grandezza delle dimensioni, la rigidità e nello stesso tempo la vulnerabilità delle organizzazioni produttive impongono, ancora prima della massimizzazione del profitto, la ricerca della stessa sopravvivenza e dell’autonomia, poi della crescita e del prestigio. A partire dalla stabilità e dalla crescita delle vendite.
Per questo le imprese investono in pubblicità e prendere atto della necessità e dell’effettivo verificarsi di un ‘ammaestramento’ al consumo (qualcosa di diverso dalla semplice informazione) è vedere quello che è già evidente. Negarlo in via di principio, o chiamarlo soltanto ‘informazione’ sempre destinata a individui razionali e, comunque, capaci di “consumo critico”, è solo in apparenza un atto di doveroso rispetto verso il consumatore e la sua intelligenza. Nella grande maggioranza dei casi alle imprese non è sufficiente informare. La pubblicità deve convincere.

E’ ora di rivedere la saggezza tradizionale secondo la quale i gusti non sono affar nostro”8 e la formazione delle preferenze e le loro variazioni sono territorio esclusivo della ricerca psicologica e sociologica. Nella lunga consuetudine accademica ottocentesca e della prima metà dello scorso secolo, infatti, la formazione dei gusti e i loro cambiamenti sono stati considerati fatti esogeni ed estranei alle competenze dell’analisi economica, il cui compito era occuparsi della domanda e della spesa in beni, comunque questa si fosse formata.
Secondo un principio di divisione del lavoro, la funzione dell’economista era solo quella di delineare le conseguenze economiche di ogni dato insieme di volontà espresse dai soggetti, senza indagare sulla formazione e sulle variazioni di quelle volontà. Ma bisogni, preferenze e scelte del consumatore sono oggi fortemente in relazione con gli investimenti pubblicitari che hanno una natura tutta economica, di grande e sempre crescente entità, ormai parte integrante della struttura dei costi e delle strategie normali di conduzione d’impresa.

Alcuni modelli della più recente teoria delle scelte di consumo, incorporando variazioni endogene dei gusti, parrebbero promettere l’ abbandono dell’ipotesi di un consumatore perfettamente in grado di conoscere e massimizzare le sue funzioni di utilità. In realtà sono ancora molti coloro che restano legati all’idea della sovranità del consumatore. Essa appare sostenibile con la difesa della funzione informativa della pubblicità e della capacità del consumatore moderno di accogliere e metabolizzare in modo critico e selettivo i bombardamenti pubblicitari cui viene quotidianamente sottoposto.

4. Nel consumo l'obiettivo della produzione

Nella prima metà dello scorso secolo la teoria economica si basava sull’idea che la produzione generasse il potere d’acquisto capace di assorbirla tutta e che questo assorbimento si sarebbe nel tempo sicuramente verificato. Secondo la “legge degli sbocchi” di Say questa verità era incontrovertibile e il livello di produzione era tale da consentire un’occupazione a tutti i lavoratori capaci e desiderosi di lavorare. Un’eventuale disoccupazione avrebbe fatto diminuire i salari, rendendo convenienti nuove assunzioni.
Che, al contrario, la produzione di potere d’acquisto potesse generare una domanda di beni non equivalente fu la grande intuizione (di malthusiana memoria) di Keynes. Osservando come nella realtà salari e costo del denaro potessero non garantire livelli di domanda adeguati ad avvicinare l’economia alla piena occupazione, egli suggerì, ascoltato, l’intervento dello Stato. Con la politica della spesa pubblica lo Stato avrebbe potuto espandere la domanda o frenarla secondo le necessità del momento, nell’ipotesi che alla base della spesa dei soggetti sia comunque e sempre da porre il reddito, passato, presente o atteso.

Nella storia del pensiero economico qualunque approccio alla teoria del consumo, a livello micro o macro, fa del reddito e quindi della produzione di ricchezza, un elemento di base degli assiomi tradizionali: l’esistenza del potere d’acquisto è generalmente cruciale per qualunque decisione di spesa.
Tuttavia, in un momento storico come l’attuale, in cui il consumatore delle società capitalistiche non è per lo più costretto al consumo da uno stato di bisogno,9 è notevolmente cresciuta la sua discrezionalità nel decidere la composizione di tale spesa e nella distribuzione delle sue risorse; ne deriva che nei paesi ricchi, fermo restando il potere d’acquisto come determinante della decisione di spendere, l’attenzione si sposta sulle direzioni che tale potere d’acquisto può prendere.10

Invece in questi primi anni del 2000 l’incertezza provocata dal terrorismo, dalla forte instabilità politica e sociale di vaste aree del mondo, da inspiegabili euforie seguite da crolli nei mercati finanziari, non consente di considerare scontato che gli individui vorranno spendere il loro reddito. Al contrario, le economie occidentali registrano da almeno un decennio un forte calo nei consumi.

Nell’ottobre del 2001, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, Paul Krugman scriveva: “ Per la domanda (e questo vale molto più che per l’offerta) la questione è psicologica.. Se chiedete quanto consumeranno i consumatori e quanto investiranno gli investitori nei prossimi mesi la risposta è determinata dai sentimenti: quelli che Keynes chiamava ‘spiriti animali’. Se la gente spaventata decide di non spendere, il suo nervosismo può tradursi in un’economia depressa… La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.11
Appare quindi ancora prioritario per il mondo produttivo lo sforzo di ricreare fiducia nell’uomo consumatore12 e una disponibilità a uscire di casa per spendere il suo reddito: occorre offrirgli qualche buon motivo per indurlo a guardarsi intorno e vedere nuovamente nel mondo delle cose opportunità di soddisfazione e di autorealizzazione.
Ma la conoscenza del consumatore è cruciale per raggiungere la sua dimensione profonda, e il consumatore postmoderno è cambiato. Si impone l’abbandono della vecchia idea di consumatore dominato da leggi e portatore di regolarità, come anche una rivisitazione di concetti economici come utilità e razionalità verso l’idea di un consumo mosso non dalla necessità ma dall’impulso, non dall’etica ma dall’estetica, un consumo che si ispira al gioco più che alla razionalità. Ora nei paesi ricchi all’homo oeconomicus si affianca e, forse, si sovrappone l’homo ludens.13

5. La razionalità nelle scelte di consumo

Se la pubblicità informativa induce nel consumatore una risposta razionale, si presume che quella manipolativa abbia invece la capacità di pescare nella sua dimensione irrazionale, inducendolo a scelte che possono poi dargli frustrazione o che comunque non verrebbero fatte se egli non fosse nascostamente stimolato a farle.
L'analisi del comportamento di consumo nella teoria economica è da sempre contenuta nelle coordinate della razionalità e della irrazionalità dell'individuo, in una psicologia cartesiana che osserva il consumatore comportarsi in modo regolare e uniforme mentre cerca di realizzare il proprio interesse soddisfacendo requisiti di coerenza.14

Ma ad uno studio del fenomeno pubblicitario e dei suoi effetti economici non si adatta tuttavia una così manichea dicotomia razionale-irrazionale, perché tra i due poli estremi (peraltro così difficili da definire) esiste un infinito spazio di posizioni e situazioni intermedie in cui generalmente si colloca il comportamento di consumo. E' in questo territorio che va a frugare la pubblicità persuasiva, con probabilità di successo tanto maggiori quanto più si ritiene vicino il polo irrazionale.
Inoltre catturare il vero significato del termine razionalità è forse impossibile, anche facendo riferimento a comportamenti genericamente osservabili, poiché quella che dal punto di vista economico tradizionale può venire definita irrazionalità può invece manifestarsi come razionalità sociale complessiva.15
Una conferma del carattere sociale di tale razionalità è evidente nel pragmatismo del consumatore postmoderno. “E’ un consumatore laico, deideologizzato, curioso, sperimentalista, all’insegna del case by case approach…. è sensation seekers e si rapporta ai beni del mercato in termini polisensuali. …..tanti consumatori coesistono in uno stesso individuo16
Impossibile ravvisare in queste caratteristiche l’homo oeconomicus, il protagonista delle curve di indifferenza, colui che sa con esattezza quante uova vuole in cambio di un libro quando i libri in suo possesso sono pochi e le uova sono tante e viceversa. Quell’homo oeconomicus la cui lucidità ha reso a lungo superflua l’analisi di una creazione dei bisogni fatta attraverso una impossibile persuasione occulta. E non perché le caratteristiche suddette siano incompatibili con un criterio di razionalità: quando è massima la soddisfazione, compatibilmente con le risorse disponibili, l’individuo ha agito ‘razionalmente’ Piuttosto siamo di fronte ad una nuova idea di utilità (potrebbe anche trattarsi di “utilità-loto”?) che ci porta a cercare piacere e soddisfazione in direzioni e forme diverse, e non ci dispiace affatto ascoltare qualche sirena che voglia informarci o, perché no?, persuaderci con il suo “canto” a cambiare anche di frequente i nostri sentieri di consumo. “….ognuno di noi è, in larga misura, ciò che i messaggi ricevuti dai media, (la nuova grande agenzia di socializzazione) ci propongono di essere…E, cosa forse più importante, (i soggetti) possono cambiare identità quasi da un giorno all’altro.”17

Il consumatore moderno, l’homo oeconomicus, coerente, tranquillo e un po’ asettico, fedele ad una ideologia di consumo, dotato di forte personalità, viene sostituito da un consumatore frammentato, multiforme, uno nessuno e centomila; in un’epoca in cui cento occhi si posano contemporaneamente sull’uomo, (dalle telecamere nelle strade, alle carte di credito e alle tessere di consumo nei supermercati), per indagare sui suoi comportamenti e sulla possibilità di guidarli, la risposta inevitabile in quelli di consumo sembra essere il nascere di un inconsapevole trasformismo che riduca il rischio di cadere, tanto o poco, prigionieri di volontà esterne. In questo mobilissimo contesto non è troppo difficile conquistare l’attenzione di un nuovo cliente, (nel senso di raggiungerlo sicuramente con l’informazione), mentre mantenerne la fedeltà può diventare una scommessa.

6. Sull’informazione pubblicitaria. il “meccanismo” del Nelson.

In che modo la pubblicità procura informazione al consumatore? Il produttore nel fare pubblicità non è direttamente interessato a fornire informazione ai consumatori. Egli è interessato a vendere di più il suo prodotto. Soggetto a pochi vincoli, il messaggio pubblicitario dice ciò che vuole il venditore di una marca. E’ necessaria la spiegazione del meccanismo che fa del ruolo di vendita della pubblicità un ruolo di informazione del consumatore”18
Tale meccanismo, prosegue l’autore, esiste ed opera in modo diverso nei diversi tipi di mercato; ciò può essere dimostrato analizzando i diversi rapporti pubblicità/vendite, la scelta dei media nelle diverse industrie e l’impatto delle diverse fonti d’informazione sul volume di pubblicità effettuato. Tutto questo nelle ipotesi che il consumatore utilizzi regole di decisione ottimali e che non ci siano vincoli giuridici alla pubblicità.
L’idea portante, il ‘meccanismo’ della teoria del Nelson, sta nella seguente affermazione: “L’informazione è procurata dalla pubblicità in conseguenza del potere di mercato del consumatore19.
Questa affermazione allude alla circostanza che essendo il consumatore il destinatario della ricchezza prodotta, l’obiettivo finale dello sforzo produttivo dell’impresa, questa cerca con ogni mezzo di informarlo dell’esistenza del bene da essa prodotto e di ragguagliarlo sulle sue caratteristiche. Il consumatore è il sovrano del quale occorre attirare l’attenzione per essere i prescelti e i favoriti con l’acquisto. E’ con l’acquisto che viene esercitata la sovranità del consumatore, anzi, con l’acquisto ripetuto.

Poiché, com’è intuitivo, l’acquisto verrà ripetuto se il consumatore sarà rimasto soddisfatto del primo consumo, diventa cruciale indagare sulle probabilità che egli possa trovare nel bene consumato una effettiva conferma delle promesse contenute nel messaggio pubblicitario e inseguite con l’atto di acquisto; e ciò a prescindere dalle immagini, dai suoni e da qualunque altro espediente siano stati usati per attirarlo a consumare una prima volta. Se le promesse dei comunicati pubblicitari non sono mendaci, il consumatore potrebbe in fondo gradire di essere “convinto a provare” un prodotto.20
L’analisi del Nelson tenta una risposta nuova a questo interrogativo, distinguendo i beni “ricerca” (search goods, per i quali un’ispezione preventiva del bene riduce la possibilità che il consumatore resti ingannato da una pubblicità mendace o esagerata), dai beni “esperienza” (experience goods, per i quali è più probabile che ciò avvenga in quanto non è possibile alcuna conoscenza prima del consumo).21

I beni ricerca, dunque, sono quelli di cui il consumatore può constatare la qualità e le caratteristiche prima dell’acquisto.
Ad esempio un vestito, dice il Nelson. Un vestito può essere visto e toccato prima di essere comprato, se ne può valutare la lunghezza, la larghezza, la morbidezza, le possibilità di accostamento ad altri colori durante la prova. E fare la prova, ispezionare il bene, recarsi nel punto-vendita è relativamente poco costoso. Tutto questo rende poco conveniente e quindi poco probabile l’uso di una informazione pubblicitaria ingannevole e ancora meno probabile e conveniente l’uso di una pubblicità manipolativa che può essere smascherata e vanificata prima ancora dell’acquisto.
E se è comunque possibile che venga effettuato un acquisto sbagliato, ciò sarà da addebitare all’ingenuità dell’acquirente, alla sua incapacità di valutare correttamente il bene e di vedere chiaro nelle proprie preferenze; non alla eventuale informazione esagerata, mendace o addirittura manipolativa ricevuta al riguardo.

In ogni caso, sostiene l’Autore, il venditore colpevole di aver mentito nell’informare o di aver maneggiato per persuadere, pagherà in termini di abbandono da parte del consumatore. Avrà anche avuto vendite maggiori una prima volta, ( e solo nel caso in cui il consumatore non abbia saputo o voluto avvalersi della possibilità di verificare a priori la rispondenza delle caratteristiche reali del prodotto search a quelle promesse dalla pubblicità), ma poi esse non si ripeteranno e il consumatore non accorderà una seconda volta la sua fiducia: la perdita di credibilità basterà a scoraggiare miopi strategie di vendita “..e i consumatori possono avere fiducia nel fatto che la pubblicità dei beni ricerca sia strettamente aderente alla realtà”22.

Nel caso degli experience goods, invece, il consumatore non è in grado di valutare a priori se è stato o meno bersaglio di pubblicità ingannevole, “… il potere del consumatore sulla pubblicità è molto meno potente…Il controllo più grande che i consumatori hanno sul mercato dei beni esperienza si esercita ripetendo o no l’acquisto di quella marca23

Per esempio un tonno in scatola, dice il Nelson. Il consumatore dovrebbe mangiarne di diverse marche prima di sapere quale preferisce e della quale intende ripetere l’acquisto. Un modo certamente ‘costoso’ di acquisire informazione e non solo in senso economico, per evitare il quale ci si può affidare ai consigli di persone di fiducia che abbiano già ha sperimentato i diversi sapori, oppure ai consigli pubblicitari.
Ora, grazie al “meccanismo” del Nelson, cioè alla possibilità-potere del consumatore di non acquistare o di non ripetere l’acquisto, verrà scoraggiata anche in questo caso la pubblicità ingannevole o manipolativa, perché, sia pure più tardi e in modo più complesso rispetto al caso dei search goods , anche nel caso degli experience goods il consumatore potrà, già dopo il primo acquisto, rendersi conto dell’esattezza della informazione ricevuta oppure dell’esistenza e dell’efficacia di una eventuale manipolazione attuata a suo danno.
Dunque, sia nel caso dei beni search, controllabili prima dell’acquisto, che nel caso di quelli experience, conoscibili solo consumandoli, non conviene alle imprese dare informazioni non veritiere né tantomeno tentare manipolazioni e persuasioni occulte: in ambedue i casi con ogni probabilità la reazione del consumatore sarebbe l’abbandono del prodotto e la perdita della fiducia nella marca.
La base teorica di riferimento del modello del Nelson è dichiaratamente quella prima teoria (e gli approcci che ad essa si ispirano) che postula un consumatore razionale, molto più vicino alla mentalità dell’ingegnere che a quella del consumatore ordinario. I limiti della razionalità umana, l’instabilità delle preferenze, il sistema di influenze interindividuali sono troppo sullo sfondo perché questa teoria possa definirsi accettabilmente interpretativa della realtà.
Ma soprattutto appare sottovalutata l’influenza del fiume di messaggi diretti e indiretti che muove con ossessionante continuità dalle imprese ai consumatori. Una coazione a ripetere che si rinnova giorno dopo giorno, identica, quasi senza varianti nella tonalità, ineluttabile, rumorosa, che costringe il ricevente a lottare contro la deriva del pensiero e forme di atrofia cerebrale.24

Certamente anche questo è un modo di fare informazione. Come non sapere che esistono e sono ottimi, e come dimenticare prodotti che ci ricordano la loro esistenza e la loro bontà due volte al minuto, un minuto dopo l’altro?
Quando il consumatore va a comprare il “vestito del Nelson” e sovranamente lo ispeziona per decidere se comprarlo o no, l’esito della sua search non potrà prescindere dall’influenza che avranno avuto su di lui le ripetute associazioni simboliche che la pubblicità avrà proposto: l’ostentazione, l’emulazione, la rappresentazione sociale dell’appartenenza ad una classe sono già da tempo riconosciuti come potenti motori delle scelte e ampiamente utilizzati dalla pubblicità; ed è ingenuo sentirsi sicuri che l’idea di utilità che il consumatore aveva di quel tipo di vestito sia rimasta estranea a questi stimoli. Ciò può tranquillamente significare che la non corrispondenza di morbidezze o di giovanilità pubblicitarie con quelle reali non induce necessariamente il consumatore ad abbandonare l’idea di rappresentare socialmente il proprio sex appeal o le proprie idee con quel vestito addosso.25

Anche la scelta della marca di tonno prenderà la direzione voluta dalla pubblicità. Infatti è molto improbabile che il generico consumatore, la madre di famiglia si prenda la briga di “assaggiare” più marche per poi decidere quale è la sua preferita, come invece sostiene il Nelson; è troppo costoso in termini di tempo, di denaro (perché l’acquisto di marche che poi non piacciono si rivelano uno spreco di denaro) e di disponibilità mentale; è invece più frequente posare lo sguardo sul vasetto di tonno il cui nome è già familiare, perché è già stato ‘presentato’, semplicemente perché “lo si conosce”, anche senza sapere nulla dei suoi contenuti o del suo sapore. E di quelli di tutti gli altri. Di esso viene solo comunicata l’esistenza e la marca.
Ma se il consumatore non conosce altre marche di tonno, nel senso che non le ha assaggiate e la loro rappresentazione pubblicitaria non ha colpito la sua immaginazione, probabilmente non saprà mai (oppure chissà quando e chissà dove lo verrà a sapere) che ce ne sono altri che preferisce a quello; cioè non è scontato che dopo il primo consumo egli sia in grado di decidere che quello è il tonno che preferisce a tutti gli altri oppure no. Lo consuma e basta. E potrebbe continuare per molto tempo a consumare il primo tonno, acquistato solo seguendo i “consigli” pubblicitari più convincenti, contrariamente a quanto sostenuto dal Nelson; non ripeterebbe invece l’acquisto iniziale solo nel caso in cui quella marca di tonno fosse proprio inconciliabile con il suo gusto, cosa che, certo, può anche accadere.

Dunque, quando la gente decide di regalarsi un vestito, (magari simile a quello indossato da un personaggio di successo), oppure quando cede al desiderio di prepararsi una buona insalata di tonno, se non sta facendo un’indagine sugli effetti della pubblicità, è più probabile di quanto non pensi che si muova seguendo in qualche misura e inconsapevolmente “suggerimenti e consigli per gli acquisti”; ed è molto probabile anche che, se avrà la sensazione di non aver comprato esattamente quello che si aspettava sulla base delle informazioni pubblicitarie ricevute, non passi subito a qualcosa d’altro. E se anche la gente volesse cercare delle alternative, occorrerà comunque del tempo per conoscerle, (sono note la forza dell’abitudine e la frequente indolenza nei comportamenti di consumo), e nel frattempo numerosi e ricorrenti messaggi cercheranno di sostenere e consolidare la scelta iniziale, che rassicurano il consumatore sul fatto che è proprio quella giusta.

Queste considerazioni tolgono sicurezza e automatismo al meccanismo dell’abbandono o della ripetizione dell’acquisto quale garanzia certa della convenienza a fornire informazione pubblicitaria veritiera. Proprio nell’esercizio di quello che il Nelson chiama “il potere del consumatore nel mercato del prodotto”, cioè il potere di non ripetere l’acquisto, la pubblicità può svolgere e di fatto svolge il suo ruolo di vendita, fornendo un’informazione che può essere persuasiva e non veritiera, ma poi sostenendola (poggiando sulla tendenza alla ripetitività dei comportamenti di consumo) con forti e ripetuti messaggi destinati a rassicurare e mantenere la fedeltà del consumatore, a distogliere la sua attenzione da eventuali altri prodotti da provare e legandola, invece, (ciò vale in particolar modo per i beni esperienza, sui quali l’informazione non è diretta o hard), alla reputazione del venditore.

7. La pubblicità di search ed experience goods e la reputazione del venditore

L’analisi del Nelson prosegue, con l’ausilio di curve di ricavo marginale e di costo marginale della pubblicità “adattate” alle due tipologie di beni , verso la definizione di una quantità ottimale di impiego di essa finalizzata alla massimizzazione del profitto dell’impresa. Avvalendosi del contributo di Stigler e di Gould,26 il Nelson mette a punto comportamenti differenti della domanda di pubblicità da parte delle imprese, comportamenti legati ai diversi ricavi marginali quando essa riguardi search goods oppure experience goods.
Il risultato dell’analisi è che la pubblicità di questi ultimi viene effettuata in misura maggiore che per i primi. Già in Information and consumer behaviour, il Nelson aveva calcolato indici medi pubblicità/vendite per le due categorie di beni, arrivando alla conclusione che il punto di vista statistico confermava quello economico: gli indici medi di pubblicità per i beni esperienza sono molto più elevati che per quelli ricerca (dato che, come si è visto, questi sono controllabili prima dell’acquisto).

L’importanza di questo risultato sta nel fatto che, poiché per i beni esperienza la pubblicità può dare solo informazione indiretta, è soprattutto la fiducia nel venditore a stimolare all’acquisto. Ciò potrebbe leggersi come una conferma del fatto che nessun imprenditore rischierebbe di rovinarsi la credibilità mentendo o dicendo solo verità parziali e in forme manipolative nei suoi comunicati pubblicitari.
L’impiego ottimale di pubblicità dal punto di vista sia del produttore che del consumatore si ha in corrispondenza dell’uguaglianza fra ricavo marginale e costo marginale di essa; per il primo, cioè, nella misura che massimizza la differenza fra l’incremento di ricavo totale attribuibile ad essa e il suo costo complessivo, per il secondo nella misura in cui il miglioramento della sua soddisfazione accreditabile all’informazione pubblicitaria “uguaglia” il time-cost speso per procurarsela.

Per i beni esperienza il rendimento della pubblicità passa per un rafforzamento dell’immagine e della credibilità del venditore; infatti essa si limita a proclamare il nome della marca pubblicizzata, con l’intento di rafforzare il binomio pubblicità – qualità. E ciò anche nella mente di coloro che hanno già sperimentato il bene con un primo acquisto.27 Dunque, una parte degli investimenti pubblicitari effettuati viene destinata al sostegno psicologico di coloro che già hanno effettuato un primo consumo sia di beni search che di beni experience. Nel caso ne abbiano tratto la soddisfazione attesa, il rinforzo pubblicitario non è particolarmente necessario, ma è sempre opportuno, rassicurante e comunque utile per mantenere viva la memoria della marca.
Nel caso opposto, se cioè le aspettative create dai messaggi pubblicitari vengono parzialmente o del tutto disattese, il compito della pubblicità è quello di rinviare o, meglio, di scoraggiare la eventuale sperimentazione di prodotti di altre marche, insistendo sulla autenticità e affidabilità del primo impulso seguito. Il successo di tale tentativo, mette l’autore di informazione ingannevole al riparo da sicure e/o immediate reazioni punitive del consumatore. Tale eventualità è una componente delle dinamiche del “consumo indotto dalla pubblicità” da non sottovalutare se si vuole davvero comprenderlo.

8. La pubblicità: quanta e quale informazione

La conquista e il mantenimento di vecchia e nuova domanda spiegano le enormi spese che le imprese programmano per gli investimenti pubblicitari: il perché di tanta pubblicità.
Martellante e ramificata, essa è ormai presente ovunque e si manifesta e si espande nelle sue varie forme come unica fonte di informazione cui il consumatore abbia accesso. E in una parte dei suoi osservatori si consolida l’opinione che il consumatore non sia esposto al suo potere di suggestione; piuttosto ad essi egli appare oggi un soggetto attivo e critico nei confronti del quale il potere persuasivo dello strumento pubblicitario (ammesso che esista) appare poco significativo. Mentre sarebbe esaltata la funzione informativa che la pubblicità prioritariamente assolve.

Le prime opinioni, assolutamente opposte a questo punto di vista, risalgono alla prima metà dello scorso secolo e riguardano invece proprio l’assenza di un adeguato contenuto informativo della pubblicità e la sua incompatibilità con il principio della sovranità del consumatore. Scrive Kaldor nel 1950:
“La rappresentazione moderna della pubblicità contiene un’informazione relativamente ridotta, ma è destinata ad imporla all’attenzione del pubblico attraverso un vero e proprio assalto……la spesa pubblicitaria non può essere giustificata… semplicemente con riferimento al principio della sovranità del consumatore… ...cioè accettando le preferenze del consumatore come il criterio ultimo su cui impostare tutta l’attività economica”.28
Ciò perché se è vero che esiste un effettivo bisogno di informazione, tanto più sentito quanto più complessi e durevoli29 sono i prodotti industriali, è pure vero che essa è fornita dalla parte interessata, i venditori. Il valore di tale informazione, perciò, è da porsi in relazione alla sua obiettività e imparzialità, requisiti nei quali risiede la funzione sociale del servizio stesso che, secondo Kaldor risulta essere “altamente inadeguato e difettoso” data la dipendenza dal prodotto di coloro che forniscono l’informazione.30

Queste affermazioni precedono qualunque valutazione riguardo al comportamento del consumatore in risposta ai condizionamenti pubblicitari. Vale a dire che se un servizio informativo, prestato liberamente e ‘gratuitamente’ dal venditore, è in partenza inadeguato e funzionale solo agli obiettivi di chi lo fornisce, esso non adempie alla sua funzione sociale di informare il consumatore per favorirlo nel rendere ottimali le sue scelte.
Laddove l’informazione è carente, certo non riguardo a elementi come l’esistenza del prodotto o la marca che devono essere ben visibili, ma riguardo al suo prezzo e a tutte le sue caratteristiche, se cioè viene spinta avanti solo una piccola quantità di informazioni verso la coscienza dei soggetti, sia pure evoluti e capaci di consumo critico, il ruolo del messaggio pubblicitario non è più così essenziale al buon funzionamento dei meccanismi del mercato: anzi, "una cattiva o parziale informazione, proponendosi come buona informazione, riduce la vigilanza del consumatore e la sua capacità di difendersi".

Alle parole di Kaldor fanno eco quelle più attuali di Fabris: “E’ stata probabilmente enfatizzata al di là del dovuto – anche se la vigilanza in quest’area deve essere mantenuta costante la dimensione menzognera della pubblicità. Eppure, anche quando non ingannevole, la pubblicità resta comunque sempre un’informazione incompleta e di parte. Il suo ruolo è più simile a quello dell’avvocato difensore che all’informazione giornalistica. Un’informazione magari anche veritiera ma unilaterale, partigiana, condannata ad una funzione elogiativa”.31

Nella forte interdipendenza tra ritmi e struttura della produzione e la nascita di curiosità-desideri-bisogni non è dunque chiaro se sia la produzione a rispondere ai desideri di una collettività in ebollizione, come la teoria della sovranità del consumatore indicherebbe, o piuttosto se non siano i desideri della collettività a essere in qualche misura indotti da una caleidoscopica produzione ‘gridata’ e elogiata dalla pubblicità.
Uno degli obiettivi della comunicazione pubblicitaria ( il primo in senso sia logico che cronologico) è comunque la vendita e il consumatore è guidato nella ricerca della sua utilità e nella formazione dei suoi gusti in funzione della massimizzazione delle vendite. E’ evidente che il riferimento non è alle notizie sull’esistenza del prodotto, che non sono mai carenti ma, al contrario, abbondanti, spesso eccessive, comunque utili per un primo orientamento del consumatore; piuttosto sono le informazioni sulle caratteristiche dei beni e sul loro prezzo,( le più importanti per una effettiva trasparenza del mercato e per la crescita del consumatore), ad essere normalmente taciute, a parte il caso di beni di qualità migliore per i quali le imprese hanno un ovvio interesse a gridarle forte.
“L’impressione invece è che la grande maggioranza delle imprese lesinino queste informazioni, le dosino con il contagocce, mostrandosi spesso assolutamente tetragone a qualsiasi tipo di concessione in merito”.32
Dunque, le imprese in grande maggioranza fanno quadrato sul dare informazioni davvero utili per consapevoli decisioni di acquisto. Oppure spingono strumentalmente l’enfasi e i toni su aspetti parziali del prodotto per dirottare su questi l’idea di utilità e quindi le preferenze del soggetto, distogliendo la sua attenzione da caratteristiche che evidentemente il prodotto non ha (o che ha, ma è meglio che restino ignorate). Certamente il consumatore può lasciarsi ingannare oppure no, dipende dal suo livello di consapevolezza e di maturità.33
Ma non è corretto sostenere che in tal caso la pubblicità sia informazione. Perché se i dati forniti sono completi e veritieri la pubblicità è realmente un prezioso servizio per il consumatore, ma se la verità è fornita solo in parte, col contagocce appunto, in funzione delle convenienze del venditore, guidare un consumatore non informato, o solo parzialmente informato, ma, che è peggio, convinto di esserlo adeguatamente, diventa una cosa semplice e irrinunciabile da praticare per cercare di formarne o cambiarne i gusti.34

9. Pubblicità, formazione e cambiamenti dei gusti. Sul ruolo di psicologia e sociologia nell’analisi economica secondo il Morgan

L’analisi economica della formazione dei gusti e dei suoi effetti è stata effettuata in due direzioni di ricerca. La prima consiste in uno studio degli effetti di formazione e cambiamento dei gusti sul benessere dell’individuo e della collettività, l’altra nello studio di tali effetti sui comportamenti e sulle loro rappresentazioni tramite curve di domanda.
La convinzione che fosse necessaria una divisione del lavoro tra psicologia ed economia, idea che sollevava l’analisi economica dal compito di spiegare formazione e cambiamenti dei gusti,35 è superata: è infine accettata l’idea che si tratti di fenomeni endogeni al sistema economico che vanno inseriti nell’analisi del benessere e delle scelte di consumo accanto, ad esempio, alle differenze di gusti associabili alle diverse caratteristiche demografiche.

Secondo James N. Morgan è necessario applicare principi di psicologia e sociologia ai comportamenti di consumatori e imprese, cioè è necessario fare ricerca basata su ipotesi sia psicosociologiche che economiche e ciò per cinque importanti ragioni.36
Innanzitutto perché l’utilità di ciascuno dei molti beni e servizi, (dotati ognuno di molte caratteristiche e destinati a soddisfare i molti desideri di ogni persona), 37 è una funzione complessa di tali caratteristiche ed è legata alla psicologia e alla soggettività di ciascun individuo. Ciò vuol dire che ogni decisione è presa sulla base di multiple motives. Ciò che interessa l’analisi degli effetti della pubblicità è soprattutto il fatto che, secondo il Morgan, le percezioni della gente cambiano più rapidamente delle caratteristiche dei beni e il livello delle sue aspirazioni e dei suoi desideri può cambiare sotto l’effetto dell’esperienza o della persuasione.38

In secondo luogo, le group decisions, quelle prese in contesti familiari o d’impresa, vedono interagire soggetti con bisogni diversi, ognuno dei quali cerca di avere dagli altri il consenso alla realizzazione dei propri desideri. E’ il caso in cui si verificano lotte di potere miste ad altruismo in cui la comunicazione può non bastare ad ottenere esiti positivi. Riguardo alle decisioni di gruppo il Morgan suggerisce che sono necessari contributi dalla psicologia su potere, docilità e altruismo; dalla sociologia su ruoli e speranza di ruoli; dall’economia sulle contrattazioni e gli scambi multilaterali. La pubblicità attinge in misura considerevole dalla simbologia legata alla famiglia e al successo nel lavoro per toccare corde profonde della personalità dei destinatari.

L’uncertainty, inoltre, trasforma la maggior parte delle decisioni da prendere in scommesse su un futuro incerto, scommesse la cui dimensione e lunghezza variano con il variare dell’incertezza. Il Morgan rinvia al lavoro di Katona 39per il quale l’incertezza (riguardo al reddito personale futuro e all’andamento futuro dell’economia nazionale e mondiale ) è la varabile dinamica più esplicativa dei comportamenti di consumo, e suggerisce che andrebbero indagati i legami esistenti fra gli eventi storici, i comportamenti delle masse e la loro spesa in consumi. I cambiamenti nell’attitudine alla spesa e nella composizione di questa sono fortemente determinati dalla fiducia nel futuro.
L’ignorance dei dati effettivi, quali le alternative possibili, le loro caratteristiche e i loro prezzi reali; essa è eliminabile solo con dispendio di energia e di danaro. A tale scopo si possono decidere “investimenti in informazione”, ma solo dopo aver capito (cosa non sempre semplice) quali sono i dati necessari non del tutto noti. “L’economia del consumo è piena di ammonizioni ai consumatori di smetterla di fare cose irrazionali, intendendo il trascurare i fatti concreti o il non usarli propriamente”.40 Cionondimeno la teoria economica dei mercati ha lungamente spiegato come essi possano avvicinarsi a posizioni di ottimo anche nell’ipotesi (tra le altre) che gli agenti siano informati.

Infine, ma certo non perché meno importante, la confusion, cioè quella mancanza di conoscenze economiche di base che affligge il consumatore medio riguardo ai dati che sarebbe per lui necessario conoscere e al loro utilizzo. La grande quaestio politica se il consumatore abbia bisogno di più dati concreti o di più protezione ruota intorno all’altra: il consumatore saprebbe usare i dati se li avesse? Che equivale a chiedersi: il consumatore non è da educare, piuttosto che da informare?
Un primo modo è stato quello di studiare la formazione di abitudini nelle famiglie postulando che le loro preferenze si basino sul consumo passato. Richard Stone fu tra i primi a supporre che il consumo passato possa influenzare in qualche modo il sistema di spesa delle famiglie. In seguito, tale idea viene nuovamente proposta da Houthakker e Taylor con “lo stock psicologico di abitudini”.41
In De gustibus non est disputandum Becker e Stigler propongono, una diecina di anni dopo, l’adozione di un nuovo strumento teorico, l’accumulazione di un “consumption capital”, che nella sostanza non è cosa molto diversa dalla formazione delle abitudini di consumo proposta da Stone.
42
Un passo ulteriore verso la costruzione di una teoria del consumo più vicina alla realtà viene compiuto con l’approccio delle preferenze interdipendenti.
Il postulato che le preferenze degli individui dipendano anche dal consumo degli altri è uno dei cardini della sociologia economica, poiché per essa il consumo è innanzitutto consumo di segni, di immagini, comunicazione. Thorstein Veblen nel 1899 analizzò il ”consumo opulento“ e lo “spreco opulento“ delle classi sociali più elevate, in quanto simboli di status sociale e strumenti di competizione diretta ad accrescere il prestigio individuale. Nel 1949 Duesemberry propose il consumo come segnale del livello relativo del reddito, cioè come segnale della posizione economica dell’individuo nella società.43

Ma l’analisi del consumo secondo il metodo delle preferenze interdipendenti creava agli economisti la difficoltà di dover delineare simultaneamente gli schemi di consumo dei soggetti: se i gusti di A dipendono da quelli di B e viceversa, i loro consumi di equilibrio devono essere determinati insieme.44 Attingendo al metodo della formazione delle abitudini, questo ostacolo è stato aggirato facendo dipendere le preferenze di A dal consumo passato di B e viceversa.

10. Prezzo, pubblicità, preferenze. La domanda spezzata


Dunque, stock psicologico di abitudini e/o accumularsi di un capitale di consumo: due possibili cause di formazione e di cambiamento dei gusti che oggettivamente tutti sperimentiamo nella nostra vita. Come anche il desiderio di emulazione che deriva dal nostro essere animali sociali. Ma più oggettivo e generalmente riconoscibile come causa endogena delle nostre scelte è da sempre il prezzo dei beni, oggi normalmente associato alla “preparazione pubblicitaria” del consumatore.
Il prezzo segnala la qualità dei beni e la capacità di spesa dei soggetti, è portatore di un messaggio che riguarda l’immagine del prodotto, cioè quel complesso di attributi e di valutazioni che sono il prodotto agli occhi del consumatore. In questa immagine sono comprese informazioni sulla struttura dell’impresa, sulle sue dimensioni e organizzazione distributiva, informazioni che vengono profuse in gran parte con la pubblicità.
Per questo, in assenza di pubblicità, la pura e semplice manovra del prezzo, così potente secondo una filosofia marshalliana del consumo, può creare un vuoto d’immagine ed evidenziare la mancanza di punti di riferimento per il consumatore.
L’area di scelta è limitata dal livello del reddito; quindi, dati i prezzi dei beni sui quali il consumatore non ha alcuna influenza45, egli può esercitare solo sulle quantità domandate la sua sovranità. Ma dovrà sottoporsi ad un trade-off tra i vari beni, dovrà, cioè rinunciare ad un bene a favore di un altro o di altri: per essere favorite in questo trade-off le imprese possono usare la pubblicità in alternativa alle manovre di prezzo, oppure congiuntamente ad esse.46

Si pensi ad un mercato oligopolistico nel quale imprese grandi e medie, che vendono a prezzi più elevati prodotti sostenuti da pubblicità (più o meno intensa a seconda del budget che ognuna di esse può e vuole destinare all’immagine), convivono con marche minori che non si appoggiano alla pubblicità. Queste generalmente offrono i loro prodotti a prezzi inferiori e la quota di mercato che esse coprono globalmente può essere elevata; ciascuna di esse però copre una quota trascurabile.
Per queste imprese il prezzo è la tipica forma di lotta contro le imprese rivali. Ma la rivalità non si pone nei confronti di quelle maggiori: la struttura dell’impresa (il volume di produzione e la capillarità di distribuzione) e l’immagine del prodotto (realizzata in larga misura dalle più grandi con la pubblicità) creano una dicotomia profonda tra le marche leader e le cosiddette “altre marche”, determinando una situazione in cui i due gruppi vivono in mondi diversi, senza rapporti, nemmeno di conflitto.

La concorrenza sul prezzo si esplica allora nei confronti delle imprese dello stesso ordine, cioè quelle sconosciute e di dimensioni minori: tutte infatti si rivolgono a quel segmento di pubblico che valuta il prodotto esclusivamente con riguardo al prezzo. Per questo tipo di consumatore il prezzo è cruciale per determinare la scelta del prodotto e la quantità di esso da domandare: un aumento puro e semplice del prezzo, non "comunicato”al pubblico, non “giustificato”, potrebbe avere conseguenze negative sulla domanda. I consumatori abituali di prodotti pubblicizzati non sono compresi in questo discorso poiché essi si rifiutano di acquistare beni privi di riferimenti cosiddetti “affettivi”.

Una comunicazione pubblicitaria, associata ad una manovra di prezzo, generalmente colma questo vuoto d’immagine, vincendo insicurezze, orientando e mantenendo orientate le preferenze dei vecchi e nuovi consumatori e allargando la quota di mercato dell’impresa che sceglie di uscire dall’anonimato.
Tra le imprese dei “gironi” superiori, le leader e quelle ad esse più vicine, il fattore competitivo pubblicità è invece considerato una buona alternativa alle manovre di prezzo: queste ultime infatti potrebbero scatenare una guerra tra le imprese, con effetti fortemente negativi nei rapporti fra esse e nell’opinione dei consumatori. Lo sforzo pubblicitario e promozionale in genere viene intensificato proprio in risposta alla eventuale diminuzione del prezzo di qualcuna delle rivali, nell’intento di affrettare sia il deteriorarsi dell’immagine del suo prodotto sia il rientro del suo eventuale aumento di domanda.

Il trattamento punitivo riservato all’impresa che non rispetta gli “accordi”, espliciti o impliciti, sul prezzo rinvia alla teoria della domanda ad angolo di Hall e Hitch.
La domanda che ogni singolo oligopolista stima di avere per il suo prodotto assume, secondo questa teoria47 la forma di una retta che “si spezza” in corrispondenza del prezzo corrente. Per valori del prezzo praticato da un’impresa superiori a quello corrente, cioè, la curva di domanda presenta valori dell’elasticità-prezzo molto elevati: le imprese rivali lasciano sola la temeraria che prende l’iniziativa ed essa vedrà diminuire sensibilmente la quantità domandata del suo prodotto. Per diminuzioni di prezzo, sempre rispetto al valore corrente di esso, l’elasticità della domanda dell’impresa è al contrario molto bassa, perché le sue rivali, imitandola, non le consentiranno di allargarsi nel mercato a loro spese.

Le imprese, dunque, eviteranno le manovre di prezzo per farsi concorrenza e preferiranno adottare misure di differenziazione del prodotto. Tra queste la pubblicità: si tratta di uno strumento di lotta meno aggressivo del prezzo e con effetti più diluiti nel tempo, dal momento che ci vuole tempo per promuovere e/o modificare le preferenze dei consumatori.
Anche durante le fasi depressive della domanda la pubblicità è per certi versi da preferire alla riduzione del prezzo per stimolare il consumatore all’acquisto. Innanzitutto perché di fronte ad un ribasso del prezzo è istintivo nel pubblico il pensare che prima esso fosse troppo alto: anche un prezzo ribassato consente alle imprese di realizzare il loro margine di profitto e viene improvvisamente “visualizzato” (senza alcuna simpatia) il surplus che in precedenza veniva estratto dalle tasche dei consumatori. Inoltre prende corpo l’ipotesi che possano verificarsi ulteriori ribassi e che aspettare possa rivelarsi conveniente.
La riduzione del prezzo, da sola, evoca uno stato di disagio del venditore, una sua disponibilità a trattare indotta da una situazione di difficoltà che fa riflettere il consumatore e gli toglie certezze riguardo alla qualità del prodotto e all’equità del prezzo.

Ecco perché la pubblicità si pone come valida alternativa alle manovre di prezzo nelle iniziative di stimolo della domanda. E comunque essa di frequente interagisce dinamicamente con il prezzo, fornendo ad esso un utilissimo supporto “affettivo” e di immagine di cui un certo consumatore ha grande bisogno. In tal modo, la curva di domanda può non “spezzarsi” e l’impresa che modifica il prezzo può reggere alle risposte punitive delle concorrenti.

11. La voce di J.K.Galbraith

La sconfitta della sovranità del consumatore e l’avvento della sovranità del produttore sono i temi più vigorosamente trattati dal Galbraith ne”La società opulenta” e ne “Il nuovo Stato Industriale”48.
Già negli anni ’50 e ’60, la denuncia di una realtà economica così in contrasto con le leggi teoriche insegnate nelle università faceva del Galbraith un autore scomodo, considerato ininfluente e ossessionato dal tema più trito della letteratura sociale moderna - il potere della pubblicità, appunto49. Ma nella misura in cui può determinare, o contribuire a determinare, una sovranità del produttore sul consumatore, tale potere è tutt’altro che trascurabile sia da un punto di vista teorico che etico.

Secondo l’Autore
50, in quasi tutti i settori industriali e per importanti classi di beni e servizi, le decisioni sono prese dai produttori nel perseguimento dei loro obiettivi. Il pubblico viene ammaestrato e comandato.
La stessa distinzione fra economia di mercato ed economia pianificata poggia sull’interrogativo se sia la scelta del produttore ad adeguarsi a quella del consumatore o viceversa. E’ evidente che quanto più è il produttore a rispondere alle esigenze espresse dal consumatore tanto più si tratta di un’economia di mercato. Ma se il produttore può stabilire i prezzi e poi persuadere, comandare, adattare la risposta del consumatore a questi prezzi, si tratta, dice il Galbraith, di un’economia pianificata.
Tre possono essere i modi in cui è possibile osservare le dinamiche di comportamento dei consumatori e dei produttori:
1) in modo neutrale si osserva il consumatore partecipare ad un processo di trasmissione al produttore, attraverso il mercato, di cambiamenti che si sono in lui generati
2) ancora in modo neutrale si osserva il produttore trasmettere al consumatore, sempre attraverso il mercato, qualche cambiamento (ad esempio, un’innovazione tecnologica ha modificato la funzione di produzione).
3) nell’osservare un processo di trasmissione dei cambiamenti attraverso il mercato, questa volta l’analisi si concentra sui cambiamenti che hanno origine nell’individuo, sia esso consumatore o produttore.

I primi due tipi di analisi sono compatibili con la teoria economica ancora prevalente, quella che si basa sull’ipotesi di una formazione per lo più spontanea di gusti e di preferenze:la struttura portante dello schema di preferenze dell’homo oeconomicus non può che essere innata ed eventuali suoi cambiamenti sono comunque l’espressione di una sua volontà e di una sua capacità di consumo critico.
Il terzo tipo di analisi introduce tra le ipotesi di partenza una questione cruciale: l’adattamento delle funzioni di costo del produttore ai cambiamenti trasmessi dal consumatore è di natura tecnica e neutrale; l’adattamento della funzione di domanda del consumatore ai cambiamenti del produttore è funzionale e morale.

Tra le forze esterne al mercato in grado di influenzare il consumatore alcune vengono dal produttore e dal processo produttivo (in grande misura tramite la pubblicità), a partire dalla generale enfasi pubblicitaria sui beni e sui loro significati competitivi ed emulativi fino a fare del consumo un fine in sé stesso, associandolo al successo nella vita. A questo scopo l’informazione è trasmessa nel mercato in modo imperfetto e nonostante ciò la teoria continua in vario modo a sostenere l’idea portante che è il sistema che si adatta a scelte individuali originali ed innate. Nel senso che tale adattamento potrebbe essere modificato o impedito solo nel modo in cui (per usare la stessa bella metafora dell’Autore) un corso d’acqua può essere deviato dagli alberi sugli argini o dalle pietre sul fondo.

In realtà, secondo il Galbraith, l’adattamento è quello di una parte significativa dell’economia al produttore. I produttori programmano e selezionano i prodotti che possono diventare oggetto di persuasione, ne stabiliscono i prezzi in funzione dei margini di profitto che intendono realizzare e proseguono persuadendo il consumatore a tenere un comportamento adeguato. Tutto questo in una società in cui il plauso costante ai beni materiali come portatori di felicità rende i consumatori, (capita anche ai più attenti e preparati di abbassare la guardia), ricettivi nei confronti di tutte le voci che riguardano tali beni.
E’ difficile negare la validità di queste affermazioni, oggi. Poteva forse essere più difficile negli anni ’50, quando la forza della industria pubblicitaria e il suo impiego erano senza dubbio meno prorompenti e invasivi. Ma in un mondo come quello attuale, in cui ingenti cifre vengono investite nelle comunicazioni pubblicitarie in televisione, alla radio, sui giornali e perfino sulle pareti delle case e sulle antiche mura delle nostre città, non si può che pensare che si tratti di strategie vincenti ( non solo e non tanto sul piano dell’informazione)
Se così non fosse che fine avrebbe fatto la razionalità?
Al contrario, tutto questo è fortemente razionale, anche le fascinosissime sirene.

 

RIFERIMENTI

[1] GIANFREDA G. Pubblicità e teorie economiche, Rubbettino ed. 1995, pag. 126
[2] ZANACCHI A.La Pubblicità, Lupetti, Milano 1999, pag. 13
“Vendere a tutti i costi, vendere il più possibile in una prospettiva temporale tutta rivolta al presente, caratterizza una lunga stagione di interventi dell’impresa sui mercati”. FABRIS G. Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, F.Angeli 2003, pag. 387. Ma l’assegnazione di una assoluta priorità alle vendite si rivela ormai miope, perché forzare all’acquisto in una prospettiva di breve periodo può pregiudicare il ripetersi dell’acquisto stesso. Per questo secondo il Fabris si è da tempo inaugurata la fase dell’orientamento dell’impresa al consumatore, incorporando nel prodotto quote crescenti di servizio e cercando di creare un rapporto con lui.
[3] In questo lavoro si fa riferimento alla ricerca Banca d’Italia, Sede di Ancona, Nucleo per la Ricerca Economica, 1998 e all’indagine UPA 1975-2001. Secondo quest’ultima gli investimenti pubblicitari in Italia negli anni che vanno dal 1975 al 2001 sono complessivamente ( cioè quelli su stampa, reti televisive, radio e cinema) passati da 394 miliardi a 6.045 miliardi di vecchie lire. Ma la realtà più recente è che, dopo due anni di crisi dei consumi e degli investimenti in pubblicità, ”Gli investimenti sono già tornati, i numeri parlano chiaro: a partire da maggio il mercato pubblicitario ha ricominciato a crescere. E la ripresa è reale, non solo in Italia: gli investimenti vengono infatti da quasi tutti i settori produttivi e coinvolgono tutti i mezzi di comunicazione e classici a cominciare dalla televisione” (in cui gli spot pubblicitari sono trainati da alimentari e telecomunicazioni).VERONESE L., La crisi della pubblicità è alle spalle, IL SOLE 24ORE del 4 novembre 2003, pag. 21.
[4] Galbraith (1958), Kaldor (1950), Comanor e Wilson(1975), Packard (1958) e altri.
[5] Sono numerosi i fattori che concorrono a rendere efficace o non efficace lo strumento pubblicitario. Si pensi aA????alla diversa natura dei beni e della loro domanda, all’esistenza di beni sostituti, al grado di monopolio del mercato, alle spese pubblicitarie sostenute nel passato.
[6] Stigler (1961), Nelson (1974), ed altri.
[7] ROTHENBURGH J., Consumer’s Sovereignty Revisited and the Hospitality of Freedom of Choice, A.E.R, May, 1962, pag.279. Rothenburgh sostiene che si verificano “cambiamenti endogeni nei gusti…. indotti da investimenti del produttore finalizzati a determinare quei cambiamenti” e che nonostante questo “molti insisterebbero nel dire che il consumatore è sovrano in ogni senso” .
[8] POLLAK R.A. Endogeneous Tastes in Demand and Welfare Analysis, American Economic Review, pag. 378
[9] Il bisogno come causa del consumo viene rapidamente sostituito dal desiderio, meno urgente, più dilazionabile. “..bisogna assumere come teorema fondamentale della psicologia dei consumi attuale il fatto che il rapporto con gli oggetti/beni/servizi di consumo è più chiaramente comprensibile a partire dalla logica del desiderio…” vedi SIRI G., La psiche del consumo, Milano, Angeli, 2001
[10] Naturalmente l’analisi non riguarda quella non trascurabile parte di umanità, i due terzi della popolazione mondiale, che è ben lontana dal disporre di un reddito anche solo di sopravvivenza, e riguardo alla quale ci sarebbe ben altro da dire.
[11] KRUGMAN P. Questa è “economia della paura”, Affari e Finanza, la REPUBBLICA, 8 ottobre 2001. Le proposte di Krugman per uscire dalla crisi della fiducia sono tuttavia quelle usuali della riduzione del costo del denaro e dell’aumento della spesa pubblica, nell’improbabile ipotesi che esse bastino a eliminare una sfiducia che trae la sua origine da fattori non economici.
[12] KATONA G. L’uomo consumatore, Milano Etas Kompass, 1964. L’enfasi sul primo dei due termini, ‘uomo’, viene posta dalla sociologia economica per mantenere al consumo la caratteristica di ‘agire sociale dotato di senso’ che si aggiunge al lavorare, al leggere, al pregare e non solo a quella di categoria economica.
[13] MORRA G. Il quarto uomo, Roma, Armando 1992. Secondo Morra i tipi antropologici che si susseguono nel corso della storia sono quattro, l’homo sapiens, l’homo religiosus, l’homo faber e l’homo ludens. Per Maffesoli, invece, all’homo oeconomicus seguirebbe l’homo aesheticus, cioè colui che usa il consumo come collante di nuove forme di socialità nell’intento di “epifanizzare” il reale. MAFFESOLI M. Le paradigme estetique, in Sociologia e Societés, vol 17, 1985
[14] SIRI G., La psiche del consumo , op. cit.
[15] Ad esempio, esiste lo "sciocco razionale" che si comporta in modo coerente, ma non persegue il proprio interesse in senso economico; egli non può per questo essere definito irrazionale in quanto le sue scelte derivano comunque dalla valutazione di un insieme di alternative scandagliate dalla ragione. E se il "ragionamento" fornisce motivazioni plausibili alla scelta, ciò è certamente il risultato di un profondo lavoro di sintesi tra la complessità dell'ambiente in cui il soggetto opera e la sua soggettiva elaborazione di dati e informazioni.Vedi SECONDULFO D. Ditelo con i fiori, Milano, F. Angeli ed., 1995.
[16] FABRIS G. Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, F. Angeli ed., Milano 2003 pag.50
[17] Ibidem. pagg. 51, 52.
[18] NELSON P., Advertising as Information, Journal of Political Economy, vol. 82, 1974, pag. 729.
[19] Quando si dice ‘informazione’ generalmente si allude all’insieme di notizie che riguardano la qualità di un bene, il suo prezzo, i contenuti, il sapore, l’odore, i valori nutrizionali, le possibilità d’impiego, le garanzie di sicurezza, le quantità disponibili, i punti vendita, i packaging, le ricerche in corso di attuazione su possibili alternative. Al riguardo vedi il lavoro di RESNICK A. e STERN B. An Analysis of Information Content in Television Advertising, Journal of Marketing, vol 1, Jan. 1977
[20] NELSON P. Information and Consumer Behavior, Journal of Political EcA????aonomy, vol. 78, n.2, 1970, pag. 312
[21] NELSON P. op. cit., pag. 730. E aggiunge l’autore : “La pubblicità dei beni ricerca fornisce informazione al consumatore, anche se egli attribuisce a questi messaggi pubblicitari una probabilità minore di uno di essere veritieri”. Anche nel caso in cui potrebbe convenire al venditore di esagerare alcune caratteristiche dei beni pubblicizzati, (l’esempio del Nelson è il fascino e la classe di un appartamento) il prezzo che dovrà pagare per questo sarà in termini di perdita di reputazione.
[22] ibidem
[23] Il Nelson sottolinea inoltre che conviene al venditore dire la verità non solo riguardo alle qualità di un bene, ma anche riguardo alla funzione di questo. Inutile e stupido assicurare che un prodotto efficace per il mal di stomaco lo sia anche per le contusioni e le distorsioni degli atleti. NELSON P.,1974 op. cit. pag.731
[24] Queste osservazioni valgono solo per il consumatore. I pubblicitari, al contrario, sono chiamati ad esprimere talento e vocazione nell’intuire e nel ”gestire” la psicologia dei destinatari delle loro creazioni e, in alcuni casi, della loro arte.
[25] Volendo, si potrebbe aggiungere che anche un vestito deve in certo modo essere consumato per essere valutato correttamente. Il “non sentircisi bene”, dopo, spesso vale più di quello che si può avere visto, toccato e vagheggiato prima, al momento dell’acquisto.
[26] NELSON P. op. cit .pag.735 Sono operanti tre processi degni di rilievo: 1) i consumatori acquisiscono informazione pubblicitaria , 2) essi entrano ed escono dal mercato, cioè sono mobili, 3) essi dimenticano l’informazione pubblicitaria ricevuta. Secondo Stigler gli ultimi due processi producono effetti identici sul mercato della pubblicità, a parte possibili differenze nella loro intensità. Secondo il Nelson invece la possibilità che il consumatore lasci il mercato è indipendente dal numero di messaggi pubblicitari arrivatigli, mentre la possibilità che dimentichi l’informazione ricevuta su una certa marca è direttamente proporzionale al numero di messaggi che gli sono pervenuti su di essa. Queste ipotesi hanno portato allo sviluppo di due modelli distinti, l’uno con l’analisi della mobilità e senza l’ipotesi della dimenticanza, l’altro con l’analisi della dimenticanza e senza l’ipotesi della mobilità. L’Autore si concentra su quest’ultimo che ritiene più importante ed interpretativo della realtà dei mercati pubblicitari.
[27] Il Nelson sostiene che per l’impresa il ricavo marginale della pubblicità per gli experience goods è superiore a quello dei beni search. La pubblicità dei primi è perciò quantitativamente molto maggiore di quella fatta per i secondi. Questo si intuisce anche dal fatto che la pubblicità experience è finalizzata a rafforzare la buona immagine e la credibilità del venditore, mentre quella search ha solo lo scopo di fornire informazione diretta su caratteristiche dei beni.
[28] KALDOR N., The Economic Aspects of Advertising, The Review of Economic Studies, 1950, vol XVIII, n. 45, pagg. 1-29
[29] Con i beni durevoli il consumatore è più difficilmente in grado, tramite l’esperienza del bene, di farsi da solo un’idea e di verificare la sincerità dei messaggi pubblicitari in modo utile per acquisti successivi. Per tali beni dunque non vale la tesi, in altri casi i parte valida, che tutto quello che di ragionevole ci si può aspettare dalla pubblicità è che essa convinca il consumatore a provare il prodotto, lasciando poi alla buona qualità di questo il compito di indurre il consumatore a ulteriori acquisti.
[30] KALDOR N., op. cit.
[31]
FABRIS G., op. cit. 419
[32] FABRIS G., op. cit., pag.422. Sono numerose le notizie che possono indurre o scoraggiare l’acquisto di un bene. Conoscerne la provenienza e gli elementi costitutivi, ad esempio, oppure le tecniche di produzione, di conservazione e i loro effetti sull’ambiente. Ad esempio, il consumatore non viene messo al corrente del fatto che acque minerali contenute in bottiglie di plastica stazionano in luoghi esposti alla luce, oppure se alimenti surgelati hanno subito interruzioni nella catena del freddo. Eppure sono informazioni di grande importanza per la sua salute che dovrebbero essergli fornite. Se ciò non avviene, come non avviene, è appunto perché l’informazione è strumentale agli interessi del venditore. Scrive Fabris nella prefazione:
” Ho dedicato gran parte della mia attività professionale e di ricerca, così come della mia produzione scientifica e dell’insegnamento, al mondo del consumo. Mi è capitato di lavorare fianco a fianco ad imprenditori e manager di grande valore da cui ho molto appreso. Che hanno rappresentato un costante polo dialettico – una sorta di principio di realtà – per l’elaborazione delle mie riflessioni”. Questa circostanza conferisce forza e realismo alle sue affermazioni.
[33] Una parte dei consumatori è certamente più consapevole oggi rispetto al passato, ma non si può ignorare né escludere che giovani, anziani, bambini e fasce di popolazione meno abbienti e meno istruite siano ancora inconsapevoli oggetti di creazione dei bisogni e di persuasione.
[34] Ad esempio, a proposito del settore alimentare scrive ancora Fabris:” Appare sorprendente constatare la rapidità dell’acculturazione in quest’area…e la pressante richiesta di informazioni al proposito. Che l’industria lesina o somministra a dosi omeopatiche. Eludendo di fatto questa domanda” FABRIS G. op. cit.
[35] Milton Friedman aveva al riguardo espresso il punto di vista dominante: “..la teoria economica procede considerando ampiamente dati i desideri. E’ innanzitutto un caso di divisione del lavoro. L’economista ha poco da dire sulla formazione dei gusti: questo è dominio dello psicologo. Compito dell’economista è delineare le implicazioni di ogni dato insieme di gusti.” FRIEDMAN M. Price Theory: A Provisional Text. Chicago, 1962, pag. 13.
[36] ”Come possiamo avere ricerca e teoria più realistiche riguardo al comportamento economico senza una esplosione di variabiA????ali o senza rifugiarci in un crasso empirismo? Un modo è partire dai metodi principali e più ovvi con i quali una semplice teoria unidimensionale di massimizzazione l’utilità non riesce ad interpretare la realtà”
MORGAN J.N. Multiple Motives, Group Decisions, Uncertainty, Ignorance and Confusion: A Realistic Economics of the Consumer Requires some Psychology, in Psychology and Economics, 1978, vol.68 n.2
[37] LANCASTER K., op. cit
[38] MORGAN J.N., op. cit.
[39] KATONA G. Psycologycal Economics, Amstrdam, 1975
[40] MORGAN J. N., op. cit. pag. 60
[41] STONE R. Linear Expenditure Systems and Demand Analysis: An Application to the Pattern of British Demand, Economic Journal, settembre 1954 e H.HOUTHAKKER and L. TAYLOR, Consumer demand in the United States: Analysis and Projection, Cambridge Mass. 1970
[42] STIGLER G. J. e BECKER G. S. De Gustibus non Est Disputandum, American Economic Review, Mar. 1977, pagg. 76-90. Gli Autori sostengono che la teoria economica debba evitare di esprimersi sulla formazione, i cambiamenti, le differenze nei gusti nel comodo tentativo di spiegare con essi ciò che non si riesce a spiegare in altro modo. Il consumption capital da essi proposto come esempio consiste nell’acquisizione di una maggiore propensione all’ascolto di buona musica quanto più si ascolta, e si è in passato ascoltata, buona musica.
[43] VEBLEN T. La teoria della classe agiata, Torino, Einaudi, 1981 e DUESEMBERRY J., Income, Saving and the Theory of Consumer Behavior, Cambridge, 1949
[44] Vedi POLLAK R., op. cit.
[45] Un caso a parte è quello in cui il prezzo dipende dalla quantità acquistata, come quando si può usufruire di sconti sul prezzo acquistando quantità maggiori del bene. Potrebbe trattarsi di un consumo meno passivo, ma rimane generalmente vero che la libertà d’azione del consumatore si esercita sulla quantità, unica sua variabile decisionale.
[46] VALENTINI G., PENATI L. La pubblicità, Franco Angeli editore, 1983
[47] HALL R.L., HITCH C. J., Price Theory and Business Behaviour, in “Oxford Studies in the Price Mechanism”, Oxford, 1951, pagg. 105-138
[48] GALBRAITH J. K. The Affluent Society, The Riverside Press, Cambridge, Massachussetts,1958; The New Industrial State, Houghton Mifflin Co., Boston 1967.
[49] GORDON S. The Close of the Galbraithian System, J.P.E. July-August 1968, pag. 642.
[50] GALBRAITH J. K., Economics as a System of Belief, American Economic Association, December 1969, pagg. 469-484.
LA CATTEDRA
Lezione della prof. GIORGIA BALLARANI
Docente di Istituzioni di Economia politica
presso l’università di Perugia

"Storiologia" ringrazia per l'articolo
(concesso gratuitamente)
il direttore Gianola di Storia in Network
 

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