POLITICA ECONOMIA

LA CATTEDRA DI "STORIA IN NETWORK"
per gentile concessione del direttore Franco Gianola

Lezione del prof. PAOLO M. DI STEFANO docente di Marketing nell'Università per stranieri di Perugia

TERRORISMO, GUERRA,
POLITICA E MARKETING

Sono convinto che poche siano le cose "sicure" attorno a questa guerra che minaccia di essere infinita, che è nata (anche) come reazione all'attentato dell'11 settembre 2001 per impedire che qualcosa di analogo e di più grave ancora si verificasse e che è nota come "seconda guerra irachena". Ed è su queste poche cose certe che andrebbe fondato ogni e qualsiasi ragionamento sugli eventi in corso, ma più ancora su quelli futuri. E' il mio tentativo, che condurrò servendomi degli strumenti professionali che mi sono propri. Gli strumenti di marketing, primo tra tutti quella "pianificazione" di cui tutti, soprattutto quanti di marketing poco o nulla sapendo, favoleggiano nelle imprese e, quasi peggior cosa, nelle Università e nei Master post universitari. Senza per questo escludere le istituzioni pubbliche di qualsivoglia livello. E intanto:

1. La guerra è in corso.

E' un fatto difficilmente contestabile, oggetto di analisi e di commento da parte di tutti coloro che in qualche modo hanno accesso ai mezzi di comunicazione, indipendentemente dalla preparazione, dalla cultura, dalla professionalità di ciascuno. In particolare, poiché alla guerra si guarda come ad un "risultato politico" o ad un "risultato della politica", sono coloro che passano o si fanno passare per "politici" che, in pratica, sembra abbiano il monopolio della comunicazione in merito, talvolta affiancati da giornalisti chissà perché promossi al rango di esperti. E naturalmente da una pletora di sociologi. Potenza della immagine! Comunque, nessuno delle centinaia di partecipanti ai talk show televisivi e nessuno di coloro che hanno riempito e riempiono le colonne dei nostri giornali e i tempi delle trasmissioni radio ha mai utilizzato, a proposito della guerra, il termine "prodotto".
Peccato, perché, se lo avessero fatto e ne avessero tratte le conseguenze, almeno una parte delle analisi svolte si sarebbe dimostrata più credibile e, forse, sarebbe scaturita qualche proposta affidabile. Soprattutto se ad esaminare la situazione fosse stato chiamato qualche professionista della gestione degli scambi: sì, proprio qualcuno di quegli "uomini di marketing" che sono, in Italia almeno, numerosi e invasivi come le erbe infestanti ma che, in alcuni casi, ancora troppo rari, ma esistenti, esercitano una professione della quale sanno anche utilizzare correttamente i mezzi. E allora, forse, si sarebbe non soltanto preso atto che la guerra è in corso, ma anche che essa è un prodotto dalle caratteristiche particolari, oggetto di uno scambio a sua volta particolare. E dunque un prodotto ed uno scambio che vanno gestiti secondo criteri propri, in qualche caso assolutamente peculiari. E si badi bene: ragionare in termini di "guerra in corso" non è esattamente la stessa cosa del farlo in termini di "guerriglia" e/o di "resistenza" a guerra finita. E' diverso trovarsi nella posizione del vincitore conclamato e riconosciuto - che non vuol necessariamente dire accettato- dall'essere, invece, costantemente in prima linea e lungo direttrici, per di più, sconosciute anche perché invisibili e in buona parte imprevedibili. Se di guerra si parla, ebbene: sarà il caso di tentare di esplorarne le caratteristiche anche da un punto di vista non usuale.

1.1. Il prodotto strumentale "guerra".

Coi tempi che corrono, è possibile scoprire una vena di sottile ironia nella accezione comune di "guerra", quella riportata dallo Zingarelli di "Situazione giuridica esistente tra Stati in cui ciascuno di essi può esercitare violenza contro il territorio, le persone e i beni dell'altro o degli altri Stati con l'osservanza delle norme di diritto internazionale". E' una buona definizione, assolutamente convenzionale e fondata su alcuni principi certamente condivisibili quali il sistema giuridico che ne è o ne dovrebbe essere alla base e le regole del gioco, a loro volta fissate da norme giuridiche dotate di sanzione. Come condivisibile è lo sforzo, visto che la guerra in sé pare assolutamente inevitabile, di regolamentarne almeno gli aspetti "meno umani", più primitivi.
Il problema sta, forse, nel fatto che non è difficile, oggi e per questa guerra, dubitare della forza cogente della normazione di guerra, del rispetto degli accordi e delle leggi internazionali e di quanto altro fa della guerra se non un comportamento civile certamente un fatto giuridico. Ma, come sempre, si tratta di accettare o meno una definizione convenzionale. E questa mi sembra più che accettabile.

Ciò detto, però, c'è da fare un passo avanti. E non è senza rilievo riscoprire e mettere in evidenza come la guerra sia innanzitutto un prodotto e, chiaramente, un prodotto destinato ad uno scambio; poi, che si tratta di un prodotto complesso e, infine, di una prodotto strumentale. E nella categoria dei prodotti strumentali, alla guerra può guardarsi come ad un prodotto la cui strumentalità è di primo livello, nel senso che "produce altri prodotti a loro volta strumentali". Significa che la sua funzione è quella di produrre - da sola oppure insieme ad altri prodotti strumentali- ulteriori diversi prodotti destinati, ciascuno, a soddisfare bisogni individuati e, ciascuno, a sua volta destinato ad essere oggetto di scambio.

E dunque la guerra come strumento va inserita in una vera e propria pianificazione di marketing la cui "causa" è stata individuata e descritta e al raggiungimento di questa lo strumento guerra è coerente. E così come in una qualsiasi "fabbrica" i macchinari, i materiali, le fonti di energia, le risorse occorrenti, il personale sono disposti in ordine secondo una "pianificazione della produzione" attenta e precisa, anche per lo strumento chiamato guerra deve essere pianificato un uso coerente agli altri strumenti e, assieme a questi, all'ottenimento del risultato finale. Dal che una conseguenza immediata: lo strumento guerra va utilizzato in costanza di chiarezza sugli obiettivi finali. Significa: io so a che cosa serve la guerra, cosa la guerra deve concorrere a produrre, entro quale tempo la produzione deve essere ultimata, con quali caratteristiche ed a quali costi.

Forse una situazione particolare deriva dalla non trascurabile circostanza che ai fini del destinatario ultimo - quindi, di colui che dovrà utilizzare i prodotti che la guerra ha contribuito a fabbricare - la vera rilevanza la possiede il prodotto finale, appunto. E' questo che deve soddisfare i bisogni "del mercato" ed è questo che deve essere acquistato. Dal che una immediata conseguenza: le caratteristiche del prodotto strumentale devono essere tali da concorrere a mettere sul mercato quei prodotti che il pubblico di riferimento si attende. E il pubblico di riferimento è alla ricerca della migliore soddisfazione possibile dei bisogni di cui è portatore, che ha in qualche modo avvertito e che deciderà se soddisfare o meno compiendo l'atto d'acquisto necessario per disporre del prodotto che gli viene offerto. Sapere a cosa serve la guerra significa, dunque, anche sapere cosa deve produrre e perché.

1.2. La guerra va "venduta".

E, anche, sapere chi sono i "clienti" - gli acquirenti- del prodotto strumentale guerra. Significa che ho individuato chi sono quei "produttori di altri prodotti" che possono e debbono utilizzare la guerra quale strumento per la produzione. Qui il problema nasce, forse, perché di solito accade che la guerra sia "venduta" quasi soltanto alle popolazioni "attrici", ai singoli componenti lo Stato o il gruppo sociale che si attiva. In altre parole, chi decide di far ricorso alla guerra si preoccupa, in genere, di "farla accettare" alla propria gente, vendendogliela con le argomentazioni più diverse, che vanno dalla affermazione della propria superiorità (di razza, di censo, di intelligenza) alla necessità oggettiva di ampliare il proprio territorio, all'opportunità di disporre di risorse altrimenti di difficile reperimento, alla volontà di Dio. I produttori di guerra più illuminati si preoccupano di argomentare anche nei confronti delle popolazioni contro le quali la guerra viene mossa. E così si cerca di convincere la nazione o lo stato aggredito che si tratta di una attività liberatrice da tirannie e miserie e cattiverie di ogni genere; che viene messo in atto uno strumento apportatore di civiltà, di giustizia e di cultura superiori; che Dio vuole che i rapporti tra i popoli abbiano un assetto diverso dall'attuale e che diversa sia la condizione umana.

Uno dei problemi che vengono in evidenza in questa fase di "vendita della guerra" e di "identificazione degli acquirenti utilizzatori" è quello costituito dall'essere - la struttura produttrice e distributrice della guerra - più simile ad una impresa product oriented che ad una marketing oriented. Avviene così che il "prodotto guerra" viene strutturato in tutte le sue componenti a prescindere dai bisogni e dagli interessi dell'altra parte; la sua costruzione è determinata sulla base quasi esclusivamente degli atteggiamenti, dei bisogni, delle motivazioni, degli interessi del produttore. Questo comporta difficoltà di non poco conto quando si tratta di "spingere all'atto di acquisto", di fare accettare il prodotto in modo che questo possa dar vita ai prodotti per i quali è stato predisposto. Che è esattamente quanto sembra sia accaduto e stia accadendo per il popolo iracheno e per il medio oriente in generale: le argomentazioni di vendita utilizzate dagli americani si dimostrano in buona parte inefficaci e comunque deboli.

Forse, questo è il risultato di analisi sui reali bisogni e sui desideri delle popolazioni interessate condotta in modo non approfondito (il dubbio è che non sia stata condotta affatto, che si siano dati per scontati valori e desideri e comportamenti tutti da accertare) e non si sono verificati preventivamente gli effetti dei prodotti generati dalla guerra stessa, e neppure l'atteggiamento dei fruitori nei loro confronti. In buona sostanza, non sono stati accertati i bisogni e le motivazioni che avrebbero dovuto spingere gli iracheni ad accogliere i militari americani come portatori di strumenti di produzione di utilità. Tutto questo - se si aggiunge la circostanza che anche verso i potenziali co-produttori di guerra sembra esserci stata una carenza di approfondimento dei bisogni, delle motivazioni e degli interessi di cui erano e sono portatori - ha portato non soltanto ad una grande difficoltà "di vendita" ma anche ad una reazione che ha colto gli americani e gli inglesi quasi di sprovvista e che, sul piano pratico, al momento in cui scrivo ha provocato quattrocento quattordici vittime tra i soldati americani, attentati vari e un numero non a me noto di vittime tra i civili. Ed alla saldatura tra le organizzazioni terroristiche in tutto il mondo ed a quello che sostanzialmente si rivela come un ampliamento del fronte. Con buona pace delle "argomentazioni di vendita" comunicate con tutti i mezzi prima, durante e dopo l'attacco.

1.3. La guerra va comunicata

Quelle argomentazioni di vendita che i responsabili della gestione ritengono più efficaci vengono a loro volta prodotte e distribuite (comunicate, rese apprensibili) nei modi e attraverso i mezzi reputati più e meglio adatti a convincere. E questa attività di comunicazione quasi sempre è pianificata ed attuata con estrema attenzione, anche distinguendo tra le diverse categorie che la compongono. E si ricorre dunque a programmi di formazione di base; a corsi di specializzazione; a sedute di aggiornamento; a forme di animazione e di promozione..E ad attività di vendita di prodotti a questa in qualche modo collegati. Il tutto, ovviamente, al fine di "far accettare" lo strumento guerra, sempre mettendone in ombra gli aspetti drammatici e, sempre, esaltandone quelli ludici o comunque premianti. Fino a creare prodotti a mio parere assolutamente aberranti. La "guerra santa" o la "guerra di religione" ne è un esempio. Ma non lo sono di meno quei prodotti che scaturiscono dalla comunicazione e dalla formazione all'eroismo, al sacrificio della vita per la causa, o dalla certezza di guadagnare un premio valido per l'eternità, sia esso costituito dalla gloria oppure da un numero a me ignoto di vergini a disposizione in una vita che si svolge in un aldilà dalla collocazione non esattamente individuabile, ma dall'esistenza certa.

E dal momento che le argomentazioni di vendita sono un prodotto, occorre identificare la natura del bisogno che sta alla base, le motivazioni che lo strutturano e strutturano la decisione di acquisto, gli interessi che ne scaturiscono affinché si possano elaborare argomentazioni convincenti e, dunque, efficaci. E occorre anche non dimenticare che le argomentazioni di vendita, così come le argomentazioni pubblicitarie, devono trovare il massimo possibile del riscontro nella natura del prodotto oggetto della comunicazione. E forse, sarebbe bene anche ricordare che gli appelli pubblicitari non sono messaggi assolutamente diversi dalle argomentazioni di vendita. Al contrario, ne fanno parte integrante e sono chiamati a svolgere effetti sinergici con queste. La vera differenza sta nel mezzo usato e nella diversità di linguaggio che ne deriva.

1.4. Lo scambio va controllato

La guerra è in corso e, dal punto di vista di un qualsiasi uomo di marketing gestore di un qualsiasi scambio in un qualsiasi mercato per un qualsivoglia prodotto, significa che "il prodotto è sul mercato", che è comunque oggetto di uno scambio, che questo scambio si svolge con modalità che sono sotto gli occhi di tutti e i suoi effetti sono attuali. Il problema è sempre quello di controllare che quanto avviene accada in coerenza agli obiettivi della pianificazione di gestione. Gli effetti di una qualsiasi attività di scambio hanno sostanzialmente due possibilità: essere quelli previsti oppure non esserlo in tutto o in parte. Ovviamente nell'ipotesi che la pianificazione di gestione sia stata corretta, se gli effetti sono quelli voluti, nulla quaestio.
Se, invece, in tutto o in parte se ne discostano, allora significa che bisogna correre ai ripari, che qualcosa non sta andando per il verso giusto, che occorre riportare lo scambio in atto entro i confini dello scambio previsto e pianificato. E nel caso in argomento a me pare che sia assolutamente imprescindibile un'attenta attività di controllo della gestione dello scambio in atto e l'identificazione e l'attuazione delle azioni opportune per ottenere gli effetti previsti, voluti e programmati quando il prodotto è stato "ideato".
Questo significa che la prima cosa da fare è verificare se il piano di gestione (il piano di marketing) è stato correttamente elaborato a suo tempo in tutte le sue componenti. E, in particolare, se siano stati correttamente disegnati lo scenario attuale (quello, per intenderci che descrive la situazione di partenza) e lo scenario finale: quello che descrive la situazione prevista e in vista della quale tutto è stato predisposto e messo in atto. Che sono, poi, scenario attuale e scenario finale, i punti estremi della pianificazione la quale, partendo da una realtà conosciuta e da una ipotesi confidente, ha costruito un prodotto per uno scambio profittevole in un mondo e in un momento comunque diversi.

2. Guerra e pianificazione di marketing

Ho affermato che avrei cercato di analizzare per quanto possibile la guerra in Iraq utilizzando gli strumenti che meglio conosco. E dunque, quelli relativi alla gestione degli scambi. E mi sembra che tra le poche cose certe di questa vicenda una sia incontestabile: la guerra è oggetto di pianificazione, di programmazione e dunque di identificazione degli obiettivi, di reperimento e di ordinamento delle risorse, di indicazione ed uso degli strumenti e dei mezzi necessari per il raggiungimento degli obiettivi, di predisposizione dei sistemi di controllo delle azioni. La guerra è oggetto di un vero e proprio piano di marketing. E l'oggetto del piano di marketing non è costituito solo dalle attività di comunicazione (pubblicitaria) e da quelle per qualche verso promozionali, oltre che di ricerca e di analisi dei mercati.

Così la pensavano i "grandi vecchi", i quali molto hanno dato alla cultura di marketing ma che sono stati ampiamente superati, come accade in tutte le discipline. E così la pensavano e la pensano gli italiani che, a tutti i livelli, dicono di "fare marketing". In questo caso, sopra tutto perché si sono limitati a copiare, senza neppure preoccuparsi di capirli, gli assunti americani. L'oggetto della attività e quindi della pianificazione di marketing è costituito da tutto lo scambio e, quando si abbia a riferimento il prodotto che dello scambio é oggetto, da tutti gli elementi essenziali che un prodotto destinato allo scambio deve avere.

La qualifica di "prodotto" in senso fisico, materiale, concreto e, per i servizi, la immaterialità, e la capacità di soddisfazione dei bisogni di riferimento; l'essere conosciuto quale prodotto in grado di soddisfare quel bisogno, e quindi di realizzare utilità; l'essere apprensibile, e quindi in grado di entrare nella materiale disponibilità del portatore del bisogno sono le tre condizioni di base, essenziali e sufficienti, perché di prodotto destinato allo scambio possa parlarsi. Ad esse corrispondono i mondi della produzione, della comunicazione e della distribuzione, i quali tutti e per intero entrano a far parte di quella pianificazione di marketing che null'altro è se non la pianificazione della gestione dello scambio di riferimento. E non esiste piano di marketing che non prenda le mosse da una approfondita conoscenza della situazione attuale.

2.1. Lo scenario attuale e quello futuro

E' forse opportuna una premessa. La pianificazione di gestione (di marketing) si fonda su alcuni, pochi principi di una chiarezza esemplare. Il disegno dello scenario attuale è tra questi. E ne è il primo almeno in ordine temporale, ma anche in ordine logico, perché su di esso si fonda o dovrebbe basarsi ogni e qualsiasi decisione in ordine al prodotto ed allo scambio di cui questo è oggetto o, se si preferisce, in ordine allo scambio che si intende attuare ed al prodotto meglio adatto ad esserne oggetto. E spero sia chiaro che non è esattamente la stessa cosa.

Nel primo caso, protagonista è il prodotto e dunque è più probabile che nel prodotto in quanto risultato di attività produttiva e oggetto di scambio si ritrovi la maggior parte dei vincoli e delle opportunità. Nel secondo caso è lo scambio a disegnare opportunità e vincoli e quindi a determinare la struttura stessa del prodotto che deve o dovrà esserne oggetto. E tutto questo influisce, ovviamente, sulle decisioni di oggi e più ancora su quelle di domani. E sui costi, anche. E la stessa cosa è a dirsi dello scenario futuro, il cui disegno è a sua volta assolutamente necessario. Perché ci dice "dove" ci troveremo ad operare; quali saranno le caratteristiche del mercato e, dunque, che cosa dovremo fare e come. E c'è un particolare non trascurabile: disegnare lo scenario futuro serve anche a prevedere gli effetti delle nostre azioni attuali. E più ambiziose e strutturate sono le azioni di oggi, più importante e approfondita deve essere la previsione dei loro effetti in un mondo futuro che per la gran parte si struttura in modo indipendentemente da noi e dalle nostri azioni, ma che da questo è comunque in qualche modo influenzato, modificato, adattato.

Un'impresa che non riesce a conoscere l'ambiente che dovrà accoglierla (o che lo conosce soltanto approssimativamente) è un'impresa che non programma oppure che programma male e solo parzialmente il proprio futuro; che non immagina se stessa in quel futuro e che, dunque, nella migliore delle ipotesi "subirà" il mercato. E la sua vita sarà a un tempo difficile e costosa. E una cosa ancora: disegnare lo scenario attuale costituisce uno dei metri di valutazione della attività di un qualsiasi responsabile di una qualsiasi impresa. Ma anche di un qualsiasi impiegato ed operaio, ed anche di qualsiasi ufficio, servizio, direzione indipendentemente dalla natura privata o pubblica della struttura. Nella mia lunga vita di dirigente di impresa (privata) e di consulente di gestione (anche di strutture pubbliche) ho quasi sempre visto i responsabili dei sistemi informativi e delle ricerche di marketing adeguarsi alle richieste del "capo" e fare questo addirittura modificando le informazioni e i dati provenienti dal mercato per trasformare un insuccesso o un trend negativo in un successo o in un trend positivo. Il che, tra l'altro, dovrebbe insegnare più di qualcosa anche in merito ai reali obiettivi di un'azione.

Ciò detto, a me sembra che quel "disegno dello scenario attuale" che di ogni pianificazione di marketing è base e punto di partenza, nel caso di questa guerra sia stato malamente attuato. Come accade purtroppo spesso in molte imprese, lo "scenario attuale" sembra essere stato disegnato più che per avere il quadro oggettivo di una situazione, per compiacere l'Alto Dirigente di turno. E così, Saddam Hussein - certamente un bieco dittatore; certamente uomo senza scrupoli; certamente tutto meno che rispettoso dei diritti umani; certamente satrapo folle; certamente. tutto quello che volete - è stato anche presentato al mondo come il detentore e l'imminente utilizzatore di armi terribili. E il suo Paese come ricettacolo di terroristi in atto e potenziali. E dunque come una minaccia "attuale" da sventare quanto prima. Pena, milioni di morti e il crollo di una civiltà. La nostra.

Con un piccolo particolare: che non era vero. Ma con una caratteristica importante: si trattava di un'informazione capace quasi da sola di coagulare attorno alla "guerra preventiva" un consenso abbastanza vasto perché si potesse affermare che "il popolo" voleva che l'Iraq fosse liberato da una dittatura che, oltre a minacciare il mondo occidentale, umiliava la civiltà di un Paese che della civiltà è stato culla. E i sacrifici che un intervento armato impone sarebbero stati ampiamente ripagati in termini così di immagine come di sicurezza. E il Capo di una Nazione che vuole la guerra per la propria sicurezza e per una duratura pace futura non può non obbedire, non può non rispondere alle aspettative di un popolo che lo ha eletto proprio per essere da lui tutelato, difeso, migliorato, proiettato verso un luminoso futuro. Un futuro migliore per tutti. Sopra tutto, nell'immediato, un futuro di gloria per un Presidente che, forse, è costretto a mettere in prima linea la difesa di interessi che più che alla Nazione sono riferibili ad un gruppo di personaggi ben più limitato e più che basati su valori universali, si fondano sul valore del petrolio e dei suoi derivati.
E sulla necessità di moltiplicare gli affari dei produttori di armi. E sulle opportunità offerte da una ricostruzione che le bombe intelligenti e i missili intelligenti e le altre armi intelligenti hanno intelligentemente creato. E crearsi le opportunità e cogliere le opportunità ravvisate sono comandamenti primi del codice di comportamento degli imprenditori e delle imprese. E tutto questo la dice lunga anche in termini di "comunicazione" e di "gestione dello scambio avente per oggetto la comunicazione".

Ma su questo tornerò, non senza aver qui ricordato che un quadro errato della situazione attuale probabilmente genera informazioni errate (e questo è accaduto), ma che informazioni non corrette possono essere fabbricate e distribuite anche in perfetta malafede. E anche questo è accaduto. Sempre per un futuro migliore. Ma forse è da aggiungere che al momento in cui lo scenario attuale doveva essere disegnato ci si è dimenticati di dare il giusto valore alla nuova concezione della guerra. Non più un fenomeno triste, doloroso, pesante, distruttivo ma in qualche modo soggetto a regole, per quanto precarie. Un evento, invece, ormai senza alcuna regola, di nessun tipo. E non è a dire che la cosa non potesse essere prevista. L'attentato alle torri gemelle (ma non solo) è stato un segnale preciso: pur di colpirvi e distruggervi, ogni mezzo è lecito, ogni momento è opportuno. E tra le armi possibili, se voi avete le testate nucleari e i missili e le bombe atomiche, noi disponiamo di eroi disposti a sacrificare con certezza la propria vita, pur di colpirvi e di contribuire alla vittoria finale.

Un messaggio terribile con questo in più: la consapevolezza che le armi atomiche non possono essere utilizzate se non a costi altissimi e con effetti assolutamente inimmaginabili per l'intero pianeta, fino al rischio della distruzione totale. Il kamikaze, invece, uccide, distrugge, muore, ma garantisce la sopravvivenza della propria gente, della parte per la quale combatte. E sono, questi, alcuni degli elementi che distinguono anche quello "scenario di oggi" che va accuratamente disegnato se vogliamo porre riparo alle carenze che la pianificazione di gestione di questa guerra ha palesato. Oggi la situazione sembra essere descritta almeno dai punti che seguono, l'indicazione dei quali, ovviamente, non ha alcuna pretesa di completezza ma la cui conoscenza a mio parere può portare ad iniziare un processo di individuazione delle azioni di correzione alle falle che quel piano di marketing di cui mi sto occupando ha denunziato.
  • La popolazione irachena ha dimostrato di non essere particolarmente interessata al tipo di democrazia occidentale e ai principi fondamentali della nostra cultura. Io non so in quale misura nella realtà ci si aspettasse che il nostro tipo di democrazia e la nostra visione del diritto potessero essere esportati ed accettati da parte degli iracheni. So soltanto che qualcuno se lo aspettava e che questo "portare la democrazia e la libertà dalla dittatura" ha costituito una delle argomentazioni di vendita principali, utilizzate sia verso gli americani a richiesta del consenso alla guerra, sia verso gli irakeni, a garanzia dell'amicizia futura.

    Questo mi ha ricordato anni lontani e gli sforzi fatti per esportare il panettone in un Paese del nord Europa. La filosofia del non mai abbastanza lodato direttore generale dell'epoca era che se quel popolo non mangiava il panettone voleva dire che non sapeva cosa volesse dire mangiare. Che non era certamente l'atteggiamento corretto per entrare in un mercato, ma "il potere" la pensava così. E pensava anche qualcosa circa la sacralità del panettone, ricetta immodificabile. Tutto giusto, solo che, al tempo, mentre il panettone rimaneva tristemente sulla soglia, un'altra "levata", questa volta monodose, si vendeva molto bene in un Paese confinante solo perché si era riusciti a modificarne leggermente il gusto.

    Ma forse è questo il momento per un'altra considerazione. Questa: a noi occidentali sembra particolarmente piacevole e culturalmente appagante affermare che "agli iracheni il nostro concetto di democrazia è estraneo", come estraneo sarebbe quello di Stato di diritto.
    Può darsi sia vero, ma non sarebbe fuori luogo farsi venire un dubbio. Gli iracheni - e con loro tutti i popoli dalle caratteristiche simili- sembrano conoscere perfettamente le caratteristiche fondamentali della nostra cultura e della nostra pratica in merito allo Stato, alle sue forme, ai governi, alla politica, ai diritti umani e a quanto altro ci distingue.
    Tanto bene le conoscono, che le utilizzano anche per difendere i propri diritti e per affermare i propri principi. Ed anche per mantenere vive cellule di arruolamento di kamikaze e di attentatori nei Paesi che arabi e mussulmani non sono e non si sognano di essere e per reclutare adepti e per finanziare gruppi e iniziative. Vuol dire che le nostre strutture sono utilizzate al meglio e dunque conosciute a fondo. E allora, come si fa a sostenere che sono "estranee" alla cultura di quelle popolazioni? Non sarebbe più facile e più vero ritenere che, quanto meno, vengono utilizzate per scopi particolari e sono mantenute lontane dalla cultura popolare perché sull'ignoranza del popolo si basa una buona parte del potere degli oligarchi? Che è anche questa un'affermazione discutibile, in piena globalizzazione, ma è ciò non ostante possibile. Io posso solo ricordare, a questo proposito, come noi italiani siamo andati nell'ex Unione Sovietica convinti che i principi del nostro tipo di economia fossero ignoti, che "i russi" nulla sapessero di mercato e che, di conseguenza, la conquista economica da parte nostra sarebbe stata facilissima. Ricordo gli sguardi di commiserazione che mi venivano rivolti quando - forte della mia esperienza di primo italiano ad aver tenuto a Mosca corsi di marketing - mettevo in guardia contro questa facile e per me errata analisi, dal momento che tutti coloro che avevano partecipato al mio corso avevano dimostrato di conoscere a fondo, molto meglio di qualsiasi italiano, quei principi e quella pratica.
  • quella parte del popolo iracheno che si opponeva (si oppone?) a Saddam ha dimostrato di considerare l'intervento occidentale puramente strumentale ad un cambio di gruppo di potere, ma nulla di più. Sembra ci si accorga solo oggi di una realtà tribale che governa tutta la struttura del Paese e che da sempre determina la conquista e la gestione del potere in Iraq. Se così è - se, cioè, la cosa fu ignorata o sottovalutata al momento di decidere l'attacco a Saddam Hussein - significa che lo scenario iniziale era stato disegnato malamente, almeno per quanto riguarda la struttura sociale e le sue motivazioni. Se, invece, così non è stato, significa che l'impatto culturale, della tradizione, delle abitudini è stato sottovalutato. In ogni caso, l'eventuale appoggio a Saddam, unitamente alle resistenze alla presenza di truppe straniere nel Paese, non erano fatti da sottovalutarsi, allora come adesso. E allo stato delle cose, contare sull'appoggio della popolazione costituisce, a mio parere, una forma di ottimismo che potrebbe rivelarsi pericolosa.
  • Saddam Hussein ha dimostrato di essere in grado di modificare radicalmente il modo di condurre la guerra, di saper attendere, di poter contare su armi a sufficienza e sull'azione di fedelissimi di cui si ignora il numero. A me pare che dallo scenario di guerra previsto dalla coalizione fosse assente proprio la possibilità che Saddam Hussein non soltanto riuscisse a dileguarsi ma, anche, che scegliesse di continuare la guerra su di un terreno a lui più favorevole. E sì che l'esempio di Ben Laden avrebbe dovuto fare scuola! E poi c'è chi sostiene che la storia insegna qualcosa. Vuol dire che, non ostante la costante attenzione a Saddam da parte degli USA, le capacità del dittatore non erano conosciute a fondo. Vuol dire che lo si è sottovalutato come capo di Stato e, peggior cosa!, come stratega. Che per degli analisti e degli strateghi di professione non è poco.
  • quello che noi chiamiamo genericamente "terrorismo" ha dimostrato di essere pronto a cogliere le opportunità offerte da un maggior coordinamento delle azioni e dalle possibilità offerte da una immagine di "terrorismo globale" in grado di intaccare profondamente le sicurezze dell'occidente. Forse l'abitudine di guardare ai terroristi "di casa" non ha aiutato gli analisti ad andare oltre i confini ed a prefigurare un terrorismo che in qualche modo coordinasse le azioni nei diversi Paesi, sopra tutto forte di una causa comune la cui presenza in qualche modo potrebbe renderne l'azione meno odiosa. E rafforzato, anche, da una nuova comunione di interessi con i gruppi di Ben Laden i quali, avendo in fondo l'obiettivo di minare dalle fondamenta il mondo occidentale, hanno tutto l'interesse a che i gruppi terroristici dei singoli Paesi aumentino il numero e la pericolosità delle proprie azioni.
  • l'arrivo in Iraq di attentatori, kamikaze, gruppi terroristici da tutti i paesi del medio oriente ha dimostrato che l'eventuale intervento "culturale" va pianificato con metodologie e su scala assolutamente diversi da quelle previste. La guerra in Iraq - e, a ben guardare, anche quella afgana - si svolge lungo il sottilissimo confine con la guerra di religione. Con qualche probabilità, anche questa caratteristica non è stata analizzata con il dovuto approfondimento. La "nazione araba" non sembra avere come valori fondamentali la Patria, lo Stato, il proprio Paese. Non in misura maggiore, quanto meno, di quello costituito dai valori tribali e da quelli della religione. La cosa rende estremamente facile il passaggio dal concetto di "guerra laica" a quello di guerra di religione o, comunque, di guerra santa. E in questo ambito il sacrificio personale diviene un accostarsi a Dio senza prezzo, una felicità del sacrificio, la certezza del premio in una vita futura che senza dubbio sarà enormemente migliore di quella attuale. Sopra tutto per coloro la cui vita terrena è dominata dalla precarietà più miserevole.
  • La questione palestinese è stata riportata al centro dell'attenzione - peraltro mai abbandonato - con forza moltiplicata, capace di coagulare più ancora di quanto non sia accaduto fino ad ora gli interessi e le forze degli oppositori ad Israele. Gli attentati alle due sinagoghe di Istanbul stanno a dimostrare come per il mondo arabo la questione dei rapporti tra lo Stato di Israele e i Palestinesi sia una questione assolutamente imprescindibile e costituisca un'ottima ragione di lotta. Con tutti i mezzi. Si potrà sostenere, a ragione, che non c'era alcun bisogno di questa ulteriore prova: tutti al mondo sappiamo che finché la questione non sarà stata risolta non avremo, nessuno, né pace né sicurezza. E avrebbero dovuto saperlo anche gli analisti della situazione attuale al momento della decisione della guerra in Iraq. E lo sapevano, solo che anche in questo caso è possibile pensare che si sia verificata una sottovalutazione. Oppure ( o anche) che interessi diversi abbiano sconsigliato una azione decisa verso Israele perché aiutasse a spegnere il focolaio di guerra.
  • l'immagine di Israele nel mondo sembra, a sua volta, precipitare. Il sondaggio europeo che vede lo Stato di Israele in testa tra gli Stati ritenuti pericolosi per la pace nel mondo dovrebbe fare riflettere, indipendentemente dal modo con il quale la ricerca è stata condotta e dalle opinioni in proposito. Forse il dare maggiore attenzione alla differenza tra religione ebraica e Stato di Israele avrebbe aiutato a trarre conclusioni importanti sul piano del disinnesco di una bomba assolutamente pericolosa. Gli Ebrei a me sembra siano al momento assolutamente mal rappresentati da uno Stato la cui immagine, anche con la costruzione del muro, non è certamente in via di miglioramento. E, sempre a mio parere, non mi sembra si possa sostenere che Israele e i suoi governanti facciano il possibile per migliorarla, questa immagine. Alla quale, peraltro, non giova l'appoggio preconcetto di una buona parte degli ebrei. Se Israele per qualche verso sbaglia, sono proprio gli Ebrei, quelli veri, quelli credenti, quelli che si pongono come onesti cittadini dei diversi Paesi del mondo e che tutto il mondo deve rispettare e accettare e difendere che dovrebbero segnalare l'errore e correggerlo. E il primo di questi errori è a mio avviso costituito proprio dal chiamare a raccolta i credenti non a difesa della fede, ma di uno Stato la cui immagine tende a con fondersi con l'arroganza e il cui senso della giustizia con la vendetta. E, forse, il secondo errore è affidare questa difesa a personaggi la cui immagine è spesso ai confini della faziosità.
  • la gestione dei pozzi di petrolio iracheni non sembra essere al momento oggetto di pensieri particolarmente approfonditi. Mi ha colpito - ma l'informazione può essere distorta o totalmente errata - la circostanza che in Afganistan così come in Iraq non sembra siano stati danneggiati i centri di produzione e di smistamento e distribuzione della droga. Non mi stupirei se qualcuno sostenesse che così è stato non soltanto per non colpire interessi occidentali non confessabili ma esistenti e forti, ma sopra tutto per consentire alle popolazioni di sopravvivere producendo una qualsiasi delle centinaia di droghe di cui il nostro mondo civile e colto fa uso sempre più frequente ed indiscriminato. Ma più ancora mi ha fatto pensare come il destino di questi popoli sia determinato dalla presenza del petrolio. Una ricchezza che è innanzitutto di loro proprietà. Noi occidentali possiamo avere dodicimila ragioni diverse per giustificare l'attuale e la trascorsa politica nei confronti di questa materia prima, ma tant'è: il petrolio sembra essere una buona ragione per fare una guerra. E se lo è, lo è anche da parte degli iracheni. Forse, dallo scenario che ha determinato la decisione di andare in Iraq il petrolio non è stato assente. Ma, forse, nessuno ha pensato che in questo settore lo scenario denunzia una situazione pericolosa.
  • delle azioni possibili da affidare all'ONU si parla, ma con più di qualche indecisione. Credo che quello scenario iniziale di cui mi sto occupando in una cosa certamente non abbia sbagliato: nell'indicare la debolezza, l'inconsistenza, la impossibilità di intervento da parte della Organizzazione delle Nazioni Unite. La questione Iraq avrebbe potuto essere risolta in modo soddisfacente da un intervento dell'ONU, se gli interventi dell'ONU avessero avuto e avessero una minima probabilità di esser cogenti, oltre che convincenti. E non la hanno, questa possibilità, in fondo per la stessa ragione per la quale l'Europa non riesce ad essere fattivamente e concretamente presente sullo scenario mondiale: la cessione di esercizio della sovranità all'ONU così come all'Europa sembra non essere stata presa nemmeno in considerazione. O, se lo è stato, si è trattato di qualcosa di troppo debole, di troppo fumoso, di trotto rimandato nel tempo.
  • la coalizione sembra incapace di concludere veramente questa guerra ed anche di chiamare a raccolta attorno a sé il consenso attivo del resto del mondo. Ripeto: non sono un esperto di questioni militari. Ma un dubbio posso averlo. Questo: le guerre così come le conosciamo e le definiamo vanno combattute fino in fondo, fino alla vittoria finale che dovrebbe consistere nella fine di ogni e qualsiasi resistenza armata. La "causa immediata" della guerra, di ogni guerra, è la vittoria. E la vittoria ha, come effetto primo, la cessazione di ogni ostilità. Lo scenario attuale vede una coalizione che sembra aver lasciato le cose a metà. Forse nella fretta di non perdere il consenso dei cittadini americani e inglesi, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato "finita" la guerra in un momento sbagliato. Prematuro. E sopra tutto in assenza di vittoria.

In estrema sintesi, confrontando lo scenario attuale con quello che, al momento della decisione di scendere in campo contro Saddam era il "disegno dello scenario futuro" mi sembra di poter affermare che quest'ultimo, se è stato attuato, lo è stato molto malamente. Ma è forse più probabile che non sia stato neppure tentato. La qual cosa potrà forse stupire ("gli americani sono gli inventori delle previsioni; "gli americani sono gli inventori del marketing"; "gli americani sono i più attenti analisti dei mercati".. sono soltanto alcune delle affermazioni apodittiche alle quali noi siamo abituati a credere e alla quali ci inchiniamo senza avvertire neppure l'ombra di un dubbio..) ma non più che tanto. In più di un caso la sicurezza che diviene sicumera; la superiorità tecnica che genera arroganza; gli interessi personali e particolari che prevaricano quelli generali hanno consigliato ai responsabili di "dare per scontata" la propria situazione di superiorità e, quindi, di non occuparsene più che tanto.

"Siccome noi siamo meglio armati e la nostra è una civiltà superiore, il vero e solo problema è costituito dal vincere la guerra nel più breve tempo possibile e al minor costo per noi. Tutto il resto è ovvio. Siamo superiori in armamenti, in ricchezza e in civiltà e dunque i vinti non potranno che adeguarsi. In modo automatico. Lo scenario futuro è di conseguenza il seguente: la nostra democrazia, il nostro stato di diritto, il nostro sistema economico e sociale diverranno il sistema di governo, la forma dello Stato, il sistema economico e sociale, dell'Iraq e, subito dopo, degli altri Paesi dell'area".


Il che si è dimostrato assolutamente falso. Ammesso (e non concesso) che la guerra in Iraq sia finita, la situazione attuale sembra chiaramente indicare come il mondo occidentale sia stato colto assolutamente alla sprovvista da una realtà completamente diversa da quella che si attendeva. Saddam e i suoi hanno dato vita ad una resistenza (io direi ad un vero e proprio contrattacco, ma non sono né un militare né un esperto di cose militari e posso sbagliare) che ha già fatto più vittime di quelle della "guerra propriamente detta" -quella, per intenderci, dichiarata finita dopo appena diciassette giorni, se non erro; la popolazione irachena non so se stia con Saddam, ma mi sembra chiaro che non stia dalla parte degli americani in particolare e degli occidentali in genere; la guerriglia irachena, se di guerriglia si tratta, e il terrorismo, se terrorismo è, di Ben Laden sembra si siano saldati e comunque danno vita ad azioni comuni e coordinate che non hanno come teatro soltanto il territorio iracheno; e neppure come bersaglio soltanto i militari dei Paesi propriamente "occupanti". E, sopra tutto, sembra che il desiderio degli iracheni di essere liberati dalla dittatura e di acquistare la nostra democrazia non si sia in alcun modo palesato, neppure soltanto astenendosi dall'attaccare chi - come le organizzazioni umanitarie e, forse, i nostri Carabinieri- sono o erano in Iraq a "scopi umanitari", come "costruttori di pace" e "portatori di solidarietà e condizioni di vita più umane".

2.2. Il prodotto

Tutto questo anche perché si è cercata la vittoria sul campo, senza preoccuparsi adeguatamente del resto. La vittoria quale prodotto dell'attività militare è stata perseguita come il principale se non il solo prodotto della guerra, e dunque l'unico vero obiettivo di questa. Che è vero, nell'ottica del settore produttivo chiamato a realizzare "la vittoria", e dunque dal punto di vista dell'organizzazione militare. Per questa sì che la vittoria è il prodotto principale e unico. Ma per il "gestore dello scambio" ( che della produzione così come della comunicazione e della apprensibilità e quindi della distribuzione e dell'utilizzo del prodotto è il coordinatore) la guerra e la conseguente vittoria non possono che essere mezzi per il raggiungimento di obiettivi diversi e dunque prodotti strumentali entrambi. Di primo grado o livello la guerra, di secondo la vittoria.

E sulla natura della vittoria come prodotto si è equivocato. Ripeto: la vittoria non è un prodotto di consumo immediato, e neppure di immediato utilizzo, bensì un prodotto strumentale alla produzione di altri, diversi prodotti. Nessuna vittoria può essere fine a se stessa, se non in un'ottica miope e sostanzialmente ignorante. Si potrebbe pensare che probabilmente si è dimenticato che si combatte e si vince per ottenere qualche cosa di diverso, in genere anche di più complesso e durevole. E che, dunque, la guerra e la conseguente vittoria non sono che momenti di un processo estremamente complesso al termine del quale esiste una linea composta da prodotti numerosi, a loro volta complessi, collegati da trame sottili e non sempre conosciute.

E' questa linea di prodotti che doveva essere esplorata. Ed è certo che nell'identificazione del prodotto "finale" ci sia stata più di una carenza. E' stato detto che si cercava la sicurezza, per gli Stati Uniti e per tutto il mondo occidentale, soprattutto tenuto conto che un certo Ben Laden era riuscito a colpire in modo sanguinoso il cuore della nazione. Ed anche della nostra civiltà. E si è fatta coincidere la sicurezza con l'eliminazione fisica del nemico. Come dire: morto Saddam Hussein, la sicurezza se non è proprio garantita è quasi certa. Vogliamo dire che il non essere riusciti a mettere in condizione di non nuocere il dittatore iracheno - peraltro, com'è successo con Ben Laden - sia stato un colpo mancino di un destino sfortunato? Diciamolo pure, dal momento che la fortuna un suo ruolo lo gioca, sui mercati così come sui campi di battaglia.

Il fatto è che, però, quando anche i due uomini, e magari alcuni luogotenenti fossero stati fatti fuori (a proposito: che cosa è successo di Tarek Aziz?), nessuno avrebbe potuto garantire che la sicurezza del nostro mondo sarebbe stata ripristinata in modo duraturo. Lo spazio lasciato dai due sarebbe stato certamente occupato da altri Ben Laden e da altri Saddam, perché il problema non è - come qualcuno cerca di farci credere - la follia di uno, due, dieci uomini, bensì un conflitto dalle radici molto più serie e profonde. Che magari consente a qualcuno di dare sfogo alla follia, ma che non è lì che si fonda. E allora ecco la necessità di cercare di comprendere esattamente cosa voglia dire "sicurezza", quale linea di prodotti la descriva, quali componenti occorre realizzare perché di "sicurezza" possa seriamente parlarsi. Il farlo avrebbe anche consentito di dare risposte confidenti ad una domanda che pare non abbia sfiorato la mente di nessuno.

Questa: che cosa è la pace? Una domanda che nessuno si è posta perché tutti quanti noi siamo portati a dare per scontato che la pace sia "mancanza di guerra" e, dunque, che dall'assenza di questa e dalla sua fine scaturisca quasi in automatico, quasi come gemmazione spontanea. Finita la guerra, nasce la pace. Poi si è drammaticamente scoperto che non è vero. E non lo è non soltanto perché la natura della pace non è solo assenza di guerra, ma anche perché il concetto stesso di guerra è profondamente cambiato e, con esso, la struttura della fabbrica della vittoria. E la vittoria stessa è cambiata, certamente non potendo più essere considerata solo come la manifestazione della superiorità sui campi di battaglia. La vittoria deve significare accettazione e condivisione della nuova e diversa situazione che lo strumento chiamato guerra ha contribuito a produrre.

2.3. Lo scenario futuro


Sulla base dello "scenario attuale" - che per questo lavoro è quello di oggi. relativo alla guerra in corso - diviene in qualche modo possibile tracciare le linee di un ambiente futuro credibile nel quale i prodotti ai quali la guerra e la vittoria hanno dato vita possano essere scambiati con soddisfazione di tutti. In linea di principio e di teoria, nessuno dubita che tra questi via sia la pace, la giustizia, la libertà, il rispetto per la vita umana e per l'individuo. Credo che nessuno, sotto nessuna bandiera e sotto nessun cielo, possa negare questi valori (ed eventuali altri che in questo momento sono costretto a trascurare). Credo che si possa essere tutti assolutamente d'accordo. Purché, però, per ciascuna di queste linee di prodotti siano indicate correttamente le componenti. Ciascuna linea e ciascun prodotto devono essere inequivocabilmente in grado di soddisfare i bisogni della popolazione di riferimento. E l'azione complessiva di gestione degli scambi che ne conseguono deve svolgersi su due direttrici molto precise:
  • la soddisfazione dei bisogni attuali, così come si presentano;
  • la formazione ad una cultura che consenta di modificare, se necessario, la struttura dei bisogni attuali e i comportamenti che ne conseguono e li indirizzi verso "diversità compatibili"
Il futuro che l'occidente vede è probabilmente costituito da un popolo e da uno Stato "amici", con i quali si possa collaborare in un regime di reciproca fiducia e stima, nel comune interesse. Su questa base assolutamente generale ho provato a trarre delle conclusioni da quanto esposto al punto relativo allo scenario attuale.

1. Se democrazia significa "governo del popolo" occorre identificare che cosa essa significa per il popolo iracheno e come il popolo e la cultura iracheni pensano che la "loro" democrazia possa realizzarsi. E attenzione: potrebbe darsi il caso che per "governo del popolo" gli iracheni intendano il governo di una particolare categoria di cittadini ai quali l'intera popolazione ha, in modo più o meno formale e organizzato, delegato l'esercizio del potere. E a me pare che, al momento, gli iracheni pensino che il loro destino sarebbe meglio guidato da religiosi iracheni affiancati da laici iracheni.

2. Se per gli iracheni la struttura dello Stato deve conservare tutti o parte dei fondamenti della cultura tribale, forse occorre pensare ad una forma di Stato che lo consenta e ad una sua organizzazione che permetta a ciascuna tribù di esprimersi nel migliore dei modi, nel rispetto delle altre.

3. Se Saddam Hussein è ancora attivo, significa che se lo può permettere, anche per l'accordo con quelle "popolazioni civili" che noi tentiamo di tenere sempre fuori dalla mischia ma che, nella realtà, della mischia sono talmente dentro da riuscire a nascondere, proteggere e rifornire Saddam in modo da consentirgli di tenere in scacco gli Stati Uniti d'America. E allora, occorre che qualcosa cambi nella cultura di quei "civili". E su questo terreno noi occidentali dovremmo misurarci, senza peraltro escludere la possibilità che il dittatore esprima veramente i desideri di una maggioranza.

4. Se dal resto del mondo arabo giungono quelli che noi chiamiamo terroristi non solo in aiuto di Saddam ma anche in una più generica e generale lotta armata all'occidente, la miglior cosa che si potrebbe tentare a me pare sia quella di disinnescare la mina. Cominciando dalla questione palestinese. E in questo, l'ONU e gli Stati Uniti non soltanto possono operare, ma possono farlo con la certezza dei risultati. Certo, rinunziando a posizioni preconcette; impedendo il rifornimento di armi ad entrambe le parti; intervenendo sul territorio con forze di interposizione che impediscano l'avverarsi di episodi di guerra; probabilmente anche facendo di Gerusalemme una "Città del Mondo", e, perché no, sede dell'Organizzazione. Ed è anche probabile che in questo processo debbano inserirsi fattivamente le religioni, almeno quelle più direttamente interessate al / ai conflitti in corso. Se è vero che il rispetto della vita umana è un valore comune, e se è vero che questo vale sia per la vita altrui che per la propria, a me pare che un intervento dei maestri mussulmani potrebbe essere determinante nel modificare la visione della vita che i kamikaze dimostrano di possedere.

5. E poiché siamo in tema di soggetti potenzialmente attivi, un nuovo modo di guardare all'ONU potrebbe avere risvolti interessanti. Per esempio, quelli relativi alla formazione: scuole internazionali di ogni ordine e grado e Università gestite a cura dell'ONU e aperte senza distinzione alcuna a tutti i giovani potrebbero, in un tempo certamente non brevissimo ma sopportabile, produrre risultati di tutto rilievo. E l'ONU potrebbe anche seriamente interessarsi della soddisfazione dei così detti bisogni di sopravvivenza dei popoli, in particolare del popolo iracheno e di quello palestinese. E questo potrebbe fare sia ricorrendo a soluzioni tampone (cibo, medicine e cure, ricoveri momentanei) sia, sopra tutto, pianificando il modo di procurarsi le risorse necessarie per una economia soddisfacente ed una vita di buon livello. Che vuol dire stimolare il lavoro e l'economia.

6. Il che, per l'Iraq, ci porta direttamente al problema del petrolio. Stabilito che l'oro nero deve essere di proprietà degli iracheni e che questi debbono trarne il giusto guadagno, l'ONU potrebbe già nell'immediato garantire la riduzione di ogni sfruttamento e il rispetto dei rapporti. Vogliamo scommettere che, se la cosa funziona, anche le vie della droga diventeranno più pulite?
LA CATTEDRA
Lezione del prof. PAOLO M. DI STEFANO
docente di Marketing nell'Università per stranieri di Perugia

"Storiologia" ringrazia per l'articolo
(concesso gratuitamente)
il direttore Gianola di Storia in Network
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