STORIOLOGIA HA RAGGIUNTO E SUPERATO I 2 MILIARDI DI VISITE > >

 

BIOGRAFIE

VITTORIO EMANUELE II  
cronologia di un re
L'INIZIO DI UN REGNO....

.... e la fine......con Emanuele III > >

1820 - 14 MARZO nasce a Torino nel palazzo avito dei Savoia "Carignano", il figlio primogenito di CARLO ALBERTO di SAVOIA principe di Carignano e di MARIA TERESA di Lorena figlia di FERDINANDO III granduca di Toscana. Al battesimo riceve i nomi Vittorio Emanule Maria Alberto Eugenio Ferdinando.

1821 - 20 MARZO - Vittorio Emanuele con la Madre da Torino raggiunge il Padre Carlo Alberto a Firenze. In seguito ai moti carbonari di Torino del 1821, che portarono all'abdicazione di Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto (già nominato reggente dal cugino, non essendoci altri figli maschi, ed era l'ultimo discendente del principale ramo di casa Savoia) era stato costretto a lasciare la Corte di Torino e a trasferirsi a Novara, per il suo coinvolgimento nei disordini torinesi, dove in assenza del re nel corso dei moti torinesi aveva perfino concesso una costituzione liberale.
Il nuovo re Carlo Felice (1765-1831) - fratello minore del precedente, re di Sardegna dal 1821 - di idee fortemente conservatrici - dubitando della fedeltà del suo lontano cugino (del ramo Carignano), gli fece pervenire a Novara un ordine, in cui gli ingiungeva di trasferirsi con moglie e il piccolo neonato Vittorio Emanuele, completamente fuori dal regno, in Toscana, a Firenze, capitale del granducato retto dal nonno materno di Vittorio, Ferdinando III di Toscana.

1822 - 16 SETTEMBRE - Il piccolo Vittorio Emanuele, nella villa del nonno a Poggio Imperiale, corre rischio di bruciare nella culla della sua stanza andata a fuoco a causa di una candela lasciata accesa durante la notte; é salvato dalla nutrice che però muore nelle fiamme.
Come può esser morta la nutrice e non anche il bambino? Molti se lo chiesero. Oltre questo dubbio iniziale, in seguito fin dalla tenera età c'era una grande differenza somatica con il padre, in più cresceva con una bassa statura, (quando fu adulto meno di 1,60) era tracagnotto, a differenza del padre Carlo Alberto, che era magro, longilineo, molto alto, 2 metri. Come del resto alto e longilineo lo era anche suo fratello Ferdinando
(poi Duca di Genova, padre poi di Margherita che andrà in sposa a suo cugino Umberto I - figlio dello stesso Vittorio Emanuele, e quindi al suo fianco regina d'Italia - Ferdinando morì giovane a 33 anni, nel 1855, lasciando vedova la 25enne Elisabetta di Sassonia che Cavour (definendola “la più superba bellezza del nord”), voleva poi dare in moglie a Vittorio Emanuele, rimasto vedovo, per fargli smettere la relazione con la "Bella Rosina" - (Ne parleremo più avanti). Elisabetta era rimasta con due figli, un maschio Tommaso e una femmina, Margherita che andrà poi in sposa a 17 anni, nel 1868 al cugino Umberto. Poi diventato Re nel 1878, lei diventerà la prima regina d’Italia Unita (1851-1926)

Se lo chiesero anche i precettori da dove veniva questo principino, quando di fronte a questo bambino trovarono che aveva "la testa dura"; si lamentavano per la sua svogliatezza, la scarsa applicazione sulle lingue, sulla matematica, sulla storia, la grammatica; e sempre carente anche nella semplice lettura. Insomma un refrattario agli studi; lui fin da bambino ai libri di ogni genere, preferiva i cavalli, le sciabole, le armi, la caccia, le escursioni venatorie nelle campagne, nei boschi e in montagna.
La stessa madre
andava ripetendo e scrivendo: "Da dove mai è uscito questo figliuolo?... È nato per farci disperare tutti quanti!".
Ma ancor di più se lo chiesero in molti quando il bambino divenne giovinetto, con una costituzione fisica che non aveva nulla di simile ai suoi antenati. Per non dire come carattere. Lui aveva tenacia e fermezza (non come suo padre ipocondriaco, sempre indeciso e che per questo aveva ricevuto la nomina di "Re tentenna". E dal Carducci “Italo Amleto”, per il suo carattere cupo, conflittuale ed enigmatico.

Era spesso colpito da crisi mistiche religiose, con la Corte sempre affollata da una cinquantina di religiosi).
Vittorio Emanuele era invece un po' grezzo, cinonostante possedeva vigore virile
, era gioviale, molto coraggioso e spavaldo, alle volte irruente, anche se era di indole comunicativo e affabile come un popolano con i quali si intratteneva volentieri nelle sue scorribande campestri andando a caccia; e in seguito diventato principe ereditario e poi Re aveva anche una schietta, istintiva adesione ai modi pragmatici, ispirati al buon senso comune, lontani dalle sottigliezze della politica fino allora seguita dai suoi predecessori sabaudi. Insomma aveva fisicamente e mentalmente - diremmo oggi - un altro Dna.
Era religioso come il padre ma senza crisi mistiche. Alla popolana.

Un po' rozzo, si trovava (e si trovò anche da adulto) a suo agio più con il dialetto piemontese che con la lingua italiana. Era molto appassionato cacciatore di selvaggina e di... donne, prima e dopo aver sposato l'"austriaca" e avuti da lei 5 figli. (a proposito delle numerose amanti e dei numerosi figli illegittimi, Massimo D'Azeglio dirà che meritava più che il titolo di "Padre dell'Italia" quello di "Padre degli italiani", per la scia di figli illegittimi che si lasciò dietro.
Non parliamo poi dei suoi gusti nella vita quotidiana, ai ricchi pranzi di corte lui preferiva una ordinaria zuppa di fagioli. Per come vestiva sembrava un popolano, era sciatto dentro il palazzo e anche fuori, ed era quasi sempre fuori all'aria aperta con il suo cane il suo fucile.

Su quell'incendio e salvataggio del bambino, si nutrirono insomma molti dubbi, per non dire misteri. Il primo: era quella di una lacunosa relazione del caporale Galluzzo inserviente addetto alla casa del conte, su come si era sviluppato l'incendio e com'era avvenuta la morte della nutrice e lo strano salvataggio del bambino. Il secondo: quando Massimo D'azeglio se ne venne poi fuori che non solo non credeva che si era salvato, ma a suo dire il principino era morto bruciato insieme alla sua nutrice e che era poi stato precipitosamente sostituito con un altro bimbo, figlio di un macellaio, di cui fece anche il nome (circolò il nome di Tanaca). Negli stessi giorni dell'incendio costui aveva denunciato la scomparsa di un suo figlio della stessa età. Poi di questa denuncia non se ne sentì più parlare, ma improvvisamente il macellaio diventò un ricco benestante. Questa pettegola storia finì nel dimenticatoio, ma quando il re cominciò a fare qualche banale sbaglio oltre il suo comportamento da popolano, c'era chi era pronto a ricordare "cosa pretendete, è figlio di un macellaio" anche se (forse) non lo era.

1824 - 17 MAGGIO - Vittorio Emanuele ritorna a Torino con la famiglia dopo un soggiorno di tre anni in Toscana. Ha 4 anni.

1830 - 1 GENNAIO - Vittorio Emanuele viene affidato per l'educazione al conte Cesare di Saluzzo, nominato governante dei due Principini.

1831 - 24 GENNAIO - Vittorio Emanuele a 11 anni é nominato tenente nel Reggimento Piemonte Reale Cavalleria.

1831 - 27 APRILE - Vittorio Emanuele diventa principe ereditario della Corona di Sardegna, essendo il Padre successo a Carlo Felice, ultimo della famiglia del ramo primogenito.

1831 - 8 MAGGIO - Vittorio Emanuele é nominato capitano d'ordinanza nella Brigata Savoia.

1831 - 12 MAGGIO - Vittorio Emanuele riceve dal padre Carlo Alberto il titolo di Duca di Savoia.

1832 - 1 GENNAIO - Vittorio Emanuele é nominato capitano d'ordinanza nel Primo Reggimento della Brigata Savoia.

1834 - 13 MARZO - Vittorio Emanuele é nominato maggiore d'ordinanza nello stesso Reggimento.

1836 - 24 DICEMBRE - Vittorio Emanuele é iscritto nell'ordine supremo della Santissima Annunziata.


1836 - 24 DICEMBRE - Vittorio Emanuele é nominato luogotenente colonnello nello stesso Reggimento.

1839 - 14 MARZO - Il Duca di Savoia esce a 19 anni dal periodo di educazione giovanile e costituisce la sua Casata Militare. La sua vita da questo momento è tutta militare. Raramente compare alla Corte torinese.

1839 - 14 APRILE - Il Duca di Savoia assume il comando di detto Reggimento della Brigata Savoia.

1841 - 13 APRILE - Il Duca di Savoia si reca col Padre a visitare la Sardegna.

1842 - 15 MARZO - Il Duca di Savoia é nominato maggior generale e conserva il comando di detto Reggimento.

1842 - 12 APRILE - Il Duca di Savoia Vittorio Emanuele 22enne sposa nella cappella del reale Castello di Stupinigi la cugina MARIA ADELAIDE d'Asbugo-Lorena, 20enne. Figlia del vicerè Ranieri e di Elisabetta di Savoia-Carignano, era nipote del suocero Carlo Alberto, che nello stesso tempo gli era anche zio, essendo fratello di sua madre Maria Elisabetta di Savoia-Carignano.
Queste nozze con la donzella di Casa Absburgo, "non piacquero a coloro che segretamente a tutt'altro miravano che a legarsi con la temuta e odiata Potenza".
Era "austriaca" ma non era affatto brutta. Ma il comportamento, lo stile e la classe, era tutto "asburgico". Non certo una popolana nè una "avventuriera". Al principe Vittorio gli partorì in dodici anni, otto figli, prima e anche dopo la passione del marito per la "popolana" '"avventuriera" come definiva Cavour la "Bella Rosina".

1843 - 2 MARZO - Nasce in Torino la principesse CLOTILDE MARIA TERESA di Savoia, primogenita del Duca di Savoia Vittorio Emanuele.
1844 - 14 MARZO - Nasce in Torino UMBERTO RANIERI CARLO EMANUELE di Savoia (futuro re) Principe di Piemonte figlio del duca di Savoia Vittorio Emanuele.
1845 - 13 MAGGIO - Nasce in Torino AMEDEO FERDINANDO MARIA di Savoia, duca di Aosta, figlio del duca di Savoia Vittorio Emanuele.
1846 - 11 LUGLIO - Nasce in Racconigi ODDONE EUGENIO MARIA di Savoia, duca di Monferrato, figlio del duca di Savoia Vittorio Emanuele.
1846 - 28 SETTEMBRE - Il Duca di Savoia Vittorio Emanuele è nominato da suo padre, tenente generale.
1847 - 16 OTTOBRE - Nasce in Torino MARIA PIA di Savoia, figlia del Duca di Savoia Vittorio Emanuele.
(seguiranno durante e dopo l'"avventura" altri 3 figli. Morirà a soli 33 anni, nel 1855, dopo aver dato alla luce dodici giorni prima l'ultimo figlio).

1847 - Ottobre-Dicembre - Il Duca di Savoia 28enne, con moglie e già 5 figli in tenera età, durante le sue scorribande di cacciatore, si è invaghito pazzamente della quattordicenne Rosa Vercellana (la "BELLA ROSINA"), una provocante contadina, figlia di un vecchio soldato in pensione. Ritorna a trovarla diverse volte in incontri clandestini; questa ragazza, che spesso va in giro a piedi nudi, con la sua spiglitezza e la sfacciataggine ma anche con una forte carica di sensualità, gli ha fatto perdere il sonno. (ricordiamo che era reato avere un rapporto con una minorenne, che allora era fissata a 16 anni). (ma ai potenti come sappiamo le leggi non valgono)

1848 - MARZO - Mentre a Milano era in subbuglio e prossima alle sue "Cinque Giornate", fa rapire la "Bella Rosina" (il padre ne denuncia il rapimento, ma presto è messo a tacere) la ospita nella palazzina di caccia di Stupinigi, "consuma" e "riconsuma" fin quando la "Rosina" resta incinta, e nascerà dopo 9 mesi, il 2 dicembre una bambina, Vittoria. La ragazza era nata il 11 giugno 1833, quindi non aveva ancora compiuto i 15 anni quando in marzo era rimasta incinta.

La moglie austriaca Adelaide che ha già 5 figli ( di 7, 6, 4, 3, 2 anni) subisce l'onta, ma in Austria il disprezzo è totale, in seguito unito a quello del Conte di Cavour, che farà di tutto per farlo allontanare da quella che lui chiama una "avventuriera".

1848 - 24 MARZO - Il Duca di Savoia Vittorio Emanuele assume il comando della divisione di riserva e parte con il padre per la Lombardia per la Prima Guerra d'Indipendenza.

Facciamo ora un po' la situazione del Regno di Sardegna, con la sua struttura economica, politica e demografica, prima dell'anno 1848, quindi prima delle guerre risorgimentali fatte poi dai Sabaudi.


Per ingrandire a piena pagina e con altre cartine clicca QUI.

e di seguito i link:
casa regnante e il governo - gli ordini religiosi - giustizia e finanze -
lo stato militare - l'istruzione pubblica - la sanità - la Sardegna


Il Regno contava una popolazione di 4.650.368 individui; e malgrado le nude scogliere e i monti, aveva 274 individui per miglio quadrato, uno dei paesi più popolati d'Europa (ad es. la Francia contava 224 abitanti per mgl.q.). Torino contava 117.000 abitanti.
Qui sotto le altre città e grossi comuni.


il CLERO SECOLARE, possedeva sul territorio della terraferma
30 diocesi, 3812 Parrocchie; 54 seminari; 12 abbazie;
248 Conventi di uomini, 91 Conventi di donne.
Il debito pubblico ascendeva a 130 milioni di lire di capitale.
Lo stato dell'esercito sul piede di pace era di 40.000 uomini, sul piede di guerra il numero saliva a 88.000, e in più con una riserva di altri 54.000, in tempo di guerra il totale saliva a 142.000 uomini.
Grado di istruzione, abbastanza elevato rispetto a tutti gli altri Stati Italiani, che con una divisione di Insegnamento in Primaria e Secondaria, contava 21 istituti diretti da corporazioni religiose, e altri 286 fra convitti, pensionati, collegi, reali o comunali.
Nelle secondarie era esclusa la popolazione femminile, salvo quelle di famiglie agiate che trovavano esclusivamente accesso nei conventi di monache consacrate all'istruzione.
Infine c'era l'insegnamento universitario nella locale Universita di Torino fondata nel 1405 e che contava nel 1848, 46 cattedre. Oltre a diverse scuole universitarie secondarie dove si tenevano i primi 2 anni di corso e le numerose scuole militari: la Reale Accademia, quella dell'Equitazione, e quella della Marina sia militare che mercantile.
Abbiamo escluso sopra i dati della Sardegna. Ma...li troverete...
assieme ad altri particolari nel link segnalato sopra, nella cartina.

 

INIZIA LA PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA.

il re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, il 23 marzo 1848, si pone a capo di una coalizione di Stati italiani e dichiara guerra all'Austria, nell'intento di conquistare il Regno Lombardo-Veneto. Ma in Lombardia, il 18 marzo, Milano era già insorta contro l'Impero Austriaco con le sue Cinque giornate facendo sloggiare gli austriaci che arretrano fino a Verona, e il 22 marzo anche Venezia aveva già cacciato gli austriaci proclamando la Repubblica di San Marco.

1848 - 25 APRILE - Il re Carlo Alberto e il Duca di Savoia Vittorio Emanuele varcano - con molto ritardo - il Mincio. Inoltre hanno rifiutato l'affiancamento di volontari irregolari, pronti a battersi.

1848 - 30 APRILE - Il re Carlo Alberto e il Duca di Savoia Vittorio Emanuele partecipano alla BATTAGLIA DI PASTRENGO.

1848 - 30 MAGGIO - Il Duca di Savoia Vittorio Emanuele é ferito leggermente alla BATTAGLIA DI GOITO. Poi arretrano davanti agli austriaci che non danno tregua, pur non insistendo nello scontro.

1848 - 16 NOVEMBRE - Il re Carlo Alberto e il Duca di Savoia Vittorio Emanuele, arretrando da Milano, stabiliscono la sede della loro divisione ad Alessandria, dove passano l'inverno. Nel frattempo nel corso dello stesso inverno, gli austriaci a Verona si stanno rinforzando con i reparti che giungono dall'Austria tramite la comoda ferrovia del Veneto. Disse qualcuno che "...mentre stando inattivi a Milano i sabaudi contavano i voti utili a prendere il potere nella città lombarda a Peschiera gli austriaci contavano i soldati, in previsione del prossimo contrattacco".
Invece di fermarsi a Milano, i sabaudi avrebbero dovuto inseguirli fino a Verona, quando agli austriaci mancavano ancora i rinforzi. Un errore gravissimo, che fu poi la causa di gravi conseguenze.

1849 - 20-21 e notte del 22 MARZO - I Sabaudi riprendono le ostilità, con un generale, Ramorino (dopo gli si diede tutte le colpe a lui e fu anche condannato). Dopo una violenta battaglia (persa) nei pressi di Novara, gli austriaci si portano sulle sponde del Sesia, cioè a un passo dal confine piemontese e iniziano a varcare il fiume. A quel punto per evitare una disfatta totale e la perdita del Regno Sabaudo, Carlo Alberto inviò il generale Luigi Fecia di Cossato per trattare la resa con l'Austria. Le condizioni sono durissime, con gli Austriaci che minacciano seriamente di entrare in Piemonte. Carlo Alberto nella notte stessa, poco prima della mezzanotte, abdica e parte per l'esilio in Portogallo.

1849 23 MARZO - Il Duca di Savoia Vittorio Emanuele succede al trono dopo la BATTAGLIA DI NOVARA in seguito alla sconfitta e all'abdicazione del Re Carlo Alberto.

1849 - 24 MARZO - Vittorio Emanuele ha un colloquio a Vignale con il maresciallo RADETZKY per nuovamente trattare la resa con gli austriaci e per stabilire più mite condizioni dell'armistizio.


1849 - 26 MARZO - Vittorio Emanuele firma in Borgomanero l'armistizio detto "di Novara".
Dopo la battaglia di Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto (23 marzo '49) Vittorio Emanuele si trovò all'improvviso sul trono di Sardegna, in un momento difficile per il Paese e con lui stesso impreparato nelle cose di governo, che - lui sempre nelle caserme - il padre non gli aveva mai trasferite.
Vittorio Emanuele dovette iniziare il proprio regno solo ascoltando ciò che dettavano gli austriaci. Per l'impossibilità a continuare la guerra dovette sottoscrivere le condizioni durissime e firmare l'armistizio di Vignale (24 marzo '49) con il maresciallo austriaco Radetzky.
Sembra che sia leggenda, l'abilità politica vantata in questa situazione dai panegiristi di Vittorio Emanuele. Cioè che era stata la fermezza e l'abilità del nuovo Re nelle trattative per l'armistizio di Vignale a salvare il Piemonte da una invasione austriaca.
Molto più realistico è il fatto che Radetzky e la corte Austriaca, non furono nè da lui incantati dalla sua fermezza, nè tantomeno furono generosi; gli concessero di restare al potere come regnante del Piemonte (comunque condizionato ad altre pretese) solo per non buttare i Sabaudi e il loro esercito nelle braccia della odiata Francia e nelle mani dei rivoluzionari piemontesi antiaustriaci.

La maggior difficoltà politica del nuovo re fu costituita dall'ostilità della Camera dei Deputati a maggioranza democratica, per ratificare il trattato di pace con Radetzky, dove c'erano fra le altre cose il doversi rifondere i danni di guerra agli austriaci con l'astronomica cifra di 75 milioni di franchi francesi.
Vittorio Emanuele, per superare l'opposizione della Camera, raggiunse l'estremo limite della correttezza costituzionale; ma lo aveva ormai promesso agli austriaci e questi si erano minacciosamente acquartierati alla fortezza di Alessandria in caso di fallimento. Emanò dunque il proclama di Moncalieri (20 novembre '49) con il quale scioglieva la Camera, pur conservando la Costituzione, che del resto non dava per nulla fastidio agli austriaci, ne avevano una anche loro quasi simile.

1849 - 27 MARZO - Vittorio Emanuele bandisce alla Nazione il Proclama annunciante la conservazione delle istituzioni paterne (Lo "Statuto Albertino").

1849 - 29 MARZO - Vittorio Emanuele giura la Costituzione davanti il Parlamento.

1849 - 7 MAGGIO - Vittorio Emanuele chiama al governo MASSIMO d'AZEGLIO. (proprio lui che definirà il prossimo proclama del Re a Moncalieri un «liberalismo malcerto»)

1849 - 3 LUGLIO - Vittorio Emanuele, ancora infermo per la ferita a Goito, rivolge da Moncalieri il proclama della "convalescenza" per invitare i sudditi ad aiutarlo nel consolidare le istituzioni costituzionali.

1849 - 28 LUGLIO - Muore, dopo appena quattro mesi dalla sua abdicazione, a Oporto l'ex Re Carlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele.

1849 - 30 LUGLIO - Vittorio Emanuele inaugura la IV Legislatura del Parlamento.

1849 - 20 AGOSTO - Vittorio Emanuele ratifica il "trattato di pace" già firmato a Milano il 6 agosto precedente.

1849 - 20 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele scioglie la Camera che gli è ostile per la pace con gli austriaci e pubblica il "Proclama di Moncalieri".

1949 - 3 DICEMBRE - La "Bella Rosina", ora 15enne, dopo nove mesi, da alla luce un figlio avuto dal Re, una bambina, col nome Vittoria.

1849 - 20 DICEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura la II sessione della IV legislatura del Parlamento.

1850 - 9 APRILE - Vittorio Emanuele sanziona la "legge SICCARDI". (l'abolizione di alcuni privilegi relativi alla Chiesa). Fautore della legge - fortemente invisa dal Papa Pio IX - fu il conte Cavour, in parlamento già dal giugno del '48. Con lo Stato Pontificio iniziano i pessimi rapporti con i Sabaudi.

1850 - 12 OTTOBRE - Vittorio Emanuele chiama il conte di CAVOUR al ministero agricoltura e commercio. Il prossimo anno 1851, assume anche la carica di ministro delle finanze del governo d'Azeglio. Poi il 4 novembre 1852 diventerà primo ministro del Regno.

1851 - 16 MARZO - La "BELLA ROSINA" proseguendo la relazione clandestina con il re, dà alla luce un altro figlio, col nome Emanuele.

1852 - 4 MARZO - Vittorio Emanuele inaugura la III sessione della IV legislatura del Parlamento.


1852 - 2-4 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele - nonostante l'avversione che nutriva nei suoi confronti - chiama al governo come primo ministro del Regno il CONTE di CAVOUR, che ha promosso il cosiddetto "connubio". (un "matrimonio"-accordo tra due schieramenti del Parlamento, il Centrodestra capeggiato da Cavour (che lui dice "liberale") e il Centrosinistra guidato da Rattazzi).
Per il Re saranno 8 anni di non celata insofferenza (anche per questioni strettamente personali) con l'uomo politico che farà sempre discutere nel gruppo parlamentare. Oltre che attirarsi poche simpatie da Massimo D'Azeglio, e altrettante non celate antipatie, dallo stesso Re e soprattutto da Garibaldi.
Per non dire dell'antipatia di Papa, Pio IX. Cavour come capo della maggioranza era con questa promotore del liberalismo anticlericale, che prevedeva la soppressione degli ordini religiosi oltre ad incamerare tutti i beni posseduti da questi ultimi. Propose addirittura al Papa perfino la rinuncia al potere temporale e di conseguenza la rinuncia dello Stato Pontificio e la stessa Roma.
Quando il Re fu colpito da numerosi lutti, la madre, la moglie, il fratello, nell'arco di soli 3 mesi del '55, i clericali ne approfittarono, affermando che erano quei lutti manifestazioni dello sdegno divino per le riforme anti-ecclesiastiche in corso.

1853 - 19 DICEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura la V legislatura.

1854 - 20 FEBBRAIO - Vittorio Emanuele inaugura la strada ferrata da Torino a Genova. Voluta e promossa da Cavour con capitali e tecnologie inglesi. Ideatore e promotore di numerosi scambi commerciali, di molte iniziative di carattere industriale, bancarie e di associazioni agrarie, Cavour oltre che essere lui stesso un importante possidente terriero a Leri, fu anche promotore di una importante legge elettorale che rimase valida anche dopo la sua morte, fino al 1882. Oltre essere stato il promotore del "connubio", un singolare "matrimonio" del Centrodestra e Centrosinistra, che gli permise dal 1852 di prendersi la presidenza della Camera e governare "come voleva lui", ignorando spesso perfino il Re Vittorio Emanuele, che - pur essendogli antipatico - ne subì per 8 anni l'arroganza appoggiata dalla sua maggioranza.

1855 - 12 GENNAIO - Muore in Torino la regina vedova Maria Teresa, madre di Vittorio Emanuele.

1855 - 20 GENNAIO - Muore in Torino la regina Maria Adelaide consorte di Vittorio Emanuele. Lascia 8 figli poco più che adolescenti; di 14, 13, 11, 10, 9, 4, 3 anni, e un neonato appena avuto, l'8 gennaio.

1855 - 10 FEBBRAIO - Muore in Torino a 33 anni il principe Ferdinando duca di Genova, fratello di Vittorio Emanuele. Resta vedova la giovane Elisabetta di Sassonia non ancora 25 enne e con due figli.

14 APRILE - Vittorio Emanuele distribuisce ad Alessandria le bandiere alle truppe partenti per la Crimea. Una guerra voluta da Cavour per "contare qualcosa in Europa". "far diventare il Regno di Sardegna una rispettata potenza d'Europa". Ma anche Vittorio Emanuele - in questa circostanza - un po' lusingato sembrava favorevole al conflitto.
Cavour negli incontri di Parigi - per entrare nella grande coalizione per la guerra in Crimea - giocò le carte della seduzione con la spumeggiante sua cugina la 20enne "Nicchia", la famosa Contessa di Castigliole (Vedi QUI la sua storia >>> ) .
Frequentando la Corte Cavour ebbe modo per più di un anno di studiare questa giovane fatua ma intelligente, vanitosa ma affascinante cugina, sempre a Corte al centro dell'attenzione, e, per alcune malelingue un'altra giovane amante occasionale del re. Da quel grande conoscitore dell'animo umano che era, Cavour pensò di sfruttare tali qualità.
"Nicchia" allora 20enne, mandandola a Parigi, col suo fascino, ma soprattutto con la sua ambizione, avrebbe potuto influire sull'animo del nuovo da poco Imperatore dei Francesi, Napoleone III, sensibile alla bellezza femminile, e quindi convertirlo alla causa italiana; comunque in linea col il più celebre zio.

(Ricordiamo che Napoleone III (figlio di Luigi Bonaparte, (fratello di Napoleone Bonaparte) dopo la restaurazione, dalla Francia era rifugiato a Roma. Membro della carboneria, era stato espulso dallo Stato Pontificio. (poi ne divenne il protettore, ma non per una conversione, ma per non permettere al sabaudo di diventare troppo potente). Era poi rifugiato a Firenze dove si unì a rivoltosi durante i moti del 1831. Con la rivoluzione del '48 rientrò in Francia. Presentando un programma repubblicano, riusci a vincere le elezioni e diventare presidente della Seconda Repubblica. Impostosi con un suo governo forte, quattro anni dopo, nel '52, a 44 anni fu proclamato Imperatore. Per i suoi trascorsi fu chiamato "il rivoluzionario incoronato". Ma anche sarcasticamente "Napoleone il piccolo" (da V. Hugo). I successivi rapporti con il Regno Sabaudo, furono piuttosto ambigui. Come vedremo più avanti. Forse voleva lui essere anche in Italia l'Imperatore. Ma aveva non solo il re contro (piuttosto diffidente nei suoi confronti) ma anche un altro forse con le sue stesse idee: Cavour.
Il francese forse voleva ripristinare quello di Napoleone I, riportare cioè sotto la Francia, oltre che la contea di Nizza e la Savoia, anche il Piemonte, che in epoca napoleonica - ricordiamoci - aveva fatto parte della Francia.
Cavour pur tenendo contatti con lui temeva che l'alleato potesse trasformarsi in padrone: "Non voglio assolutamente ch'egli regni in Piemonte come in Francia, poichè, dopo averlo qui chiamato, io debbo piú d'ogni altro salvaguardare il regno Sabaudo da ogni usurpazione" (dal diario di Salmour all'epoca dell'alleanza franco-piemontese nel 1859). 

E torniamo proprio a lui, a Cavour. L'avvenenza e l'ambizione di "Nicchia" avrebbero potuto avere facilmente ragione della debolezza dell'Imperatore. Che fra l'altro l'aveva già conosciuta durante un suo soggiorno a Firenze, dove lei pur giovinetta adolescente passeggiando sul Lungarno mieteva ammiratori, incantati dalla sua acerba bellezza, tanto da essere chiamata "l'unica".
Insomma Cavour voleva ficcargli tra le lenzuola la bellissima "Nicchia" e, col suo aiuto - fargli sposare la sua causa: che era poi un'alleanza per la partecipazione alla guerra di Crimea e una successiva guerra contro gli Austriaci.
Varato insieme il progetto,
nel congedarla, le aveva detto: «Cercate di riuscire, cara cugina, con il mezzo che più vi sembrerà adatto, ma riuscite! ». La conquista con il "mezzo" fu facile. Lei aveva 20 anni, lui quasi 50. Ben presto l'Imperatore si prostrò ai suoi piedi. La bella "Nicchia" il "mezzo" ce l'aveva e lo usò. Le solite malelingue della corte francese furono spietate, affibbiandole la nomina di "vulva d'oro". Ma anche la moglie Eugenia rosa dalla gelosia non si risparmiò. In una delle tante teatrali entrate della sua rivale, apparsa nei saloni con un ciondolo a forma di cuore sul ventre un po' sotto la cintura, perfidamente la indicò alle sue dame: "ecco essa dove ha il cuore".
Insomma la missione cavouriana era riuscita. L'alleanza cosa fatta.

Fu così progettata la Guerra di Crimea con le opportunistiche motivazioni politiche cavouriane. Il 26 gennaio 1855, si firmò l'adesione finale del Regno di Sardegna al trattato anglo-francese. Il 4 marzo 1855, Cavour dichiarò come gli altri guerra alla Russia e il 25 aprile salparono da La Spezia 15.000 uomini per la Crimea.
La guerra costò ai piemontesi un'ingente perdita di soldati;
ma Cavour non ottenne i compensi territoriali pattuiti. Comunque solo per la sua partecipazione diventò il "Regno di Sardegna una rispettata potenza d'Europa". Tale che (furono presentate così) per le legittime rimostranze della popolazione per la pemanenza degli austriaci nel proprio suolo, dagli stati esteri furono prese in considerazione altri bellicosi progetti di Cavour. Gli inglesi però si dissociarono, vollero rimanere neutrali, ma a Cavour interessava solo l'adesione della Francia per scatenare la sua guerra agli austriaci.
Per tale adesione oltre alla "missione" della "Nicchia" con i suoi "mezzi", ci fu in seguito il colloquio di Plombieres, e un'altra "missione" "per ragioni di Stato": il "sacrificio" di Clotilde, 15 enne, la figlia prediletta di Vittorio Emanuele (che accenneremo più avanti).

1855 - 20 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele parte da Torino per visitare NAPOLEONE III. Cavour ha spianato la strada, anche se verso l'ex "rivoluzionario coronato" il Re non è che nutriva molta simpatia.

1858 - 20 LUGLIO - Il ministro Cavour a Plombieres ha lo storico colloquio di 8 ore con Napoleone III.
"Convegno nella quale si presero gli ultimi accordi per la imminente guerra che doveva essere iniziata col nuovo anno. Fu infatti stabilito tra le altre cose che, se l’Austria avesse mosso ancora guerra al Piemonte, la Francia lo avrebbe soccorso, e avrebbe fatto in modo che ottenesse nell’alta Italia uno Stato di dodici milioni di abitanti, passando in compenso alla Francia la Savoia e Nizza" * [Nicomede Bianchi: Il Conte di Cavour. — Ravitti: Delle Recenti Avventure d’Italia].

A Plombières Cavour e Napoleone decisero anche il matrimonio tra il cugino di quest'ultimo, Giuseppe Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, figlia prediletta 15 enne, di Vittorio Emanuele. Solo per rinsaldare i rapporti con i francesi, in vista della prossima guerra. Ma molti dissero che era quello un "Sacrificio"! Ma anche Vittorio Emanuele non era favorevole, ma le "Ragioni di Stato" cavouriane prevalsero. E le pretese del "rivoluzionario coronato" pure.

1859 - 10 GENNAIO - Vittorio Emanuele inaugura la II sessione della VI Legislatura con un fiero discorso di sfida all'Austria. Si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore» dei piemontesi, che da dieci anni subivano angherie sotto il tallone austriaco. "Uno Stato - disse - che avrebbe potuto costituire una minaccia per i governi di tutta Europa".

1859 - 18 GENNAIO - Vittorio Emanuele firma il trattato di alleanza con la Francia. La guerra è imminente. Manca solo il "matrimonio-sacrificale" di sua figlia.

1859 - 30 GENNAIO - CLOTILDE di Savoia figlia prediletta del re, di soli 15 anni, sposa il principe Napoleone (brutto, arrogante, con una brutta fama). Fu questo il "sacrificio" imposto da Cavour, per conservare le buone relazioni e avere l'appoggio del "rivoluzionario coronato", Napoleone III.
(Il Principe d'Assia così scrive a sua sorella, l'imperatrice zarina Maria di Russia:  "Povera vittima della politica, il Savoia sacrifica la sua graziosa figliola quindicenne a un uomo come il principe Napoleone, scostumato, disprezzato in Francia da tutte le persone oneste e da tutti deriso, solo per la speranza di poter conquistare con l'aiuto della Francia qualche chilometro quadrato di territorio".
(Lettera di Alessandro D'Assia all'imperatrice Maria di Russia, 30 gennaio 1859 - Documento al Castello di Walchen).
Le popolane di Torino commentavano "bello sì essere figlie del Re, ma poi guarda con chi ti ritrovi a letto".

1859 - 11 APRILE - Dopo la morte della consorte, dopo 4 anni di lutto, Vittorio Emanuele rompe gli indugi e fa entrare a palazzo la "BELLA ROSINA". La nomina Contessa di Mirafiori.
(Una proprietà terriera alle porte di Torino. In seguito gli eredi la venderanno a un certo Agnelli dove su quei terreni costruirà gli stabilimenti della Fiat).
Cavour sempre ostile a questa "scandalosa" relazione del Re con "l'avventuriera", seguita ad intervenire per farla cessare. Vorrebbe che il Re vedovo si ammogliasse con qualche donzella delle corti europee, magari anche di una nazione nemica mirando alle buone relazioni diplomatiche estere, alle "Ragioni di Stato". O al limite che sposasse la cugina (Elisabetta di Sassonia non ancora 27 enne, con due figli, moglie di suo fratello Ferdinando, da poco rimasta vedova).
Chiede un colloquio con il Re per parlare di questa questione, e del rapporto con "La Rosina", che Cavour gli dice "essere poco onorevole per la dinastia Sabauda". Vittorio Emanuele acconsente al colloquio, ma quando lo fa entrare, lui è seduto su una poltrona con sulle ginocchia "La Rosina". Ed è perentorio "Io non voglio saperne di sposarmi. Mi basta e avanza la mia Rosina". Cavour deve battere in ritirata. La "bella" - ora - 24 enne, l'"avventuriera" ha vinto lei!! Ma anche lui, il Re !!
E bisogna dare atto a Vittorio Emanuele del suo attaccamento con la "ragione del cuore" alla sua giovane amante. Prova ne sia che in pericolo di vita la volle sposare religiosamente, e in seguito pochi mesi prima di morire anche civilmente. Era insomma una unione la sua con un rapporto decisamente affettivo. Non la solita donna di piacere, o peggio, quelle unioni di donzelle di altre Corti europee imposta dalle "ragioni di Stato"; e spesso anche una unione parentale per consolidare la dinastia. Ed era quindi umano il suo comportamento.
Quello che però desta meraviglia è che non seppe fermare il matrimonio della sua prediletta giovanissima figlia con il principe cugino di Napoleone III. Nè seppe dire no più avanti, quando suo figlio Umberto convolò a nozze con la 17enne Margherita, figlia di suo fratello Ferdinando. Un matrimonio consanguineo bislacco, non certo per ragioni di cuore ma per "ragioni di dinastia". Umberto, fin da quando aveva 24 anni, l'anno prima del matrimonio con la cugina, s'invaghi di una giovane donna. Poi pur nascendogli un figlio (il futuro Vittorio Emanuele III) fece come il padre, le sue attenzioni andarono tutte alla sua amante la famosa contessa "Litta" , che anche da lei ebbe un figlio. L'amante possessiva sembra che abbia preteso da Umberto una singolare promessa: che lui non avrebbe più avuto alcun rapporto con la sposa, che insomma le loro notti dovessero restare bianche. A farle diventare "bianchissime", fu poi la stessa consorte quando colse sul fatto suo marito con la Litta a letto nella sua camera. Voleva lasciarlo, divorziare, tornarsene dalla madre, e si confidò e si lamentò con il padre Vittorio Emanuele II che, abituato a queste cose, saputo il "banale" cruccio della sua nuora-nipote candidamente gli disse "e solo per questo te ne vuoi andare?".
La donna accettò così la realtà, ma piena di risentimento.

Il legame di Umberto con l'amante - come il padre - durò tutta la vita. La moglie Margherita amante della mondanità non si preoccupò più di tanto di questa anomale convivenza. Lei si impegnò a fare solo la Regina. Che di fatto lo divenne subito dopo la "Breccia di Porta Pia" nel 1870; Umberto e Margherita furono infatti loro due a Corte e nei palazzi dell'alta società romana a rappresentare il Re che aborriva la mondanità, ma anche per via della sua relazione con la "popolana", molto avversata dalla nobiltà nella capitale dell'ex Stato Pontificio, tutta di ex casta clericale, la cosiddetta "nobiltà nera".
La moglie fu però nei confronti di Umberto di animo nobile: quando gli assassinarono nel 1900 il marito, permise che la "Titta", corresse al capezzale per dare in punto di morte l'ultimo saluto, al marito suo, ma amante dell'altra.

Mentre nei confronti di Vittorio Emanuele II in punto di morte nel 1878, alla "Bella Rosina" gli vietarono di farlo.

(Quanto a Unberto, lui morì a Monza nel 1900 assassinato da un anarchico per vendetta; un certo Bresci partito addirittura dall'America, disgustato dalla premiazione
fatta dal re al generale Bava Beccaris che il 7 maggio 1898 aveva compiuto un massacro (più di 100 morti e 500 feriti) ordinando l'uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere una manifestazioni popolare che stava protestando per il forte aumento del pane.
Ma non fu questo un singolo episodio. Ne aveva di attentati- anche senza
gravi conseguenze - già subiti due.
Lui acceso conservatore,
aspramente avversato per questo suo duro conservatorismo, appoggiò sempre governi ultra conservatori. Sempre portato alla repressioni, aveva - per aumentare il suo prestigio in politica estera- stretto un'alleanza (Triplice Alleanza del 1882) con due potenze conservatrici per poter assicurare alla monarchia sabauda la sua dominazione, essendo un acceso nemico dei movimenti repubblicani.

Ma lungi dal garantire la pace, la firma della Triplice Alleanza provocò un aumento della tensione internazionale e accrebbe le spese militare in Italia. Per l'ossessione militaristica di Umberto che voleva una forza armata all'altezza della portentosa macchina da guerra prussiana, fu il povero contribuente italiano a sostenere spese sempre più crescenti.

Quando andò in Austria a Vienna (lui col Dna materno austriaco, si trovò a suo agio) il non tanto antico avversario dei Sabaudi, Francesco Giuseppe gli concesse la nomina a colonnello onorario del 28º Reggimento fanteria austriaco, lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di Novara del 1849 e a Brescia (nelle "10 giornate") aveva fatto una spietata repressione che causò la morte di migliaia di civilii. Mentre al pranzo di gala nella Halle viennese e alla Kaisermesse, UMBERTO I lui brindava e sfoggiava la divisa di colonnello austriaco, a Novara, Milano e Brescia c'erano ancora in vita gli orfani che aveva procurato quel reggimento.

Il gesto non mancò di suscitare indignazione in Italia presso l'opinione pubblica.
Ed ecco il commento sull'"Illustrazione Italiana" di dicembre:
"Umberto travestito da colonnello di un reggimento austriaco? È un genere d'effetto teatrale …e ci lascia così di colpo l'impressione di un pugno nello stomaco".
Forse si rivoltò nella tomba anche il nonno Carlo Alberto, che in esilio a Oporto pochi giorni prima di morire, aveva lasciatro scritto:
« Nonostante la mia abdicazione, se mai sorgesse una nuova guerra contro l’Austria… accorrerò spontaneo, anche quale semplice soldato, tra le fila dei di lei nemici…"


Il Trattato, di carattere puramente difensivo, nel suo contenuto rimase ufficialmente segreto fino alla prima guerra mondiale. Era un trattato conservatore e militarista di una "politica monarchica" che sanzionava il definitivo distacco della politica governativa verso il movimento irredentista-patriottico ostinatamente legato ai valori risorgimentali. Un trattato che aveva come obiettivo comune dei tre sovrani: a) il rafforzamento innanzitutto del principio monarchico b) una chiara connotazione
contro la Francia c) altrettanto chiara connotazione contro la Russia d) consolidamento del sistema di sicurezza di Austria e Germania e) neutralità o appoggio dell'Italia all'Austria e Germania in caso di conflitti. (poi lo si vide: La Triplice fu indigesta al loro figlio Vittorio Emanuele, fin da quando a sette anni gli avevano messo accanto notte e giorno come autoritario tutore, maestro di ogni cosa, un filo-prussiano di ferro, un quarantenne ufficiale addetto militare a Berlino, fanatico ammiratore della scuola militare prussiana; e alla prussiana su quelle rachitiche e corte gambette che non crescevano mai, lo fece marciare tutti i giorni, dalle 6 del mattino alla 9 di sera, non concedendogli nemmeno un attimo di respiro, e con il "permesso" di ritrovarsi a tavola con i genitori solo il giovedì e la domenica. Nemmeno il Re padre, poteva contraddire il colonnello di ferro che assicurava il padre "lui farà sempre tutto quello che gli dico io".

Fu poi proprio lui Vittorio Emanuele III a rompere la Triplice Alleanza nel 1914 alla vigilia della Prima guerra mondiale. L'Italia fece la guerra contro Austria e Germania e si alleò con la Francia. (ma anche qui era forse ritornato il Dna del nonno che a Napoleone aveva scritto: ""Qualunque sia la vostra politica dell’avvenire, o Sire, giammai mi troveranno nelle file dei vostri nemici").

Poi per Umberto c'erano state le sciagurate guerre coloniali in Africa, con una ecatombe di uomini che spinsero gli italiani a chiedere la fine dell'avventura africana.
Tutta la sua attività politica fu contrassegnata da un atteggiamento autoritario, e nelle insurrezioni e nei moti firmava con la sua autorità duri provvedimenti di stato d'assedio e le repressioni. Come a Milano, con l'ordine anche di sparare.
Il grave episodio fu seguito da una forte svolta autoritaria degna dei detestati austriaci. Sciolsero le organizzazioni socialiste, quelle cattoliche e quelle radicali; chiusero le Camere del Lavoro, le Leghe Operaie, limitarono la libertà di stampa, di riunione e molti con l'accusa di propaganda sovversiva o solo
per
aver duramente commentato i fatti, dovettero fuggire all'estero.
Tutto questo durò due anni. Umberto premiò perfino Beccaris per il suo criminale comportamento. Poi giunse l'indignato Bresci a Monza a scaricargli un intero caricatore nel petto, "per vendicare - disse - i morti di Milano, e per l'affronto agli stessi morti fatti da Umberto, premiando il generale Beccaris".
Così Umberto pagò con la vita gli errori e le colpe di una politica impopolare ed infausta, suscitatrice di lotte accanite, di odii implacabili, che terminò con una vendetta.

Vittorio Emanuele II, nella sua vita era stato mite, mai degli atteggiamenti autoritari, lui era di indole comunicativo, affabile. Abbiamo scritto sopra, possedeva una schietta, istintiva adesione ai modi pragmatici, ispirati al buon senso comune, lontani dalle sottigliezze della politica fino allora seguita dai suoi predecessori sabaudi. Inoltre aveva tenacia, fermezza e tanto coraggio. Mentre il figlio era una persona incostante, arida, insicura e dalle idee limitate, con un chiodo fisso - austriacante - la repressione dei repubblicani per conservare l'autorità. Un regno il suo del cinismo e dell'approssimazione.
Un uomo senza carattere di un'ignoranza abissale; con una totale assenza di cultura (Dna del nonno?). Lui non aveva mai letto un libro in vita sua! Era il "diritto divino", la "provvidenza", che guidava i suoi passi, quindi non c'era bisogno di letterati e ingegni umani per modificare il corso della sua esistenza.

Unberto era molto legato alla madre (austriaca) - lui aveva 11 anni - quando questa gli morì prematuramente, subendone un profondo trauma.
Era però come suo padre amante delle donne e delle relazioni extramatrimoniali. E qui sorge il dubbio: dal ("popolano") padre prese una parte del suo Dna, e dalla madre il Dna austriaco (e gli austriaci in quanto a repressione e autoritarismo erano dei maestri).
Perfino l'unico figlio che ebbe da Margherita, Vittorio Emanuele III, era ancor più piccolo e goffo di suo nonno da cui ereditò nel fisico - presumibilmente metà del suo Dna e l'altra metà dalla nonna austriaca e dal padre, visto che anche lui poi ebbe idee limitate pur di conservare il trono (durante il Fascismo!). Nel 1915, ruppe la triplice Alleanza fatta da suo padre con gli austriaci (si ripresentò l'odio di suo nonno per questi) e alleandosi paradossalmente proprio con la Francia li attaccò
con il suo Cadorna, e fu una strage per l'Italia: 600.000 morti. L'Italia vinse, ma con gli americani, che poi ci mandarono assieme agli inglesi il conto: debiti fino al 1988....

"Fu firmato a Washington nel novembre del 1925 l'accordo dell'Italia con l'America, e nel gennaio 1926 si firmò a Londra l'accordo con l'Inghilterra. Si dovevano pagare all'America: un milione di dollari all'anno per i primi cinque anni, 14 milioni di dollari all'anno per 25 anni e 50 milioni per altri 32 anni, arrivando così alla somma di 1975 milioni di dollari. All'Inghilterra si dovevano pagre: 2 milioni di sterline per il primo esercizio, 4 milioni per il secondo e terso, 4 milioni e mezzo per una durata di 58 anni, 2 miliioni e un quarto nel 62° esercizio, in totale una somma di 272.250.000 di sterline. Complessivamente, al momento della convenzione si calcolava un debito di guerra che veniva distribuito sopra tre generazioni di italiani (fino al 1988)". Altro che vittoria !!!.....cui poi si aggiunsero i debiti della sciagurata 2nda Guerra Mondiale, oltre la perdita delle sue Colonie, e la cessione di tanti territori italiani per le basi Usa in Italia.

Asservito al fascismo, nel 1940 il Re (porta la sua firma la dichiarazione di Guerra) attaccò questa volta la Francia quando Parigi era già in ginocchio davanti alle armate di Hitler. Questa volta per il "piccolo" re (non solo metaforicamente) finì molto male, portando pure alla fine - dopo quasi mille anni - la dinastia sabauda. Fece tombola !!!
Riguardo alla sua fuga da Roma, lasciando allo sbando l'esercito italiano, vogliamo ricordare le parole di suo nonno dette a Napoleone III:
(....io sono commosso nel profondo dell’anima e della mia dalla fede, dall’amore che questo nobile e sventurato mio popolo ha in me riposto; e piuttosto che venirgli meno, spezzo la mia spada e getto la mia corona come il mio augusto genitore" (Carlo Alberto).
Calza proprio bene con la "fuga" dell'8 settembre 1943, di suo nipote Vittorio Emanuele III - con la differenza che non gettò la corona, la perse senza onore sulla strada della fuga (questo è quello che pensano molti italiani, ovviamente
esclusi i nostalgici monarchici ).
Eppure pochi giorni prima il 3 settembre assicurava all'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn "Dica al Furher che l'Italia non capitolerà mai, è legata alla Germania per la vita e per... la morte". 
(sì la morte degli italiani!! dopo il suo gesto, con la successiva guerra civile, la resistenza, i bombardamenti dei "nemici" poi... "alleati-liberatori", sui civili, morti più che nella stessa guerra).

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Abbiamo scritto del moralismo di Cavour nei confronti del Re ( quel rapporto con "La Rosina", che gli diceva "essere poco onorevole").
Ma non è che lui disdegnava i "pochi onorevoli incontri" con le giovani donzelle. Solo che per lui - non sposato - quelli erano solo incontri mercenari. Ma (forse) l'ultimo di questi incontri gli fu ancor più "poco onorevole", anzi (forse?) gli fu fatale. (vedi Ma Cavour fu assassinato ? >>> )

1859 - 27 APRILE - Vittorio Emanuele rivolge all'esercito il proclama incitante alla guerra contro l'Austria.

1859 - 1 MAGGIO - Vittorio Emanuele lascia Torino per il quartier generale di San Salvatore Monferrato.

1859 - 31 MAGGIO - Vittorio Emanuele dirige la "BATTAGLIA DI PALESTRO".

1859 - 8 GIUGNO - Vittorio Emanuele entra in Milano con accanto Napoleone III. Insieme iniziano la guerra e marciano contro agli austriaci.

1859 - 24 GIUGNO - Vittorio Emanuele dirige la "BATTAGLIA DI SAN MARTINO". Decisive le battaglie tra Solferino e San Martino. Ma Napoleone III, osservando una situazione che non seguiva i piani di Plombières e iniziando a dubitare che il suo alleato non volesse fermarsi solo alla conquista della Lombardia, sollecitato (disse) dalla moglie a far rientro in Francia perché temeva una invasione di prussiani, dal ....

5 LUGLIO - ....iniziò dei colloqui per stipulare l'armistizio con l'Austria, che Vittorio Emanuele II, senza essere stato chiamato a quei colloqui, dovette poi sottoscrivere. (la stessa cosa poi avverrà nel 1866 in Veneto).

1859 - 11 LUGLIO - Vittorio Emanuele a Villabalzana ha ricevuto il foglio da firmare con l'iniquo "ARMISTIZIO DI VILLAFRANCA".

Cavour è accorso dal Piemonte dopo una cavalcata di un intero giorno. Giunge a Villabalzana alla sera tardi. Dopo aver letto l'armistizio che il Re gli porge, quasi aggredisce il Re. "La guerra l'abbiamo cominciata per prenderci anche il Veneto! - Lei non deve firmare questa robaccia". - "Se lo farà io darò le dimissioni". - Poi "In un impeto d'ira Cavour invitò il sovrano - per dignità - ad abdicare pure lui" - "A questo ci devo pensare io, che sono il re", ribattè Vittorio Emanuele. E Cavour arrogante: "Il re? Il vero re in questo momento sono io!". "Chiel a l'è 'l re? Chiel a l'è mac un birichin!"("Lei il re? Lei non è altro che uno sfacciato!) scattò in piemontese il re, poi rivolgendosi al suo segretario Nigra: "Nigra, ca lu mena a dourmi!" (Nigra, lo porti a dormire!).
Ma il mattino dopo Cavour fu irremovibile con le sue dimissioni, anzi non salutò nessuno e se ne partì per Torino per tornarsene alle sue proprietà terriere.

Ma abbiamo anche un'altra versione...di Kossuth (uomo di Napoleone, presente sul luogo) "All'armistizio di Villafranca, nel 1859, Cavour giunse trafelato a notte alta...a Momzambano. Nel tempestoso colloquio notturno con il Re, per le condizioni del trattato accettate (anche se era ancora da firmare) da Vittorio Emanuele,  perse ogni ritegno e rispetto del suo sovrano. Cavour era fuori di se' dal furore, e fu tale da chiedere le proprie dimissioni...Subito dal Re accettate. Nella sua indignazione egli arriva a dire al re che anche lui dovrebbe dimettersi, abdicare. Allorchè Vittorio Emanuele rispose che, in fin dei conti il Re era lui e che quello era affar suo, Cavour, perde le staffe, e lasciandosi del tutto andare nell'ira diventa perfino insolente "il Re?  Gli italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono io !! ". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra "Si è fatto molto tardi, portatelo a dormire!" Il giorno dopo, presente io (Kossuth) e Petri (uomini di fiducia di Napoleone III - Ndr.) Cavour proseguì con  la propria furia e l' indignazione: "E' terribile, terribile...Alla pace non si verrà!...Io mi farò cospiratore, diventerò un rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovrà attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai"  (Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol. 1, pagg.518-519).

Cavour cospiratore? Rivoluzionario? Lo avrebbe fatto. In Parlamento si alleò con la sinistra, con la destra, con i democratici, con quelli deboli e quelli forti, con i ribelli, con tutti. Usò Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasformò in nemici di altri amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacciò un po' tutti, e s'inventò non le "unioni" ma le "annessioni" che volevano dire "sottomissioni" al regno sabaudo,  il tutto per dare una soluzione monarchica all'unità italiana, e forse se fosse vissuto  (la impudente frase di sopra era già forse un incoffessato programma?)  farne - e perché no? - un Regno personale... come Napoleone III.
Era stato fprse anche lui colpito dalla "alessandrite".

Il rimprovero maggiore che fanno i democratici a Cavour è di essersi servito delle forze della rivoluzione; di aver scippato l'unità; di aver intimorito con l'esercito Garibaldi; di aver fatto il "deserto" intorno Mazzini, per poi brillare solo lui. Anche a costo di scatenare una guerra mondiale, e se necessario, coinvolgere persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo" affermava: "se necessario, noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa".
"Gli inglesi erano addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore" cercasse in modo così deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati" (C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307).ù

Dove sarebbe arrivato Cavour? chi l'avrebbe fermato dopo la programmata guerra in Veneto? Fino a Vienna? come aveva promesso a La Marmora? Con lui forse Re ? E perché non Imperatore? Del resto il suo "amico-nemico" Napoleone III da giovane non era stato anche lui un rivoluzionario e usò anche lui i rivoluzionari per andare al potere?
E' verosimile, non dimentichiamo il tempestoso colloquio di Villafranca con quell' arrogante: "Il vero re sono io!!!.

In quel momento il Re fu più saggio di Cavour, vedeva che porre il suo piccolo esercito a fronte di quello austriaco - che nella battaglia di Solferino aveva spiegate forze superiori a quelle dei due alleati messi insieme - sarebbe stato come voler riperdere quanto si era fin lì guadagnato, - la Lombardia - frutto laborioso di dieci anni di sforzi, di costanza, di sacrificio.

1859 - 13 LUGLIO - Concluso l'armistizio, Vittorio Emanuele rivolge da Milano un proclama di saluto alle nuove - ora sue suddite - popolazioni della Lombardia.

1859 - 20 LUGLIO - Vittorio Emanuele chiama al governo il LA MARMORA, ed il RATTAZZI.

1859 - 7 AGOSTO - Vittorio Emanuele visita solennemente Milano e le altre città della Lombardia.

1859 - 3 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele riceve in Torino la delegazione Toscana che chiede l'annessione al Regno.

1859 - 15 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele riceve in Torino la delegazione parmense e quella modenese che chiedono l'annessione al Regno.

1859 - 24 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele riceve a Monza la delegazione delle Legazioni che chiedono l'annessioni al Regno.

1860 - 16 GENNAIO - Vittorio Emanuele richiama al governo il CONTE di CAVOUR. La vacanza in campagna gli ha suggerito miti consigli e quindi accetta di ritornare al Governo. Sembra che Vittorio Emanuele a spingerlo siano stati gli Inglesi. ma questi non sapevano ancora di un (suo?) attacco al Sud Italia, soprattutto in Sicilia, dove in parte gli inglesi già c'erano come entità economica e avevano un loro programma. Stavano infatti proponendo ai siciliani una indipendenza e una Costituzione, molto simile a quella Inglese.

1860 - 24 MARZO - Vittorio Emanuele firma il trattato con la Francia per la cessione della Savoia e di Nizza. Garibaldi che era nativo di Nizza è furibondo. Fa di tutto per far fare un plebiscito, ma viene ostacolato e rimane con le pive nel sacco.

1860 - 1 APRILE - Vittorio Emanuele firma il proclama di triste saluto alle popolazioni della Savoia e di Nizza. Garibaldi è furioso. Cavour invece molto soddisfatto. Tutto sta andando secondo i suoi piani. Ma non c'erano però in questi piani la prossima spedizione in Sicilia di Garibaldi.
Qualcuno cattivo e malizioso, insinua che Napoloene III si sia poi vendicato, per il comportamento di Cavour avuto prima a Momzambano e poi in Sicilia (unione all'Italia con un improvviso plebiscito burletta (
"io ho votato ma nella scheda c'era già scritto Si" - Dal Gattopardo, del conte di Lampedua). e sembra che lo abbia ripagato con la stessa moneta (il "mezzo" quello della "Nicchia") tramite "una giovane donna, con un viso piacevole" moglie di un commissario di polizia (forse di Parigi), scesa a Torino pure lei in "missione".
Altri cattivi e maliziosi affermano che per la stessa ragione, anche Garibaldi tirò un sospiro di sollievo quando apprese - di li a pochi mesi - la prematura fine della vita terrena di Cavour, vista che lui e Farina ne avevano compromesso l'indipendenza che invece Garibaldi (appoggiato dagli inglesi) voleva offrire ai siciliani.

A proposito di Nizza e della Sicilia, dobbiamo ritornare ai colloqui di Plombieres con lo storico convegno di Cavour e Napoleone III.
E ci dilungheremo fino alla morte dello stesso Cavour.

La lunga conferenza di circa otto ore di Cavour e Napoleone III, andò celebre nella storia, sotto il nome di Colloquio di Plombières. Qui si presero gli ultimi accordi per la imminente guerra che doveva essere iniziata col nuovo anno (1959) partendo dalla Lombardia. Fu infatti stabilito tra le altre cose che, se l’Austria avesse mosso guerra al Piemonte, la Francia lo avrebbe soccorso, e avrebbe fatto in modo che la casa regnante sabauda, ottenesse nell’alta Italia uno Stato di dodici milioni di abitanti, passando come compenso alla Francia la Savoia e Nizza *
[Nicomede Bianchi: Il Conte di Cavour. — Ravitti: Delle Recenti Avventure d’Italia].

Secondo il de La Rive, nella sua Opera, "La Convenzione di Plombières consisteva nella creazione di un Regno dell’Italia settentrionale fino all’Adriatico, compresivi i Ducati di Parma e di Modena, assegnando così al Piemonte una popolazione di 12 milioni di abitanti; la Toscana ingrandita con una porzione degli Stati pontificî; Mentre Savoia e Nizza veniva ceduta dal Piemonte per indennità alla Francia, la quale avrebbe dovuto difenderlo in caso di guerra aggressiva da parte dell’Austria".
A Plombières pertanto la guerra contro l’Austria veniva decisa, e lo scopo di essa nettamente stabilito. [...] .Così a Plombières si cospirava contro l’Austria e contro gli altri Governi della penisola [...].
(l’Italia in quel momento era fatta di molti stati:
Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie cioè il Sud. Stato Pontificio cioè il centro-Italia, Granducato di Toscana, Lombardo-Veneto con Venezia, sotto gli austriaci. Ducato di Parma e Piacenza, ducato di Modena. E Lucca, inglobata nella Toscana. Ed erano quasi tutti con dei protettorati austriaci).

Cavour scrivendo al Generale La Marmora, lettera che figura autografata nella citata raccolta delle lettere dello stesso La Marmora, al punto 2 il Conte Cavour nella sua lettera è molto chiaro:
"2. Che scopo della guerra sarebbe la cacciata degli Austriaci dall’Italia, e la costituzione del regno dell’Alta Italia, composto di tutta la valle del Po, e delle Legazioni e le Marche". (non accenna minimamente al Sud)

E prosegue La Marmora:
"... che la pace non si sarebbe firmata che a Vienna, e che per raggiungere questo scopo si era convenuto di allestire un esercito di 300.000 uomini. Napoleone era pronto a mandare 200.000 combattenti in Italia; mentre in Italia bisognava mettere in campo 100.000 Italiani".

E concludeva:

"Se il Re consente al matrimonio di sua figlia con il principe Napoleone, ho la fiducia, dirò quasi la certezza, che fra due anni tu entrerai a Vienna a capo delle nostre file vittoriose”.
(Bibliografia: Paolo Mencacci -Storia della Rivoluzione Italiana - Volume Secondo- Parte Seconda - Documenti-lettere allegate)

Terminata quella guerra già ricordata sopra - con "l'Armistizio di Villafranca", con la formale e di fatto cessione di Nizza, Garibaldi era furibondo.
Nella tornata parlamentare del 12 di aprile, quando le cose erano diventate irreversibili e ormai di pubblico dominio, ebbero luogo le colleriche interpellanze del Garibaldi intorno a Nizza.
Cavour senza scomporsi con supponenza rispose a Garibaldi che “la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia non era cosa isolata, ma era ´un fatto che rientrava nella serie di quelli che si sono compiuti e che ci rimangono a compiere".
(La Civiltà Cattolica, Serie IV, vol. VI, anno 1860, pagg. 350/351).

Garibaldi furente voleva andare lui a Nizza per sollevare la popolazione per dire No a una specie di vago e addomesticato plebiscito, ma il re intervenne per calmare il Generale e convincerlo a non comparire a Nizza, perchè la questione non si aggravasse" (Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 196).

Ma oltre la questione Nizza, era nel frattempo maturata anche la questione dell’invasione del Sud che lo stesso Garibaldi stava preparando con i suoi "Mille" raccattati un po' ovunque.
Vittorio Emanuele pur informato segretamente, virtualmente si dissociò, non acconsentì alle richieste di uomini e mezzi che voleva Garibaldi, ma nello stesso tempo lasciò che il capo rivoluzionario seguisse il suo ben noto impulso. E Garibaldi, accantonata la questione Nizza, scese a Genova poi a Quarto a fare preparativi.
MAGGIO 1960 - Ma a Cavour non sfuggirono queste manovre, era perfino infuriato e volle affrontare il Re per chiarire fino in fondo le sue intenzioni e le oscure manovre. Ci parlò di persona poi gli scrisse anche un biglietto "Maestà, dopo le parole che voi ieri pronunciaste, qualsiasi ministro avrebbe dovuto dare a quest'ora le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque, perchè sento che ho ancora troppi doveri verso la Dinastia e verso l'Italia. Attendo al riguardo particolari comunicazioni di Vostra Maestà. Pertanto rimango. Cavour".
(Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 201).

Lo statista fu informato della partenza della spedizione a cose fatte, non dandogli il tempo di ostacolarla, figuriamo poi aiutarla. Lui l'aiuto non l'avrebbe mai dato, non solo per le implicazioni politiche, ma anche perché prima di tutto diffidava di Garibaldi per la sua fede repubblicana; dubitava dell'esito della missione ed infine non aveva nessuna stima per Garibaldi; che il Generale però ricambiava -moltiplicandola- nella stessa misura.
Cavour fu quasi contento di essere stato informato a partenza avvenuta. Per lui fu una liberazione per non essere stato coinvolto nella "trama rivoluzionaria". Rimase alla finestra a guardare. Se le cose andavano male, la soddisfazione sarebbe stata doppia, mentre se andavano bene c'erano mille modi per intervenire e per modificare a proprio favore i successivi eventi.
Non facciamo qui tutta la storia della spedizione dei “Mille” in Sicilia. Ma quando Garibaldi passò lo stretto per dirigersi a Napoli, i nervosismi e le preoccupazioni per Cavour aumentarono. Se Garibaldi passava lo stretto e si impadroniva di Napoli, diventava padrone assoluto della situazione; il Re avrebbe perso il prestigio; la corona del Regno Sardo se corona ci sarà ancora, brillerà solo con la luce riflessa dell'eroe avventuriero.

Fermarlo? (Nigra gli consigliò perfino di arrestarlo, convinto che si trovasse in Toscana), Fermarlo non era più possibile né c'era più tempo a disposizione. Garibaldi non era in Rosacana ma l'11 maggio era già sbarcato a Marsala e stava conquistando tutta la Sicilia. E aveva l'intenzione di dirigersi a Napoli.
A questo punto era un grosso errore contrastarlo, la sua impresa agli occhi di tutto il mondo già appariva straordinaria. Quello che si poteva fare era di promuovere subito un'insurrezione antiborbonica a Napoli che rendesse necessario l'intervento dei piemontesi in modo da anticipare l'arrivo dei garibaldini. Bisognava far cadere il governo di Francesco II prima che arrivasse Garibaldi.

Ma la pretestuosa insurrezione su Napoli contro Francesco II, fu un clamoroso fallimento cavouriano. I napoletani non si mossero contro Francesco II, rimasero indifferenti. Quando lo seppe da Villamarina che nessuno si muoveva, Cavour era infuriato, gli telegrafò "....il contegno dei Napoletani è disgustante". (I napoletani criticavano i Borboni, ma di fargli la guerra non se la sentivano proprio).
7 SETTEMBRE - Garibaldi entra trionfalmente a Napoli.
8 SETTEMBRE A questo punto Cavour anche se voleva iniziare un dialogo con Garibaldi, non gli era più possibile. Mentre a Vittorio Emanuele non gli dispiaceva affatto di scendere a Napoli per ricevere – cosa che poi avvenne a Teano – la corona delle due Sicilie. Gli scrisse pure un biglietto affettuoso, si rallegrava del suo arrivo a Napoli, si congratulava di quanto aveva fatto per la causa comune ma aggiungeva pure "...di non fare nessuna altra spedizione (quella verso Roma) o un attacco senza l'ordine mio". Il Re ritornava ad affermare la sua autorità assoluta.

Garibaldi gli risponderà l'11 settembre, dandogli un prossimo appuntamento a Roma per essere incoronato Re d'Italia, e nello stesso tempo lo esortava a "liberarsi di Cavour e di tutti coloro che stanno ostacolando questa mia spedizione".

Il 18 FEBBRAIO del 1861, rientrato a Torino, il Re inaugurò finalmente il primo Parlamento italiano: mancavano solo più i rappresentanti di Roma e Veneto e l'Italia sarebbe stata fatta.
Il discorso del Re dispiacque a Garibaldi: dopo gli elogi all'esercito, non fece su di lui nessun accenno, disse solo un grazie alla "valente gioventù, condotta da un valido capitano”.
E se il Re non accennò al suo nome, Cavour e Farini non facevano davvero molto per procurarsi le simpatie di Garibaldi. Anzi perfino il problema della sistemazione nell'esercito sabaudo degli ufficiali garibaldini che avevano combattuto a sud - che era una richiesta di Garibaldi - lo sorvolarono e l'ignorarono. Poi addirittura il 16 gennaio 1861, fu decretato dai suoi ministri lo scioglimento dell'esercito meridionale a Napoli. Garibaldi era furioso per il "bel ringraziamento!!", sprizzava rabbia dai pori della pelle.

La nuova legislatura iniziò i lavori discutendo il progetto di legge proposto da Cavour per la proclamazione di Vittorio Emanuele a Re d'Italia.
L'ala democratica guidata dal Brofferio voleva che fosse il re "proclamato dal popolo italiano". Ma Vittorio Emanuele volle chiamarsi RE D'ITALIA e non Re degli Italiani; e fu quasi una autoproclamazione quando scelse la formula "Il Re Vittorio Emanuele assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia".
Non solo, ma per ricollegarsi alla "sua" tradizione, volle chiamarsi non Vittorio Emanuele I Re d'Italia, ma II. (insomma l’Italia era e sarebbe rimasta un regno sabaudo. Come voleva del resto Cavour).
Questo era sì un progetto di Cavour, ma ciò che maggiormente criticavano i democratici era che il regno italiano era stato costituito come un allargamento del vecchio Stato piemontese, con conseguente estensione a tutte le regioni delle sue istituzioni; già prevedendo che le stesse – con questa totale "piemontesizzazione" forzata, avrebbero fatto sorgere in futuro complessi problemi.
Infatti il nuovo sistema fu basato su leggi uniformi per tutte le regioni e su una burocrazia dipendente direttamente solo dal centro piemontese. Furono così estese a tutta Italia la legislazione civile e penale del Piemonte con lo Statuto Albertino, che diventa così la Costituzione del Regno d'Italia. E i suoi funzionari di nomina regia, erano quasi sempre funzionari provenienti dal Piemonte o, comunque, dalle regioni settentrionali.
Il rifiuto di osservare questi decreti fecero sorgere le prime resistenze nel sud, scatenando guerre civili; rivolte che passeranno alla storia bollandole sotto il nome di "brigantaggio".

Per correttezza costituzionale Cavour aveva presentato le dimissioni sue e del ministero perché il re potesse formare il primo ministero ora del Regno d'Italia. Era una mossa formale che però quasi gli costava il posto, perché il Re cercò di organizzare un governo anche senza il Cavour.
Ma dato che la Camera (del "connubio") era in gran parte formata da elementi fedeli al programma cavouriano, Vittorio Emanuele II fu quasi costretto a riaffidare il governo all'uomo che andava dicendo - irritandolo non poco (come a Villafranca) - che era solo lui "capace di risolvere tutti i problemi italiani".

E già per questo (come se non bastassero i precedenti) al Re gli era venuto in antipatia; e non era per nulla soddisfatto della politica cavouriana legata a quella di Napoleone III; non lo era per la questione Veneto e Roma; ed era preoccupato perché Cavour si stava interessando troppo alle agitazioni ungheresi (infatti nei suoi progetti non nascosti al Re c'era, che una volta sollevatasi l'Ungheria contro gli austriaci, lui avrebbe fatto contemporaneamente attaccare gli austriaci in Veneto per riprenderselo).
Gli Inglesi con Russel, dissero chiaro e tondo al Re - che li aveva interpellati sulla questione - che "....se Cavour avesse fatto ciò che aveva in mente, avrebbe messo a repentaglio la sua Dinastia ed il suo regno. Che la Russia avrebbe aiutato l'Austria, ed anche l'Inghilterra avrebbe impedito in qualche modo il conflitto austro-italiano".
Eppure il Re aveva ripreso al governo Cavour proprio perchè faceva piacere agli inglesi, invece ora proprio loro non si fidavano più del Conte.

Fra l'altro negli stessi giorni della nuova legislatura, era ricomparso Garibaldi a Torino, che non solo sparlava del governo, ma perfino del Re: "Vittorio Emanuele è circondato da un'atmosfera corrotta, speriamo di rivederlo sulla buona via, ha fatto molto, ma purtroppo non ha fatto tutto quel bene che poteva fare"; che era una vera e propria ingiuria al Re e al Parlamento. Il Re non volle riceverlo a Palazzo.
Esattamente un mese dopo, il 18 APRILE ci fu un violento scontro alla Camera tra Garibaldi e Cavour. Questa volta il Re dovette intervenire per una pacificazione, invitando Cavour e Garibaldi a palazzo reale per arrivare a delle spiegazioni; ma l'ostinato Garibaldi "proclamò" infuriato che non avrebbe mai incontrato nè tantomeno avrebbe mai stretto la mano a Cavour. I due erano reciprocamente insofferenti. Uno l'avrebbe voluto morto, e l'altro pure.

Tutto ciò che si stava decidendo nel Parlamento torinese (la "piemontesizzazione") fu motivo di rifiuto e di rivolte non solo del militari ma anche della popolazione del Sud.
Nel Centro e nel Meridione nessuno dei nuovi politici che dovevano guidare il paese c'era mai stato. Lo stesso CAVOUR non era mai sceso oltre Firenze. Né volle mai andarci, per accertarsi se dopo Firenze c'erano uomini, selvaggi o scimmie.
Di storia antica ne conosceva molto poca. Di Agrigento, di Siracusa non sapeva nulla, non sapeva che qui e nei dintorni c'erano le meraviglie, i palazzi, i templi, i giardini, l'arte, la filosofia e la civiltà, già 2470 anni prima che lui nascesse a Torino, che a quei tempi era coperta dal fango del Po e con i primi abitanti sulle palafitte nel vicino lago di Viverone o a Lanzo.

CAVOUR per migliorare le sue grandi tenute di famiglia in Piemonte guardava al nord Europa, ignorando che i più curati, e i più bei giardini dell'agricoltura europea erano in Sicilia. Lui, amante dell'agricoltura, gli sarebbe bastata una visita per scoprire che nel Sud c'era la terra delle grandi miniere dell'"oro verde". Un patrimonio potenziale della futura nazione, incommensurabile, buttato al vento; e che anche i suoi successori, più ciechi di lui, non seppero mai valorizzare. Anzi distrussero quello che perfino i beduini Arabi - quando vi sbarcarono - avevano valorizzato e al mondo mostrato i pregi, dato valore, creando la Conca d'Oro, con al centro Aziz, "il Fiore" del Mediterraneo (l'odierna Palermo). E altretanto avevano fatto i Normanni.

Poi si lamentavano i politici che nel sud scoppiavano le rivolte. In coro dissero che era una terra di briganti. Si comandò una feroce repressione inviando 116.000 soldati (!!!). Che catturarono e fucilarono 5212 "briganti" (fra questi oltre che capi-popolo, molti regolari ufficiali borbonici allo sbando, (come un famoso 8 settembre 1943, con i partigiani sulle montagne).
Questa insorgenza sociale la definirono "brigantaggio". Ma stava lievitando su tutta la popolazione meridionale (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) mentre loro, i nuovi governanti seguitarono a chiamarli, i capi di quella resistenza, "banditi". E che contro il "dilagare del "brigantaggio" nel sud, bisognava ricorrere a una feroce repressione armata".

Il paradosso fu che in piena guerra civile - perchè tale era diventata la questione meridionale - in questo 1861 si introdusse nel meridione la leva obbligatoria oltre gli inasprimenti fiscali, che colpirono non i grandi proprietari di latifondi ma la popolazione e i consumi popolari. Si arriverà a tassare perfino il pane per ripianare i grossi debiti del Piemonte che erano pari alla metà di tutto il resto d'Italia. Anche la stessa Lombardia, che addirittura aveva un quarto in attivo, si ritrovò in debito.

Nel Salernitano erano nate alcune industrie; le trasferirono nel Nord; e asportarono perfino i pochi binari delle prime modeste ferrovie fatte allora in Italia, chiusero i cantieri navali con le prime navi a vapore apparse in Italia, requisirono le navi, chiusero le banche.

Del resto la destra favoriva gli interessi dei proprietari terrieri del sud (l'unico settore che esportava ortofrutticultura- fra l'altro male esportata per non aver i piemontesi incentivato in seguito i trasporti navali e ferroviari!). Non favorivano né l'industria, né il commercio. Poi diventò un boomerang, infatti, l'industria, non incentivata, rimasta arretrata, creò poi danni enormi alla modernizzazione della stessa agricoltura. Ci si mangiò così la capra e il cavolo nel momento più critico, mentre all'estero era in atto un periodo di grandi trasformazioni, nelle tecniche agricole e soprattutto nei trasporti (con l'Inghilterra che possedeva già 14.000 km di strade ferrate contro i 100 km del sud) (abbiamo detto 100 !!! non è un errore !!!)
Il danno fu irreversibile. Esposti i due settori a una agguerrita concorrenza internazionale, con gli errori sabaudi fatti in questo decennio non permetteranno più ai meridionali di risalire sul treno della competitività, mentre gli altri paesi europei ormai viaggiavano a tutto vapore. Con le prime macchine utensili che in forma esponenziale producevano altre macchine, ferrovie, navi, infrastrutture, e in parallelo tutto l'indotto.
Il 20 agosto del prossimo anno (1862) verrà proclamato lo stato d’assedio in tutta la Sicilia; soppressa la libertà di stampa e di riunione; i sospettati furono deportati nel sabaudo Piemonte a Fenestrelle; instaurata la dittatura militare con pieni poteri per la repressione.
Nel corso dell'anno 6.800 persone si rifugiarono in Egitto. Un accogliente rifugio per i siciliani.
Altri 7000 nel 1863; 9000 nel 1864; 11.000 nel 1865; 18.000 nel 1866. La media fino al 1897 sarà poi di circa 1000 persone all'anno, la media dal 1898 al 1914 è di 2170 ogni anno. Poi ne impiegarono moltissimi come carne da macello, nella sciagurata prima guerra mondiale.

I fuggiaschi verso l'Egitto non erano nè banditi nè briganti. In Egitto crearono e produssero grandi opere. Alcune ancora oggi vanto dell'Egitto: la Ferrovia delle Piramidi, Tranvie, Musei (del Cairo), Teatri, Banche, Ospedali, Dighe, Strade, e perfino la più importante Moschea di Alessandria, la El Rifai, interamente costruita e decorata da Letterio ed Enrico PRINZIVALLI di Messina. Un grandioso capolavoro dell'arte italiana in Egitto.
Prinzivalli lasciò Messina nel 1866. E non era un brigante!
Ma erano gli anni della terribile repressione guidata dai generali sabaudi, commissari straordinari con pieni poteri. Che usarono il pugno di ferro, comminando ai ribelli numerose condanne a morte e ai lavori forzati.

Qualcuno ha scritto che il risorgimento fu una operazione quasi esclusivamente culturale, che gli interessi economici sono venuti dopo, che da soli non avrebbero creato un bel nulla. Invece non è così, ce lo dimostra la Zollerverein tedesca- furono proprio gli interessi economici a sollecitare (e a creare!) l'unione politica della Germania. A creare quel nazionalismo, anche se portato poi più tardi all'estremo, non dalla politica, ma proprio dagli interessi economici (vedi la Biografia di Hitler, e i grandi cartelli industriali). Molto diversi da quella coscienza di grande nazione che aveva concepito e poi realizzato Federico II, dove rigore, economia, politica e grande esercito (quindi stato "forte") erano una cosa sola, e non separate.

Quello dell'Unità d'Italia, e del Risorgimento, si tratta di un dibattito che continua da 150 anni. Che non è finito, ma continua.
Questo dibattito negli anni 2000 è divenuto attuale. Il collante (religione, nuovi costumi standardizzati con i media, istruzione scolastica, mobilità delle persone) si è rivelato artificiale e debole, tutti interventi insufficienti per promuovere l'idea di nazionalità. Vediamo infatti una ripresa dei patetici valori localistici, provinciali, che sembravano solo trenta anni fa scomparsi.


Riprendiamo il discorso cronologico, ritornando al 1860.

1860 - 2 APRILE - Vittorio Emanuele inaugura la VII Legislatura del Parlamento.

1860 - 20 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele rifiuta le dimissioni di Cavour. Erano sorti altri forti contrasti per l'ambiguo (segreto o palese) appoggio dato dal re a Garibaldi nella sua invasione a Sud con l'intento di annettere il Meridione e la Sicilia alla corona sabauda.
Garibaldi dopo la Sicilia sta marciando su Napoli.

1860 - 29 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele parte da Torino per assumere il comando dell'esercito condotto fino allora da Garibaldi verso la conquista di Napoli.

1860 - 8 OTTOBRE - Vittorio Emanuele rivolge un proclama alle popolazioni dell'Italia meridionale.

1860 - 26 OTTOBRE - Vittorio Emanuele s'incontra a TEANO con GARIBALDI, che gli consegna quella che secondo lui è l'Italia. Rimandando più avanti la conquista del Veneto e di Roma.

1860 - 7 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele entra in Napoli con a fianco il generale Garibaldi.

1860 - 8 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele riceve in Napoli dal generale Garibaldi i plebisciti della Sicilia e del Napoletano. Un plebiscito "burletta".

1860 - 22 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele riceve in Napoli i plebisciti delle Marche e dell'Umbria.

1860 - 1 DICEMBRE - Vittorio Emanuele visita solennemente Palermo.

1861 - 18 FEBBRAIO - Vittorio Emanuele inaugura la VIII Legislatura del Parlamento.

1861 - 17 MARZO - Vittorio Emanuele sanziona la legge con cui gli è conferito il nome di RE D'ITALIA.

1861 - 18 APRILE - Garibaldi alla Camera pronuncia un collerico discorso: accusa "la fredda e nemica mano di questo Ministero che ha voluto provocare una "guerra fratricida". I patti di Plombières a Garibaldi gli erano rimasti sempre sullo stomaco, e le ostilità per il suo intervento a Sud non erano di meno.
Cavour - che si sente chiamato in causa - reagisce con violenza chiedendo al presidente della Camera Rattazzi di richiamare all'ordine il generale; invano, irruente com'era, Garibaldi diventò furioso, e continuò rinfacciando "i patti intercorsi tra un ministro piemontese (pur se di nobili natali) e l'ambizioso suo socio "criminale coronato" (Napoleone III).
Rattazzi a quel punto sospese la seduta. Nino Bixio tentò una riconciliazione, ma i due infuriati nemici da anni in "guerra", si guardarono in cagnesco e si ignorarono reciprocamente. Lo abbiamo già detto:
Uno l'avrebbe voluto morto e l'altro pure.

Ma anche con Mazzini, Cavour era in "guerra", lo definiva "il capo di un'orda di fanatici assassini, pericoloso quanto l'Austria". E l'altro non rimase zitto; in un attacco pubblicato sul giornale "Italia del popolo" scrisse: "Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità nazionale, voi l'ingrandimento territoriale". (Alberto Cappa, Cavour, G. Laterza & figli, 1932, pag. 249).
Nè era stato zitto anni prima nemmeno alla guerra di Crimea da Cavour strenuamente voluta e con Mazzini forte oppositore: ai militari in partenza così si rivolse:
"Quindicimila tra voi stanno per essere "deportati" in Crimea. Per servire un falso disegno straniero. L'ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco su terre lontane. Morrete, senza gloria, senza aureola. Per questo io vi chiamo, col dolore dell'anima, "deportati"."

IL DRAMMA

1861 - 29 MAGGIO - Cavour che avrebbe dovuto quel mattino incontrare il Re è indisposto. Parve una delle sue solite indisposizioni. Infatti il male la mattina del 31 pareva già vinto...ma verso mezzogiorno la malattia tornò ad affacciarsi con maggiore violenza in un quadro clinico caratterizzato da accessi di febbre intermittente con un delirio in continuo peggioramento. Delirava e parlava dell'italia già fatta, e di quella che lui voleva ancora fare. E chissà come. Di sicuro senza Roma, per non dispiacere il suo socio "criminale coronato".
Qualcuno disse che era febbricitante per via di una malaria di vecchia data; altri che era delirante per eccesso di lavoro, e per il furioso scontro avuto poche settimane prima con Garibaldi. Ma questa volta la malattia era piuttosto grave.

2-3-4 GIUGNO - Lo stato di salute di Cavour peggiora.

1861 - 5 GIUGNO - Vittorio Emanuele visita il CONTE di CAVOUR moribondo. Ma resta un mistero la sua morte, nonostante tante storie sulla sua precedente malattie febbrile tifoidea. Ma un estratto di cicuta polverizzato ... che s'infiltra nella massa del sangue, provoca una congestione cerebrale che è molto affine alla febbre tifoidea" (vedi i particolari su
MA CAVOUR FU ASSASSINATO ?" > >

1861 - 6 GIUGNO - Il Conte Camillo Benso di Cavour muore, a 51 anni. Era nato a Torino il 10 agosto 1810.

Anche se non è stato proprio assassinato, resta singolare che sia morto per una zanzara. E sarà ancora più singolare che morì per una zanzara anche Vittorio Emanuele II. Si direbbe che l' "alessandrite" porta sempre sfortuna, dagli imperatori romani ad oggi.

1861 - 8 GIUGNO - Vittorio Emanuele chiama al potere il barone RICASOLI.

1861 - 10 OTTOBRE - Vittorio Emanuele invia a parigi a trattare con Napoleone III per la "QUESTIONE ROMANA ", Urbano Rattazzi.

1862 - 1 MARZO - Vittorio Emanuele chiama al potere URBANO RATTAZZI.

1862 - 3 AGOSTO - Vittorio Emanuele lancia un proclama per disapprovare la spedizione su Roma del generale Garibaldi. Ma si dubita che fosse contrario. Non era Cavour! Ma per salvare le apparenze lo fa anche arrestare.

1862 - 5 OTTOBRE - Vittorio Emanuele, appena tre mesi dall'arresto, accorda l'amnistia al generale Garibaldi.

1862 - 8 DICEMBRE - Vittorio Emanuele chiama al potere LUIGI CARLO FARINI.
1863 - 24 MARZO - Vittorio Emanuele chiama al potere Marco Minghetti.

1864 - 11 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele accetta la "Convenzione di Settembre".

1864 - 23 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele licenzia il ministro Minghetti e chiama al potere il generale LA MARMORA.

1865 - 3 FEBBRAIO - Vittorio Emanuele lascia Torino per la nuova capitale Firenze. Si svolgono ostili manifestazioni popolari a Torino che si sente deufraudata da tale decisione. Scoppiarono sanguinosi tumulti per le vie della città, che ebbero come risultato una trentina di morti.

1865 - 23 FEBBRAIO - Vittorio Emanuele ritorna a Torino per calmare le acque. Poi mise la città davanti al fatto compiuto facendo pubblicare sulla Gazzetta del 3 febbraio 1865 il suo trasferimento ufficiale a Firenze. Trascinandosi dietro da Torino 30.000 funzionari. Torino fino all'insediamento e poi ampliamento della Fiat nei primi anni del prossimo 1900, diventerà in seguito una semplice cittadina, senza essere più un punto nevralgico - durato 300 anni - della politica e dell'economia dell'alta italia.

1865 - 7 MARZO - Vittorio Emanuele inaugura in Milano i lavori della GALLERIA che porta il suo nome.

1865 - 14 MAGGIO - Vittorio Emanuele insediatosi nella nuova città, inaugura in Firenze il monumento a Dante.

1865 - 18 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura in Firenze la IX Legislatura del Parlamento.

1866 - MARZO - I rapporti Austria  e Prussia si fanno sempre più tesi. La previsione di una guerra tra le due potenze spingono Otto von BISMARCK a ratificare un'alleanza con l'Italia, contro l'eterna nemica. In caso di vittoria congiunta sugli Austriaci, l'Italia riceverebbe come compenso il Veneto.
Che sarà poi quello - come vedremo più avanti - che infatti cederà l'Austria il 5 Maggio all'Italia, tramite Napoleone III. 

L'8 APRILE,  Rifiutata un'intesa pacifica con l'Austria, l'Italia firma il trattato di alleanza con la Prussia. Con il patto l''Italia sarebbe entrata in guerra a fianco della Prussia e -si contemplava- che nessuna delle due potenze avrebbe firmato la pace o l'armistizio con l'Austria senza il consenso dell'altra.
Il 23 APRILE  l'Austria inizia un concentramento di forze alla frontiera italiana come risposta ai preoccupanti armamenti in corso nel Regno dell'esercito sabaudo, come pure nelle file garibaldine.

Il 5 MAGGIO, l'Austria tramite Napoleone III, tenta una mediazione e offre al Piemonte il Veneto in cambio della rottura del trattato con la Prussia. L'Italia rifiuta perchè vuole anche il Trentino e il Goriziano.

Ma i guai più grossi per il Re incominciarono quando si trattò di organizzare il Comando Supremo della imminente guerra contro l'Austria. Nell'esercito c'erano tre illustri generali, fieri di glorie militari; La Marmora eroe in Crimea, Cialdini eroe a Pastrengo, Della Rocca Capo di Stato maggiore del Re dal 1859. Tre generali nati in epoca rivoluzionaria di scarsa disciplina, tre generali fatti per comandare più che per ubbidire.
Inoltre da anni si parlava di fare una guerra all'Austria, ma nessuno di questi tre generali si era mai incontrato per studiare insieme, esaminare, proporre un piano di guerra corrispondenti alle varie possibilità.

Il peggio venne dopo. Quando La Marmora con il Re e l'intero Stato Maggiore discussero il piano di guerra; alla fine approvato, invece di sottoporlo a Cialdini per metterlo in esecuzione, La Marmora che avrebbe dovuto solo passarglielo, si mise invece a discutere il piano con il Cialdini .
La Marmora progettava di attaccare sul Mincio dopo una diversione del corpo delle truppe sul Po del Cialdini, mentre il Cialdini voleva lui attaccare dal Po il 26 giugno dopo la diversione sul Mincio che il La Marmora avrebbe dovuto fare due giorni prima, il 24.
Cioè l'opposto. In sostanza non sapevano cosa fare di preciso. Attaccare le fortezze del Quadrilatero? Ma nemmeno per sogno. Erano convinti che davanti al duplice attacco gli austriaci la fortezza l'avrebbero abbandonata da soli arretrando su Vicenza, Padova, e lì sarebbe piombato Cialdini dopo aver passato il Po.  E non è che si misero a valutare quale progetto fosse il migliore.

Sappiamo come andarono a finire le cose. Cioè male! La Marmora si fece plagiare dalle idee di Cialdini e andò poi -come vedremo più avanti- con il Re sul Mincio a fare una inutile diversione, poi fece un attacco, finito in una disfatta, seguita da una ritirata sull'Oglio, mentre Cialdini non solo non attraversò il Po ma preso dal panico si mise ad arretrare anche lui su Modena.
Quando dovettero giustificarsi ognuno disse che "si erano messi d'accordo che i due comandi agissero autonomi, salvo aiutarsi in dipendenza dei successi ottenuti". Progetto strano; semmai l'aiuto doveva venire a uno dei due in dipendenza degli insuccessi ottenuti. Perché chi vince una battaglia non ha certo bisogno di aiuti!

12 MAGGIO - Vienna rifiuta di partecipare a una mediazione e si rompono le relazioni diplomatiche quando l'Austria pone come condizione che nessuno dei partecipanti al congresso ottenga ingrandimenti territoriali. 
Nello stesso giorno l'Austria  firma un trattato con la Francia (l'ex amica dei Sabaudi) che si impegna alla neutralità (!!!) ottenendo come compenso dagli austriaci il Veneto che i francesi avrebbero poi ceduto all'Italia. (RICORDIAMOCI DI QUESTO PARTICOLARE) in cambio del riconoscimento della sovranità sugli stati del pontefice e a impegnarsi a far sì che l'Italia non si battesse con troppo vigore.
Inutile dire che questo trattato rese sospettosa la Prussia.
Ma anche in Italia Vittorio Emanuele e il suo governo avrebbero dovuto insospettirsi.

16 GIUGNO - La Prussia dichiara guerra all'Austria e passa la frontiera.
In contemporanea dovrebbero muoversi anche gli italiani, almeno così era stato concordato in un sommario piano strategico. Ma non si muovono. I prussiani non capiscono perchè, visti gli accordi.
17 GIUGNO - La Marmora lascia Firenze dopo che si è incontrato con Cialdini, per portarsi sul Mincio a compiere il primo attacco diversivo.
18 GIUGNO - Lo Stato Maggiore che ha già preparato la dichiarazione di guerra e la sta consegnando all'Austria, viene fermato dal Re. La vuole ritardare di due giorni. I Prussiani ancora una volta non capiscono perché.
20 GIUGNO - Viene ufficialmente finalmente presentata a Verona la dichiarazione di guerra all'Austria. Il Re si porta a Cremona per assumere il comando delle operazioni, fa poi il proclama ai soldati, ed approva il piano di guerra che gli presenta La Marmora (che è poi quello di Cialdini).

Altro progetto strano  "in pieno accordo" Fu quello di non attaccare o assediare le fortezze del Quadrilatero. Fu un grosso regalo al nemico.
Ancor più stranissimo (e qui vediamo una vera e propria assurdità) fu l'azione principale che veniva affidata  a otto divisioni, mentre quella di diversione (di minaccia) a 15 divisioni. E se queste ultime venivano attaccate per prima come avrebbero fatto le altre a portare aiuto?

1866 - 20 GIUGNO - Vittorio Emanuele rivolge alla Nazione il proclama per la nuova guerra contro l'Austria.

1866 - 20 GIUGNO - Vittorio Emanuele chiama la governo il barone RICASOLI.


1866 - 23-24 GIUGNO - Vittorio Emanuele è alla BATTAGLIA DI CUSTOZA.
La Marmora sollecitato da Re (pieno di dubbi) a fare una manovra offensiva invece della diversione, si muove. La Marmora avanzando, rilevò una cosa molto strana; che i ponti gli austriaci ritirandosi non li avevano rotti, quindi pensò che gli Austriaci da quella parte si sarebbero fatti nuovamente vivi con una controffensiva. Mentre sappiamo che i ponti gli Austriaci  li lasciarono intatti proprio per farli cadere in inganno, mentre in tutta segretezza stavano occupando il retro delle colline del Garda da Castelnuovo a Custoza; il 23 già erano a sud-ovest di Sona, a Santa Giustina e Santa Lucia; cioè su quelle colline che il La Marmora additava come meta ai suoi reparti per il giorno dopo, il 24.
Cioè gli Austriaci li stavano attendendo su posizioni prestabilite in attesa di fare la sorpresa, su un fronte perpendicolare al Mincio, mentre il La Marmora era più che mai convinto che nessuno combattimento poteva avvenire - in mezzo - prima di arrivare sulle colline.

I Generali, il Re, i vari comandanti iniziano a commettere tante ingenuità; perchè non conoscono le posizioni del nemico. Varie divisioni italiane vennero di sorpresa a contatto con forze nemiche già schierate sulle colline ai lati, cosicchè ci furono una serie di operazioni slegate, senza che i comandi sapessero quello che avveniva alla loro destra e sinistra.
Il Re attraversò il Mincio al ponte di barche di Pozzolo, poi per Valeggio prese la via di Villafranca. Udì i cannoni da quella parte, pensò che fossero le sue batterie, mandò a prendere informazioni; ma non le ebbe. Salì sulla collina di Monte Torre, ma appena comparve sul cucuzzolo incominciarono  a piovere granate austriache, così capì subito di chi erano. E sotto le granate comparve pure il Comando Supremo con La Marmora non infuriato ma ancora pieno di speranze, anche se non aveva idea di cosa fare; il Re era inquieto per l'attacco alle posizioni di Custoza,  invece ora scopriva che il La Marmora era in giro per il campo, e questo voleva dire che nessuno poteva comunicare con lui. Fra lui e il re sorse un battibecco. Alla fine si decise di andare a raccogliere gli sbandati che scendevano da Monte Torre e Monte Croce. Ma non è che La Marmora si era reso conto ancora della situazione.
Anche il Re sul ponte Tione andò a dare man forte per riunire gli sbandati della divisione Brignone.

Ma oltre che il triste spettacolo, nessun soldato gli ubbidiva perchè nessuno lo conosceva, né voleva prendere ordini da lui in un momento così pericoloso; fin quando l'ufficiale di scorta lo convinse a ritirarsi dal pericolo, e prese la via per Valeggio, per incontrarsi nuovamente con il La Marmora, ma trovò una tale confusione  che proseguì per Cerlongo. Poco dopo a Valeggio arrivò La Marmora ma invece di andare al Quartier Generale di Cerlongo a incontrare il Re proseguì per Goito in mezzo al caos.
Fu a quel punto che il La Marmora finalmente resosi conto, impressionato dalla rovina, andava dicendo "che disfatta, che catastrofe, peggio del 1849!", "Le truppe non tengono!", quando invece -lo riconobbero poi gli stessi austriaci- gli italiani avevano combattuto bene, e che sarebbe bastato un contrattacco per essere da loro sconfitti. 
Dunque la situazione non era del tutto sfavorevole, bastava valutarla; ed occorreva solo dare ordini per attaccare a fondo i nemici ormai esausti e pronti a cedere. Furono invece lasciati in pace a riprendere le forze.

Ma sia il La Marmora che il Cialdini (quest'ultimo non si era ancora nemmeno mosso dal Po) avevano la convinzione che la situazione fosse molto grave ed agirono sotto tale influsso. Il primo voleva ritirarsi, e l'altro intimorito invece di attaccare non solo non si mosse, ma - convinto della disfatta - iniziò a ritirarsi pure lui, verso Modena.
Solo allora Vittorio Emanuele maledisse i suoi errori: quello di aver fatto due eserciti, e che ora si trovava a non comandarne nemmeno uno. Anzi, a vederne nemmeno uno!

Il 24 GIUGNO l'esercito piemontese viene così sconfitto nella Battaglia di Custoza (VR) dal duca ALBERTO d'ASBURGO con un esercito composto da poco più di 70.000 uomini. I soldati di La Marmora, più che essere stati battuti in un vero e proprio scontro si sono fatti sorprendere dagli austriaci prima ancora di iniziare, non conoscendo la dislocazione, i vari punti strategici del nemico, né dove dirigersi.
La Marmora preso dal panico ordina la immediata ritirata che si tramuta in un disastro. Si ritira sbandandosi sul Mincio, e non predispone una difesa nella grande e ciclopica fortezza di Valeggio (oggi, ancora integra e visitabile)  sul lungo ponte che invece avrebbe dovuto bloccare con un valido presidio,  ma arretra fino alla linea del fiume Oglio. Lo stesso Cialdini invece di correre in aiuto a La Marmora sul Mincio e contrattaccare, arretra - lo abbiamo già detto - fino a Modena. Un disastro!
Ciascuno attribuì all'altro la responsabilità della triste iniziativa della ritirata, ma ciascuno fu invece responsabile della propria. 

25 GIUGNO - Il disastro era compiuto. Il Re si lagnò amaramente di tutti i generali, specialmente di La Marmora. Il Della Rocca nella sua autobiografia, afferma che il giorno 25 davanti al Re il La Marmora si assumeva le responsabilità dell'operato come Capo di Stato Maggiore ma nel farlo intendeva prima cacciare tutti i generali incapaci. Altrimenti avrebbe dato le dimissioni. Nasceva una polemica.

26 GIUGNO - Non ottenendo ciò che voleva, le dimissioni le diede il giorno dopo. Ma più tardi nella sua prima relazione del 1868, il La Marmora diede la colpa di quanto era successo tutto al Re "Ero stato nominato Capo di Stato maggiore, in tale carica io potevo proporre, suggerire, consigliare, invece mi si vietava di agire di proprio impulso, di emanare ordini chiari, precisi, assoluti, come è nella mia natura...e mi si costringeva sovente di tacere, cedere, transigere".

In realtà La Marmora agì sempre in piena libertà. E anche la ritirata fu decisa da lui, e non imposta dal Re, che addirittura ubbidì perfino lui ai suoi ordini, mentre il La Marmora non ubbidì a quelli del Re. Inoltre resta il suo telegramma inviato a Cialdini giustificando le sue dimissioni "...Perchè siamo troppi a comandare. Propongo che prendiate Voi il comando con ampia facoltà di far tutte le nomine che credete". Questo era il colmo! fa lui il capo e il sovrano!
Insomma La Marmora si azzardava pure a esautorare il Re. Ma il Re nel frattempo aveva telegrafato a Cialdini per un incontro e per fare il giorno 27 il punto sulla situazione. E Cialdini con molta disinvoltura (rivincita non trattenuta) si affrettò a svelare allo sbigottito La Marmora l'invito regio. Questo era il clima di collaborazione! 

Seguirono dopo la disfatta, tante polemiche e reciproci rimproveri; chi diceva che il La Marmora "ormai non godeva più la fiducia nell'esercito"  (il 28 Vincenzo Ricasoli, colonnello di Stato Maggiore, scrivendo al fratello Bettino a Firenze); e chi diceva che "bisognava dare il comando a Cialdini per risollevare il morale delle truppe" (il generale Menabrea);  Ma Cialdini fece sapere che non accettava l'incarico finché il Re non abbandonava l'armata; e le stesse condizioni chiese poi il La Marmora quando il Re dopo aver prima accettato le dimissioni, poi respinte, gli ripropose di guidare l'esercito. Promettendogli però di "...lasciar fare e di astenersi da ogni atto che possa disturbare, purchè si salvino le convenienze verso di lui dirimpetto all'esercito ed alla nazione, perchè quando un re di Prussia ha il comando supremo dell'esercito, il Re d'Italia non può essere da meno".

3 LUGLIO - Fu il giorno dell'imprevisto. L'esercito prussiano a Koniggratz (Sodowa, in Boemia) decideva le sorti della guerra dopo aver battuto l'esercito austriaco. Vienna il giorno dopo chiedeva una mediazione di Napoleone III per far cessare le ostilità in Italia, anticipando che in cambio avrebbe ceduto il Veneto. Per due giorni l'Italia rimase senza notizie.

5 LUGLIO - Invece di sferrare l'offensiva il giorno 5, tutti i generali furono chiamati al Quartier Generale del Re a Cicognolo. Era giunto infatti un telegramma da Parigi di Napoleone III che comunicava a Vittorio Emanuele avere Francesco Giuseppe ceduto a lui il Veneto, dichiarandosi disposto ad accettare la sua mediazione per il ristabilimento della pace".
L'Imperatore chiedeva al Re di "acconsentire ad un armistizio, potendo l'Italia raggiungere onorevolmente la meta delle sue aspirazioni con un arrangement con la Francia su cui sarebbe stato facile intendersi".

A creare il pasticcio ancora più grosso ci si mise il Principe Napoleone  con un altro telegramma al Re (suo suocero) suggerendogli di scrivere all'Imperatore "...di ringraziarlo per la mediazione, ma nel contempo avvertirlo che non poteva far nulla senza l'intesa con il governo alleato di Berlino, e di continuare ad attaccare energicamente " E non aveva nemmeno tutti i torti (legali e morali) : l'8 aprile l'Italia aveva firmato il trattato di alleanza con la Prussia, dove si diceva che "nessuna delle due potenze avrebbe firmato la pace o l'armistizio senza il consenso dell'altra".
Nè questa volta l'orgoglio di La Marmora era fuori luogo quando telegrafò a Nigra che " ..ricevere il Veneto in regalo dalla Francia è umiliante per noi, tutti crederanno che noi abbiamo tradito la Prussia".  In effetti questo si stava facendo.

Vittorio Emanuele cercò di tracciare uno schema per la risposta a Napoleone, cercando le parole adatte per fargli capire la necessità di assicurargli la dignità di Re.
Ma nello stesso tempo insisteva che venisse fatta l'occupazione del Trentino, inviando una o due divisioni in rinforzo a Garibaldi. Perchè
"...se l'armistizio ci capita prima di averlo occupato, corriamo il rischio di non averlo con la pace" (e non si sbagliava! L'italia lo avrà nel 1919!! assiema allìA.Adige).
Garibaldi con i suoi volontari era nelle Giudicarie. Aveva colto qualche successo a Monte Suello il 3 luglio nonostante le forti resistenze delle truppe guidate dal generale austriaco Kuhn. E stava ora dirigendosi su Bezzecca. 

8 LUGLIO - L'ambasciatore francese a Firenze chiede al governo di sospendere le ostilità.
Mentre l'Imperatore annunciava l'arrivo in Italia del Principe con le proposte scritte. E addolciva il "boccone amaro" lasciando lo spiraglio che l'annessione del Veneto sarebbe avvenuta per mezzo di un plebiscito.

Vittorio Emanuele voleva continuare la guerra ad oltranza, e il ...
9 LUGLIO ...faceva dire al governo Prussiano ch'egli rimaneva fedele al trattato d'alleanza, cioè che non avrebbe firmato. Ma Bismarck - abboccandosi con qualche diplomatico - non era affatto ostile all'idea di chiudere le ostilità, anche se non aveva fatto conoscere le sue intenzioni all'alleato (e se uno stava tradendo nelle intenzioni, il Prussiano non era di meno nei fatti).

20 LUGLIO - Poi arrivarono le due brutte notizie. La "BATTAGLIA DI LISSA" vinta dagli austriaci, e nello stesso giorno la Prussia concordava la sospensione d'armi con l'Austria con una convenzione. 
21 LUGLIO - Senza informare il governo italiano Austria e Prussia firmano un armistizio a Nikolsburg; ed iniziano i preliminari di pace. Non si parla ancora di nessuna concessione all'Italia, che pur essendo alleata della Prussia non è presente, non è stata invitata, ma viene informata a cose fatte.

Il Re a questo punto dovette cedere. Con già il Principe a Ferrara e il ministro francese a Firenze, fu deciso di incaricare il Consiglio di trattare con il comando austriaco la sospensione d'armi per il...
23 LUGLIO ...Questa ebbe decorso dal 25 LUGLIO, e doveva servire per trattare l'armistizio, cioè dettare le condizioni.

12 AGOSTO - Petitti a Cosmons firma l'armistizio di quattro settimane, secondo gli ordini di La Marmora.  Insomma alla fine fu lui - il La Marmora - ad avere salvato tutta la situazione, compromessa fin dal 24 giugno a Custoza. Se non altro salvava l'Italia dai più gravi pericoli. Se dal Mincio gli austriaci non avevano ottenuto una schiacciante vittoria perché avevano ritirato alcune divisioni per impegnarle sul fronte prussiano, ora a pace fatta con i Prussiani, avevano tutte le divisioni libere da riversare sul Veneto. E anche Cialdini l'avrebbero travolto. E nelle condizioni in cui era, l'avrebbero ricacciato di nuovo fino al Mincio.

9 AGOSTO - La Marmora inviò pure dispacci "imperiosi": ordinando a Garibaldi a Bezzecca di fermarsi e di abbandonare i territori occupati ("considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell'armistizio"), e l'altro rispose con il famoso "obbedisco". Ma questo episodio è solo entrato nella leggenda. Garibaldi anche se non riceveva il famoso dispaccio 1072 di La Marmora, che lui  accolse con la famosa espressione, e avrebbe continuato la sua azione, a Trento non ci sarebbe molto probabilmente mai arrivato. Gli austriaci si erano già disimpegnati con i Prussiani già il 21 LUGLIO con l'armistizio e il successivo 26 LUGLIO avevano con loro già firmato la pace. 

Finiva così la III guerra d'indipendenza Italiana. Gli insuccessi militari e politici rivelarono tutte le debolezze del nuovo stato che, evidentemente non poteva ancora competere con le altre potenze europee.
24 AGOSTO - A Vienna viene firmata la Convenzione tra la Francia e l'Austria per la cessione delle Venezie. Gli italiani ovviamente non sono presenti.
 A Vittorio Emanuele - per indorargli la pillora - gli hanno solo promesso il plebiscito nel Veneto. Ma hanno già fatto la cessione prima ancora del plebiscito. Il popolo non contava nulla.

1866 - 4 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele riceve in Torino il plebiscito di Venezia. Che ancora oggi nel veneto chiamano "plebiscito burletta", perchè i giochi erano già stati fatti giorni prima con l'Austria.
Cioè... prima del plebiscito (del 21-22 ottobre ) il Veneto era già stato "passato" dalla Francia all'Italia in una stanza dell'Hotel Europa lungo il Canal Grande. Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano. Questi a loro volta, lo "deposero" nelle mani del commissario del Re conte Genova Thaon di Revel.

Il trattato internazionale (fra Austria e Prussia -23 agosto a Praga) prevedeva il passaggio del Veneto alla Francia che poi lo consegnerà ai Savoia. Nel trattato di pace di Vienna fra l'Italia e l'Austria del 3 ottobre si parla testualmente  "sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate": un riconoscimento internazionale al diritto all'autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio.
Teniamo anche presente che c'è stata l'ipotesi, come scrisse l'ambasciatore asburgico a Parigi Metternich al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3 agosto 1866, di arrivare a "l'indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com'era la vecchia repubblica".

Il generale Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone III di aver protestato contro il plebiscito decretato dal re d'Italia: Napoleone gli risponde di "lasciar perdere".
La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e permette la consegna del Veneto ai Savoia.

Quanto al plebiscito, su "Malo 1866" scrive Silvio Eupani: "Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei viglietti col SI e col NO di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il viglietto al presidente che lo depositava nell'urna".
L'urna del SI era a destra, quella del NO a sinistra.
Una palese intimidazione.

Molto minacciosi e chiari erano anche i manifesti affissi in tutti i comuni entrando nei seggi: " ..il  SI .... lo si vota a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla benedizione di Dio.... il NO ....con mano tremante, di nascosto, come chi commette un delitto..."
"Garibaldi si infuriò perchè i veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo" .
Infatti alle elezioni plebiscitarie votò solo il 30% della popolazione (per lo più nelle grandi città), che allora era di 2.500.000 di abitanti.

Fu molto chiara la lapide commemorativa che così scrive:


"SOTTO"
e i no solo "69" !!

Nel 1903 lo storico Luigi Sutto di Rovigo, fu incaricato di costituire il Museo del Risorgimento, e quindi di ricostruire dati e episodi e numeri del Plebiscito, cercava i verbali dei risultati Comune per Comune. Non li trovò in nessun comune. Andò incontro a un insuccesso quasi totale. Il decreto del 1866 prevedeva che i pretori trasmettessero alla Corte d'Appello i verbali dei risultati Comune per Comune. Luigi Sutto non ebbe mai in visione i fascicoli. E annota sconsolato; "... nè Pretura né Municipi li hanno! nessun giornale del Veneto fece altrettanto, nemmeno la Gazzetta di Venezia,  che nemmeno pubblicò i voti dei Comuni appartenenti alla provincia di Venezia...".
"Ed è deplorevole che i Comuni non conoscano i voti che essi hanno dato per la loro unione alla Patria". , voti che dovevano - secondo i solerti sabaudi - indicare la fine della dominazione straniera".


1866 - 7 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele visita solennemente Venezia.
A elezioni concluse, Vittorio Emanuele II entra a Venezia. Molti libri storici successivi scrissero " ...tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia", e così i giornali di allora: "il Re entrò tra entusiastiche manifestazioni della folla".

Ma non fu proprio così!
Non ci fu una partecipazione popolare.

Si tolsero tutti veramente deferenti il cappello?   
NO! Ci fu subito dopo una sistematica distruzione del patrimonio culturale e linguistico del veneto (lo resero persino ridicolo - questo fino a poco tempo fa, alcuni registi, per far ridere la gente, mettevano sempre nei loro film la serva veneta tonta o il bellimbusto veneto mona), si calpestò l'identità e la cultura, la regione la si abbandonò alla deriva economica, industriale, agricola, artigianale, marittima; e la gente ricominciò a digiunare.

L'ira del popolo veneto, con una buona dose di ironia, fu espressa in tutta una serie di filastrocche, molto popolari. (ma quanta amarezza!).

Quan san Marco comandava (quando comandava San Marco)
se disnava e se senava (si faceva pranzo e si cenava)
Soto Franza, brava gente (sotto la Francia che era brava gente)
se disnava solamente (si cenava solamente)
Soto Casa de Lorena (sotto la casa Lorena)
non se disna e no se sena (niente pranzo e niente cena)
Soto Casa de Savoia (mentre sotto Casa Savoia)
de magnar te ga voja (di mangiar hai solo voglia).

(Giuseppe de Stefano-G.Antonio Palladini - 
Storia di Venezia 1797.1997 - vol II, pag 276, Supernova, Venezia, 1997).

Ogni anno - Dal 1870 al 1880, emigravano verso l'estero, soprattutto verso "La merica", 35 veneti ogni 1 siciliano, 41 ogni 1 pugliese. Dal 1881 al 1890,  12 veneti ogni 1 siciliano, 25 ogni 1 pugliese, 125 ogni 1 umbro. Dal 1891 al 1900, 18 veneti ogni 1 pugliese, 25 veneti ogni 1 laziale, 39 ogni 1 sardo.

Nei successivi 24 anni  emigrarono verso l'estero 1.385.000 Veneti
Nei tre periodi sopra ogni anno rispettivamente 11,98 abitanti ogni 1000 - 20,31 - 33,85

"Savoja Savoja / i nà portà 'na fame troja
Savoja Savoja /
intanto noaltri...andemo via... vaca troja.." 

(A. Moret, L'ultimo cantastorie, Vittorio Veneto, 1978)


1867 - 22 MARZO - Vittorio Emanuele inaugura la X Legislatura del Parlamento.

1867 - 22 MARZO - Vittorio Emanuele chiama al governo URBANO RATTAZZI.

1867 - 30 MAGGIO - Il principe AMEDEO duca D'AOSTA figlio del Re, sposa in Torino la principessa MARIA VITTORIA DAL POZZO della Cisterna.

1867 - 20 OTTOBRE - Vittorio Emanuele accetta le dimissioni del ministro Rattazzi e chiama al potere il CIALDINI.

1867 - 26 OTTOBRE - Vittorio Emanuele chiama al potere il generale MENABREA.

1867 - 27 OTTOBRE - Vittorio Emanuele pubblica un proclama per disapprovare la nuova spedizione del generale Garibaldi su Roma.
1867 - 5 DICEMBRE - Vittorio Emanuele accorda l'amnistia al generale Garibaldi.

1868 - 22 APRILE - Il principe ereditario UMBERTO sposa in Torino la principessa MARGHERITA di Savoia-Genova, sua cugina.


1869 -24 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele promette a Napoleone III (torna a essergli amico) aiuto in un eventuale conflitto con la Prussia, riservando però i diritti dell'Italia su Roma.

1869 - 18 DICEMBRE - Vittorio Emanuele, ammalatosi per una grave malattia, e convinto di trovarsi in punto di morte sposa religiosamente ROSA VERCELLANA contessa di Mirafiori (La "BELLA ROSINA").

1870 - 8 SETTEMBRE - Vittorio Emanuele ristabilitosi scrive al Papa invitandolo a lasciare entrare le truppe italiane a Roma. I Francesi sono in quel momento impegnati con i Prussiani dove poi a Sedan subiscono una sconfitta e Napoleone III viene perfino catturato.

Questa volta il Re non era più contrario di andare all'assalto di Roma. Ormai fino allora l'Italia era quasi, « fatta ma non compiuta » secondo una frase dello stesso Vittorio Emanuele, e gli stessi italiani si sentivano attratti verso Roma, la volevano la capitale d'Italia. Il re anche se impaziente aveva aspettato fiducioso solo l'occasione. E l'occasione venne con il rovescio dei francesi.

1870 - 20 SETTEMBRE - Con la sconfitta della Francia e l'uscita di scena di Napoleone III, ne approfittano i sabaudi. Le truppe di Vittorio Emanuele entrano a Roma quasi sguarnita di Francesi. (Breccia di Porta Pia).

1870 - 9 OTTOBRE - Vittorio Emanuele riceve in Firenze il plebiscito di Roma.

1870 - 5 DICEMBRE - Vittorio Emanuele a Firenze inaugura la XI Legislatura del Parlamento.

1870 - 30 DICEMBRE - Vittorio Emanuele accorre a Roma funestata dalla innondazione del Tevere. Passò tutta la giornata visitando, angosciato, i luoghi più colpiti dal flagello, e ripartì la sera, dopo avere lasciato in Campidoglio una cospicua somma per i danneggiati.
Fu l'occasione per entrare nella futura capitale senza cerimonie e senza le temute intolleranze dei clericali e della nobiltà romana legata agli stessi.


1871 - 3 FEBBRAIO - Vittorio Emanuele sanziona la legge per il trasporto della capitale da Firenze a Roma.

1871 - 2 LUGLIO - Vittorio Emanuele entra solennemente in Roma.
1871 - 27 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura in Roma la II sessione della XI Legislatura.

1873 - 8 LUGLIO - Vittorio Emanuele chiama al potere MARCO MINGHETTI.

1873 - 17 LUGLIO - Vittorio Emanuele visita in Vienna l'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE.

1873 - 22 LUGLIO - Vittorio Emanuele visita in Berlino l'imperatore GUGLIELMO I.

1874 - 4 FEBBRAIO - Giornata nera per l'istruzione degli italiani. La Camera respinge con 140 voti contro 107 il progetto di legge sull'istruzione elementare obbligatoria, sulla gratuita' della stessa, e l'apertura di scuole nei comuni. L' Italia resta con il suo 71 per cento di analfabeti. Mentre Germania Austria ne contano solo un 5 per cento (!!!).
In Italia funzionano 7 scuole su 100 Comuni, tutte in mano a organizzazioni religiose. Mentre in Germania e in Austria 95 scuole su 100, sono gestite dallo Stato.

In alcune città italiane la situazione era un po' migliore (le scuole erano a carico dei Comuni) ma nei piccoli paesi senza risorse la situazione era sempre sotto il controllo delle circa 27.000 parrocchie, dove gli anatemi verso il nuovo Stato ( con alla testa una "banda di delinquenti" e "un re di briganti" - Pio IX) si fanno dai pulpiti ai cittadini che (per l'ignoranza) sono più sentiti e anche temuti. "Chi vi benedice poi la vacca o la vigna malata? Il Re?").

I religiosi sono rigorosi osservanti di quel famoso "Trattato dell'Educazione" dove si diceva....

""L'istruzione scolastica l'approvo per li giovini nobili destinati a famiglie agiate, ma quanto a quelle di umile e povero stato, il buon padre di famiglia si contenti che sappiam leggere li figlioli "la vita de' Santi", e nel rimanente attendano a lavorar li campi.
In quanto poi l'istruzione estesa perfino alle femmine io non l'approvo, ne so vedere quale utilità ne possa derivare alla società. Che insegnino li madri alle figliuole a filare, a cucire e ad occuparsi di esercizi donneschi. In quanto a leggere, al massimo insegnino loro quanto basta per leggere i libri delle preci"

"Trattato dell'educazione politica sociale e cristiana dei figliuoli". 3 volumi di Silvio Antoniano- - Libro Terzo, pag 264, Milano, MDCCCXXI - 1821 !!! - In mio possesso"

1874 - 23 MARZO - Vittorio Emanuele celebra il 25mo anniversario del "suo" Regno (di italiani analfabeti).

1874 - 23 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura la XII Legislatura del Parlamento. Poi darà inizio a una serie di incontri con le teste coronate d'Europa.


1875 - 5 APRILE - Vittorio Emanuele riceve a Venezia la visita dell'imperatore Francesco Giuseppe.

1875 - 18 OTTOBRE - Vittorio Emanuele riceve a Milano la visita dell'Imperatore Guglielmo I.

1976 - 13 MARZO - Vittorio Emanuele chiama al potere AGOSTINO DEPRETIS, della sinistra.

1876 - 20 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele inaugura la XIII Legislatura del Parlamento.

1877 - 7 NOVEMBRE - Vittorio Emanuele sposa anche civilmente la "BELLA ROSINA". Morganaticamente, cioè senza trasmettere ai suoi figli, l'eredità dinastica dei Savoia.

1877 - DICEMBRE - Verso la fine, dopo una battuta di caccia, il Re al rientro si ammala. Secondo alcuni di una febbre malarica, contratta proprio andando a caccia nelle zone paludose del Lazio.

1878 . 1- 7 GENNAIO - I medici affermano che il Re ha i giorni contati. Lo assalgono forti febbri e brividi. l'8 gennaio è quasi in stato comatoso.
Il papa Pio IX, saputo che Vittorio Emanuele è in punto di morte, vorrebbe accordagli i sacramenti con un suo incaricato. Ma Garibaldi rifiuta, pensa a chissà quale suo scopo segreto. Magari per fargli ritrattare certe disposizioni (le Guarentige) mal digerite dal papa. Preferisce il suo cappellano. Si fa poi assistere dai figli, ma i suoi ministri gli impediscono di ricevere l'ultimo saluto de "La Bella Rosina".

(una curiosità:
Il 2 NOVEMBRE del 1870, quando i Piemontesi entrarono a Roma, PIO IX aveva proclamato al Concilio Vaticano il dogma dell'infallibilità, respingendo le guarentigie italiane, scomunicò i responsabili dell'invasione, invitò i cattolici a non partecipare alla vita politica di questo stato italiano ribelle, che il pontefice e la Chiesa non riconosce. Poi fece di più, scomunicò VITTORIO EMANUELE II, dichiarandolo "un re di briganti" alla testa di una "banda di delinquenti".
Infine PIO IX, si chiuse dentro San Giovanni in Laterano dichiarandosi prigioniero. Milioni di immagini furono distribuite alla popolazione in tutte le chiese della penisola con il papa che prega dietro le sbarre di una prigione. I suoi successori dovranno aspettare i Patti Lateranensi di Mussolini nel 1929 per ritornare in San Pietro e governare su un territorio concesso di 0,44 kmq: creando così un nuovo Stato dentro lo Stato, quello Vaticano.

Entrambi i due nemici protagonisti di tanti eventi in Italia, e dopo aver goduto entrambi una popolarità immensa morirono nell'arco di pochi giorni. Infatti il 7 febbraio moriva PIO IX, l'ultimo sovrano dello Stato Pontificio, dopo un pontificato durato 31 anni, 7 mesi e 23 giorni. Superiore al periodo di regno di Vittorio Emanuele II che regnò 28 anni, 9 mesi, 18 giorni.
Ma ricordiamo qui che durante il suo pontificato vennero eseguite numerose condanne a morte di "rivoluzionari", "sabaudi", "garibaldini" che si opponevano al potere temporale della Chiesa. Infatti a Roma sotto di lui - unico stato in Italia - era ancora in funzione la ghigliottina, il cui boia Mastro Titta, al secolo Giovan Battista Bugatti, eseguiva una macabra ritualità, con le truppe presenti tutti inginocchiati (vedi immagini in fondo a questo link > > )

1878 - 9 GENNAIO alle ore 14,3, Vittorio Emanuele muore nel palazzo del Quirinale alle ore 14,35 a 57 anni, 9 mesi, 26 giorni.

Gli succede il figlio UMBERTO, che sei mesi dopo, il 18 AGOSTO subisce un attentato ad opera di un anarchico. Poi nelle successive manifestazioni di solidarietà per il re per lo scampato pericolo, a Firenze, un altra bomba viene lanciata durante il corteo, causando 5 morti e numerosi feriti. Purtroppo per lui, nel 1900 un altro anarchico a Milano gli scaricò sul petto la sua pistola. Salì sul trono il figlio Vittorio Emanuele III.

1878 - 17 GENNAIO - Vittorio Emanuele II viene sepolto nel Pantheon.

La "Bella Rosina" da 8 anni a Roma non aveva mai suscitato pettegolezzi, anche perchè assieme al marito non frequentavano la mondanità della nobiltà romana, e a sua volta quest'ultima - quasi tutta clericale - non aveva molta simpatia per la "popolana", mentre proprio per questo motivo era molto amata dai "popolani romani".
Negli ultimi suoi anni, si trasferì nel palazzo Beltrami di Pisa, che il re aveva acquistato per la figlia Vittoria, e qui morì sette anni dopo nel 1885.
Non fu certo seppellita nel Pantheon accanto al marito, non essendo mai stata regina. Ma i suoi figli riportarono la sua salma a Torino, e qui fecero costruire un piccolo mausoleo molto simile al Pantheon, poi soprannominato "Mausoleo della Bela Rosin". (della Bella Rosina") tutt'ora visibile.

1879 - Chiudiamo con l'ultimo (dopo Cavour, Vittorio Emanuele e Pio IX) protagonista ancora in vita, del famoso periodo Risorgimentale Italiano.
Cioè GIUSEPPE GARIBALDI, che quest'anno lascia sdegnato la vita politica e si ritira definitivamente a Caprera. Ha annunciato le dimissione da deputato scrivendo una accorata lettera al quotidiano romano "la Capitale", "Non voglio essere tra i legislatori di un Paese dove la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà solo ai nemici dell'Unità d'Italia"
E' insofferente ai compromessi dei nuovi notabili; indignato della corruzione, deluso dalla litigiosità e dalla debolezza dei governi (21 in 20 anni). ""Tutta un'altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile Italia; dove all'interno ci sono libertà calpestate, le leggi inosservate, e con un Paese umiliato perfino all'estero".

Perché "perfino all'estero"? - Con l'estero l'Italia si é avvantaggiata con le nuove tariffe doganali protezionistiche che impongono fino a un 30% 40% di dazi nelle importazioni soprattutto sul tessile (la prima vera grande industria italiana della nascente Rivoluzione Industriale). Avvantaggiando così un settore che conosce proprio nel Biellese il suo "miracolo economico", dove in breve tempo per rifornire l'intera Italia sorgono 400 opifici. Qui prima di tutte sorge la nuova fabbrica di QUINTINO SELLA (vedi Biografia > > ) che diventa subito la più grande del Biellese (guarda caso ! - Poi il Sella fonderà le prime Cassa di Risparmio, e fonderà pure una propria banca privata per i suoi concittadini ormai tutti facoltosi. Del resto quando si ha un concittadino Ministro delle Finanze dotato di grande ingegno, anche un piccolo paese, in parte ancora medievale, com'era prima Biella, può decollare.
Solo questo settore molto privilegiato é avvantaggiato, assorbendo dalle campagne manodopera rurale a basso costo per andare a costruire i grandi imperi tessili. Una manovalanza di campagna contadina, non qualificata, debole, e perfino gracile va a riempire i grandi opifici biellesi dove la richiesta della manodopera era diventata altissima. La manodopera di questa industria tessile del biellese e i suoi dintorni (dalla Statistica di V. Ellena del 1876 - (nel 1848 Biella contava solo 8.767 abitanti - Torino città 117.000) é così fotografata dopo appena 28 anni: 282.131 (!!) addetti, di cui 188.486 donne, 90.083 fanciulli, di cui 25.000 dai 5 a 9 anni, che lavorano negli opifici 12 ore al giorno.
Il salario di un operaio maschio adulto era di 1,50-2 lire, quello delle donne oscillava tra i 60 e gli 80 centesimi, i fanciulli percepivano tra i 30 e i 50 centesimi. Pari a 1,2 di pane che fra l'altro nell'acquistarlo ha come "infame strozzinaggio" la "tassa sul macinato", ideata da Menabrea nel 1869, inasprita poi da Lanza su iniziativa proprio di Quintino Sella nel 1870.
La cifra dell'entrata della "tassa sulla miseria" o "della fame" era così notevole, che rinunciare era ormai diventato impossibile o quasi; bisognava prima trovare un'alternativa a quell'introito.
Molti ministri nei successivi governi (soprattutto di sinistra) tentarono di abolirla, ma continuò imperterrita fino al 1884. Sosteneva un ministro delle finanze (Grimaldi) che "bisognava rispettare le priorità delle esigenze del bilancio rispetto a quelle della politica", e pronunciò la famosa frase che diventò proverbiale "ritengo che l'aritmetica non sia un'opinione".
Qualcuno spiegò meglio il concetto "aritmetico" di Grimaldi: "se mettiamo anche una forte tassa sui gioielli che comprano i ricchi, questi sono pochi e il totale sarebbe misero, ma se imponiamo una piccola tassa chi compra solo pane, cioè i poveri, che però sono milioni e milioni, il totale incassato forma centinaia e centinaia di milioni".

Forse sperava non solo Garibaldi, ma tutti gli italiani, che dal Risorgimento, "Tutta un'altra Italia sognavano nella loro vita".
Purtroppo molti dei loro figli e nipoti si immoleranno in un altra sanguinosa guerra nel 1915-18, seguita da un'altra ancora più disastrosa nel 1940-45.
Per i soliti tentennamenti e ambiguità di tre sovrani sabaudi. Anche senza il "guerrafondaio" Cavour.

FINE

vedi il seguito:

VITTORIO EMANUELE III - LA FINE DI UN REGNO > > > >


il giudizio storico di DENIS MACK SMITH (uno dei massimi storici d'oggi)
 nel suo ultimo libro

  I SAVOIA RE D'ITALIA
Così la critica su questo libro:

*** "I Re d'Italia vengono qui impietosamente rivisitati al di là di ogni mitizzazione popolare e secondo un'ottica contraria all'ancor radicato immaginario collettivo" (la Repubblica)

*** "Un indagine storica molto importante anche perchè coglie nel segno molti riferimenti all'attualità, come la vocazione al trasformismo: costante dei re e dei repubblicani governi di coalizione" ( L'Unità)

*** "Le nostre vicende post unitarie sono qui narrate con straordinaria dovizia di esempi, aneddoti e notizie tratte da fonti poco o niente conosciute" ( Il Messaggero)

*** "...Re imbroglioni o dissoluti, generali incapaci o mascalzoni, capi di governo faccendieri o corrotti....di tutti i cosiddetti padri della patria, Mack Smith ci svela il rovescio della medaglia" (Arrigo Petacco).


In questo suo ultimo libro Mack Smith esplora e approfondisce, per la prima volt, il ruolo di Casa Savoia e le personalità dei 4 sovrani secondo un ottica del tutto inconsueta e "controcorrente". Fatti e misfatti di una dinastia che ebbe in mano le sorti dell'Italia in un periodo cruciale della nostra storia.

A dare il via a un'indagine così vasta, difficile e dissacratoria è stato il libero accesso a una grande quantità di documenti, pubblici e privati, custoditi in numerosi archivi d'Europa.
Mack Smith ha potuto così leggere, fuori da ogni censura, i telegrammi, le note diplomatiche e i rapporti segreti che gli ambasciatori dei vari Paesi inviavano ai loro governi. Relazioni che mettono a nudo la realtà semifeudale di una monarchia, solo formalmente costituzionale, retta invece da sovrani dispotici e totalmente irresponsabili.

Per esempio VITTORIO EMANUELE II, considerato "un re galantuomo", fu tutt'altro che tale, invischiato com'era in volgari tresche amorose, oltre che in indecorosi traffici finanziari, Troppo incolto e meschino per il Risorgimento al quale aveva legato il suo nome, si rivelò oltretutto un insaziabile divoratore del pubblico denaro. Con il suo caro ministro delle finanze Cavour.

Il figlio UMBERTO I - il cosiddetto "il re buono" si macchiò d'infamia decorando il generale BAVA BECCARIS  che aveva preso a cannonate la folla milanese scesa in piazza a chiedere pane e lavoro. Uomo senza carattere di un'ignoranza abissale (non aveva mai letto un libro in vita sua!) Umberto I aveva due uniche passioni: le imprese coloniali  e le più azzardate operazioni bancarie.

Con VITTORIO EMANUELE III - "il re soldato" scorre quasi mezzo secolo di vita nazionale sino alla catastrofe. Debole cinico, sleale, non seppe opporsi alla marcia su Roma, e lasciò regnare Mussolini al suo posto, convinto di aver trovato il primo ministro "forte e capace, un vero gentiluomo".

UMBERTO II - "il re di maggio" più che principe ereditario era noto alle cronache mondane come "Prince d'amour" per le sue avventure da play boy con le attricette. Con il suo esilio in Portogallo, si chiude ingloriosamente la parabola della più antica dinastia d'Europa.

Una revisione spregiudicata ma sempre documentata. Oltre che smantellare miti e stereotipi di comodo, il libro di Smith ribalta molti luoghi comuni della nostra storiografia: come quello che vuole la dinastia sabauda relegata in ruoli di secondo piano.
Documenti alla mano, Smith dimostra invece che i Re d'Italia ebbero significativi poteri costituzionali e li esercitarono costantemente, malgrado la riluttanza ad assumere in prima persona la responsabilità delle loro azioni. Furono sempre compartecipi - in modo attivo o passivo- delle decisioni prese dai loro Governi e spesso -anzi- scavalcarono ministri e Parlamento per imporre arbitrarie decisioni proprie.

Nell'affrontare temi e problemi che sono da sempre al centro di accesi dibattiti, Mack Smith svela gli inediti retroscena di molti episodi rimasti oscuri (come la disfatta di Adua e di Caporetto, l'intervento nella prima Guerra, la marcia su Roma, il contraddittorio rapporto tra monarchia e fascismo).

I "Savoia" di Smith si rivela così un'opera fondamentale non solo perchè copre una effettiva lacuna storiografica ma perchè getta nuova luce sugli avvenimenti cruciali del nostro passato, aiutandoci anche a comprendere la nascita e l'evoluzione di molte problematiche socio-politiche ancor oggi irrisolte.

Sono passati centotrenta anni dalla breccia di Porta Pia, e il dibattito sul nostro Risorgimento è più acceso che mai. Le polemiche sull'autonomismo e sul federalismo come quelle sulla sepoltura in Italia degli ex re, hanno rinfocolato negli ultimi mesi antiche questioni.

L'Unità del nostro Paese è stata solo una scelta di piccoli gruppi? Scelta giusta o sbagliata? Responsabilità di oppositori repubblicani come Mazzini e Garibaldi o delle istituzioni monarchiche?  I metodi usati allora, certamente poco ortodossi, si possono avvicinare alla violenza terrorista dei nostri tempi?  Soprattutto è discussa la funzione di Casa Savoia: che colpe attribuirle per la presa del potere del fascismo? E per in modo disastroso in cui l'Italia affrontò l'armistizio dell'8 settembre? E per tanti altri episodi controversi della nostra storia, dalla ferita di Garibaldi all'Aspromonte fino ai disastri coloniali e alle figure non proprio brillanti del nostro esercito?

Proprio questo dibattito in corso e i suoi sviluppi un po' disordinati e disinformati rendono molto prezioso il libro. Mack Smith. è uno storico molto autorevole, il massimo conoscitore della nostra vicenda nazionale nella cultura accademica anglosassone: ma tale ruolo non rende affatto il suo libro più ufficiale o accondiscendente, anzi.

"I Savoia" è un ritratto molto pacato e privo d'ira, ma durissimo non tanto contro la dinastia quanto contro i vizi della cultura politica nazionale. Ne emerge un ritratto impietoso di piccole furberie, velleitarismo, disprezzo per il popolo, retorica innamorata di se stessa, commercio spudorato della cosa pubblica. Certo, la politica italiana dall'unità a oggi non è stata solo questo, ma alcuni campi strettamente dominati dalla "prerogativa regia" e poco considerati dall'agiografia dei libri scolastici, come la politica militare e coloniale, appaiono nella ricostruzione di Mack Smith come il regno del cinismo e dell'approssimazione.

E di alcune scelte fondamentali della nostra storia d'Italia, come l'ingresso nelle due guerre mondiali o l'inizio e la fine del fascismo, emergono pesanti responsabilità personali di Vittorio Emanuele III.
L'interpretazione di Mack Smith può piacere o meno, e certo non occorre essere nazionalisti o monarchici per dolersi di un certo sarcasmo che emerge qua e là fra le righe. Ma solo sulla base dei fatti si può discutere. Proprio per i fatti sgradevoli che raccoglie, prima che per i giudizi duri che esprime, questo è un libro educativo e prezioso: perchè noi siamo i figli della nostra storia, e molte delle forze e dei caratteri nazionali che portarono i Savoia a commettere i loro errori sono ancora là.
(Ugo Volli)  dalla presentazione del libro I Savoia Re d'Italia; Ed Rizzoli, nel Bollettino  "Il Circolo" del novembre 1990, n. 126

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CON LE GUERRE ESPANSIONISTICHE
E LE GUERRE SCELLERATE
PER L'UNITA' D'ITALIA

da Carlo Alberto
a Vittorio Emanuele II e III
I SAVOIA ERANO A BOLLETTA

FURONO SALVATI DAI ROTHSCHILD

di PAOLO DEOTTO

 

Portatevi un attimo con l'immaginazione al secolo scorso. Siete un Re, non è importantissimo di quale paese (poi vi spieghiamo perché), l'essenziale è che siate Re, o Regina, a seconda dei casi. Avete approntato un ottimo piano per invadere il paese di xxyz: le motivazioni ideali ci sono già (qualche intellettuale a tassametro si trova sempre); il popolo è in fermento, ansioso di misurarsi sul campo di battaglia.

Vi immaginate già assiso su un altro trono; magari a quel punto potreste anche proclamare l'impero... Il Ministro della Guerra vi ha appena rassicurato: "Maestà, il morale delle truppe è elevatissimo. La preparazione eccellente. Legioni di giovani premono sui portoni delle caserme chiedendo di essere arruolati !" Estasi.

Meglio di così non si potrebbe proprio andare. Sennonché poi è il turno di un ometto che vi è sempre stato cordialmente odioso, ma lo tenete al governo perché sa fare bene il suo mestiere; ma sembra specializzato nel dare solo cattive notizie.

E' il ministro del Tesoro: "Dunque, Maestà, ho fatto accuratamente tutti i controlli. Se sommiamo le spese straordinarie per gli arruolamenti dei volontari, le riserve di munizioni, circa diecimila fucili nuovi da acquistare (con o senza baionetta? Ma questo non ci cambia molto... ), le indennità che presumibilmente dovremo versare a un po' di vedove, e altre spesucce, beh, insomma, abbiamo in cassa quanto è sufficiente per, dunque dunque, esattamente otto giorni di guerra, purché si stia strettini sul foraggio per i cavalli, altrimenti si ridurranno a sei e mezzo".

A questo punto che fate? Vi piacerebbe molto condannare a morte il ministro del Tesoro, ma vi rendete conto che ciò non risolverebbe nulla. Fine dell'estasi e fine del sogno di conquista; la vita da Re non è sempre tutta rose e fiori, e l'arida legge della matematica è una delle poche leggi realmente uguali per tutti.

Ma ecco che arriva un terzo personaggio. E' un certo marchese Tal dei Tali, tipo elegante, forse un po' troppo (a voi piace di più la figura del rude condottiero), noiosetto e presuntuoso, ma che più volte vi è stato tremendamente utile.
Ha conoscenze in tutta Europa, ha le mani dappertutto; a corte non ricopre nessun preciso incarico, ma ha reso molti servigi, e l'ha sempre fatto con discrezione e tatto. Il marchese avanza con passo elegantissimo, fa appena un inchino impercettibile con la testa verso di voi (porca miseria, ma non ha il minimo rispetto per la Corona... ) e poi inizia, con la sua voce che sembra sempre uscire da un confessionale:
"Maestà, casualmente ho avuto sentore di qualche problematica finanziaria relativa alla santa guerra che Voi intendete muovere contro il paese di xxyz. Certo, Sua Eccellenza il ministro del Tesoro Vi ha giustamente esposto l'arido linguaggio dei numeri, ma io penso che in politica anche i numeri siano variabili; basta ricorrere al credito". "Al credito?" "Certo, al credito. Rothschild".

"Naturalmente, se la cosa è di Vostro gradimento, mi occuperò io di tutto. Sono questioni un po', come dire, banali, e Voi avete ben altre e più alte incombenze nella guida della nazione... ". Eccetera;

Il resto della storia si trasferisce in uffici così riservati, che neanche l'immaginazione può entrarci, quindi smettete pure di pensare di essere Re o Regina. Tornate invece a pensare di essere quel che siete, un normale cittadino che campa onestamente del suo lavoro e che magari in un certo momento della sua vita ha pensato di comprare, ad esempio, una casa. Siete allora andato in banca, avete fatto la vostra brava domanda di mutuo, vi sono stati richiesti circa tre chilogrammi di documentazione per dimostrare quanto guadagnate, che non siete insolvente da almeno undici generazioni, avete firmato un numero spaziale di moduli, avete subito interrogatori da parte di un funzionario che fa tutto ciò "nel vostro stesso interesse", e poi, finalmente, vi è stato concesso l'agognato mutuo, a un tasso che vi sembra un po' pauroso, ma tanto vi hanno garbatamente spiegato che il tasso è quello, e sempre quello. In fondo, tutto ciò è giusto (pensate tra voi, tanto per consolarvi).

La banca deve finanziare solo operazioni sicure, deve verificare tutto con scrupolo, per essere sicura che i capitali prestati torneranno indietro con i dovuti interessi. Insomma, deve far bene il suo mestiere. Ma allora, che senso ha finanziare quel Re di cui parlavamo prima? Se poi perde la guerra, chi pagherà? E la scenetta di prima, era pura fantasia, o solo la rilettura, in chiave un po' stramba, di fatti veri? Vediamo cosa succede nella realtà guardando alle vicende di uno dei più grandi (o il più grande?) banchieri del mondo. Nathan Rothschild, vissuto dal 1777 al 1836, fondatore del ramo inglese della dinastia, aveva una volta affermato che l'insegnamento più prezioso ricevuto dal padre era che politica e affari andavano sempre considerati assieme.

E infatti la storia
di questa grande famiglia è indissolubilmente legata alla Storia della politica europea dell'ottocento. Il nome Rothschild spunta nei più diversi conflitti, ma anche in opere grandiose, come la costruzione del Canale di Suez e arriva anche a superare l'oceano: da Londra fu sempre la casa Rothschild a lanciare, tra il 1852 e il 1875, una serie di prestiti che servirono a finanziare lo sviluppo di quel fenomeno unico dell'America Latina che fu l'Impero del Brasile.

E anche il nostro paese, come vedremo, ebbe legami stretti con questi banchieri, che nella loro storia si trovarono a fornire capitali, con grande equità, ai paesi nemici di Napoleone e alla Francia, alla corte di Vienna e al Re Sabaudo; già, perché i Rothschild si sparsero un po' dovunque, grazie alla preveggenza del fondatore della dinastia, Meyer Amschel (1744 - 1812), che, trattenendo il primogenito Amschel al suo fianco, a Francoforte, spedì gli altri figli nei posti che contavano: Nathan andò a Londra, James a Parigi, Salomon a Vienna e Carl alla corte dei Borboni, a Napoli.

L'accumulo dei capitali era importante, perché significava accumulo di potenza; ma a sua volta, la potenza acquisita con l'appoggio alle case regnanti portava nuove possibilità di accumulo di capitali.

Abbiamo parlato di Meyer Amschel come del fondatore della dinastia, e dal punto di vista puramente commerciale ciò è esatto, perché fu quel mercante ebreo di Francoforte il primo ad allargare l'attività di famiglia all'esercizio professionale del credito.

Ma, a titolo di curiosità,
vogliamo ricordare una ricerca svolta dall'università di Cambridge, che fa risalire al 1560 l'origine del nome che dal secolo scorso significa per tutti finanza. In quel tempo gli ebrei del ghetto di Francoforte vivevano in condizioni di incredibile segregazione; tra le varie leggi assurde che ne limitavano i diritti, una vietava la trasmissione del cognome di padre in figlio. Appunto nel 1560 un tale Isaak Eichanan comprò una piccola casa con una targa rossa, una rot schild. I discendenti di Isaak presero i più diversi cognomi, Hahn, Waag, Bauer, finché uno di loro preferì chiamarsi semplicemente come la casa avita, e nacque il cognome Rothschild. Torniamo a Nathan, il Rothschild inglese. Aveva ben appreso gli insegnamenti paterni circa il profondo legame tra affari e politica, e lo dimostrò il 18 giugno del 1815, giorno della battaglia di Waterloo, quando aumentò enormemente la sua già rispettabile fortuna.

Nathan era presente quel giorno, come tutti gli uomini d'affari che si rispettino, alla Borsa di Londra; in quel mercato era scoppiato il panico, perché si era sparsa la voce di una vittoria dei francesi. La corsa a vendere era diventata inarrestabile e a prezzi stracciati. Un compratore attendeva pazientemente che le quotazioni andassero giù, ancora più giù, e poi comprava, comprava. Era Nathan Rothschild: i suoi incaricati in Belgio gli avevano spedito dei piccioni viaggiatori con un semplice messaggio: "Victory". Il brillante rampollo di Meyer Amschel era divenuto proprietario di uno dei patrimoni più grandi del mondo e suo figlio, Lionel, seppe ben approfittare di questa posizione, assicurando alla banca di famiglia, il cui nome era ormai garanzia assoluta di solidità finanziaria, il monopolio nell'emissione di prestiti internazionali di particolare importanza.

La storia dei Rothschild
inglesi va di pari passo con l'espansione dell'Impero Britannico, che non avrebbe potuto essere tale senza il concorso della potente famiglia. Il titolo di barone, conferito in segno di gratitudine dalla Regina Vittoria a Nathaniel (1840 - 1915) portava nel mondo della nobiltà la stirpe originaria del ghetto di Francoforte. E proprio in patria i Rothschild non ebbero mai terreno facile. Vi fecero affari, ma non assursero mai a ruoli elevati ; non scordiamoci che l'antiebraismo, tragicamente sviluppato da Hitler, non fu però mai assente dalla società germanica del secolo scorso.

Nei paesi di lingua tedesca fu invece Vienna il centro in cui la casa Rothschild conobbe la grande espansione che l'avrebbe portata, anche qui, a divenire creditrice dell'imperatore. Le misure di liberalizzazione del commercio attuate negli anni successivi al 1850 dal ministro Bruck e l'affrancamento dei servi della gleba avevano portato a un eccezionale e tumultuoso sviluppo sia nel campo agricolo che in quello commerciale. Il fiorire di nuove iniziative aveva bisogno del ricorso al credito per non restare un fuoco di paglia: nel 1855 i Rothschild di Vienna fondarono la banca Creditanstalt, che aveva lo scopo dichiarato di eliminare il piccolo Crédit Mobilier, una società finanziaria di proprietà di ebrei parigini. Il nome dei Rothschild era una calamita, e al Creditanstalt si associarono le famiglie più in vista dell'Austria, gli Schwarzenberg, gli Auersperg e i Furstenberg.

Il successo era assicurato
da questa unione dei più bei nomi dell'alta società con il più bel nome della finanza; e se i primi si sentivano sicuri impiegando le loro ricchezze con i banchieri per eccellenza, questi si assicurarono in tal modo l'ingresso ai salotti buoni, fino al salotto buonissimo, quello imperiale. Lo stato era in perenne crisi economica, afflitto da un mastodontico impianto burocratico e da spese militari, aggravatesi con la mobilitazione decisa per la Cavouriana guerra di Crimea.

E iniziò una prassi che tutt'oggi ben conosciamo anche noi italiani, ossia l'emissione di prestiti a catena, peraltro brillantemente organizzati dal Creditanstalt. La finanza sosteneva il regime anticipando i prestiti pubblici e assicurandone comunque l'assorbimento, il regime a sua volta non poteva non mostrare la propria gratitudine, mantenendo quelle condizioni di liberalismo in economia che favorivano la finanza. Insomma, quasi per uno storico contrappasso: in un'Europa che aveva conosciuto spesso il mostro delle persecuzioni razziali, in cui gli ebrei erano stati perseguitati, colpevoli solo delle proprie origini, una famiglia ebrea si allargava nelle corti più importanti, assumendo un peso sempre più determinante all'interno dei sistemi politici dell'epoca.

Raccontavamo della fortunata avventura di Nathan alla Borsa di Londra; ma ricordiamoci che il banchiere aveva suoi emissari in Belgio, al seguito delle truppe inglesi, anche perché era già intervenuto a curare le esauste casse di Sua Maestà dopo la perdita delle colonie americane. E i soldati inglesi che valorosamente sconfissero le truppe napoleoniche a Waterloo erano pagati, di fatto, dalla casa Rothschild. Se ne dovrebbe dedurre che il nome Rothschild fosse visto dai Francesi come il fumo negli occhi.
Niente di tutto ciò; tanti secoli prima un saggio imperatore romano aveva insegnato che pecunia non olet. E infatti le riparazioni di guerra francesi alla Germania, dopo il disastro militare del 1871, non sarebbero state possibili senza l'intervento di casa Rothschild, che fu determinante anche per la realizzazione di quella che resta una delle più grandi opere di ingegneria moderne, il Canale di Suez, fortemente voluto dal francese Ferdinando De Lesseps. Londra, Parigi, Vienna.

I punti cardine dell'Europa (e quindi, nel secolo scorso, del mondo) erano i luoghi naturali di sviluppo dei grandi banchieri. Ma dicevamo prima che anche il nostro paese fu cliente di questa grande stirpe della finanza. Torniamo un attimo indietro, in questa nostra un po' saltellante narrazione di finanza e politica.

Sua Maestà Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, aveva un giovane e brillante ministro delle finanze, tale Camillo Benso, conte di Cavour, che era giunto a tale carica nel 1851, sotto il governo D'Azeglio, dopo una significativa esperienza come ministro dell'agricoltura (carica all'epoca tutt'altro che secondaria, in un paese prevalentemente ad economia agricola). Il predecessore di Cavour alle Finanze, Nigra, aveva ottenuto proprio dalla casa Rothschild di Parigi un prestito per pagare le riparazioni di guerra dovute a Vienna dopo la sfortunata, e scriteriata, avventura militare di Carlo Alberto, predecessore di Vittorio Emanuele I.

Potrà far sorridere il fatto
che i banchieri di Vienna, tramite la loro casa di Parigi, finanziassero un nemico di Vienna per pagare i soldi dovuti a Vienna. Ma bastava che i soldi girassero, e in fondo erano tutti contenti. Tutti, meno Cavour che, per primo, cercò di stimolare la concorrenza e per far ciò diede mano anzitutto a una prima serie di riforme fiscali, che garantissero un miglior gettito tributario allo Stato, nella convinzione che un governo col bilancio in pareggio aveva le carte in regola per presentarsi come cliente primario alle banche.
Non aveva torto: la Banca Hambro di Londra concesse (tramite Cavour che conosceva bene le banche inglesi) un finanziamento allo Stato Sardo e la cosa non fu presa bene dai Rothschild, che si sentivano messi da parte in una posizione che consideravano come spettante loro di diritto: non erano forse i banchieri per eccellenza? Ma Cavour il ministro del piccolo stato seppe tener duro, anche se i potenti banchieri fecero il possibile per deprimere il corso dei titoli piemontesi quotati alla Borsa di Parigi.

Per curiosità, ricordiamo che in questa operazione, con cui in pratica Cavour riuscì a rimborsare parte del debito che lo Stato aveva con i Rothschild, ottenendo denaro a condizioni migliori dalla casa Hambro, fu condotta da un suo uomo di fiducia, il conte Thaon de Revel, che qualche anno dopo sarebbe divenuto uno dei più strenui avversari del grande statista. Cavour non poteva ancora prescindere dal credito privato nella gestione dello Stato, ma continuava nella sua politica di sviluppo della concorrenza, resa possibile dallo sviluppo economico che contraddistinse il Regno di Sardegna nel suo periodo, e che era indispensabile anche in vista della politica di espansione che già era delineata nella sua mente, e che avrebbe portato - forse - alla guerra vittoriosa del 1859.

Quando ancora alla fine del 1852
Cavour arrivò alla vetta del potere con la carica di Primo Ministro, volle mantenere per sé il portafoglio delle Finanze e continuò nella sua linea per un'altra delle grandi opere che si era prefisso: lo sviluppo ferroviario, come supporto indispensabile ad uno sviluppo generale dell'economia. La ferrovia da Torino alle Alpi e la gigantesca opera di traforo del Moncenisio furono finanziate dai banchieri Laffitte e Rothschild di Parigi.

E quando la partecipazione alla guerra di Crimea riportò il bilancio dello Stato a livelli di deficit preoccupante, Cavour si rivolse per un primo prestito di venticinque milioni di lire (a cui ne seguì un secondo) direttamente al governo inglese, non volendo legarsi eccessivamente a banchieri privati, e riuscendo a spuntare un tasso del 3%. La conclusione veloce del conflitto in Crimea permise però a Cavour di riprendere a dedicarsi al suo chiodo fisso: lo sviluppo dell'economia, le facilitazioni all'imprenditoria, per creare quel clima di fiducia che favorisse, finalmente, gli investimenti esteri e non solo i finanziamenti.
E i fatti gli diedero ragione. Nel decennio 1850 - 1860 affluirono sul Piemonte investimenti dall'estero per oltre un miliardo di lire: il capitale straniero giudicava il Regno di Sardegna meritevole di fiducia e si impegnava quindi anche come capitale di rischio e non solo come finanziatore.

I banchieri di Cavour erano ormai numerosi: Rothschild, Laffitte, Hambro, e i fratelli Péreire, gli ebrei francesi proprietari di quel Crédit Mobilier che, come avevamo visto, era il nemico dichiarato dei Rothschild a Vienna.

Insomma, lo staterello del Re Sabaudo, guidato da un politico che aveva ottime idee innovative, apparve nel secolo scorso molto più vivace e aggressivo dei Grandi Stati nella dialettica coi giganti della Finanza, e i Rothschild seppero stare al gioco, sia perché avevano un giro d'affari così ampio che un cliente un po' seccatore non poteva infastidire più di tanto, sia perché non faceva parte del mestiere del banchiere, inteso nello stile Rothschild, fare troppo chiasso o troppe negoziazioni.

Un dispiacere però i Rothschild lo diedero a Cavour; quando questi iniziò la ricerca dei finanziamenti necessari per quella che doveva comunque essere l'opera più importante della sua politica, la guerra contro l'Austria.
Per quanto le trattative fossero segrete, le intenzioni bellicose del Regno di Sardegna erano note e poco convincenti erano le richieste di un credito di quaranta milioni, necessario per costruire ferrovie e banchine portuali.
I Rothschild, anche se la richiesta era rivolta come sempre alla loro sede di Parigi, si ricordarono di essere presenti anche, a Vienna, i banchieri di quell'imperatore contro cui Cavour voleva combattere e, da buoni banchieri, non rifiutarono l'offerta, ma rimandarono semplicemente alle calende greche una risposta.

Un atteggiamento che costrinse Cavour a lunghi negoziati con altri banchieri e con lo stesso Napoleone III, e, presumibilmente, anche se nessun documento ufficiale ce lo dice, a concessioni maggiori del previsto all'alleato francese.

Quest'ultima notazione ci porta ad una domanda inevitabile: la strapotenza finanziaria dei Rothschild quanto influenzò nel secolo scorso la politica delle Grandi Potenze?
La risposta ci sembra che possa essere una sola: i Rothschild non ebbero mai un interesse specifico alla politica, intesa come esercizio del potere e come influenza sulle decisioni dello Stato. Piuttosto la struttura anomala che lo Stato andava assumendo nell'ottocento faceva sì che l'importanza del banchiere divenisse sempre più forte.

E ci spieghiamo: in questo secolo gli Stati iniziano ad assumere iniziative che ne aumentano enormemente le spese. Ciò accade sia nel bene che nel male: i frequenti conflitti sono spese enormi, ma anche le opere pubbliche, che pur portano beneficio a tutti, lo sono. I grandi progressi scientifici e tecnici che resero possibili anche opere colossali portavano progresso ma stremavano le casse di Stati in cui la leva fiscale era ancora incredibilmente arretrata, se guardata con l'occhio di oggi. Anche se oggi ci pare assolutamente ovvio che si paghi, tutti, un'imposta sul reddito.

A metà del secolo scorso Cavour dovette lottare per imporre la tassazione dei proventi dei liberi professionisti, così come l'Inghilterra iniziava, nello stesso periodo, i primi timidi esperimenti di imposta sul reddito. Un altro problema generale degli stati europei era la creazione dei catasti, in mancanza dei quali i grandi proprietari terrieri erano, praticamente, esenti da imposte. Insomma, il vecchio stato, identificato con la Casa Regnante, era troppo cresciuto senza riuscire però ad alimentarsi adeguatamente. E doveva cercare alimento (danaro) all'esterno. E il danaro gli veniva fornito da chi l'aveva, e di mestiere lo imprestava.

E infatti sarebbe stata la Storia stessa a ridimensionare il ruolo del grande banchiere. Il raggiungimento di sistemi fiscali più razionali, ma anche l'istituzione generalizzata, dopo la Grande Guerra, del corso forzoso, avrebbero creato un sistema di finanziamento pubblico del tutto diverso, anche se non esente da difetti, perché le grandi inflazioni (non solo quella catastrofica della Germania di Weimar, ma pensiamo anche a quelle successive di casa nostra, avrebbero a loro volta portato enormi problemi.

E infatti la Casa Rothschild, oggi riunita in una grande holding con sede in Olanda, resta una delle prime banche a livello mondiale, ma non è più la Banca dei Re. E se vogliamo quindi rispondere sinteticamente alla domanda che ci ponevamo prima, ci limiteremo a dire: i Rothschild non avevano nessun interesse a fare politica. Facevano i banchieri.

Ma per le ragioni che abbiamo esaminato, la politica non poteva prescindere dai banchieri.
Dunque, Cavour e il suo Re, non avrebbero mai potuto iniziare le guerre d'indipendenza senza di loro.

PAOLO DEOTTO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Il culmine della potenza europea
in "Storia del mondo moderno", vol. X - Cambridge University Press
Cavour
, di Denis Mack Smith - Bompiani, 1984

Ringrazio per l'articolo
FRANCO GIANOLA
direttore di Storia in Network

LA FINE DI UN REGNO
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