C'ERA UNA VOLTA
IL MATRIARCATO?
IL MATRIARCATO CHE INCUBO...

CONTESE STORICHE - Una domanda che periodicamente affiora
dall'inconscio del maschio timoroso di perdere l'antico potere

di FRANCO GIANOLA

Matriarcato. Ginecocrazia. Ovvero la donna al potere. E' esistito? Ritornerà? Una freccia di angoscia piantata nell'inconscio del maschio. Se ne parla, si polemizza da millenni sotto la spinta di miti (ma anche di deduzioni storiche) certamente nati nel profondo della sfera emozionale della società patriarcale. La contesa continua ai giorni nostri. Il matriarcato esisterebbe negli Stati Uniti, secondo qualche interpretazione maschile locale evidentemente nata da una situazione fobico-ossessiva che distorce le capacità di giudizio.
In realtà la celebre "Momma" americana, (protagonista del fumetto satirico creato dal cartoonist americano Mel Lazarus), che "tenta" di esercitare il potere sui figli adulti senza riuscire a scalfire la sublime indifferenza di questi, calati in una cultura moderno-patriarcale, dimostra l'illusorietà della tesi.

Certamente la donna americana ha diritto di protestare, di fare le grandi battaglie femministe o altro ma il potere reale si limita a fare il muro di gomma, con qualche fastidio, come i figli di "Momma", e a pilotare strumentalmente la società femminile nelle situazioni chiave del momento elettorale.
Niente matriarcato, quindi, visto che il termine significa potere delle madri e potere indica un diritto fondato sulla proprietà delle decisioni politiche, economiche, sociali.
Le first-lady degli Usa (le mogli dei presidenti) sorridono con ammirazione-adorazione al loro eroe (che possono anche rimbrottare, col dovuto rispetto), hanno il potere di pubblicizzare le sue crociate più o meno rovinose; le altre fanno le segretarie, le vice di vario tipo e classe, il braccio destro, le cuoche, le pedagoghe, le ricercatrici e altro ma quasi sempre in ruoli secondari…si pèerdona perfino di aver sopportato le corna in pubblico, insomma, anche qui, come in tutte le altre parti del mondo, si potrebbe canticchiare, rovesciandolo, il verso della famosa e vecchia canzone, uomo, tutto si fa per te.

E' sempre esistito, nella storia dell'umanità, questo stato di subordinazione della donna o c'è stato un tempo in cui lei, la madre, ha tenuto in pugno tutti i livelli di potere? Leggende, miti e ricerche storiche (queste ultime spesso viziate dalla soggettivizzazione) portano verso una risposta che propende per la seconda ipotesi. Gli esempi che vengono dalla profondità del tempo e da analisi recenti, sono innegabilmente suggestivi… e questo ci invita a fare una passeggiata a ritroso nella storia.
Cominciamo da uno studio del missionario americano Asher Wright (vissuto fra gli Irochesi Seneca dal 1831 al 1875 osservandone a fondo le consuetudini), il quale ricorda che…
"… per ciò che concerne le loro famiglie al tempo in cui essi abitavano ancora le antiche case lunghe (amministrazioni comunistiche di più famiglie) prevaleva quivi sempre un clan, cosicché le donne prendevano i loro uomini dagli altri clan… Abitualmente la parte femminile dominava la casa… le provviste erano comuni ma guai al disgraziato marito o amante troppo pigro o maldestro nel portare la sua parte alla provvista comune. Qualunque fosse il numero dei figli o delle cose da lui personalmente possedute nella casa, in qualsiasi momento poteva aspettarsi l'ordine di far fagotto e di andarsene. Ed egli non poteva tentare di resistere, la vita gli era resa impossibile, e non poteva far altro che tornare al proprio clan, in altre parole andare a cercare un nuovo matrimonio in un altro clan, cosa che il più spesso accadeva. Le donne erano, nei clan , e del resto dovunque, la grande potenza. All'occasione esse non esitavano a deporre un capo e degradarlo a guerriero comune".

Ne L'origine della famiglia, il filosofo tedesco Friedrich Engels nota che i resoconti dei viaggiatori e dei missionari, riguardanti la mola eccessiva di lavoro svolto dalle donne tra i selvaggi e i barbari, non sono affatto in contraddizione con quanto è stato detto. La divisione del lavoro tra i due sessi è condizionata da cause del tutto diverse dalla posizione della donna nella società. Popoli presso i quali le donne debbono lavorare molto di più di quanto non spetti loro secondo la nostra idea, hanno per il sesso femminile una stima spesso molto più profonda che non i moderni europei.
E infatti ognuno di noi oggi può rendersi conto che la "signora" della società civile, circondata di omaggi apparenti ed estraniata da ogni effettivo lavoro, ha una posizione sociale infinitamente più bassa della donna primitiva, che lavorava duramente ma era considerata presso il suo popolo come una vera signora (lady, frowa, frau hanno il significato di padrona) ed era tale anche per il suo carattere.
Ma torniamo al modello di vita delle tribù irochesi che è quello che si avvicina, dal punto di vista antropologico, al concetto di matriarcato.

Dagli studi del gesuita Lafitau, fatti nel 1724, e dai lavori seguenti non risulta che nelle sei nazioni che raggruppano il popolo irochese le donne vengano trattate con particolari riguardi, ma è certo che godono di diritti e poteri di rado eguagliati nella storia nota e provata.
In questa collettività la regola della filiazione passa attraverso le donne e la residenza è matrilocale, cioè sono mariti e figli che vivono in casa della donna - e con tutti i mariti e figli appartenenti alla gens - casa sulla quale governa la "matrona".
La matrona dirige anche il lavoro agricolo femminile che si svolge in comune sui terreni collettivi di proprietà delle donne della famiglia, distribuisce personalmente il cibo cotto dividendolo fra i nuclei familiari, gli ospiti e i membri del Consiglio.
L'importanza di queste donne è tale che esse fanno parte del Consiglio degli Anziani della Nazione (che ha come unica istanza superiore il Gran Consiglio delle Sei Nazioni Irochesi). La loro opinione è affidata a un maschio ma la voce di questi non può essere ignorata perché la matrona ha - per legge - diritto di veto per quanto riguarda le decisioni su eventuali guerre. Se la donna non ritiene opportuno o giusto il progetto di guerra e gli uomini tendono a ignorare la sua opposizione, ha la possibilità di bloccare ogni operazione bellica semplicemente vietando alla collettività femminile di fornire ai guerrieri le scorte di cibo indispensabili nei lunghi viaggi di spostamento verso il luogo degli scontri e durante le cacce al nemico.

L'antropologa Judith Brown mette in evidenza, in un suo lavoro del 1970, che le matrone irochesi dovevano la loro condizione privilegiata al fatto di controllare l'organizzazione economica della tribù (a loro spettava anche il diritto di ridistribuire il prodotto della caccia del maschio), la qual cosa è possibile, considerata la struttura sociale martrilineare propizia, perché la principale attività produttiva della donna, cioè l'agricoltura con la zappa, non è incompatibile con la possibilità di occuparsi dei bambini. La Brown sottolinea inoltre che vi sono soltanto tre tipi di attività economiche che consentono questo "cumulo" di incombenze: la raccolta, l'agricoltura con la zappa e il commercio tradizionale.
Un altro esempio dell'autorità della donna in determinati momenti storici - il termine autorità è certamente più aderente alla realtà dei fatti di quello di potere - ci viene anche dall'epoca in cui visse il Profeta fondatore della religione musulmana. A quel tempo, presso le tribù nomadi sia israelite che arabe, la tenda (ciuppah) è proprietà assoluta della donna, tanto che questa viene definita "padrona della tenda" o "padrona della casa".
In genere l'uomo non possiede un rifugio e questa consuetudine lo mette qualche volta in situazioni non proprio piacevoli, simile a quella vissuta da Maometto che, dopo aver litigato con tutte le sue mogli, viene cacciato dalla ciuppah senza tanti complimenti e costretto a dormire sotto le stelle come un saccopelista ante-litteram.

La collettività femminile si rivela struttura portante della società primitiva anche in uno studio condotto sugli Hopi, una comunità di indiani Pueblo che dal VI secolo vive nella zona del piccolo Colorado, in Arizona.
Quando l'esploratore spagnolo Francisco Colorado li scoprì nel 1540, essi vivevano nello stesso tipo di abitazioni usate all'origine della loro storia, divisi in gruppi di circa trecento persone per un totale approssimativo di tremilacinquecento individui. Le notizie più dettagliate sulla vita di questo popolo vengono soprattutto dalle osservazioni fatte sul grande agglomerato di Oraibi, che si è sciolto alla fine del secolo scorso (vedi Uwe Wesel, "Il mito del matriarcato", Saggiatore 1985).
Riporta Wesel che, come tutti i Pueblo, gli Hopi sono agricoltori e vivono principalmente di mais. Solo di tanto in tanto vanno collettivamente a caccia di conigli. La loro società si fonda sul lignaggio matrilineare e la comunità, che produce e consuma in comune, costituisce la "famiglia allargata" (a residenza matrilocale) formata dalla donna e dal marito, dalle figlie sposate e dai loro mariti, dalle figlie e dai figli non sposati e dai bambini delle figlie. Appare chiaro che la situazione della donna è particolarmente favorevole perché, anche dopo la costituzione della coppia, rimane nell'ambito della propria cerchia familiare. Di conseguenza il legame con il marito non è particolarmente forte mentre è molto sentito il rapporto con la madre, i fratelli e le sorelle.

In questa situazione, il maschio acquisito dal gruppo resta isolato e, in molti casi, vittima di una certa provvisorietà che prende dimensione nel suo licenziamento quando ha esaurito la funzione di inseminatore. I figli, ovviamente, restano alla madre. Tuttavia, prima di ricevere l'eventuale benservito, egli ha l'obbligo di lavorare nei campi della famiglia della moglie, dato che la coltivazione della terra è compito base degli uomini. Le donne si sono riservate il governo della casa, la custodia e l'educazione dei figli, la preparazione del mais. Attività, quest'ultima, piuttosto complicata e faticosa, se fatta individualmente, ma di facile esecuzione con il sistema del lavoro collettivo adottato dalle Hopi.
"La posizione relativamente debole dell'uomo - riferisce Wesel sulla base dei documenti da lui consultati - è dimostrata dalla frequente critica cui il suo lavoro viene spesso sottoposto nella famiglia della donna. Ed è una delle cause delle frequenti separazioni. A Oraibi la percentuale delle separazioni era del 34 per cento. Alice Schlegel, che ha studiato da vicino gli Hopi, afferma che essi sono un caso esemplare per quanto riguarda la posizione favorevole delle donne: in altre parole né il marito né il fratello dominano la donna. Non il fratello, perché quando egli si sposa lascia il proprio nucleo familiare per trasferirsi presso quello della moglie dove, come il marito della propria sorella, è a sua volta trattato da straniero e relativamente isolato. Questo fattore, unito alla forte solidarietà fra le donne (confermata dal lavoro collettivo di macinazione del mais) e all'idea che campi e case appartengono alle donne, ha determinato presso gli Hopi un ordinamento sociale estremamente favorevole al mondo femminile, in atto fin dai tempi remoti".

Dagli esempi citati finora vediamo che matrilinearità e matrilocalità producono un sistema matriarcale, ossia una società nella quale il centro, il punto focale, è costituito dalla donna: ma questo non significa che il potere le appartenga, che abbia la possibilità di decidere globalmente sugli orientamenti della vita sociale. Lo dimostra il fatto che soltanto gli uomini possono diventare gli anziani del villaggio e quindi portavoce del villaggio: su questa nomina le donne non hanno alcuna voce in capitolo.
Se l'anziano gode di una posizione estremamente autorevole - s'intende che questa autorevolezza non gli permette di rivoluzionare un sistema sociale, organizzativo e produttivo consacrato dall'esperienza empirica - e anche di privilegi legati al culto, più robusta ancora è la funzione del capo-villaggio, in genere giovane e perciò più duraturo, che viene nominato dal suo predecessore. Anche il capo-villaggio concentra la sua attività nella gestione dei vari culti, settore nel quale le donne hanno scarso accesso (vi sono anche dei culti femminili ma vengono tenuti in scarsa considerazione).

Questa divisione di ruoli non mette in condizioni di inferiorità la donna, visto che praticamente il potere economico è nelle sue mani. Ma non va sottovalutata l'importanza che deriva dalla detenzione dell'autorità religiosa, strumento di grande forza suggestiva, e perciò potenziale strumento di potere.
A questo punto, dopo aver riflettuto sui due modelli sociali descritti, lettrici e lettori saranno ancora in preda al dubbio sollevato dalla domanda iniziale: "Il matriarcato è esistito?".

Gli storici e gli antropologi - quelli seri, s'intende, che si attengono scrupolosamente al metodo scientifico che richiede prove provate con la massima rigorosità - rispondono con un deciso no.
Se ci si attiene ai fatti reali rinvenuti nella storia e alla definizione dell'English Oxford Dictionary dà del termine matriarca identificando questa figura nella donna che ha lo status corrispondente a quello del patriarca, in tutti i sensi della parola, non si può certamente sostenere che nella storia vi sia traccia di istituzioni nelle quali la donna abbia detenuto - oltre a quello familiare - il potere sociale, politico e statuale così come lo detiene l'uomo nell'ambito del patriarcato.
Dunque no, il matriarcato non esiste. Anche se i ricercatori e gli antropologi dell'Ottocento (valga per tutti Joahann Jakob Bachofen, lo scienziato tedesco autore, fra l'altro, de Il potere femminile) hanno scritto fiumi di parole per dimostrare il contrario.
Eppure questa idea del matriarcato è un fantasma costantemente presente nella cultura maschile. Appare molto spesso nella letteratura impegnata come nella novellistica o altra letteratura d'evasione. L'idea della donna al potere e del potere della donna sconvolge e terrorizza gli scrittori protocristiani e li porta a scrivere lunghe e deliranti elucubrazioni sui poteri malefici della donna, presa nella sua singolarità, e della società femminile.
Perché dunque questa ossessione, questo incubo, ricorrente nei secoli, per una situazione mai esistita? C'è dietro forse l'inconscia paura nei confronti della donna, questo "altro", questo misterioso, complesso essere che il maschio primitivo si trova accanto. Un essere il quale - senza che l'homo erectus riesca a spiegarsene la ragione - riesce magicamente a far uscire dal suo corpo un'altra creatura vivente fatta a sua immagine e somiglianza, un essere che ad ogni luna perde sangue da una misteriosa ferita eppure non muore. Un essere misterioso come la Grande Madre Terra, anch'essa dotata di una forza inspiegabile e vitale. Un essere che può ridurre l'uomo in una condizione totalmente subalterna?

Un interessante risposta ci viene dall'antropologa Ida Magli.
"L'itinerario affettivo e psicologico seguito da Bachofen, e sulla sua scia dagli altri assertori del matriarcato, è di grande importanza proprio per queste contraddizioni e va analizzato con cura perché dischiude via via a chi lo osserva meravigliosi e significativi orizzonti su ciò che rappresenta la femminilità nell'inconscio maschile: visioni, immagini, desideri, timori, sogni, angosce, speranze dalle quali è scaturita, con una corrispondenza che affascina e sgomenta, l'immensa costruzione culturale, il castello simbolico nel quale la donna è racchiusa a fondamento e garanzia dell'Artefice maschio. Sfilano così, dinanzi agli occhi stupiti e ammirati di chi legge, associazioni illuminanti e straordinarie, quali solo la ferrea razionalità dell'inconscio può suggerire, e si proietta attraverso l'opera di un Bachgofen, di uno Schmidt, di un Briffault, l'immagine femminile che gli uomini accarezzano e sedimentano dentro di sé e che si rispecchia nella cultura: un'immagine oscura e luminosa, chiara e ambigua, tenera e crudele, protettiva e pericolosa, debole e potente, portatrice di vita e di morte".
"Si nota chiaramente in questo quadro
" afferma ancora Ida Magli in Matriarcato e potere delle donne (Feltrinelli 1982), "come i caratteri della femminilità, nell'attività, fantasmatica dell'uomo, si associno sempre, malgrado la loro apparente grandezza, a elementi negativi, nefasti. Per Bachofen il numero due è femminile, perché allude al dualismo originario, ma esso diventa perfetto soltanto nell'era del padre, della mascolinità, elevandosi alla perfetta armonia del "tre".
"Infatti, continua implacabile la Magli, il principio tellurico religioso è femminile, ma materiale e inferiore, mentre quello superiore, cosmico, si realizza con il principio della luce, che è maschile… la donna è la terra, ma la terra è una forza materiale, mentre l'uomo è il principio spirituale, per cui il diritto materno caratterizza uno stadio dell'umanità la cui concezione religiosa individua nella materia, ossia nella terra, la sede più certa della forza materiale. Il diritto della terra quindi è un diritto sanguinario e feroce che non conosce altra sanzione che la morte; esso caratterizza un'epoca triste, opprimente, selvaggia, l'epoca in cui l'aspetto delle Erinni, immagini femminili della morte, è quello di una schiera grondante di tanto sangue che esse stesse ne sono sazie".

Le connessioni che Bachofen individua fra la mitologia, simbolismo, religioni e immagini femminili della cultura sono così suggestive e racchiudono una tale verità maschile, che basterebbero da sole a testimoniare del fatto che le strutture culturali sono opera del maschio, proiezione esclusiva della sua visione del mondo. Ed è questa verità, al tempo stesso psicologica e culturale per l'inestricabile interazione che esiste fra l'inconscio e cultura, che ha impedito agli antropologi di accorgersi di quanto fossero fantasiose e irreali le loro descrizioni del Regno delle Donne.
Potremmo dire a questo punto, arrivando paradossalmente a conclusioni opposte a quelle della professoressa Magli dopo essere ricorsi alla sua peraltro esatta e affilata analisi, che il matriarcato esiste. Esiste in quanto è nel conscio e nell'inconscio del maschio, dell'intera società maschile.
E' solo idea, idea ossessiva per l'esattezza, ma le idee, consce o inconsce che siano, pilotano il comportamento sociale. Se questa idea, chiusa nell'archivio storico dell'inconscio collettivo maschile, non viene riportata alla luce e analizzata, il matriarcato, o, se si preferisce, la paura del matriarcato, continuerà ad esistere. Continuerà ad esistere quella paura della donna - perché questa idea altro non è - che rende affollati gli studi degli psicanalisti.

Una paura che viene da lontano, dai territori della mitologia dove prendevano corpo terrori, problematiche e simbologie espresse dall'uomo diventato padrone dell'immaginifico.
L'uomo, il maschio storico, teme continuamente di perdere il potere, e questo timore lo esprime attraverso tutti i suoi mezzi i comunicazione, dalla letteratura, all'arte, alla musica. Per questo egli immagina che la dama di Ragnell risponda, quando re Artù le chiede quale sia il desiderio femminile contemporaneamente più sublime e più abbietto:
"Sire, c'è una sola cosa in cima ad ogni nostro pensiero che tu adesso devi conoscere: noi desideriamo sull'uomo, più che su tutte le cose del mondo, avere imperio".
Questa paura trapela anche dalle pagine dell'Antropologia pragmatica (1798) scritta da quel grande pensatore tedesco che fu Immanuel Kant.
Disquisendo sulla sete di potere il filosofo afferma che "per quel che riguarda l'arte di dominare direttamente, come, per esempio, quella della donna per mezzo dell'amore verso di sé che essa ispira nell'uomo, per asservirlo ai propri fini, essa non è compresa sotto questo titolo, perché non comporta nessuna violenza, ma sa dominare i suoi soggetti col proprio fascino. Non che il sesso femminile, nella nostra specie, sia privo dell'inclinazione a dominare quello maschile (il contrario è vero) ma esso per il suo scopo di dominio non si serve del medesimo mezzo di cui si serve l'uomo, cioè non del privilegio della forza (che qui si sottintende nel termine dominare) ma di quello dell'attrattiva, che include in sé un'inclinazione dell'altra parte a lasciarsi dominare".

Il fantasma alberga anche nella mente del più grande poeta tedesco, Wolfgang von Goethe (1749-1832), che nel primo atto del Faust fa dire a un personaggio:
"Le madri! E' sempre come se mi colpisse un fulmine. Che cos'è questa parola che non mi piace sentire?"
Ma torniamo ora alla ricerca delle origini dell'idea di matriarcato (che ispira reverenziale timore) verso tempi molto più lontani, all'età della pietra, nella quale l'archeologia è andata a strappare testimonianze che permettono di sostenere abbastanza solidamente la convinzione che ai primordi della storia la dimensione donna abbia avuto nella vita del maschio un ruolo dominante.
In questo periodo lungo circa 25mila anni, troviamo che l'immagine scultorea, sia che provenga da Willendorf, nella Bassa Austria, dove venne trovata la famosa Venere, o dalle caverne di Laussel in Francia, o da altri posti, ha sempre fattezze femminili. Altri reperti con queste indicative caratteristiche sono stati portati alla luce nelle steppe russe, nella valle dell'Indo, nell'Asia centrale e nel bacino Mediterraneo. Rappresentano la più antica forma d'arte e le prove archeologiche più ricorrenti sul mondo antico. Fra questi muti testimoni di pietra la figura maschile appare rarissimamente o è del tutto inesistente.
Queste figurine femminili sono stranamente attraenti.

"Personalmente sono sempre rimasto particolarmente colpito dalla cosiddetta Venere di Willendorf", scrive Wolfgang Lederer (psichiatra e psicanalista viennese che si è trasferito negli Stati Uniti nel 1983), in Ginofobia (Feltrinelli 1973). "In effetti non era proprio una tipica bellezza, neanche per la Vienna fra le due guerre, dove le rotondità erano più apprezzate che nell'America odierna. Nessuna delle gaie signore amanti della buona tavola… aveva la stessa massa adiposa o se ne avvicinava anche lontanamente. Ma nessuna di loro aveva la medesima compostezza. Nell'inclinazione della testa, dalla accuratamente pettinata, nelle braccia graziose gentilmente ripiegata sugli smisurati seni penduli mi sembrava di scorgere un'espressione di sereno orgoglio; nei rotoli increspati di grasso sopra la pancia e i fianchi, nelle natiche e cosce enormi, una forte determinazione; in quell'atteggiamento completamente assorto, un grande senso di sicurezza".
"Fra tutte le statue che ho visto"
,
osserva Lederer, "mi è sembrata l'unica capace di stare in qualunque luogo: imperturbabile, distaccata. Non ha bisogno di volto: tutto quello che conta in questo mondo non sembra stare attorno, ma dentro di lei".
Di queste statuette ne esistono diverse e sono analoghe. Hanno in comune la nudità, le elaborate pettinature, gli ornamenti, l'enfatizzazione delle dimensioni delle fonti della vita ossia il seno e la zona pubico-genitale. Alle volte si ricorre alla stilizzazione, come nelle Cicladi e in Anatolia, con la quale la figura femminile viene sintetizzata in un basamento rialzato scolpito nel marmo. Ma comunque tutte le immagini, siano stilizzate siano realistiche al massimo, esprimono con estrema potenza la stessa interiorità e autosufficienza.
Queste donne erano dee, afferma con sicurezza lo studioso, e per un arco di tempo cinque volte più lungo di un'epoca storica - e molto più a lungo di qualsiasi altra divinità - sono state le sole ad essere venerate.
E' da notare, per capire l'idea di potenza femminile che viene introiettata dal maschio, che in genere queste figure non hanno piedi: sono di terra e piantate nella terra, fermate nell'atto di sorgere: è la nascita dalla grande matrice, matrici a loro volta.
Questi simulacri venivano adorati nelle caverne naturali o nelle fessure della terra, o in caverne costruite dall'uomo che erano templi bui ottenuti ammassando le une sulle altre enormi lastre di pietra (caverne, buio, anfratti sono chiari simbolismi con i quali il maschio primitivo esprime la sua tremante reverenza nei confronti del mistero della nascita, quel mistero custodito nel corpo di questa sua compagna che ha un potere tanto più grande del suo).
Il potere di generare, di nutrire, di popolare il mondo identifica la donna con la terra, con la quale ha in comune sia il potere di generare sia l'imprevedibilità catastrofica che fa parte del ciclo di momenti evolutivi ma che l'uomo definisce con il termine crudeltà. La Terra dunque, con tutta la sua potenza, è il femminile, l'origine, il principio dell'umanità, la Grande Dea dalla quale discende ogni cosa.

"Certo questa è una costruzione maschile"
come afferma Ida Magli (e con lei Simone di Beauvoir ed altre autrici di indubbio valore). Ma a questo punto sorge una legittima domanda: perché l'uomo non ha messo sé stesso - già in quei lontani tempi - al centro dell'universo nel ruolo del Grande Dio fecondo, custode dei grandi misteri?
MATRIARCATO, CHE INCUBO…
Nella mitologia dell'antico mondo greco troviamo le figure di dei potenti, bellicosi, capricciosi, libertini, litigiosi, vanitosi, caratterizzati da comportamenti infantili o adolescenziali, nei quali il maschio ha riprodotto, inconsciamente o no, il proprio modo di vivere la vita. Ma all'inizio di questa progenie che è uscita dalla retta via egli colloca la Grande Madre, la Grande Dea.
Dal Caos primordiale nasce infatti Gea, la Grande Madre Terra la quale partorisce, senza bisogno di connubio alcuno Urano (il cielo), Ponto (il mare) ed Eros, (cioè l'amore creatore della vita).
Col tempo a Gea vengano dati caratteri meglio definiti e diventa così la madre di tutti gli esseri viventi e, insieme, del mondo sotterraneo nel quale essi, compiuto il loro ciclo, vanno a finire.
L'incubo del matriarcato viene espresso anche nel mito delle Amazzoni (nell'immagine sopra) nel quale accanto al potere, alla forza magica, appare anche la crudeltà, primo segno di una trasformazione del timore in vero e proprio terrore. Le Amazzoni costituivano una popolazione residente in uno stato della regione del fiume Termodonte, sulla costa meridionale del Mar Nero. Erano governate da regine (la più grande delle quali fu Pentesilea) e il potere era interamente in mano loro; gli uomini erano ridotti al rango di schiavi, considerati soltanto come riproduttori e resi inabili all'uso delle armi, uso riservato alle sole donne che, per poter meglio maneggiare l'arco, sottoponevano al taglio di uno o di ambedue i seni (da qui il nome: a-mazos, senza seno). Secondo la leggenda queste donne, a parto avvenuto, uccidevano (o accecavano, secondo altre versioni) i figli maschi.
Eva Cantarella, docente di diritto romano all'università di Parma, ricorda il meno noto mito delle Lemnie. Queste avevano dei mariti "ma avendo offeso Afrodite, erano state punite dalla dea: colpite da un terribile cattivo odore (dysosmia) erano state rifiutate dai loro uomini, rifugiatisi tra le braccia di giovani e più piacevoli schiave tracie. Le Lemnie allora, per vendicarsi, avevano sgozzato tutti maschi dell'isola, e da quel momento Lemno era diventata una comunità di sole donne, governata dalla vergine Ipsifile. Un giorno, però sulla nave Argo era arrivato Giasone ed era stata la fine del potere femminile. Gli Argonauti si erano uniti alle Lemnie (il cui cattivo odore era scomparso nel momento in cui avevano accolto gli uomini); Giasone aveva sposato la regina Ipsifile…" (da "L'ambiguo malanno" - Editori Riuniti.

Ma vediamo di leggere con un minimo di attenzione i fatti, avverte l'autrice. Innanzitutto sia le Amazzoni che le Lemnie erano donne crudelissime, le Lemnie addirittura selvagge al punto i divorare "carne cruda". Sia le Amazzoni sia le Lemnie, inoltre, erano comunità di sole donne: in nessuno dei due racconti, quindi, le donne regnano su una società normalmente composta di uomini e donne. E per di più, se il regno delle Amazzoni è indeterminato nel tempo, quello delle Lemnie è ristretto a un periodo per così dire patologico della vita del gruppo e come tale destinato a sparire non appena, con gli uomini, si presenta la possibilità di tornare alla normalità.
"Anziché rappresentare un momento di potere matriarcale", commenta la Cantarella, "questi miti sembrano insomma voler esorcizzare l'idea di un eventuale potere femminile. E di recente, del resto, sono stati oggetto di interpretazioni ben diverse da quella ottocentesca, che su di esse fondava una ricostruzione storica. Il mito delle Amazzoni in particolare è stato letto come la rappresentazione mostruosa, fatta dai greci, di un mondo barbaro e selvaggio, opposto alla cultura: non a caso, quindi, composto da sole donne".
Il mito delle Amazzoni sembra essere quello più suggestivo, fra quelli elaborati dalla fantasia dell'uomo, proprio perché è il più estremizzato e il più esemplare. Tale è la sua efficacia e la sua ricorrenza nelle citazioni storiche da sfiorare la possibilità di assurgere alla dignità di momento storico reale. Man mano che il tempo passa il mito si arricchisce, le deduzioni, che scaturiscono da flebili indizi rinvenuti nei territori studiati dall'archeologia vengono portate nelle discussioni come elementi a sostegno della causa di santificazione storica.
A questo proposito Lederer fa notare che recentemente è stata fatta l'ipotesi che il nome Amazzoni derivi dall'armeno e significhi Donna-Luna. La definizione deriverebbe dal fatto che queste donne sarebbero state sacerdotesse armate dalla Dea Madre, che porta la Luna come emblema. Secondo questa nuova ipotesi le Amazzoni si impadronirono di gran parte dell'Asia Minore e del Nord Africa e fondarono le città di Efeso, Smirne, Cirene e diverse altre.

La loro regina Lisippe stabilì che anche agli uomini toccasse sbrigare le faccende domestiche mentre le donne combattevano e governavano. Venivano perciò fratturate le braccia e le gambe ai bambini perché non fossero poi in grado di viaggiare e battersi in guerra. Queste donne "anormali" non rispettavano né giustizia né pudore ma erano stupende guerriere e per prime usarono la cavalleria (la zona d'origine delle Amazzoni, le steppe della Russia meridionale, era ed è regione di cavalli).
Secondo una delle versioni venute ad arricchire la leggenda le Amazzoni delle montagne del Caucaso si sarebbero accordate con un popolo maschio confinante, i gargarensi, per ritrovarsi ogni primavera sulla sommità della montagna che separava i due territori e trascorrere due mesi assieme, abbandonandosi a promiscui amplessi nel cuore della notte.
Non appena un'Amazzone si rendeva conto di essere incinta faceva ritorno al proprio territorio per rientrare nella sua casa. Dopo il parto tra i piccoli nati veniva fatta la selezione: le femmine diventavano amazzoni ed educate all'esercizio del potere e delle armi, i maschi venivano affidati ai gargarensi - e questa è un'altra delle ipotesi, in contrasto con la precedente - i quali, non potendo stabilire con esattezza la paternità, non facevano altro che distribuire i piccoli a caso nelle varie capanne.

In quest'ultima e più estesa versione del mito traspare più chiaramente, attraverso nuovi e più precisi particolari, la proiezione della paura dell'uomo sulla figura femminile, una paura che ingloba il timore dell'abbandono, della sopraffazione e del conseguente annullamento.
Il fatto che le Amazzoni vivessero senza il maschio dopo averlo strumentalizzato, e reso impotente in senso lato, è indicativo. I greci ne hanno una paura folle e i loro racconti dicono che queste terribili femmine "lottano contro gli uomini, uccidono gli uomini, sono divoratrici di carne, avide di guerra".
Paura spiegabile se si considera il fatto che - sempre ricordando che siamo sul territorio della deduzione storica - a quell'epoca le Amazzoni disponevano di una cavalleria che travolgeva i nemici con furiose e fulminee cariche dall'effetto devastante mentre i greci combattevano ancora appiedati: non solo, si pensa che questo popolo di donne conoscesse già il ferro e le sue applicazioni belliche mentre i greci erano ancora fermi al bronzo.
Immaginabili gli effetti di una battaglia in queste condizioni di netta inferiorità. Dalla leggenda - o c'è un filo di verità? - si evince che i diversi nemici quando combattevano contro le Amazzoni dovevano affrontare non solo l'avversione biologica e inconscia a battersi contro le donne, ma dovevano fare i conti anche con la propria profonda paura della castrazione.
Probabilmente a causa delle esperienze con le Amazzoni - osserva Bernice Schultz Engle in "Le Amazzoni e l'antica Grecia" - "gli uomini greci sembrano aver perennemente paura di essere sopraffatti e di perdere i propri privilegi ad opera delle donne. Le donne, d'altra parte, dimostravano grande crudeltà nei confronti degli uomini ma anche nei riguardi dei bambini".

Quest'ultima annotazione sulla crudeltà delle donne può essere spiegata come una forma di vendetta obliqua nei confronti dell'uomo greco che aveva praticamente ridotto in schiavitù la donna riducendola al rango di sottoproletaria priva di diritti civili.
Dov'è dunque, a prescindere dalla mitologia, la radice di questa protostoria che manda ai posteri l'idea della donna come detentrice del potere?.
Secondo Lewis Mumford, autore de "La città della storia" (Editrice Etas Kompass), nell'antica società neolitica, prima dell'introduzione dei cereali, l'egemonia della donna è assoluta. Il sesso s'identifica allora con il potere. E questa non è soltanto un'immagine poetica intensificata dalla libidine… il contributo femminile all'educazione dei bimbi e alla cura delle piante aveva trasformato l'esistenza ansiosa, preoccupata e apprensiva del primitivo in una vita di previsione ragionate, con sufficienti garanzie di continuità e non più interamente soggetta a forze superiori alle capacità di controllo dell'uomo… la donna neolitica aveva tante ragioni di essere fiera del proprio contributo quante ne ha quella dell'epoca nucleare di tremare per il destino del proprio mondo e dei propri figli.
Le parole "casa" e "madre" si inscrivono in ogni fase dell'agricoltura neolitica e inoltre nei nuovi villaggi, grazie alle fondamenta delle case e delle tombe. E' la donna che maneggia il foraterra e gli altri strumenti primitivi per smuovere il terreno; e lei che si occupa dell'orto e compie quei capolavori di selezione e di incrocio che trasformano specie selvatiche in varietà domestiche prolifiche nutrientissime. Dominato dalla donna, il periodo neolitico è soprattutto un'epoca di recipienti: un'età di utensili di pietra e di terracotta, di vasi, giare, tini, cisterne, bidoni, fienili, granai e case e di grandi involucri collettivi come i canali di irrigazione o i villaggi.
Mentre l'uomo caccia, sviluppando sempre più la sua forza muscolare nel confronto con animali più forti e affinando il suo cervello unidirezionalmente, la donna si confronta con una serie di problemi connessi in mille modi alla conservazione della vita oltre che alla "produzione" di questa.

Anche il villaggio, quindi, è fondamentalmente una sua creazione, essendo un rifugio collettivo per proteggere e allevare i figli, conservare le scorte, garantire un sereno riposo al gruppo. Qui la femmina contribuisce a prolungare il periodo dell'infanzia e dei giochi sereni dal quale dipende tanta parte della vita successiva dell'uomo e della prole in genere. La presenza della donna si fa sentire in ogni componente del villaggio, comprese le strutture fisiche, con quei recinti protettivi il cui significato simbolico è stato ora rilevato, con molto ritardo, dalla psicoanalisi. Sicurezza, ricettività, bisogno di protezione, educazione: tutte queste funzioni riguardano la donna e assumono un'importanza fondamentale.
Casa e villaggio, e in un secondo tempo anche le città, sono in gran parte opera femminili. Questa naturalmente può apparire una suggestiva ma arbitraria ipotesi psicoanalitica ma la teoria viene confermata dagli antichi egizi che nei due geroglifici indicanti "casa" e "città" inglobavano anche il significato "madre", per esprimere il parallelismo della funzione individuale e collettiva. La teoria è confermata ancora dal fatto che le strutture più primitive (case, stanze, tombe) sono rotonde e convesse come la copia originaria, descritta dalla mitologia greca, che viene modellata sul seno di Afrodite.

Quando ha inizio la "lotta di classe" che capovolge la situazione e porta l'uomo al potere e dà inizio all'epoca del patriarcato che ridurrà la donna in posizione più o meno subordinata?
I primi segni indicativi li ritroviamo come sempre, nelle varie mitologie. Restiamo nell'ambito di quella greca. Ne "Le Eumenidi" Eschilo narra che Oreste, figlio di Clitennestra rea di aver assassinato il marito Agamennone, vendica la morte del padre uccidendo la madre. Accusato dalle Erinni - che simboleggiano il matriarcato in dissoluzione - egli si difende:
"Quando mia madre era in vita perché non siete discese in Terra a perseguitare e scacciare lei?"
Rispondono Le Erinni che l'uomo ucciso da Clitennestra non le era consanguineo.
"E io allora" risponde Oreste, "sono legato a mia madre per vincoli di sangue?"
"Assassino sei difatti. Come avrebbe ella potuto altrimenti portarti e curarti sotto il suo cuore? Rinneghi forse l'intimo sangue di tua madre?"
Per risolvere la vicenda Oreste chiede soccorso ad Apollo, che rappresenta il nascente sistema patriarcale. Il Dio risponde:
"Nella mia risposta ti dirò il vero. La madre non è genitrice di quel che si dice figlio suo, bensì soltanto la depositaria tutelare del seme appena piantato e destinato a germogliare. Genitore è colui che la cavalca. Ella invece, estranea, preserva il seme dell'estraneo, quando nessun dio s'intrometta. Ti darò la prova di quanto ti ho spiegato. Può esservi un padre anche senza una madre. Ecco la testimone vivente, figlia di Zeus Olimpio, colei che mai fu accolta nelle tenebre di un grembo, figlia che pure mai nessuna dea avrebbe potuto dare alla luce…"
La figlia alla quale fa riferimento Apollo è Atena, nata dalla testa di Giove, già adulta, piena di forza e armata di tutto punto (elmo, asta, scudo ed egida) pronta a difendere il padre dai suoi nemici sia con le armi sia con la propria saggezza, la prudenza, l'accortezza, sue doti speciali. (Ma da questa nascita ci si rende conto come l'immaginazione dell'uomo continui a trovare enormi difficoltà nel tentativo di liberarsi dal culto del femminile e quindi del proprio stato di subordinazione).

L'inizio del sistema patriarcale, nelle varie mitologie, non è databile perché il momento è direttamente connesso agli inizi e ai tempi di sviluppo delle varie culture locali. Vediamo comunque che il matriarcato viene sottoposto ad assalti sempre più violenti man mano che il tempo trascorre e l'uomo scopre che può usare la propria forza, impiegare la stessa violenza che usa nella vittoriosa lotta contro gli animali, per strappare il potere dalle mani della donna.
Uno di questi assalti viene ricordato nella lontana storia degli Ona, una popolazione della Terra del Fuoco estinta nel 1925 dopo essersi ridotta a una sessantina di individui. Si narra che i maschi Ona, dopo essere vissuti troppo a lungo nel terrore e in completa soggezione nei confronti delle loro donne e della capacità magica femminile di compiere i più diversi "prodigi", siano arrivati a elaborare, per affrancarsi da questo dominio, un piano che li avrebbe emancipati definitivamente. Il piano era simile a quello pensato alcuni decenni orsono da Adolf Hitler per risolvere la cosiddetta "questione ebraica" : contemplava la "soluzione finale", lo sterminio totale dell'odiato nemico.
Sulla base di questa idea gli Ona uccisero tutte le donne dotate di "poteri magici", cioè tutte le donne adulte, per organizzare poi una società "magica" di soli uomini. Dopo questa "rivoluzione" le donne giovanissime (inesperte per quanto riguardava l'esercizio della magia e del potere e quindi per questo risparmiate dal bagno di sangue) si sottomisero automaticamente al potere maschile.

Anche nella cultura della Grecia antica, la donna viene ridotta in un ruolo del tutto subalterno, praticamente in semi-schiavitù, anche se il mezzo che porta a questo cambiamento di ruoli non è costituito dal massacro ma da una legislazione ad hoc.
Il maschio ha vinto, apparentemente non ha più paura della donna, anzi, la disprezza profondamente, violentemente (tanto violentemente da destare il sospetto che quella paura sia ancora conficcata nel profondo della sua anima).
Esiodo, il primo poeta della Grecia neo-patriarcale, così scrive:
"Colui che si affida a una donna si affida a un ladro"
Aristotele, mostro sacro della filosofia del tempo, esprime l'opinione comune quando afferma che la donna è donna in virtù di un difetto e quindi deve vivere rinchiusa nel focolare e subordinata all'uomo.
"Lo schiavo è completamente privo della libertà di deliberare; la donna la possiede ma in modo debole e inefficace".
Il povero Platone, collega di Aristotele, viene travolto dalla beffe del solforico commediografo Aristofane quando osa proporre di immettere un consiglio di matrone nell'amministrazione della cosa pubblica e di dare un'educazione libera alle ragazze. Le idee di Aristofane sulla condizione femminile appaiono chiare quando nella "Lisistrata" la famosa commedia rappresentata nel 411 avanti Cristo, alla moglie che interroga il marito sugli affari pubblici dà questa risposta:
"Non ti riguarda. Taci o ti prendo a schiaffi. Tessi la tua tela".
Viene spontaneo ricordare che questo tipo di risposta non era ancora uscito dal costume odierno, almeno non del tutto.
Non è da meno Pitagora, un altro dei grandi della scienza greco-antica, che interviene con tutto il peso della sua autorità di fisico-matematico-filosofo.
"C'è un principio buono", dice solennemente, "che ha reato l'ordine, la luce e l'uomo, e un principio cattivo che la creato il caos, le tenebre e la donna".

Nell'epoca romana la donna riesce a recuperare dignità e libertà, ma sempre entro i limiti di una società dominata interamente dal maschio. Ha nelle sue mani il governo della casa, l'educazione dei figli, ha il diritto di uscire e di esprimere opinioni, presiede il lavoro degli schiavi, può recarsi alle feste e a teatro, per la strada i passanti, siano uomini di semplice grado o consoli e littori, le cedono rispettosamente il passo. Tuttavia, pur avendo conquistato diritti ancor più consistenti nel corso del tempo, anche la donna romana, inchiodata dal giure al concetto della "fragilitas" resta sempre sottomessa al volere del "paterfamilias".
Ma l'attacco durissimo - che esprime un ritorno di paura più grave di altri viene dal porto-cristianesimo, un attacco che vede la figura della donna demonizzata in modo esasperato, violento a tal punto da lasciarci profondamente perplessi considerati i presupposti di mitezza e di rispetto umano contenuto nella predicazione di Cristo.

San Paolo si dimostra ferocemente antifemminista, prescrive alle donne umiltà, contegno, totale subordinazione all'uomo. Egli afferma con solennità: "L'uomo non è stato tratto dalla donna ma la donna dall'uomo: e l'uomo non è stato creato per la donna ma la donna per l'uomo". E perché non ci siano equivoci ribadisce: "Come la Chiesa è sottomessa al Cristo, così le donne siano sottomesse in ogni cosa al marito".
Quinto settimo Tertulliano, che prima della conversione al cristianesimo passa attraverso un'educazione classica e diventa un giurista di valore, scaglia contro la "maledetta femmina" arringhe feroci. Un esempio:
"Donna, tu sei la porta del diavolo. Tu hai persuaso colui che la donna non osava affrontare. Per colpa tua il figlio di Dio ha dovuto morire; dovrai andartene sempre vestita di stracci luttuosi"
Dal canto suo Sant'Ambrogio tuona, armato di una logica quantomeno discutibile:
"Adamo è stato condotto al peccato da Eva e non Eva da Adamo. E' giusto che la donna accolga come padrone chi ha indotto a peccare"
San Giovanni Crisostomo iperbolizza:
"Fra tutte le belve non se ne trova una più nociva della donna"

L'attacco misogino raggiunge il vertice massimo con Sant'Agostino, che impiega tutta la sua autorità per ottenere l'annullamento dei "mostri":
"La donna è una bestia che non è né ferma né stabile… E' nutrice di cattiveria ed è il cominciamento di tutte le piaghe, e trova la via e il sentiero gli ogni malvagità".
Nei "Soliloquia", composti attorno al 387, il dottore della Chiesa (che in passato si era goduto una vita amorosa piuttosto vivace dalla quale aveva avuto anche un figlio) scrive che "non c'è nulla che io debba fuggire più del talamo coniugale, niente getta più scompiglio nella mente dell'uomo delle lusinghe della donna, e del contatto dei corpi senza il quale la sposa non si lascia possedere". Travolto dalla sua ginecofobia il santo parla con orrore persino del sublime momento della nascita, il momento più poetico della natura: "Iter urinam et faeces nascimur".

L'esito di questa "crociata" contro il mondo femminile è vittorioso. Per un periodo la donna vive in modo quasi abbietto. Ma a poco a poco riconquista terreno. Il suo potere è trasversale, obliquo, dissimulato, "rispettoso" del principio di sovranità del maschio, ma all'osservatore obiettivo si rivela in tutta la sua importanza e la carica positiva, vitale. Quando il Medioevo esce dal suo periodo più buio lo storico può constatare che mentre il patriarca si dà alla soluzione dei problemi di vario tipo (da quello economico a quello territoriale fino a giungere al conflitto religioso) ricorrendo alla guerra, a massacri e crudeltà di ogni genere, la donna svolge nuovamente con il suo millenario senso della realtà - il "senso della vita" - il ruolo di pilota di quella comunità che il "prode Anselmo" ha abbandonato a se stessa.
Chiede con garbata provocazione Eileen Power, grande medievalista, docente di storia economica alla London School of Economics.
"Nel tempo che il signore passava alla corte o in guerra, chi si occupava del castello e glielo restituiva al suo ritorno con le mura riparate, il lavoro dei campi eseguito e le questioni giuridiche risolte? E se il signore cadeva prigioniero, chi raccoglieva il riscatto, cavando ogni soldo possibile dalla proprietà, annoiando gli arcivescovi con le suppliche, vendendo l'argenteria di famiglia? E quando disgraziatamente il signore veniva ucciso, chi si faceva esecutrice del testamento e ne cresceva i figli?"
"La risposta a tutte queste domande
fa rilevare la Power, "in nove casi su dieci è: sua moglie. Essa doveva essere pronta a prendere ll suo posto in ogni momento, fosse la regina reggente o un'oscura gentildonna del Norfolk… La signora doveva essere esperta nelle finezze del comando e della legge medievale nel caso prevaricasse sui diritti del signore: doveva conoscere tutto dell'arte di condurre delle terre in proprietà in modo da controllare il balivo (il balivo era un funzionario di nomina regia, a capo di una circoscrizione territoriale, che avrebbe potuto commettere, ai danni dei feudatari, il reato che oggi viene definito interessi privati in atti d'ufficio n.d.r.) e doveva conoscere il suo mestiere di padrona di casa ed essere capace di pianificare le spese con accortezza" (Da
"Donne del Medioevo" - Ed. Jaca Book).

Ottime "matriarche" - le virgolette sono obbligatorie visto che non si trattava di un potere totale, ma va messo in evidenza che queste donne finivano per avere di fatto potere assoluto sui membri della famiglia e dell'azienda, maschi compresi - furono le vedove degli artigiani e commercianti inglesi che, specialmente a Londra, si trovarono a gestire gli affari dei mariti (come consentiva il regolamento delle corporazioni).
Racconta Elione Power, che per condurre affari di una certa importanza "...occorreva un non piccolo bagaglio di conoscenze e abilità. Nel 1370 Alice, ultima moglie di John di Horsford, reclamò davanti alla sede delle corporazioni di Londra la proprietà di una metà di una nave… che era stata dichiarata dal balivo di Billingsgate proprietà di qualcun altro. Fornì prova del suo titolo e la corte ordinò che le venisse riconosciuta la proprietà. Alla vedova di un altr mercante, Margaret Russel di Coventry, fu rubata merce per il valore di 800 sterline da certi tipi di Santander in Spagna e ottenne lettere potenti per l'autorizzazione a prendersi beni appartenenti a spagnoli in misura tale da indennizzarsi; sembrò in seguito che lei si fosse presa più del dovuto e gli spagnoli la querelarono a loro volta""

Senza voler stabilire primati che potrebbero apparire non gradevoli, corre obbligo di sottolineare che la ricerca che ha seguito con attenzione la storia della donna ha dimostrato che questa ha gestito, e gestisce, il potere, con capacità, sagacia e accortezza tali da dimostrare il suo pieno diritto a governare la società ed a partecipare al suo sviluppo in ogni settore e livello su un piano di perfetta parità con l'uomo.
Il Rinascimento italiano, che è un'epoca nella quale l'individualismo domina beneficamente, è il momento favorevole al fiorire di personalità forti, senza distinzione di sesso.
E proprio in questo periodo si ha una dimostrazione delle grandi capacità della donna di competere con l'uomo e di tenergli testa e, più spesso di quanto piaccia all'uomo, di batterlo. In questo arco di tempo emergono sovrane che sanno reggere più o meno grandi stati o feudi con accortezza, equilibrio e sanno dare prova di un acume politico e diplomatico ammirevole: troviamo nome come quelli di Giovanna d'Aragona, Isabella d'Este, Giovanna di Napoli. Ci sono donne che sanno prendere in mano le armi come gli uomini: la moglie di Girolamo Riario lotta per la libertà di Forlì; Ippolita Fioramenti comanda le truppe del duca di Milano e durante l'assedio di Pavia guida sugli spalti una compagnia di donne; i Senesi, per difendere la loro città contro Monteluco, hanno l'aiuto di tre schiere formate da tremila donne ciascuna, e al comando di ogni gruppo c'è una donna.

Altre donne dimostrano grandissimo talento nel campo della cultura: basti citare la poetessa Gaspara Stampa e Vittoria Colonna, anche lei poetessa, amica di Michelangelo Buonarroti che spesso dipende dal suo consiglio. Non dimentichiamo inoltre le milioni di donne che, da posizioni meno evidenti ma non meno importanti, hanno dato in tutti i tempi un contributo determinante ai problemi della vita quotidiana, alle grandi rivoluzioni come quella cristiana (nei circhi romani molte erano le donne che venivano martirizzate e date in pasto alle belve), ai grandi movimenti per diritti civili (quante sono state le donne uccise durante la battaglia che esse hanno fatto per la conquista del voto e della parità dimostrando una incredibile forza d'animo?).
Che dire poi dei grandi e suggestivi nomi come quelli di Elisabetta d'Inghilterra, Isabella la Cattolica, Caterina di Russia, Cristina di Svezia, regine di grande personalità e grandi matriarche che governano con eccezionale abilità una società in tutto e per tutto patriarcale? Una incongruenza? Certamente.
Ma una incongruenza dalla quale si può trarre la previsione, quanto vicina o quanto lontana è difficile dirlo, di una conquista del potere da parte della donna. O di una riconquista.
FRANCO GIANOLA

Bibliografia

I riferimenti ai testi usati sono contenuti nel testo.

Questa pagina
(concessa solo a Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

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