Capitolo Primo

L’EBRAISMO, “ MODO DI VITA ”

Sommario
- 1.1. Peculiarità della religione ebraica. L’ebraismo inteso soprattutto come “modo di vita”. 
- 1.2. Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità. L’ebraismo come ordinamento giuridico.

1.1.  Peculiarità della religione ebraica. L’ebraismo inteso soprattutto come “modo di vita”.

Di fronte ad una realtà complessa, si è istintivamente portati a ricercarne la semplificazione, attraverso la scomposizione del fenomeno sottoposto al nostro esame in una serie di entità elementari - viste come le componenti del “tutto” -, per poterlo così meglio comprendere ed assimilare. Sennonché, l’adozione di questo  procedimento di semplificazione porta con sé il rischio di farci arrivare a conclusioni tanto sommarie quanto inutili, perché dettate troppo spesso sia dall’influenza di luoghi comuni e radicati pregiudizi, che da una malintesa necessità di classificazione sistematica in istituti ben determinati di fenomeni che a tale reductio ad unum non si possono prestare per loro stessa natura.

In tal senso, l’ebraismo sfugge ad ogni tentativo di definizione sintetica così come a qualsiasi classificazione entro la cornice rassicurante di precisi istituti, ponendosi piuttosto come la risultante di diverse componenti, che sono inscindibili l’una dall’altra senza snaturare l’essenza del fenomeno complessivamente considerato: ebraismo, popolo ebraico ed ebrei sono i tre termini di riferimento del problema, fra di loro non opposti ma non per questo esattamente coincidenti[1].

L’ebraismo, infatti, non può essere semplicemente e riduttivamente identificato come un mero corpus di dottrine e di norme costituenti una religione nel senso in cui questo termine viene comunemente inteso[2], ma neppure, del resto, soltanto con la globalità delle vicende storiche e culturali di un determinato popolo, né esclusivamente con la miriade multiforme di vicissitudini e di identità individuali proprie di ogni singolo ebreo[3]: queste schematizzazioni, purtroppo, hanno già ampiamente dimostrato la loro perniciosità dando origine, nelle varie epoche storiche, a definizioni della realtà ebraica che sono state incentrate via via sulla contrapposizione ad una sola delle sue costituenti principali, come, per esempio, ha fatto l’antigiudaismo quando ha visto l’ebraismo come un semplice insieme di dottrine e precetti puramente religiosi ormai contraddetti da una nuova rivelazione; quando l’antisemitismo ha incentrato l’identificazione dell’ebreo sulla base dell’elemento specificamente etnico e razziale, o quando l’antisionismo ha contestato alla collettività ebraica il diritto ad avere una propria manifestazione di carattere politico e statuale[4].

L’approccio a tale particolare e ricchissima realtà dovrà allora partire da una visione d’insieme del fenomeno e rinunciare alla sinteticità della definizione, presentandosi l’ebraismo come una inobliterabile simbiosi «di cultura e di religione, di tradizione e di norme di comportamento, di popolo e di storia»[5], caratterizzata da una partecipazione contemporanea di momenti religiosi e culturali, di «commistione tra ethnos e dimensione cultuale, che deriva dalla tradizionale identità tra norma civile e norma religiosa»[6], e in cui l’aspetto strettamente religioso, proprio in quanto sfaccettatura di una vasta e composita realtà sociale ed istituzionale che si presenta assai più articolata[7], non può essere considerato isolatamente dagli altri caratteri, anche se, storicamente, proprio questa componente ha ricoperto un ruolo di primaria importanza nel processo che ha portato alla costituzione prima ed al mantenimento poi di una identità ebraica[8].

È così che l’ebreo impronta la propria esistenza a ciò che è molto più di una religione nella communis opinio, vero e proprio modus vivendi che impegna l’individuo in ogni momento della sua esistenza, in modo tale che non esiste nessun aspetto della vita che rimanga fuori della sfera e dell’influenza dell’ebraismo[9], attraverso l’obbedienza ad un «vasto complesso di norme, volte a indirizzare la vita quotidiana dell’ebreo in tutte le sue manifestazioni, che va dai Dieci Comandamenti alla Toràh, che contiene la legge scritta, dal Talmud, che raccoglie le tradizioni e le leggi orali, alle numerose regole sulla vita matrimoniale, la proprietà fondiaria, i cibi proibiti, il riposo sabbatico»[10]; un sistema in cui «i concetti di “religione” e di “fede” non sono quelli più caratterizzanti, anche se difficile riesce a comprendere a chi si accosti al mondo ebraico quali ne siano i tratti più visibilmente “identificanti”»[11], estraneo alla «istituzionalizzazione delle credenze e dei riti» ed alla «professione di una dottrina di cui è depositario un magistero sovraordinato ai fedeli», ma fondato piuttosto «sulla credenza del Dio unico, e su una condotta di vita quotidiana ispirata ai precetti fondamentali di morale, di santità, di giustizia e solidarietà»[12], e sulla «osservanza di determinate norme», invece che sulla «accettazione di una data teologia»[13]. Nella sostanza, un complesso di norme di comportamento, destinate ad un autentico corpo sociale, comprendente le proprie regole di organizzazione ed il proprio diritto: ed infatti, per un ebreo, la stessa nozione di libertà religiosa comporta la libertà di aderire non tanto ad una fede, quanto piuttosto ad una vera e propria legge[14], intesa come regola e direttrice della propria condotta[15].

Non stupisce, quindi, che l’intera tradizione giudaica ami citare ripetutamente il versetto che descrive il modo in cui il popolo, al Sinai, accolse l’offerta di alleanza con Dio proposta al popolo ebraico per il tramite di Mosè: «Tutto quanto il Signore ha detto faremo e ascolteremo»[16].

Date queste premesse, emerge chiaramente la preminenza assoluta, nella “religione” ebraica, del momento sociale e collettivo‑partecipativo alla vita comunitaria su quello più individuale e soggettivo, non essendo concepibile professare una tale religione a livello puramente intimistico e personale[17]. Proprio per questo motivo, sin dall’epoca romana gli ebrei in Italia si sono organizzati in comunità, enti territoriali autosufficienti, ed uniche formazioni sociali in grado di poter realizzare e sviluppare appieno la complessa identità religiosa, etnica e culturale dell’ebraismo, così che all’interno di esse, accanto alle attività a specifico contenuto religioso e cultuale, è normale rintracciare diverse funzioni pertinenti ad aspetti segnatamente culturali, educativi ed assistenziali[18], sostanzialmente assimilabili a quelle dell’apparato dello Stato, il quale, coerentemente, nell’intesa stipulata nel 1987 ha riconosciuto all’ebraismo il carattere di confessione religiosa sui generis, ammettendo espressamente la competenza delle comunità ebraiche anche in relazione al perseguimento di finalità che - secondo i princìpi propri degli ordinamenti statali - sono da considerarsi come temporali, proprio in conseguenza della caratterizzazione dell’ebraismo come incarnazione di una collettività allo stesso tempo etnica, culturale e religiosa.

Non si deve pensare, però, che l’estrema importanza che viene in questo modo ad essere tributata alla vita comunitaria possa comportare una sorta di “azzeramento” delle singole personalità, e quindi delle possibili voci dissenzienti - che nondimeno devono esserci, in quanto ogni collettività è pur sempre la risultante di una pluralità di individui, le cui istanze possono convergere così come possono, talvolta, divergere su questioni anche non marginali -, all’interno di ogni comunità, come conseguenza dell’adesione ad un malinteso principio secondo cui la maggioranza è sovrana: infatti, le singole comunità, lungi dal fagocitare le esigenze ed i bisogni individuali dei propri membri, sono piuttosto deputate al compendio ma anche alla massima realizzazione delle molteplici istanze e bisogni dei loro appartenenti. Sintomatico è il fatto che, nel periodo che va dall’inizio degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta, quando l’obiettivo dell’adozione dello strumento dell’intesa era, per le confessioni religiose diverse dalla cattolica, ancora ben lontano dal conseguire piena realizzazione, nei vari Congressi ordinari e straordinari dell’ebraismo italiano indetti per sopperire in qualche modo - nell’inerzia della controparte statuale - alle esigenze di svecchiamento e di adeguamento dell’ordinamento ebraico alle nuove e mutate esigenze dei suoi membri, l’accento venne posto proprio sulla necessità di conseguire una maggiore democraticità e rappresentatività all’interno delle comunità di base, come presupposto per il mantenimento, la promozione e lo sviluppo dell’effettività di quel legame reciproco che lega il singolo alla comunità di appartenenza, e la valorizzazione delle istanze dei gruppi di minoranza[19].

1.2.    Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità. L’ebraismo come ordinamento giuridico.

Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, dall’unità del Paese fino alla proclamazione della Repubblica, in Italia si sono succeduti diversi indirizzi politici in materia di rapporti tra Stato e confessioni religiose, in connessione con la diversa percezione che, di volta in volta, è stata posta alla base del significato e della portata attribuiti al diritto di libertà religiosa. Esso, come tutti i diritti di libertà, trova il proprio presupposto fondamentale nel più generale principio di uguaglianza, e non è un caso che l’indirizzo politico del secolo scorso sia stato caratterizzato da una speculazione giuridica finalizzata alla ricerca ed elaborazione sistematica dell’uguaglianza dei diritti[20].

Ma, così come non possiamo mettere in dubbio che, nell’Italia liberale, con l’adozione del sistema separatista tra Stato e Chiese si sono compiuti passi decisivi verso la generale parificazione dei culti ed  il raggiungimento dell’uguaglianza tra le confessioni, non dobbiamo trascurare il fatto che il concetto di libertà religiosa nello Stato di fine Ottocento ed inizio Novecento ha avuto un contenuto puramente negativo, di libertà dallo Stato, come corollario del disinteresse di parte statuale per il fenomeno religioso: conseguentemente, l’uguaglianza che ne è scaturita è stata, a propria volta, necessariamente soltanto formale.

Era, insomma, ancora di là da venire la fondamentale presa di coscienza, propria del contemporaneo Stato di diritto, che la uguaglianza può essere veramente tale solo nel momento in cui la si viene ad intendere nel senso sostanziale del termine, e che, così correttamente configurata, non può essere di certo conseguita né continuando a disinteressarsi delle disuguaglianze di fatto già esistenti ab initio tra i diversi soggetti, né con la forzata reductio ad unum di realtà fra di loro non assimilabili, poiché la più grande disuguaglianza è proprio quella che deriva dall’uguale trattamento di istituti e situazioni di per sé disuguali[21]. La sola constatazione che una determinata regolamentazione sia vantaggiosa per un determinato gruppo, infatti, non è un elemento sufficiente a garantire che l’estensione di tale regolamentazione ad altre collettività, magari differentemente caratterizzate, non si possa trasformare in una grave limitazione per queste ultime.

Proprio per questo, il raggiungimento dell’uguaglianza formale dei culti ha segnato solamente l’inizio, per l’ebraismo italiano, della lotta per la conquista di quello che è stato efficacemente definito come il «diritto alla diversità»[22], da intendersi come «il diritto che ciascun essere e ciascun gruppo ha di conservare la propria individualità e di vederla dagli altri rispettata»[23], o, molto più semplicemente, come il diritto di essere ebrei e come tali poter liberamente vivere, necessario corollario del riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti[24].

Nell’elaborazione giuridica contemporanea, uguaglianza e diversità non costituiscono più due poli necessariamente opposti ed inconciliabili, ma vengono piuttosto a confluire nel diritto alla uguaglianza nella diversità[25], che, a ben guardare, altro non è se non lo stesso diritto di uguaglianza visto sotto il profilo sostanziale di cui si diceva poc’anzi. Non si tratta semplicemente di una conclusione raggiunta con l’ausilio di un gioco di parole o di un mero artifizio retorico: la volontà del legislatore Costituente di prendere le distanze non solo dal giurisdizionalismo del regime fascista, ma anche dallo Stato liberale di fine Ottocento, ha dato vita ad una Carta costituzionale ispirata - oltre che all’abbandono della concezione meramente garantista dei diritti di libertà[26], ed alla esaltazione del contenuto positivo che essi possono così acquistare -, a valori di diffuso pluralismo confessionale ma anche giuridico, sociale ed istituzionale. E proprio il rispetto e la valorizzazione dell’identità e del patrimonio sociale e culturale insiti in ciascun gruppo - considerati ora come fattori di arricchimento della realtà sociale del Paese nel suo complesso, piuttosto che come elementi di devianza -, insieme al riconoscimento della possibilità dell’esistenza, all’interno dello stesso ordinamento dello Stato, di una  pluralità di ordinamenti giuridici[27] aventi anch’essi carattere originario - in quanto non derivati da quello di parte statuale -, sono dirette espressioni del pluralismo in parola.

In particolare, il pluralismo giuridico si pronuncia contro l’esclusiva statualità del diritto, nel senso che esso non è (più) solamente ed esclusivamente il prodotto dell’apparato dello Stato - che non viene più considerato il centro del sistema -, ma anche di ogni altro gruppo sociale, per modeste che siano le sue dimensioni e strutture organizzative: ubi societas, ibi ius[28]. Un insigne maestro del diritto pubblico come Santi Romano ha avuto modo di definire l’ordinamento giuridico come un corpo sociale dotato di proprie regole di organizzazione e proprio diritto, un’unità collettiva costituita con carattere di permanenza, che non muta col variare dei singoli soggetti - accomunati dall’identità di interessi perseguiti - che ne fanno parte[29]; esistono ordinamenti giuridici ad appartenenza necessaria, come quello dello Stato in cui si vive, ed altri ai quali il singolo è libero di scegliere se appartenervi oppure no, ma quello che preme qui sottolineare è che il carattere dell’appartenenza facoltativa ad un determinato ordinamento, di per sé nulla toglie alla giuridicità dell’istituzione.

Esposto per sommi capi il concetto qui accolto di ordinamento giuridico, possiamo subito constatare come le confessioni religiose ben si prestino ad essere collocate in tale realtà. Esse, infatti, si inquadrano in un ordine proprio, quello della spiritualità, che è, per ogni verso, autonomo ed indipendente rispetto a quello dello Stato, con il quale solo occasionalmente e marginalmente possono venire in contatto, quando si tratta di stabilire la regolamentazione delle cosiddette materiae mixtae[30]; le loro norme di appartenenza e di organizzazione costituiscono l’espressione di un fenomeno di coagulazione sociale spontanea, produttivo di qualificazioni normative esclusivamente proprie e non predeterminate dallo Stato[31]; siamo perciò convinti della loro inquadrabilità nel vasto ambito degli ordinamenti giuridici originari.

Di ciò ha dimostrato di avere preso coscienza il legislatore, il quale, con la previsione di cui al secondo comma dell’art. 8 dalla Costituzione, ha esplicitamente riconosciuto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica il potere di autodeterminazione, ovvero la facoltà di stabilire autonomamente norme, la cui efficacia potrà venire a dispiegarsi non solo nei confronti di ogni singolo fedele appartenente alla comunità, ma, ove si renda necessario, anche nei confronti dello stesso Stato, attraverso l’organizzazione sulla base di statuti interni ad ogni confessione, con il solo limite del non contrasto degli stessi con l’ordinamento statuale. Bisogna dire che proprio il limite in parola è stato più volte preso in considerazione, da una dottrina ormai datata, per dare corpo all’affermazione secondo la quale la sola Chiesa cattolica darebbe vita ad un ordinamento originario ed autonomo, mentre quelli delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, proprio in virtù di detto limite, sarebbero di carattere derivato dall’ordinamento statuale e perciò da esso, in ogni caso, dipendenti[32].

Sennonché, a parte la considerazione del fatto che il limite del non contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico italiano va riferito, secondo l’opinione oggi accreditata[33], anche alla stessa Chiesa cattolica, nel senso che i suoi atti non possono produrre effetti lesivi sul patrimonio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti ad ogni cittadino[34], non bisogna confondere il carattere dell’originarietà con quello dell’assolutezza. Il limite in parola, infatti, fa parte del normale complesso di limitazioni che un ordinamento assoluto, quello dello Stato, oppone agli ordinamenti - originari anch’essi, ma non assoluti -, che vengono a trovarsi ad operare sul suo territorio, tenuti così ad assoggettarsi alle norme fondamentali ed all’organizzazione generale di questo; la sola constatazione che, di fronte all’ordinamento statuale, essi possano sembrare minori, limitati per qualche verso, o piuttosto particolari, non li priva assolutamente del carattere dell’originarietà, dal momento che è ciascuno di essi, nell’esercizio della propria autodeterminazione, che stabilisce i criteri di appartenenza al consesso, e, prima ancora di determinare una normativa sostanziale, pretende di fissare esclusivamente, anche in conflitto con lo Stato, i confini della propria competenza[35].

Lo stesso terzo comma dell’art. 8, del resto, con l’introduzione nel sistema italiano di un istituto di portata rivoluzionaria come il principio pattizio tra Stato e Chiese, implica per ciò stesso il riconoscimento dell’alterità e dell’autonomia degli ordinamenti confessionali da quello dello Stato, che si configura come sovrano nell’ordine temporale, ma incompetente in quello spirituale, nel quadro di un pluralismo confessionale in cui la libertà religiosa dei singoli viene ad assumere i contorni della «eguale libertà di ciascuno di conformarsi al proprio ordinamento»[36].

Concentrando ora l’attenzione sulla realtà ebraica, che è il tema che ci interessa qui più da vicino, possiamo facilmente osservare come l’assimilazione dell’ebraismo ad un ordinamento giuridico assuma un valore quasi paradigmatico di quanto siamo venuti sin qui asserendo sull’inquadrabilità delle confessioni religiose nel vasto ambito degli ordinamenti giuridici originari[37]. Se non c’è alcun dubbio, infatti, che l’ebraismo, considerato come fenomeno sociale, partecipi due volte della tutela approntata dalle norme costituzionali, venendo il popolo ebraico a porsi in Italia come una minoranza sia religiosa che etnico‑linguistica[38] - ed in tal senso ha sempre cercato, a prescindere dal luogo di insediamento, di conservare una propria specifica identità ed autonomia -, abbiamo visto supra[39] che la confessione israelitica si caratterizza principalmente proprio per il suo essere, nella sostanza, un complesso millenario di leggi e di norme religiose e civili indissolubilmente connesse, con regole di appartenenza e di condotta rivolte a soggetti ben determinati ed individuati, tanto che la straordinaria importanza attribuita a queste leggi e tradizioni, insieme all’alta considerazione che da sempre è stata riservata all’apporto dottrinale e giurisprudenziale dei maestri ed interpreti delle norme, consuetudini e tradizioni ebraiche, hanno indotto parte della dottrina[40] ad identificare l’ebraismo con lo stesso diritto ebraico.

Ciò non deve stupire più di tanto, se si considera il fatto che la nascita stessa dell’ebraismo, sulle pendici del monte Sinai, ha comportato a suo tempo l’adozione di una Legge da parte di una collettività, e la stipulazione di un contratto sociale costituente, al tempo stesso, un atto di sovranità: i tratti più strettamente culturali come la mistica, la letteratura e la filosofia ebraica verrebbero così a configurarsi come strumenti finalizzati alla ricerca dei contenuti di quel contratto sociale e quindi, in ultima analisi, dello spirito di quell’ordinamento[41].

Indubbiamente, è anche per questo motivo che la posizione dei “ministri di culto” ebraici, i rabbini, non trova paralleli nell’ambito di nessun’altra religione propriamente detta[42]: essi, infatti, non costituiscono affatto gli intermediari privilegiati tra la divinità ed i fedeli, ma sono soprattutto gli esperti conoscitori, maestri ed interpreti di quelle norme, leggi e consuetudini plurimillenarie che costituiscono l’ebraismo; piuttosto che sacerdoti, essi sono quindi giudici - tant’è che, fra le istituzioni tradizionali dell’ebraismo, si collocano i tribunali rabbinici, con una giurisprudenza che ha tuttora modo di evolvere, specialmente in quegli Stati dove ancora vige lo statuto personale -, e non occupano affatto una posizione in qualche modo sovraordinata rispetto alla collettività dei fedeli, di modo che se, per una qualsiasi ragione, nella comunità venga a mancare il rabbino, il regolare svolgimento dei servizi religiosi potrà essere propriamente assicurato anche da un soggetto “laico”[43].



[1]   Cfr. P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, Brescia, 1995, p. 11.
[2]
              Sull’oggettiva difficoltà di definire la natura religiosa dell’ebraismo, v. G. Filoramo, Prefazione, in Aa. Vv., Ebraismo, a cura di G. Filoramo, Roma‑Bari, 1999, p. VII: «inteso come la religione degli ebrei, in effetti, esso si configura come una mescolanza originale di etnicità e religione. Mentre l’appartenenza ebraica, tradizionalmente coincidente con il fatto di nascere da madre ebrea, ricorda il volto etnico dell’ebraismo, la possibilità di aderirvi compiendo determinati riti d’ingresso ricorda il suo volto religioso, affidato alla libera scelta del singolo».
[3]
   Cfr. P Stefani, Gli ebrei, cit., pp. 10 s.
[4]
  Cfr., al riguardo, ancora P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, cit., pp. 12 s.
[5]
  Così G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 81.
[6]
  R. Botta, L’attuazione dei princìpi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, cit., p. 163.
[7]
  Cfr. D. Tedeschi, Presentazione della intesa con lo Stato al congresso straordinario dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, cit., p. XVII.
[8]
   Cfr. P Stefani, Gli ebrei, cit., p. 14.
[9]
  Cfr. D. Tedeschi, Presentazione della intesa con lo Stato, cit., p. XVII.
Così G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 81.
 
[11] G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 81.
Il pensiero espresso, insieme ai due precedenti, viene così formulato da G. Sacerdoti, Ebraismo e Costituzione: prospettive di intesa tra comunità israelitiche e Stato, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose. Problemi e prospettive, a cura di C. Mirabelli, Milano, 1978, p. 86.
Così R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 560.
              Nell’opinione registrata nel capitolo V,21 del trattato Pirqè Avòt, del quarto ordine della Mishnàh, si legge infatti: «volgi la legge e rivolgila, tutto è in essa. Invecchia e logorati in essa, ma non allontanartene, perché non c’è regola di condotta migliore». Cfr. F. Manns, Leggere la Mishnàh, Brescia, 1984, p. 201.
Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 560.
  Esodo, 24,7. Cfr. P. Stefani, Gli ebrei, cit., p. 28, che precisa che «non è affatto errato sostenere che, nell’ebraismo, la messa in pratica dei precetti e la determinazione della regole che presiedono alla loro esecuzione rappresentino la forma principale di esegesi biblica», tanto che si è più volte sostenuto la religione ebraica consistere, più che in una “ortodossia” (retta dottrina), piuttosto in una “ortoprassi” (retto modo di agire). Cfr. anche R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 560, e G. Fubini, Le costanti della cultura ebraica (ovvero, una visione dell’ebraismo), in RMI, 1993/1‑2, p. VIII.
Cfr., al riguardo, M. F. Maternini Zotta, L’ente comunitario ebraico. La legislazione negli ultimi due secoli, Milano, 1983, p. 191.
Cfr. V. Pedani, Note sul ruolo dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, in DE, 1998, II, p. 418.
Cfr., al riguardo, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 133.
Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
Cfr. G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, ovvero della libertà di essere diseguali, cit., c. 201.
G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 138. Cfr. anche G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., c. 201.
  Cfr., a questo proposito, ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
La definizione si trova in D. Tedeschi, Presentazione della intesa con lo Stato, cit., p. XVIII.
Cfr. C. Cardia, , Manuale di diritto ecclesiastico, cit., pp. 164 s.
 
[27] Cfr. G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., cc. 201 s. L’A. precisa che ciò potrebbe comportare, «se non l’abbandono della territorialità del diritto, quanto meno la ricerca di un contemperamento con l’opposto principio della personalità del diritto, inteso, in senso democratico, come mezzo per giungere ad una più grande libertà, ad una migliore giustizia, e non già come mezzo di affermazione, di sfruttamento, di sopruso, di un gruppo sull’altro».
Cfr. T. Martines, Diritto costituzionale, Milano, 1988, p. 36.
 
 
Cfr. la fondamentale opera di S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1951, specialmente le pp. 35 ss.
Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese. Contributo all’interpretazione dell’art. 8 della Costituzione, Bari, 1990, p. 134.
Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 133.
 
 
Cfr., tra gli altri, L. Spinelli, Diritto ecclesiastico. Parte generale, Torino, 1987, specialmente pp. 222 s., dove l’A. afferma che, confrontando il dettato del secondo comma dell’art. 8 con il primo comma dell’art. 7 della Costituzione, «sembra doversi in primo luogo dedurre che, a differenza della Chiesa cattolica, le confessioni acattoliche danno vita ad ordinamenti secondari, o meglio ad ordinamenti che l’ordinamento statuale considera secondari. Nel senso che gli ordinamenti delle confessioni acattoliche appaiono privi dell’attributo formale e sostanziale della sovranità, cioè del potere di regolare l’intera communitas fidelium: attributo che, del resto, formalmente la Costituzione riconosce solo all’ordinamento cui dà vita la religione cattolica, cioè all’ordinamento canonico (art. 7, 1° comma, Cost.). Gli ordinamenti delle confessioni acattoliche, d’altra parte, proprio perché non sovrani non possono neppure qualificarsi come indipendenti, nel senso che non incontrano limiti in un altro ordinamento sovraordinato. Essi infatti incontrano un limite - a norma del 2° comma dell’art. 8 Cost. - nelle disposizioni che integrano l’ordinamento giuridico italiano, e pertanto sono soggetti alla sovranità dello Stato». Cfr. anche C. Cereti, Considerazioni su le previe intese con le confessioni religiose (art. 8 u. c. Cost.), in Aa. Vv., Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova, 1972, p. 1019, secondo il quale «il diritto all’autonomia, intangibile sino a che non si ponga il contrasto con l’ordinamento medesimo, non è manifestazione di sovranità ma è derivato e non originario. Sul che si fonda anche la differenza tra la posizione fatta alla Chiesa Cattolica e quella delle altre confessioni religiose». Contra, osserva F. Finocchiaro, Art. 8, in Aa. Vv., Commentario della Costituzione. Princìpi fondamentali. Artt. 1‑12, a cura di G. Branca, Bologna‑Roma, 1975, pp. 409 s., che la differenza tra la formulazione del primo comma dell’art. 7 e quella del secondo comma dell’art. 8 «non dipende dal fatto che la Chiesa cattolica sia un ordinamento primario, mentre le confessioni acattoliche sarebbero ordinamenti subordinati allo Stato, bensì da altre ragioni. Anzitutto, sta nel fatto che la prima disposizione concerne uno specifico e determinato ordinamento giuridico, affermatosi nel corso di lunghi secoli, molteplici volte riconosciuto dall’ordinamento italiano, avente una struttura organizzativa notissima e con il quale il diritto dello Stato è collegato per la disciplina di varie materie. La seconda disposizione, invece, si riferisce ad un numero indeterminato di confessioni religiose, considerate per la prima volta nella storia del diritto dell’Italia unita come ordinamenti, alcune esistenti e note per la loro struttura organizzativa, altre non note ed altre ancora non esistenti, e tuttavia suscettibili di venirsi a formare. Di fronte ad un fenomeno dai contorni così generici la Costituzione ha precisato i termini in cui può avvenire il riconoscimento di tali gruppi sociali con fini di religione o di culto, come ordinamenti giuridici. Ma ciò non significa che il riconoscimento del carattere di ordinamento giuridico di cotesti gruppi sia diverso dal riconoscimento riguardante la Chiesa cattolica».
 
 
 
[33] Cfr. N. colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 132 ss.
Questa è l’interpretazione che il Protocollo addizionale agli Accordi di Villa Madama del 1984, al punto 2 lett. c), dà del secondo comma dell’art. 23 del Trattato del Laterano: «gli effetti civili delle sentenze e dei provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche, previsti da tale disposizione, vanno intesi in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani». Cfr. S. Ferrari, L’evoluzione della normativa concernente lo status degli ecclesiastici, in Aa. Vv., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, cit., pp. 160 ss.
Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 133.
Così G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
Il riconoscimento del carattere primario degli ordinamenti confessionali è esplicito nel testo delle intese e delle relative leggi di approvazione: il primo comma dell’art. 18 della legge di approvazione dell’intesa con gli israeliti, ad esempio, definisce le comunità ebraiche quali formazioni sociali originarie deputate al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e la tradizione ebraiche».
 
[38] Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 556. V. anche R. Botta, L’attuazione dei principi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, cit., p. 155, e V. Pedani, Considerazioni sullo statuto dell’ebraismo italiano, in DE, 1990, I, specialmente p. 599.
V. supra, § 1.1.
Cfr. G. Fubini, Il diritto ebraico, cit., p. 105. Cfr. anche Id., Le costanti della cultura ebraica, cit., p. VIII.
 
 
Cfr. ancora G. fubini, Il diritto ebraico, cit., p. 105.
  Sulla particolare posizione dei “ministri di culto” all’interno della collettività ebraica v. infra, § 4.3.
 
[43] Cfr. V. Pedani, Considerazioni sullo statuto dell’ebraismo italiano, cit., p. 599. Cfr. anche P. Stefani, Gli ebrei, cit., specialmente p. 27.

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