Capitolo Ottavo


U.S.A. e U.R.S.S. di fronte all’Eurocomunismo

L’importanza della distensione internazionale nell’emergere dell’Eurocomunismo.

La condizione che più di ogni altra consente al nuovo tipo di comunismo di prendere forma è, senza dubbio, il positivo clima di distensione che si è creato tra le due superpotenze.
Il P.C.I., in particolare, grazie alla nuova situazione internazionale, può elaborare, come si è visto, anche il progetto del Compromesso storico, cosicchè la coesistenza pacifica diventa per il partito italiano fondamentale sia per la sua strategia internazionale che per la sua politica nazionale.
Il disgelo tra Mosca e Washington offre ai partiti comunisti occidentali la possibilità di un nuovo modo di interpretare la politica internazionale, per lungo tempo ritenuta una cornice immutabile e tale da non permettere l’elaborazione di linee politiche troppo originali all’interno dei due contrapposti schieramenti. L’Eurocomu-nismo tenta, invece, una nuova strada, ricercando la compatibilità tra la nuova struttura del sistema politico internazionale e il perseguimento di una via nazionale al socialismo [Bonanate, 1978, 136].
Secondo il P.C.I. è possibile costruire, in prospettiva:
“...un’Europa Occidentale democratica, che non sia nè antiamericana nè antisovietica, e che costituisca un fattore di pace e di sicurezza per tutto il mondo.” [Berlinguer E., 1974a].

I comunisti italiani si rendono comunque conto che solo un’iniziativa dei singoli Paesi membri delle due alleanze improntata ad una politica di pace e di collaborazione, può portare all’avanzata della distensione e, in un futuro più o meno prossimo, allo scioglimento dei blocchi:
“Considerare, invece, l’obiettivo della dissoluzione dei blocchi come un prius, significherebbe relegarlo tra le cose impossibili e complicare e rallentare la distensione e la cooperazione.” [Berlinguer E., 1974a].

Per gli eurocomunisti è importante non creare disequilibri all’interno delle due alleanze. Per questo il P.C.I. si dice contrario ad un’uscita unilaterale dell’Italia dalla N.A.T.O. nel caso di una sua partecipazione al governo, in quanto ciò nuocerebbe al processo distensivo. In realtà, come si vedrà, sono altre le ragioni che portano i comunisti italiani ad una svolta nel loro atteggiamento riguardo al Patto Atlantico.
Le analisi condotte sulla distensione dai tre partiti eurocomunisti presentano anche delle differenze tra di loro. Mentre, infatti, il P.C.I vede in questa fase della politica internazionale un momento in cui Stati Uniti e Unione Sovietica svolgono in modo pienamente legittimo il loro ruolo di garanti dell’ordine pacifico mondiale, il partito spagnolo scorge nella coesistenza pacifica le prove evidenti dell’assoluta inutilità di N.A.T.O. e Patto di Varsavia al fine della conservazione di un equilibrio strategico:
“Esso è mantenuto solo dal possesso delle armi nucleari, mentre N.A.T.O. e Patto di Varsavia sono piuttosto degli strumenti di influenza politica che riducono l’area d’indipendenza dei vari Paesi membri.” [Carrillo, 1977a].

Tuttavia, anche il P.C.E. è cauto riguardo a una dissoluzione immediata dei blocchi, poichè, come afferma Carrillo, “non si tratta di sconvolgere l’attuale equilibrio mondiale di forze, nè di passare dall’influenza americana a quella sovietica.” [Carrillo, 1977a].
Per il P.C.F., infine, la coesistenza pacifica deve essere messa in relazione alla lotta di classe mondiale, ed è inaccettabile pensare alla distensione come al semplice mantenimento dello statu quo all’interno dei due blocchi [Lavau, 1981].
Secondo Bonanate, la chiave di volta su cui poggia il sistema eurocomunista è la presunzione dell’immutabilità del sistema internazionale al suo massimo grado, cioè a livello delle due superpotenze, unita alla possibile e legittima mutabilità all’interno dei due sistemi [Bonanate, 1978, 574]. A parere di tutti e tre i partiti, del resto, proprio la via aperta dalla Conferenza di Helsinki mostrerebbe come i nuovi rapporti tra U.S.A. e U.R.S.S. siano ormai entrati in una nuova fase, reputata ormai incontrovertibile.

Molti, però, giudicano questo un grave errore di valutazione da parte degli eurocomunisti. In realtà, ciò che ha reso possibile la conferenza e il suo buon esito sarebbe stata la tacita accettazione da parte sovietica della teoria kissingeriana dei “consolidamenti reciproci”, proposito che, certo, non persegue il superamento dei blocchi [Olivi, 1978]. Venendo meno questo primo tassello, risulta perciò erronea tutta l’analisi eurocomunista del sistema politico internazionale. Inoltre, vi sarebbero anche evidenti errori di valutazione della reale forza della potenza americana, ritenuta in grande difficoltà e costretta quasi a scendere a patti con il socialismo.

Secondo gli eurocomunisti, poi, U.S.A. e U.R.S.S. si sarebbero spinte a tal punto nel processo di distensione, da essere ormai quasi costrette ad accettare la prosecuzione del progetto di comunismo democratico elaborato da questi partiti, pena un ritorno alla Guerra Fredda.

Ciò che gli eurocomunisti non prendono minimamente in considerazione è la possibilità che la coesistenza pacifica segni, in realtà, una fase di arresto di ogni potenziale dinamismo del sistema politico internazionale. Sarebbero proprio le esigenze di consolidamento del Socialismo Reale a produrre una situazione molto difficile per i tre partiti comunisti occidentali, stretti tra un imperialismo pacifico e, quindi, più saldo e un socialismo ormai anti-internazionalistico [Bonanate, 1978, 563]. Infine, sempre secondo Bonanate, la contraddizione di fondo dell’Eurocomunismo consiste nel fatto che i partiti che ne hanno dato vita non si rendono per niente conto degli effetti sconvolgenti che la conquista del potere da parte loro avrebbe sul sistema geopolitico internazionale [Bonanate, 1978].

I timori sovietici riguardo all’Eurocomunismo.

Le ragioni per cui Mosca mostra di non gradire affatto la nuova strategia dei tre partiti comunisti dell’Europa Mediterranea sono molte, e tutte molto valide dal suo punto di vista.
Innanzitutto il Cremlino teme che possa venire fortemente compromesso il suo ruolo di guida del movimento comunista internazionale. Per questo motivo distingue tra “via nazionale al socialismo”, pienamente legittima e “modello di socialismo”, che, invece, era e rimane uno solo, quello leninista di stampo sovietico.
In secondo luogo i sovietici hanno paura che il proposito eurocomunista di “un’Europa non subordinata nè agli U.S.A. nè all’U.R.S.S.” si materializzi in un’Europa sostanzialmente antisovietica [Fracassi, 1978].

Ma la più grande preoccupazione di Mosca concerne il rischio che le teorie eurocomuniste agiscano da catalizzatori sul dissenso all’Est, minando la già precaria legittimità di questi regimi e innescando processi che possono col tempo portare a incontrollabili conseguenze [Brown, 1979].
Secondo alcuni osservatori, in effetti, i dirigenti sovietici non temono tanto di veder scemare la loro influenza sui comunisti occidentali, quanto piuttosto di perdere il controllo esercitato sui partiti e sui popoli dell’Est, a causa dei forti sentimenti antiburocratici che l’Eurocomunismo suscita [Mandel, 1977].

Secondo Marcou tre sono i tipi di critica rivolti dagli ideologi del P.C.U.S. ai comunisti occidentali. In primo luogo la critica teorica, che vede i dottrinari del partito sovietico impegnati a difendere a spada tratta la piena attualità delle concezioni leniniste, come la rivoluzione, la democrazia proletaria, la dittatura del proletariato e così via. Il secondo tipo di critica è quella organica, e prende le forme di conferenze scientifiche su temi riguardanti i principi marxisti. Infine, ed è la più importante, la critica pubblica, che consiste in pubbliche manifestazioni di inimicizia nei confronti dei presunti “eretici”. E’ questo il caso del duro attacco condotto dalla rivista sovietica «Novoe Vremia» (Tempi Nuovi) contro il leader spagnolo Carrillo, in risposta ad alcune affermazioni di quest’ultimo contenute nel suo libro “Eurocomunismo y estado”. L’attacco ha un duplice scopo, in primo luogo isolare il segretario dal resto del suo partito e, soprattutto, mettere in guardia P.C.I. e P.C.F. che le stesse accuse ora rivolte al partito spagnolo potrebbero, un domani, essere indirizzate a loro stessi. Mosca gioca d’azzardo, anche rischiando di accrescere in modo incolmabile la frattura con gli eurocomunisti, ma è convinta che nè il P.C.I. nè, tantomeno, il P.C.F. sono pronti a tagliare definitivamente i ponti con la Patria dell’Ottobre. I fatti danno ragione al Cremlino. Molto tenui sono, infatti, le reazioni dei due partiti. Il P.C.I. tiene una posizione piuttosto ambigua, che implicitamente sembra scaricare Carrillo. Si critica, infatti l’articolo sovietico solo per l’eccessiva asprezza dei toni, ma si riafferma la natura socialista dell’Unione Sovietica negata, invece, dal segretario del P.C.E.. Un comportamento quasi analogo è tenuto dai comunisti francesi, che deplorano più la sostanza che la forma della requisitoria sovietica [Rizzo, 1977]. Il Cremlino ha ottenuto quanto cercava, e la solidarietà eurocomunista è irrimediabilmente inc!
rinata.

Stati Uniti ed Eurocomunismo.

Un requisito fondamentale affinchè il progetto eurocomunista possa avere buon esito, è rappresentato dalla necessità di stabilire, da parte dei tre partiti in questione, dei rapporti per lo meno distesi, se non proprio cordiali, con gli Stati Uniti e la struttura politico-militare che ad essi fa capo, l’Alleanza Atlantica. L’obiettivo è fortemente cercato sia dal P.C.E. che, soprattutto, dal P.C.I., mentre il P.C.F., per ragioni più nazionalistiche che ideologiche, nemmeno in questa fase smorza la sua accesa polemica con gli U.S.A., limitandosi solo a promettere che la permanenza della Francia nell’ambito dell’Alleanza Atlantica proseguirà, anche se, a dire il vero, in modo molto diluito, anche durante un’esperienza di governo di sinistra.

Al contrario, il P.C.E. si sforza di convincere gli americani del proprio leale attaccamento alle strutture democratiche e alle libertà fondamentali, e Carrillo, nel corso di un suo viaggio negli Stati Uniti, il primo compiuto da un segretario di un partito comunista occidentale, pur non incontrando nessun rappresentante ufficiale dell’Amministrazione Carter, ha modo di presentare nelle università e nei convegni a cui partecipa, i programmi futuri del suo partito e i principi cardine dell’Eurocomunismo. Inoltre i comunisti spagnoli, pur essendo contrari ad un ingresso del loro Paese nel Patto Atlantico, si dicono disposti a mantenere la presenza di basi americane in territorio spagnolo, almeno fin tanto che le truppe sovietiche restano dislocate, quasi come un esercito di occupazione, in Paesi come la Cecoslovacchia.

Ma l’apertura maggiore è, senza dubbio, quella operata dal P.C.I.. Anch’esso, come il partito spagnolo, si pone l’obiettivo di fare conoscere i propri programmi, la propria storia e le proprie caratteristiche oltre oceano. Per questa ragione, personalità di primo piano del partito, come Napolitano, si recano negli U.S.A. a tenere conferenze nelle più prestigiose università.
Anche la stampa del partito, durante questa fase, cambia tono a proposito della politica della Casa Bianca. Si segue con molto interesse la corsa alla presidenza tra i due candidati Ford e Carter, e si nutrono prudenti ottimismi nei confronti di quest’ultimo, un democratico che pare molto attento agli sviluppi politici che avvengono in quegli anni in Europa Meridionale.

Tuttavia, è soprattutto il nuovo atteggiamento verso la N.A.T.O. a costituire una svolta storica. Quanto afferma Berlinguer nella celebre intervista rilasciata a Pansa, in occasione di una Tribuna Politica per le elezioni legislative del giugno ’76, non è semplice propaganda elettorale, ma la conclusione di un lungo processo che ha preso avvio già qualche anno prima.
Il leader comunista, interrogato riguardo alle alleanze politiche dell’Italia afferma:
“Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcuna condizione.” [Berlinguer E., 1976d].

La N.A.T.O., secondo Berlinguer, può essere uno scudo utile per costruire il socialismo in libertà:
“Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo motivo... Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia.” [Berlinguer E., 1976d].

Probabilmente, oltre a non voler provocare pericolosi scompensi nel processo di distensione e oltre al fatto di provare un maggior senso di sicurezza stando sotto “l’ombrello atlantico”, vi sono altre ragioni, di natura più pratica, per le quali il P.C.I. non vuole lasciare la N.A.T.O.. Tra queste, certamente, il timore che la Jugoslavia del dopo-Tito, in un futuro non troppo lontano, possa venire risucchiata nella sfera di influenza sovietica, fatto che condurrebbe un’Italia non più allineata in una difficile situazione di terra di frontiera tra l’Ovest e l’Est [Griffith, 1976].

Per quanto riguarda invece l’atteggiamento dei governanti americani verso il partito comunista, la prima manifestazione palese di un’interferenza americana nella situazione politica italiana è l’intervista rilasciata al settimanale «Epoca» dall’ambasciatore U.S.A. in Italia, dopo le elezioni amministrative del giugno. In essa viene posta apertamente in discussione la compatibilità di una partecipazione comunista al governo rispetto agli impegni atlantici [Olivi, 1978, 113].
Il Compromesso storico, fino all’estate ’75 un po' snobbato dagli americani, viene da questo momento preso in seria considerazione, a causa della sua potenziale pericolosità per gli interessi americani.

Per gli U.S.A. la metà degli anni ’70, e in particolare l’estate 1975, essendosi appena conclusa e in modo disastroso la guerra nel Vietnam, è un momento di grande difficoltà, segnato da un generale momento di appannamento l’immagine stessa della leadership americana. Il governo statunitense non può permettersi nuove sconfitte in politica estera. Per questo Kissinger presenta la teoria dei “consolidamenti reciproci”, prontamente accettata dai sovietici e base, come si è visto, della Conferenza di Helsinki [Olivi, 1978, 144].

Il candidato Carter sembra essere più disponile ad un confronto con gli eurocomunisti e alcuni del suo staff, come Brezinski, criticano apertamente la logica del Segretario di Stato, perchè porterebbe ad un’implicita ratifica di tutti gli effetti della Guerra Fredda, a vantaggio esclusivamente dei sovietici. Carter, inoltre, in una serie di interviste del ’76, arriva ad affermare che, in caso di una sua vittoria nella corsa per la Casa Bianca, gli Stati Uniti si impegnerebbero a rispettare ogni scelta democratica dei Paesi europei e che non verrebbe preclusa alcuna possibilità di dialogo con quei partiti comunisti eventualmente ben disposti verso gli U.S.A.. Inoltre, il leader dei democratici invita il Segretario di Stato a dosare la sua intransigenza, per non pregiudicare ulteriormente la già difficile situazione italiana [Olivi, 1978, 116-117].

Intanto, nel giugno ’76, a Puerto Rico, si incontrano i capi di stato e di governo dei sette Paesi più industrializzati dell’Occidente. In un vertice ristretto, a cui partecipano U.S.A., Gran Bretagna, Francia e Germania Federale, vengono prese in considerazione le possibili misure da adottarsi nei confronti dell’Italia nel caso di una partecipazione del P.C.I. al governo. Il vespaio di polemiche sollevato da questo episodio si placa soltanto con l’elezione di Carter alla Casa Bianca, evento che, secondo alcuni osservatori, potrebbe, paradossalmente, creare più difficoltà che vantaggi agli eurocomunisti, in quanto, se essi, da un lato, hanno maggior spazio di manovra, dall’altro corrono il rischio di veder ampliate le divergenze con Mosca [Villetti, 1977].

In realtà, anche con l’elezione di Carter non muta granchè nell’atteggiamento di Washington verso gli Eurocomunisti. Il principio resta: “Non interferenza ma nemmeno indifferenza”. Un primo segnale di ciò si ha nella dichiarazione del Dipartimento di Stato dell’aprile 1977, dove si dice:
“La nostra capacità di lavorare insieme ai Paesi dell’Europa Occidentale riguardo questioni di vitale importanza, potrebbe essere menomata se questi governi giungessero ad essere dominati da partiti politici le cui particolari tradizioni, valori e pratiche sono estranei ai fondamentali principi democratici.” [Olivi, 1978, 119].

Tuttavia, i tre partiti non si sentono chiamati in causa, in quanto non considerano il loro caso il riferimento ad una situazione di dominio da parte di partiti non democratici.
Intanto, nell’ottobre dello stesso anno, Brezinski dichiara che, se anche gli eurocomunisti possono mutare la natura del comunismo, permangono al loro interno differenze importanti, che li rendono inaffidabili nel loro complesso [Hodgson, 1979]. Pochi giorni dopo, Kissinger, ormai ex Segretario di Stato, ma sempre molto ascoltato esperto di politica estera, fa notare che ciò che afferma oggi Berlinguer è, nella sostanza, simile a quello che dicevano i leader comunisti dell’Europa Orientale tra il 1945 e il ’48, mentre la proposta del Compromesso storico non è poi così diversa da ciò che aveva in mente Stalin nel 1917, prima dell’arrivo in Russia di Lenin [Rizzo, 1977].
E’ il preludio ad una nuova dichiarazione del Dipartimento di Stato, che, nel gennaio ’78, rende noto che la sola partecipazione dei comunisti ad un governo occidentale è ritenuta un problema fondamentale per l’avvenire stesso dell’Alleanza Atlantica [Olivi, 1978, 125].

In realtà, più che essere riferita all’Eurocomunismo nel suo complesso, la dichiarazione sembra soprattutto un monito all’Italia, dove l’entrata del P.C.I. nell’esecutivo è ritenuta molto probabile.
Le ragioni per cui la pressione americana è diretta in particolare al nostro Paese e non anche alla Francia, dove, prima della rottura tra P.C.F. e P.S., una vittoria della sinistra è tutt’altro che impossibile, sono molteplici. Innanzitutto la situazione francese non consente margini di manovra per una pressione diretta. Inoltre, vi è fiducia da parte degli U.S.A. nelle capacità politiche di Mitterand, oltre che nelle sue relazioni con la socialdemocrazia tedesca. Sono, poi, da prendere in considerazione gli effetti che causerebbe un’ingerenza diretta americana nella politica francese, su un partito dall’esasperato nazionalismo qual è il P.C.F.. Infine, vi è da dire che è certamente molto maggiore la forza con cui il partito italiano chiede di partecipare al governo, al punto da rendere necessaria una presa di posizione da parte americana [Olivi, 1978, 134-135].

In generale, i motivi per cui gli Stati Uniti si oppongono all’ingresso dei partiti comunisti nei governi occidentali, sono dovuti a fattori sia di ordine pratico che di ordine ideologico. Vi sono ragioni di natura economica, come il problema del contenimento dell’inflazione o quello del proseguimento degli investimenti finanziari. Esistono, ovviamente, anche delicate questioni di politica militare, ma il problema più grave è rappresentato da considerazioni di ordine politico, in quanto la presenza di un partito comunista al governo di un Paese occidentale porrebbe gli U.S.A. di fronte al dilemma se sia più legittimo difendere la democrazia in Europa, anche a costo di consentire l’instaurazione di un governo comunista rispettoso delle libertà, o difendere l’Europa dal comunismo, limitando, però, in questo modo, la democrazia europea [Hodgson, 1979].

E’ interessante, infine, accennare brevemente alla posizione degli intellettuali e della grande stampa americana su questa vicenda. I giornali più “liberal”, come il «New York Times» e il «Washington Post», criticano le posizioni più oltranziste dell’am-ministrazione Ford, le quali descrivono come uno scenario quasi apocalittico l’ipotesi di una partecipazione di un partito comunista al governo di una democrazia occidentale. In fin dei conti, si fa notare, gli U.S.A. conserverebbero comunque un sufficiente margine di tempo e di azione per prevenire situazioni per loro imbarazzanti.
Tra gli accademici, una delle posizioni più aperte è certamente quella di Peter Lange, il quale fa notare che i buoni risultati elettorali del P.C.I. non sono dovuti al caso, e che un atteggiamento troppo intransigente della Casa Bianca rischia di essere intempestivo e di costringere la leadership del partito italiano ad arrestare il suo processo di autonomia da Mosca, con conseguenze molto negative per gli U.S.A.[Lange, 1976].

Secondo Reston, invece, editorialista del «New York Times», se anche il nuovo presidente Carter fosse convinto dell’assoluta sincerità degli eurocomunisti nel loro smarcamento politico e ideologico, non riuscirebbe comunque a convincere nè il Congresso, nè, soprattutto, l’opinione pubblica, troppo legata ai vecchi stereotipi della Guerra Fredda.

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