IL CLIMA POLITICO ALL'INIZIO DEL 1900

 


VIENE RINNOVATA
LA TRIPLICE ALLEANZA CON L'AUSTRIA
(ERA STATA STIPULATA LA PRIMA NEL 1882 QUESTA DEL 1912 ERA IL QUINTO RINNOVO)


I VIAGGI DI VITTORIO EMANUELE III A PIETROBURGO E A BERLINO
LA TENSIONE DEI RAPPORTI FRA L'ITALIA E L'AUSTRIA
LO ZAR DIFFERISCE LA SUA VISITA AI SOVRANI D' ITALIA PER L'OSTILITA' DEI SOCIALISTI

Nei riguardi della Triplice, l'On. ZANARDELLI non fece una politica di slealtà ma piuttosto di lealtà, convinto com'era che, uscendo dall'alleanza con gli imperi centrali, l'Italia sarebbe rimasta gravemente danneggiata. Ma i rapporti con l'Austria-Ungheria, durante il ministero Zanardelli non furono mai cordiali, né la Germania, come altre volte aveva fatto, si curò di migliorarli inducendo l'impero alleato (l'Austria) a non vilipendere troppo i sudditi italiani che aveva in casa o nei suoi domini (Trento, Istria, Udine, Trieste ecc.)

Se il Governo era persuaso dell'interesse che aveva l'Italia a mantenersi nella Triplice, non pochi erano i deputati contrari all'alleanza della Germania e dell'Austria. Parecchi di questi levarono alta la voce contro il rinnovamento del trattato quando nel giugno del 1901, si discusse alla Camera sulla politica estera del Governo.

L'on. DE MARINIS dichiarò che la Triplice "costituiva un'offesa al nostro decoro nazionale e nello stesso tempo danneggiava i nostri interessi". L'Austria da un lato affermava di voler mantenere lo status quo nei Balcani, mentre dall'altro faceva un'intensa propaganda e pressioni nella Bosnia, nell'Erzegovina e nell'Albania con lo scopo di annettersi quelle regioni.

L'on. GUICCIARDINI, che pure non era contrario alla Triplice, espresse i suoi timori circa le mire austriache sull'Albania e lanciò il suo monito all'assemblea:
"Noi non potremo mai permettere che l'Albania possa diventare il possedimento di una potenza di prim'ordine, e nemmeno di una potenza di secondo ordine che appartenga al sistema politico di una potenza di prim'ordine. Abbiamo subìto Biserta, e non potremo subire che un'altra Biserta sorga a Valona o a Durazzo".
L'on. BARZILAI affermò anche lui e rincarò la dose che:
"...la Triplice Alleanza non solo era ora inutile ma era anche dannosa all'Italia", e proseguì "Noi ci eravamo alleati alle potenze centrali perché l'equilibrio del Mediterraneo non fosse ulteriormente turbato. Ma le fortificazioni di Biserta, cioè il fatto per cui la conquista di Tunisi divenne veramente pericolosa ed offensiva per l'Italia, si svolse sotto gli auspici della Triplice Alleanza; e sotto gli auspici della Triplice Alleanza si è firmato il protocollo fra l'Inghilterra e la Francia per la delimitazione dell'hinterland tripolino. Ed io credo che la Francia non prenderà la strada di Ghadames; lo credo fermamente; ma nessuno di voi crederà che non lo faccia perché noi siamo gli alleati degli imperi centrali; forse non lo farà per una ragione diametralmente opposta: che potrà sembrare ad essa che noi siamo di quelli, ora, meno intensamente legati di una volta".

BARZILAI anche lui accennò alle mire dell'Austria sull'Albania (che non erano più un mistero).
L'on. BOVIO espresse il parere che l'Italia doveva uscire dalla Triplice e avvicinarsi alla Francia cui era legata da vincoli di razza.

Il ministro PRINETTI, naturalmente, parlò in favore della Triplice, quando, il 14 giugno sempre del 1901, prese la parola per rispondere ai precedenti oratori. Egli rilevò il carattere esclusivamente pacifico dell'alleanza, riconobbe "la solida base che la Triplice aveva dato alla politica italiana e il contributo che aveva portato alla causa della pace in Europa, ed affermò che l'alleanza con gl'imperi centrali era conciliabile con l'amicizia con la Francia. Riguardo all'Albania, Prinetti disse che tanto il Governo italiano quanto quello Austro-Ungarico volevano la conservazione dello status quo.

Tuttavia lunghe e laboriose furono le trattative per il rinnovamento della Triplice nel 1902. Anzi corsero perfino il rischio di naufragare perché il BULOW ed il GOLUCHOWSKI si rifiutarono di modificare gli articoli 6 e 7 relativi all'Oriente. Finalmente il 28 giugno del 1902 a Berlino fu rinnovato senza modifiche il trattato della Triplice Alleanza.
Due giorni dopo però il Governo Austro-Ungarico dichiarava d'impegnarsi a non intralciare in alcun modo un'eventuale azione dell'Italia in Tripolitania e in Cirenaica.
L'8 luglio 1902, furono scambiate le ratifiche per il rinnovamento della Triplice; ma due giorni dopo, VITTORIO EMANUELE III, accompagnato da Prinetti, partì per Pietroburgo, per cementare con una visita allo Zar la nuova amicizia italo-russa.

Sul finire dell'agosto del medesimo anno, il re d'Italia si recò a Berlino, ma non volle visitare Vienna per dare una risposta all'offesa che FRANCESCO GIUSEPPE aveva recato alla Casa Sabauda e all'Italia non restituendo la visita ad Umberto I.
Così le relazioni italo-austriache peggiorarono, né valsero a migliorarle le dimissioni di Prinetti, colto da grave malore il 29 gennaio del 1903 e sostituito dall'ammiraglio MORIN, ministro della Marina.


Le entusiastiche manifestazioni di Trento a Vittorio Emanuele di ritorno da Berlino, le violenze contro gli studenti italiani ad Innsbruck, seguite, nel maggio del 1903, da violentissime dimostrazioni irredentiste in Italia, e infine le grandi manovre italiane nel Veneto (agosto del 1903) che fecero accorrere in quella regione rappresentanze di Triestini ed Istriani con bandiere per ossequiare il sovrano, resero più tesi i rapporti italo-austriaci e si giunse persino a parlare di una prossima rottura tra le due nazioni. Come al solito, Vittorio Emanuele (e lo sarà fino al 25 luglio 1943) rimase sempre silenzioso e impenetrabile; solo ogni tanto qualche insofferenza, non sempre celata, verso i tedeschi.

Nel maggio del 1903 GUGLIELMO II restituì la visita a Vittorio Emanuele III e fu accolto festosamente, ma quell'aria del kaiser che si atteggiava a "padrone del vapore" (e ricordava al discendente sabaudo che era per merito della Prussia se l'Italia si era unita nel 1870) infastidiva enormemente il Re d'Italia.

Inopportunamente si parlava intanto (e questo era un boccone amaro per il Kaiser e per Vienna) di una prossima visita che avrebbe fatto lo Zar Nicola II in Italia; a dare risonanza a questa visita ci si mise la stampa estrema gridando che non si sarebbe mai permesso al feroce tiranno di metter piede in terra italiana. La conferma della venuta di Nicola in Italia si ebbe il 5 giugno dalla bocca di ALFREDO BACCELLI, sottosegretario agli Esteri, in risposta ad un'interrogazione del deputato socialista MORGARI. Allora l'Estrema Sinistra si mise ad urlare: "Abbasso il boia ! Abbasso il cosacco ! Lo fischieremo !" Fu tale il clamore che la seduta fu sospesa.

Il paradosso è che gli irredentisti e i socialisti facevano un favore proprio agli austriaci!

Non si poteva essere contro la Russia e volere la pace con la Germania e con l'Austria anti-italiana; né d'altra parte si poteva essere contro l’Austria e ignorare l’irredentismo o far finta di niente con gli stessi austriaci che zitti zitti (i socialisti austriaci nell'occasione fecero un assordante silenzio!!!) passeggiavano sui Balcani, si annettevano la Bosnia Erzegovina, e con gli occhi già stravedevano per l'Albania .

Entrambe le due cose non erano per nulla gradite all'Italia (antiaustriaca, risorgimentale o no) né erano gradite alla Russia (imperialista o internazionalista).
SALVEMINI diventerà cosciente solo nel 1909 quando scrisse:
“Certo, compiere il nostro dovere di socialisti e insieme di italiani non ci è facile: Noi camminiamo tra i carboni ardenti: dobbiamo protestare contro l’Austria, staccandoci dagli irredentisti; chiedere una politica più dignitosa al nostro Governo, reagendo contro i militaristi; assalire di fronte i nemici e difenderci alle spalle e ai fianchi dagli … amici”.
(G.S. Irredentismo, questione balcanica e internazionalismo, "Critica Sociale", 1 gennaio, 16 gennaio - 1 febbraio 1909, pag. 83)

Insomma pure i socialisti facevano "giri di valzer", con l'Internazionale che diventava a "double-face", spesso guardando l’imperialismo da una parte sola (vedi G.S., La guerra per la pace, "L'Unità", 28 agosto 1914, op. cit., pagg. 359-61).
Eppure già in un articolo su
“Critica Sociale” fin dal 1900, l’irredentismo gli appariva “una pericolosa arma di combattimento, non solo contro il partito socialista, ma anche contro tutti gli altri partiti democratici”. (G. S. L'irredentismo, in "Critica Sociale", 1 gennaio 1900, pagg. 3-10)


Né solo alla Camera gli estremi si limitarono alla dimostrazione antizarista. Perché, anzi, i socialisti si prepararono ad attuare le loro minacce, organizzando dimostrazioni ostili da opporre alle accoglienze che il Governo italiano preparava a Nicola II.
"...il continuatore - così diceva un manifesto - dell'assolutismo feroce dei suoi avi, sordo all'appello della libertà che a lui saliva dalle rinnovellate steppe e dalle officine industriali; sordo al grido d'angoscia che montava dalla Siberia dei martiri; sordo al richiamo dell'Europa occidentale, che non poteva più oltre sopportare la vergogna dell'assolutismo nel secolo delle libertà costituzionali".
(Ciò che avvenne dopo il 1918, non fu certo un "richiamo all'Europa Occidentale")

I socialisti con la loro agitazione antizarista raggiunsero lo scopo che si proponevano; lo Zar, informato di tutto dal suo ambasciatore a Roma e sconsigliato da questi e da coloro che non vedevano di buon occhio l'amicizia italiana, il 13 ottobre annunciò che, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, differiva la sua visita a Vittorio Emanuele III.

Abbiamo detto che fu un bel favore fatto all'Austria, tanto più che anziché in Italia, lo Zar, cambiando direzione, si era recato in Austria e questa visita fu il preludio di una convenzione austro-russa, firmata il 2 ottobre del 1903 a Murzsteg tra il LAMSDORFF e il GOLUCHOWSKI, in cui i due Governi precisavano la linea comune di condotta per riaffermare l'egemonia dei due paesi nella Turchia europea, cioè sui Balcani (double "imperialismo"). E sia l'una che l'altra voleva essere la sola a dominare, ed è per questo che fin da ora iniziano reciprocamente a tramare. Le ostilità fra i due ex nemici, ora amici, non sono eliminate, ma sono solo rimandate al... 1914.

Lasciamo per il momento i fatti della politica estera e ritorniamo a quella interna, dove non mancano: gli inasprimenti della conflittualità sociale; i movimenti cattolici in contrasto con il Papa; i forti contrasti dei socialisti; i fallimenti del movimento sindacale.
Ed infine la presa del potere di GIOLITTI.

 

…entriamo appunto nel periodo dal 1903 al 1905

 

RITORNO DI GIOLITTI - MORTE DI LEONE XIII - I SOCIALISTI
LA CAMPAGNA MORALE CONTRO IL MINISTRO BETTOLO - DIMISSIONI DEL GABINETTO - IL NUOVO MINISTERO ZANARDELLI - PROCESSO BETTOLO-FERRI - MORTE DI LEONE XIII - GIUDIZIO SUL SUO PONTIFICATO - LEONE XIII E LA QUESTIONE SOCIALE - IL CONCLAVE E IL "VETO" DELL'AUSTRIA CONTRO IL CARDINALE RAMPOLLA - ELEZIONE DI PIO X - MORTE DI GIUSEPPE ZANARDELLI - IL SECONDO MINISTERO GIOLITTI - SUICIDIO DEL MINISTRO ROSANO - PROGRAMMA DEL MINISTERO - ATTIVITÀ LEGISLATIVA - LE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI AD INNSBRUCK - DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULLA POLITICA ESTERA - LA POLITICA DELL'ON. TITTONI - L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE - LA VISITA DI EMILIO LOUBET, PRESIDENTE DALLA REPUBBLICA FRANCESE, A ROMA - LA FRANCIA E LA SANTA SEDE INTERPELLANZE ALLA CAMERA, ITALIANA SULLA VISITA DEL LOUBET O SULLA NOTA PONTIFICIA DI PROTESTA - ROTTURA TRA LA SANTA SEDE E LA FRANCIA - SOPRAVVENTO DEI RIVOLUZIONARI NEL PARTITO SOCIALISTA - CONFLITTI IN PUGLIA, IN SICILIA, IN SARDEGNA E IN LIGURIA - NASCITE DEL PRINCIPE EREDITARIO - LO SCIOPERO GENERALE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - REVOCA TEMPORANEA DEL "NON EXPEDIT" - LE ELEZIONI POLITICHE - INAUGURAZIONE DELLA XXII LEGISLATURA - IL DISCORSO DELLA CORONA - NUOVE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI AD INNSBRUCK; INTERPELLANZE PARLAMENTARI. DISCUSSIONE AL SENATO SULLA POLITICA INTERNA - LA QUESTIONE FERROVIARIA - L'OSTRUZIONISMO DEI FERROVIERI - LE DIMISSIONI DELL'ON. GIOLITTI
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IL NUOVO MINISTERO ZANARDELLI
LA CAMPAGNA MORALE CONTRO IL MINISTRO BETTOLO
DIMISSIONI DEL GABINETTO


Al VII congresso socialista - lo abbiamo visto nelle precedenti pagine- c'era stato il trionfo della tendenza riformista e fu riconfermato BISSOLATI come direttore dell'Avanti! organo del Partito Socialista Italiano. Fra i principali collaboratori ARCANGELO CABRINI, TOMMASO MONICELLI, PAOLO ORANO, GUIDO PODRECCA.

Quando a Roma, nell'aprile del 1903, ci fu il fallimento di uno sciopero generale, si scatenò il dibattito all'interno del PSI fra la corrente riformista e quella rivoluzionaria. Bissolati apparteneva alla prima, e a contrastarlo fin dal congresso di Imola del 1902, c'era ENRICO FERRI del gruppo intransigente che diventò ancora più forte dopo le sconfitte del movimento sindacale e con l'inasprimento della conflittualità sociale. In più a Ferri gli si affianca il principale organo della corrente rivoluzionaria socialista, "Avanguardia Socialista", rivista appena fondata (Dicembre 1902) da ARTURO LABRIOLA. Gruppo che conquisterà non solo la federazione del partito e la Camera del Lavoro di Milano, ma anche le forti organizzazioni delle industrie meccaniche e metallurgiche in Piemonte e in Liguria (la Fiom), e le organizzazioni braccianti (la Federterra) che però con le gravi sconfitte registrate sono in un momento critico; gli iscritti che nel 1902 erano 227.791, scendono nel 1903 a meno di 45.000.

PROCESSO BETTOLO-FERRI

Il l° maggio del 1903, Bissolati messo alle corde, lasciò dunque la direzione dell'Avanti a FERRI, che iniziava dalle colonne del giornale una feroce campagna morale contro il viceammiraglio GIOVANNI BETTOLO, il quale aveva il 22 aprile di quello stesso anno assunto il portafoglio della Marina in sostituzione di MORIN che era passato agli Esteri.
Ferri chiamava Bettolo "corruttore e affarista" e lo accusava di avere aumentato lo stipendio del presidente del Consiglio Superiore della Marina per indurlo ad approvare un contratto di fornitura di corazze per l'ammontare di 20 milioni con le Acciaierie di Terni.

La Terni (all'inizio concepita statale, poi fu affidata proprio in questo periodo a un gruppo di grossi capitalisti privati) si era specializzata esclusivamente nelle forniture di materiale bellico per le forze armate italiane divenendo, in pratica, unico fornitore dello Stato, e possedeva pure il monopolio delle corazzature delle navi; ma nonostante questi grandi affari, lo stesso Stato contribuì a salvarla da una gestione (privata e senza controllo) molto "allegra".
(sulla creazione delle acciaierie di Terni vedi qui )

Le gravi accuse (che erano di collusione con la Terni) destarono grande impressione nel paese. Due deputati, FERRI stesso e SANTINI, presentarono interpellanze alla Camera, dove il 20 maggio il ministro Bettolo si difese strenuamente da quelle che egli chiamò e dimostrò essere insinuazioni contro la propria invulnerabile onorabilità.
"La Camera - egli concluse - comprenderà quanto sia stato penoso per me il dovere discendere a discutere della mia onorabilità, conquistata con una vita tutta consacrata al sentimento dell'onore e al culto della patria. Mi piace solamente di affermare che, se per avventura i miei detrattori mirassero ad intimidire l'opera mia di governo, si sbaglierebbero, poiché attingendo sempre la forza di assumere tutte le responsabilità, e le più gravi responsabilità, alla purezza della mia coscienza, saprò affrontare, ed anche disprezzare, le insinuazioni, le calunnie, il libellismo !".

FERRI insisteva con le sue accuse, chiamando Bettolo "divoratore di milioni" e lui rivolto al deputato socialista rivoluzionario, lo apostrofò: "Voi, nella mente, nel cuore e nell'azione, siete una ben misera cosa !".


Continuando sull'"
Avanti!" la campagna morale, gli onorevoli FRANCHETTI e MORGARI proposero un'inchiesta parlamentare; ma il 10 giugno GIUSEPPE ZANARDELLI, pur impegnandosi che avrebbe fatto eseguire indagini accurate, respinse la proposta, che fu pure respinta dalla Camera con 188 voti contro 149.
Un responso singolare, perché se vi erano dei dubbi, il minimo da fare era quello di istituire una commissione d'inchiesta.

In seguito a questa votazione l'11 giugno, Giolitti si dimise da ministro degli Interni, protestando che il Ministero non aveva più ragione di esistere poiché non operava le riforme promesse e si alienava l'appoggio delle Estreme. Anche Bettolo si dimise e, qualche giorno dopo il tutto il Gabinetto entrò in crisi, ma Zanardelli non volle rassegnare le dimissioni, si limitò ad assumere lui il ministero degli Interni lasciato da Giolitti, e affidare l'interim della Marina al ministro degli Esteri MORIN.

Fatto questo rimpasto del suo Ministero e fallito il tentativo di includervi qualche elemento dell'Estrema Sinistra, l'on. ZANARDELLI decise di ripresentarsi al Parlamento con il Gabinetto dimissionario.
Ma le critiche al suo governo non mancarono sia da destra sia da sinistra e il 21 ottobre Zanardelli rassegna al Re le dimissioni del ministero, o forse pregò il sovrano di esonerarlo (perché stanco e malato; morirà due mesi dopo, il 26 dicembre).
(Del nuovo ministero dove sarà chiamato Giolitti a costituirlo parleremo più avanti).

Sulla vicenda Bettolo, continuando Ferri ed attaccarlo, il ministro lo querelò per diffamazione affidando la propria difesa a LEONE FORTIS, TEODORO BONACCI, ARTURO VECCHINI. Difensore del Ferri furono, fra gli altri, gli onorevoli ALTOBELLI, CICCOTTI e COMANDINI. Il processo, che destò l'interesse dell'intera nazione, terminò il 10 febbraio del 1904 ed Enrico Ferri, dichiarato colpevole del delitto di diffamazione continuata a mezzo stampa, fu condannato a quattordici mesi di reclusione, alla multa di 1516 lire, alle spese di giudizio e al risarcimento dei danni; pena che però non fu mai scontata.

MORTE DI LEONE XIII -
GIUDIZIO SUL SUO PONTIFICATO
LEONE XIII E LA QUESTIONE SOCIALE
CONCLAVE E VETO DELL'AUSTRIA CONTRO IL CARD. RAMPOLLA
ELEZIONE DI PIO X

Circa un mese dopo la ricostituzione del "barcollante" Ministero Zanardelli, e precisamente il 19 luglio del 1903, cessava di vivere in età di novantatre anni, LEONE XIII.
Scrive così il Gori: "Papa umanisticamente moderno, Leone aprì gli archivi vaticani alle indagini degli studiosi con saggia larghezza, dalla quale il governo di Vittorio Emanuele ebbe molto da apprendere; richiamò allo studio dei Santi Padri, conciliato con gli ultimi acquisti della filosofia civile e delle scienze naturali; quasi a compenso della condanna delle proposizioni rosminiane, dovuta concedere ai Gesuiti, volle conseguire il tomistico "rationabile obsequium", commettendo a dotti maestri di vagliare con sana critica le Sacre Scritture; raccomandò una migliore istruzione della gioventù destinata al sacerdozio. Tentò con soavità di modi e sodezza di dottrina riunire alla Chiesa cattolica scismatici e dissidenti. Toccarono a lui, come già a Benedetto XIV, e per breve tempo, a Pio IX, quelle personali attestazioni di ossequio, anche di eterodossi e massoni, che pur si riflettono a decoro del Pontificato" (Gori).

Il sociale non lasciò insensibile LEONE XIII;
e su questa questione si occupò nella famosa enciclica "Rerum Novarum" del 15 maggio del 1891.
(su questa importante enciclica vedi UN PAPA CORAGGIOSO (nella lista dei Papi)

"E' di estrema necessità - affermò il Pontefice - venir senza indugio, con opportuni provvedimenti, in aiuto dei proletari, che per la maggior parte trovansi indegnamente ridotti ad assai misere condizioni. Imperocché, soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in vece loro, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un'usura divoratrice, che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso sotto un altro colore, per il fatto degli ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi ha imposto all'infinita moltitudine di proletari un giogo men che servile".

Leone XIII condannò esplicitamente la dottrina e l'azione dei socialisti che pretendevano abolire la proprietà e volevano fare di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune da amministrarsi per mano del Municipio e dello Stato, il che non avrebbe risolto la contesa, avrebbe danneggiato gli stessi operai e sarebbe stato una "patente ingiustizia, giacché diritto di natura è la proprietà privata".

Indubbiamente Leone XIII, conosceva molto bene Proudhon in "Che cosa è la proprietà?" che è il punto centrale del politico francese, cioè l'analisi della proprietà, che considera da un lato come "struttura portante" del privilegio sociale, dall'altro come cardine della resistenza degli individui e dei gruppi al dominio dello Stato (in quel periodo ancora feudo-monarchico e autoritario). Nelle sue pagine Proudhon si rispondeva: "La proprietà é un furto!" ma aggiungeva pure "La proprietà è la libertà!" (e questa seconda frase molti poi la ometteranno, e la omettano faziosamente ancora oggi). Erano due massime che sintetizzavano i due aspetti solo apparentemente contradditori.

La prima frase benché suggestiva (molto impropriamente usata dopo) non riflette fedelmente il pensiero dell'autore. Proudhon infatti -sia chiaro- non rifiutava affatto la proprietà in sé. Fu pronunciata da un uomo che non fu per nulla pregiudizievolmente ostile alla proprietà, e che condannò sin dall'inizio il comunismo, portatore di germi liberticidi, in nome di ciò che era definito "l'anarchia positiva". Proudhon distinse infatti "l'aspetto originario e ineliminabile" della proprietà (Leone XIII invece di originario usa il "diritto di natura") ossia il possesso dei mezzi di produzione (e Proudhon fa un distinguo preciso) dal sistema in cui la proprietà dei mezzi di produzione si accentra in poche mani, il lavoro separato dal godimento dei suoi frutti, e la proprietà che si trasforma in rendita parassitaria di alcuni soggetti. Proudhon infatti paragona il profitto, gli interessi e la rendita, ai vecchi diritti feudali- (senza fatica) un vero e proprio furto di parte del prodotto dei sudditi plebei (corvè) e che ora si chiamano operai (proletariato).

"Nella presente questione -proseguiva l'enciclica del papa- lo sconcio maggiore è questo supporre l'una classe sociale nemica naturalmente dell'altra: quasi che i ricchi e i proletari li abbia fatti la natura per battagliare in un duello implacabile fra di loro. Cosa tanto contraria alla ragione e alla verità, che invece è verissimo che, siccome nel corpo umano le varie membra s'accordano insieme e formano quell'armonico temperamento che chiamasi simmetria; cosi volle natura che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse un equilibrio. L'una ha bisogno assoluto dell'altra: né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l'ordine delle cose; mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie".

Nel leggere queste comparazioni, all'autore che qui scrive queste note, non possono non venire in mente queste frasi che sono state scritte nel 1921:

"Se la sperata rivoluzione europea non avviene, la rivoluzione bolscevica russa è condannata a perire. Se rimarremo soli, fatalmente cadremo. Come si potranno conciliare nelle relazioni commerciali l'economia comunista e quella borghese? I rapporti economici fra i diversi centri di vita e di produzione non ammettono la contemporanea esistenza di organizzazioni sociali così antagoniste. Nella vita economica internazionale valgono le leggi dei vasi comunicanti; perciò, o noi saremo costretti ad accettare le vostre leggi, o voi le nostre. Noi per salvare le nostre conquiste dobbiamo guadagnare tempo, utilizzare anche il più breve respiro, o altrimenti è la morte".

Questo lo ammise Losowky, presidente dei sindacati operai della Russia sovietica a un gruppo di giornalisti recatisi studiare l'organizzazione del regime comunista leninista. (Caracciolo, Bagliori di Comunismo, Ed. Il Solco, pag.169, anno 1921 !)

Prendendo coscienza della condizione di crisi e di disagio morale, oltre che materiale ed economico, in cui le masse di lavoratori erano venute a trovarsi a seguito del vertiginoso sviluppo industriale, LEONE XIII, poneva dei punti ben fermi:
"da una parte richiamava gli imprenditori e i capitalisti alle loro responsabilità, rimproverando loro egoismo e il tenace attaccamento al mito denaro (*), dall'altra esortava le classi operaie a non lasciarsi suggestionare da facili ideologie rivoluzionarie e a non irrigidirsi in una sterile lotta di classe. Faceva appello ad uno spirito di collaborazione tra le varie classi che dovevano insieme puntare a raggiungere uno stato di benessere, che fosse il benessere di tutti e non di pochi a svantaggio di molti: l'obiettivo indicato era quello di realizzare la solidarietà di capitale e lavoro, proprio perché Leone XIII riteneva assurdo l'antagonismo tra le due forze, che soltanto unite e concordi possono progredire". (P. Giudici)

A costoro, ai capitalisti, ancora nell'89, parlando a diecimila operai francesi giunti a Roma in pellegrinaggio disse a questi ultimi, ma è implicito che i destinatari del messaggio erano i primi "A chi tiene il potere spetta soprattutto persuadersi di questa verità: che per rimuovere il pericolo da quella minaccia che potrebbe venire dal basso, né le repressioni, né le armi dei soldati saranno sufficienti"
(aveva già anteveduto la Rivoluzione Russa con 17 anni di anticipo).

La soluzione della questione sociale, secondo Leone XIII, è ora affidata principalmente al "Cristianesimo" e all'"Intervento dello Stato". Il primo è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri, incominciando da quelli che impone la giustizia; il secondo deve esercitarsi nel determinare i salari minimi, le ore di lavoro, il riposo festivo e le norme igieniche per le fabbriche e per il lavoro delle donne e dei fanciulli".

Questa enciclica produsse grande impressione in tutto il mondo e valse a far chiamare Leone XIII il "Papa degli operai". Inoltre essa diede impulso a quel vasto movimento che fu chiamato socialismo cattolico, il quale, come tutti i partiti, ebbe i temperati e gli accesi.

In politica, Leone XIII mirò a guadagnare alla Santa Sede l'amicizia delle nazioni, ma fu irriducibilmente contrario all'Italia, come era stato il suo predecessore e, guidato dal suo segretario, il Cardinale RAMPOLLA del Tindaro, si servì del gioco della politica internazionale allo scopo di riacquistare il potere temporale.
Cercò, infatti (vedeva lontano?), di allontanare dall'Italia la Germania e l'Austria, tentò d'impedire il rinnovamento della Triplice, si strinse alla Francia e, se dobbiamo credere a von Bulow, perseguì lo scopo di abbattere l'unità italiana e di creare, sotto la sua direzione e il protettorato francese, una repubblica federale (Rimase poi profondamente deluso della non visita fattagli a Roma da Loubet - e che accenneremo più avanti).

Il conclave, cui parteciparono sessanta dei sessantadue cardinali, si riunì il 31 luglio del 1903. Fra i cardinali che aveva maggior probabilità di essere eletto ora il sessantenne MARIANO RAMPOLLA del Tindaro, siciliano di Polizzi, di famiglia borbonica, nemico accanito di Francesco Crispi e ispiratore della politica francofila della Santa Sede. Egli, infatti, al primo scrutinio ebbe la metà dei voti; ma la mattina del 2 agosto il cardinale GIOVANNI PUZYNA, vescovo di Cracovia, in nome dell'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE, pronunciò il veto contro Rampolla, che si alzò a protestare vivamente contro la violenza che si voleva esercitare sul Conclave.

Ma la protesta fu inutile: il 4 agosto, con cinquanta voti, fu eletto Papa il patriarca di Venezia GIUSEPPE SARTO che prese il nome di PIO X e mostrò subito di essere il contrapposto del suo predecessore, umile cioè, schietto, buono, alieno dalla politica e tutto inteso "a ristorare ogni cosa in Cristo", come disse nella sua prima enciclica dell'ottobre 1903, la "motu propri" resa poi nota il 18 dicembre. Diciannove punti che riguardano l'"Ordinamento fondamentale dell'azione popolare cristiana". Sono le stesse enunciazioni di Leone XIII; e si propone di riportare ordine e concordia nel movimento dei cattolici lacerato da contrasti interni. Soprattutto dopo il XIX congresso cattolico del 10-13 novembre, che si era svolto a Bologna; dove il nuovo presidente GROSOLI invano ha cercato di mediare i contrasti tra gli intransigenti e i democratici cristiani, quest'ultimi inclini ad avviare una partecipazione attiva alla vita politica italiana; Grosoli riuscirà a farsi attribuire la facoltà di sciogliere i comitati locali non attivi sul piano sociale, ma non bastò per porre termine ai dissidi dentro l'Opera dei congressi. Il 28 luglio del 1904, Pio X, vista l'impossibilità di conciliare le due fazioni, con una lettera a tutti i vescovi, sciolse l'Opera, e tutte le organizzazioni regionali, diocesane e locali furono poste alle dirette dipendenze dei vescovi.

LA MORTE DI ZANARDELLI

Nello stesso mese, GIUSEPPE ZANARDELLI, carico d'anni ed esausto dall'intenso lavoro, e con una Camera ormai a lui ostile, pregò il sovrano che lo esonerasse dall'ufficio e si ritirò nella sua villa di Maderno, sul Garda. Il riposo non giovò al vecchio statista 77enne, che cessò di vivere il 26 dicembre, dopo essere stato 43 anni sulla breccia parlamentare.

 

IL SECONDO MINISTERO GIOLITTI
SUICIDIO DEL MINISTRO ROSANO
PROGRAMMA DEL MINISTERO - ATTIVITÀ LEGISLATIVA

Ritiratosi l'on. Zanardelli, l'incarico di formare il Ministero fu dato dal Re, come tutti prevedevano, all'on. GIOLITTI, il quale, dopo avere invitato socialisti e radicali ad entrare nel suo Gabinetto, lo costituì il 3 novembre 1903, con elementi di destra e del centro, ma più orientato a destra di quello precedente, dopo aver costatata l'impossibilità di coinvolgere socialisti e radicali.

Per sé Giolitti tenne la presidenza del Consiglio e l'Interno, agli Esteri chiamò il senatore TOMMASO TITTONI, alle Finanze l'on. PIETRO ROSANO, al Tesoro l'on. LUIGI LUZZATTI, alle Poste e ai Telegrafi l'on. ENRICO STELLUTI-SCALA, ai Lavori Pubblici l'on. FRANCESCO TEDESCO, alla Grazia e Giustizia l'on. SCIPIONE RONCHETTI, alla Pubblica Istruzione l'on. VITTORIO EMANUELE ORLANDO, alla Guerra il tenente generale ETTORE PEDOTTI, alla Marina il contrammiraglio CARLO MIRABELLO, all'Agricoltura, Industria e Commercio l'on. LUIGI RAVA.

Il nuovo Ministero, piacque a pochi. Ne furono in modo particolare scontenti i socialisti, che attaccarono subito TITTONI e ROSANO. Contro quest'ultimo -ministro delle Finanze- fu iniziata una campagna morale violentissima, alla quale il ministro non seppe resistere e, la notte dell'8 novembre, si tolse la vita con un colpo di rivoltella.
Dopo questo suicidio speravano i socialisti che GIOLITTI si sarebbe dimesso. L'Avanti gridava: "Un Gabinetto circondata dall'atmosfera dell'accusa implacabile della pubblica coscienza; un Gabinetto che, nascendo ha condotto ad un episodio politico tanto tragico che farà parlare oltre le Alpe di noi, come di un paese dove la lotta delle idee e dei programmi è costretta a degenerare nella lotta per la pubblica morale, è un Gabinetto che non può rimanere al suo posto".
Ma GIOVANNI GIOLITTI non si dimise e, affidato a LUZZATTI l'interim delle Finanze, si presentò il 10 dicembre al Parlamento, dove espose il suo programma di governo. Premesso che si sarebbe continuata, nei limiti delle leggi, la politica di libertà, affermò che le questioni che più urgentemente incombevano sull'economia del paese erano i trattati di commercio, la diminuzione dell'onere del debito pubblico, l'ordinamento ferroviario e l'urgente necessità di rialzare le condizioni economiche delle province meridionali.

Nella stipulazione dei trattati commerciali il Ministero avrebbe avuto di mira l'esportazione dei prodotti agricoli. Con la conversione della rendita si sarebbe alleviato di molti milioni il bilancio e si sarebbe potuta affrontare una riforma tributaria, la quale avrebbe sollevato le condizioni delle classi meno agiate. Quanto alle province del Mezzogiorno, il Governo avrebbe mantenuto il disegno di legge in favore della Basilicata e avrebbe presentato proposte per promuovere lo sviluppo industriale di Napoli. Altre riforme che il Ministero promise di attuare, vi erano l'esercizio di Stato delle ferrovie, l'abolizione del domicilio coatto, lo sviluppo dell'istruzione elementare, il consolidamento della Cassa per la vecchiaia degli operai e il riposo festivo. Dopo aver assicurato che nel campo internazionale l'Italia si trovava in ottimi rapporti con tutte le nazioni, l'on. Giolitti invitò la Camera a dire se aveva o no fiducia nel Gabinetto.

Sulle dichiarazioni del Governo parlarono molti deputati fra cui BARZILAI e BISSOLATI ebbero aspre parole per la risoluzione della crisi. Nonostante l'ostilità dei socialisti, dei radicali, dei repubblicani, che facevano capo a SACCHI e ad un manipolo della Destra e del Centro, il 3 dicembre, con 284 voti contro 117, la Camera approvò il programma del Ministero Giolitti.

Dal momento che i trattati di commercio scadevano il 31 dicembre e non c'era il tempo di svolgere i negoziati, si stipularono accordi provvisori. Poi nel luglio e nel dicembre del 1904 si firmarono i trattati con la Svizzera e con la Germania; quello con l'Austria non poté esser firmato che nel febbraio del 1906. In questo frattempo furono approvate molte leggi: fu modificata la legislazione sulla Sanità pubblica e sulle Opere Pie, furono migliorate le condizioni dei maestri elementari, fu istituita la Cassa per l'invalidità e la vecchiaia degli impiegati comunali, si migliorarono le condizioni economiche di alcune categorie di funzionari statali, si stabilirono pensioni per gli operai della manifattura dei tabacchi, si concessero benefici ai superstiti delle guerre d'indipendenza, si riformò il sistema carcerario e s'introdusse nella legislazione penale la condanna condizionale.
Nel febbraio del 1904 si discusse alla Camera il disegno di legge per la Basilicata, quello presentato da Zanardelli e modificato dalla Commissione esaminatrice. Il disegno, approvato il 23 febbraio con 172 voti contro 38 dalla Camera e il 26 marzo dal Senato, divenne legge il 31 marzo del 1904. L'8 luglio del medesimo anno fu emanata la legge in favore di Napoli.

Nonostante questo buon cammino sulle questioni interne, a turbare l'anno furono i problemi di politica estera.

LE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI A INNSBRUCK
DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULLA POLITICA ESTERA
LA POLITICA DELL'ON. TITTONI
L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE
LA VISITA DI EMILIO LOUBET A ROMA
LA FRANCIA E LA SANTA SEDE INTERPELLANZE ALLA CAMERA ITALIANA SULLA VISITA DI LOUBET A SULLA NOTA PONTIFICIA DI PROTESTA
ROTTURA TRA LA FRANCIA E LA SANTA SEDE

Il 23 novembre del 1903, con un discorso di ANGELO DE GUBERNATIS sul Petrarca, doveva essere inaugurata a Innsbruck un'università libera italiana, ma la cerimonia fu impedita dalla polizia locale. Gli studenti italiani in Austria, offrirono allora, con il permesso delle autorità, un banchetto al De Gubernatis; ma, uscendo dal luogo dove avevano banchettato, furono selvaggiamente aggrediti e malmenati dagli studenti austriaci.

I fatti di Innsbruck suscitarono violentissime dimostrazioni di protesta in tutta l'Italia e nella seduta del 15 dicembre alla Camera, durante la discussione sul bilancio degli Esteri, fornirono occasione a molti deputati di scagliarsi contro l'Austria. L'onorevole CARLO DEL BALZO, dopo aver sostenuto che gli Italiani dell'Impero Austro-ungarico avevano diritto ad una propria università, chiese a TITTONI (min. Esteri) "se l'Italia era alleata oppure messa sotto il protettorato dell'Austria".


L'on. FRADELETTO stigmatizzò il contegno degli studenti tedeschi, contrario al più umile senso di civiltà e d'umanità. "Mentre l'anima giovanile - egli disse - dovrebbe spontaneamente aprirsi alle generose effusioni, mentre la scienza dovrebbe spogliarla di ogni ruvida scorza di pregiudizi e di rancori, noi vedemmo quegli studenti aggredire i loro compagni con l'audacia vile del numero, li udimmo offendere un insigne maestro, che andava a portare la parola delle grandi tradizioni latine. E notate un'antitesi pungente per noi; il maestro, testimonio di quelle scene brutali, stava proprio per evocare l'immagine di quel Poeta, che, tra le furie delle passioni medievali, aveva simboleggiato la virtù pacificatrice del sapere e dell'ingegno".
E ammonì: "Nelle terre italiane, politicamente non nostre, non si oscurino mai la nostra lingua, le nostre memorie, la nostra cultura, la fresca genialità dello spirito nostro, che vola agilmente all'ideale senza smarrirsi nel vuoto, e scruta intimamente il reale senza rimanere prigioniero".

Il ministro TITTONI, rispondendo ai vari oratori, cercò di fare cadere la colpa dei disordini di Innsbruck non sul governo austro-ungarico ma sui contrasti delle varie nazionalità dell'impero, che mettevano in serio imbarazzo il governo medesimo, ed affermò esser necessario che i rapporti tra i due Stati fossero cordiali.
"Noi crediamo - disse - che l'alleanza con l'Austria debba essere mantenuta e che la nostra amicizia con questa nazione debba rimanere piena e sincera. Qualora si volesse una cosa diversa, sarebbe opportuno dirlo in modo molto chiaro, affinché altri uomini vengano su questi banchi per preparare subito, per preparare senza indugio quei provvedimenti atti a fronteggiare le gravi conseguenze che un diverso indirizzo di politica estera porterebbe. La via di mezzo, in questi casi, è proprio la peggiore; la via delle polemiche, delle recriminazioni, la via delle piccole contese che si rinnovano sempre, la via del dilettantismo irredentista, universitario o parlamentare, io credo che sia la peggiore, la più gravida di pericoli, la più funesta per il nostro paese. Il nostro paese desidera la pace o la tranquillità per potersi dedicare allo sviluppo delle sue energie economiche, e noi miriamo alla conservazione della pace come a meta suprema della nostra politica; e per questo rimaniamo fedeli alla Triplice Alleanza".

Fedeltà alla Triplice, amicizia alla Francia, all'Inghilterra e alla Russia: questa era la politica dell'on. TITTONI, il quale, trovati molto tesi i rapporti tra l'Italia e l'Austria, si diede da fare, e con successo, per migliorarli. Divennero, almeno in apparenza, tanto cordiali che, nel gennaio del 1904, l'imperatore Francesco Giuseppe propose che alla direzione della gendarmeria internazionale in Macedonia fosse posto un generale italiano, il sardo DE GIORGIS, che fu poi sostituito da ROBILANT, e il 26 marzo del 1904, in un convegno a Napoli tra GUGLIELMO II e VITTORIO EMANUELE III questi brindò al capo venerato della Casa d'Absburgo imperatore FRANCESCO GIUSEPPE.

Per rinsaldare ancora di più i rapporti fra le due nazioni alleate, il 9 aprile di quello stesso anno, l'on. TITTONI si recò ad Abbazia, dove per accordarsi sulla questione balcanica ebbe un incontro con il conte GOLUCHOWSKI, il quale restituì la visita al ministro degli Esteri italiano nell'aprile del 1905, a Venezia.

Queste manifestazioni dell'amicizia italo-gemanico-austriaca non impedirono manifestazioni, di gran lunga più significative e pompose, dell'amicizia franco-italiana. Il 14 ottobre del 1903 i Reali d'Italia si erano recati a Parigi e vi erano stati accolti con feste grandiose. A restituire la visita, il 24 aprile del 1904 (nemmeno da un mese era ripartito Guglielmo) il presidente della Repubblica Francese EMILIO LOUBET, accompagnato dal ministro DELCASSÈ, si recò a Roma, "espressione - com'ebbe a dire ENRICO PANZAECHI in un discorso - viva e degna del sentimento profondo che univa, nel sangue e nella storia, nei ricordi e nei propositi, le due grandi nazioni latine".

Le accoglienze del francese a Roma furono entusiastiche. In piazza del Quirinale una immensa folla fece al Presidente una calorosa dimostrazione; al pranzo di gala, Vittorio Emanuele, brindando all'ospite, disse:
"L'Italia e la Francia, sorte ambedue dal vecchio tronco latino, conservarono attraverso i secoli tradizioni di attività incancellabili ed oggi riaffermano la loro amicizia in questa eterna Roma, dalla quale tante ispirazioni ha tratto il genio nazionale dei due popoli". Mentre il Loubet, fra l'altro rispose: "I nostri Governi hanno compreso quanto importante è mettere d'accordo gli interessi dei due paesi con le simpatie che li portano l'uno verso l'altro. Dalla loro felice collaborazione sono derivate ultimamente la convenzione d'arbitrato e il trattato di lavoro, in cui mi piace scorgere con voi il nuovo pegno di pace politica ed un fecondo strumento di progresso sociale".

Le accoglienze calorose a LOUBET, culminarono (vi era stato un mese prima Guglielmo) e si conclusero a Napoli, con una rivista della flotta italiana e della squadra francese del Mediterraneo; ma il mancato accenno, nei brindisi, alla Germania, irritarono il Governo tedesco e l'ambasciatore a Roma conte DE MONTAS, limitò i rapporti con TITTONI a quelli puramente epistolari, e scrisse a BULOW che "bisognava astenersi dal riprendere per il momento gli antichi confidenziali rapporti con la Consulta" e gli diede il consiglio di mostrarsi freddo con il conte LANZA, ambasciatore italiano a Berlino.

"L'unico argomento da adottare -egli diceva - e con il quale si poteva ottenere qualche cosa era quello della paura e del rispetto".

Per far tornare buoni i rapporti italo-germanici GIOLITTI si recò, il 27 settembre del 1904, a Homburg da BULOW e gli fece osservare che le festose accoglienze al Loubet erano state un dovere di ospitalità. Esse poi avevano avuto il risultato di mostrare che il Governo francese non sosteneva il Papa, ma anzi, con l'amicizia verso l'Italia, faceva tramontare le speranze di molti di coloro che ancora pensavano ad una restaurazione del potere temporale della Chiesa in Italia.

Il viaggio del LOUBET a Roma e la mancata sua visita al Santo Padre contribuirono a turbare i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Infatti il segretario di Stato Cardinale MERRY DEL VAL inviò, il 28 aprile del 1904, a tutte le potenze cattoliche la seguente durissima nota di protesta:

"Il viaggio a Roma, in forma ufficiale, del signor Loubet, Presidente della Repubblica Francese, per restituire la visita a Vittorio Emanuele III, è stato un avvenimento di così eccezionale gravità, che la Santa Sede non può lasciarlo passare senza richiamare su di esso la più seria attenzione del Governo che Vostra Eccellenza rappresenta. E' appena necessario ricordare che i Capi di Stati Cattolici, legati come tali da vincoli speciali al pastore supremo della Chiesa, hanno il dovere di usare verso di lui i più grandi riguardi, comparativamente ai Sovrani di Stati non cattolici, in ciò che concerne la sua dignità, la sua indipendenza e i suoi diritti imprescrittibili. Questo dovere, riconosciuto finora ed osservato da tutti, nonostante le più gravi ragioni di politica, di alleanza e di parentela, incombeva maggiormente al primo magistrato della Repubblica francese, che, senza avere alcuna di queste ragioni speciali e, per contraccambio, a capo di una Nazione, la quale è unita dai rapporti tradizionali più stretti col Pontificato romano, gode, in virtù di un patto bilaterale con la Santa Sede, privilegi segnalati, ha una lunga rappresentanza nel Sacro Collegio dei cardinali e quindi nel governo della Chiesa universale, e possiede, per singolare favore, il protettorato degli interessi cattolici in Oriente.


"Perciò, se qualunque capo di nazione cattolica reca una grave offesa al Sommo Pontefice venendo a rendere omaggio a Roma, cioè nella stessa sede pontificia e nello stesso palazzo cattolico, a colui che, contro ogni diritto, detiene la sua sovranità civile e ne inceppa la necessaria libertà e indipendenza, questa offesa ò di gran lunga più grande da parte del signor Loubet. Se, malgrado tutto ciò, il nunzio pontificio è rimasto a Parigi, ciò è unicamente dovuto a gravissimi motivi di ordine e di natura del tutto speciali. La dichiarazione fatta dal signor Delcassè al Parlamento francese (dichiarazione secondo la quale il fatto di non fare questa visita non implicava alcuna intenzione ostile alla Santa Sede) non può cambiarne il carattere e la portata, giacché l'offesa è intrinseca all'atto, tanto più che la Santa Sede non aveva mancato di prevenire questo stesso Governo. E l'opinione pubblica, tanto in Francia quanto in Italia, non ha mancato di scorgere il carattere offensivo di questa visita, ricercata intenzionalmente dal Governo italiano, allo scopo di ottenere con ciò un indebolimento dei diritti della Santa Sede e un'offesa alla sua dignità, diritti e dignità che questa tiene per suo principale dovere di proteggere e di difendere nell'interesse stesso dei cattolici di tutto il mondo. Perché un fatto così doloroso non possa costituire un precedente qualsiasi, la Santa Sedo si è vista obbligata a fare contro di esso la protesta più formale e più esplicita ....".

Il 17 maggio, il giornale socialista "Humanité" del Jaurés pubblicò la nota papale, suscitando grande indignazione in Francia. Il Governo della Repubblica richiamò da Roma l'ambasciatore NISARD, accreditato presso il Vaticano, il DELCASSÉ rispose alla Santa Sede di avere considerato come non avvenuta la nota e il presidente del Consiglio EMILIO COMBES dichiarò che "si voleva finirla, con la pretesa, priva di valore, del potere temporale".

La visita del Loubet e la nota della Santa Sede fecero sì che nel mese di maggio del 1904 fossero presentate alla Camera parecchie interpellanze. Contro la politica estera del Governo e specialmente contro la Triplice parlò il BARZILAI. Difese la propria politica, nella seduta del 19 maggio, con un forte discorso, il ministro TITTONI, il quale affermò che lo scambio di visite dei sovrani d'Italia e di Germania, la visita del ministro italiano degli Esteri al GOLUCHOWSEKI e quella di LOUBET a Roma non erano tra loro in contrasto, ma, armonizzavano ed erano la conseguenza logica e coerente, l'attuazione del programma comunicato alla Camera nel dicembre del 1903, programma che rimaneva invariato e che non avrebbe portato, come alcuni pretendevano, l'Italia ad un pericoloso isolamento. Dichiarò inoltre che la politica estera italiana non poteva essere diversa, mirando l'Italia alla conservazione della pace, che questa politica non era di bilancia di equilibrio e di destreggiamento, non era né ambigua né piena di sottintesi, ma schietta, leale ed aperta, e quanto all'Oriente balcanico, assicurò che sarebbe stato mantenuto la "status quo". Terminò sostenendo che, nonostante i cordiali rapporti con tutte le potenze e gli scopi pacifici del Governo, era impossibile fare una politica estera qualsiasi senza un forte esercito e una forte marina e senza le frontiere debitamente munite.

Lo interpellanze intorno alla nota della Santa Sede furono presentate dagli onorevoli PILADE MAZZA e CORNELIO GUERCI, repubblicano l'uno e radicale l'altro, che le svolsero il 30 maggio. Ai due deputati rispose GIOLITTI lo stesso giorno, dichiarando:
"In quanto alla politica ecclesiastica, crediamo che non vi siano cambiamenti da fare. Noi camminiamo per la nostra via senza occuparci delle osservazioni che altri ci possano fare. Il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno in cui volesse invadere i poteri dello Stato! Libertà per tutti entro i limiti della legge: questo è il nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori la costituzione da un estremo, l'applichiamo a quelli che sono fuori dall'altra parte".

La protesta pontificia ebbe per effetto la rottura dei rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Questa denunziò il concordato e il 30 luglio richiamò da Roma l'incaricato d'affari rimasto dopo la partenza dell'ambasciatore NISARD e rimandò da Parigi il Nunzio Apostolico. Inoltre il COMBES presentò un disegno di legge di separazione della Chiesa dello Stato, disegno che fu approvato l'anno dopo, nel dicembre del 1905.

SOPRAVVENTO DEI RIVOLUZIONARI NEL PARTITO SOCIALISTA
CONFLITTI IN PUGLIA, IN SICILIA, IN SARDEGNA E IN LIGURIA

NASCITA DEL PRINCIPE EREDITARIO UMBERTO
LO SCIOPERO GENERALE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA
REVOCA TEMPORANEA DEL NON EXPEDIT
LE ELEZIONI POLITICHE -
INAUGURAZIONE DELLA XXII LEGISLATURA -


Nel partito socialista si andava facendo sempre più numerosi e audaci coloro che seguivano la tendenza rivoluzionaria, impersonata da LABRIOLA, che capitanava la schiera sindacalista, e da FERRI che guidava gli integralisti. Nel Congresso di Bologna dell'11 giugno del 1904, che aveva riaffermato l'unità del partito socialista, il sopravvento l'avevano avuto i rivoluzionari o si temeva perciò che i socialisti portassero la lotta del Parlamento nel paese e dal campo delle idee a quello della violenza; l'uso della forza.

FRA L'ALTRO, AD INNESTARSI NELLA POLEMICA E A CRITICARE I SOCIALISTI RIFORMISTI,
DA UN ANNO, DALLA SVIZZERA, GIUNGONO SINGOLARI ARTICOLI DI
UN GIOVANE 19 ENNE, BENITO MUSSOLINI.


Che questo timore non era infondato lo si constatò di lì a poco. Il 15 maggio del 1904, a Cerignola di Puglia, erano avvenuti conflitti fra truppa e contadini, dei quali tre erano rimasti uccisi e parecchi feriti. Il 2 agosto altri tumulti avvennero in provincia di Catania e il 4 settembre, a Buggerru (Iglesias), in un conflitto fra soldati e minatori scioperanti, due minatori rimasero uccisi e numerosi i feriti.

All'annunzio dei fatti di Buggerru la Camera del Lavoro di Milano indisse un comizio di protesta invitando il proletariato italiano a mettersi entro otto giorni in sciopero generale.
Quattro giorni dopo, a Castellazzo (Trapani), i carabinieri venuti alle mani con i contadini che cercavano di liberare un capo della loro lega arrestato, ne ferirono tre, di cui uno gravemente, e il 15 settembre, a Sestri Ponente un comizio di protesta per l'eccidio di Buggerru, degenerato in tumulto, costrinse la forza pubblica a fare uso delle armi.

Tutti questi fatti diedero occasione ai socialisti rivoluzionari di proclamare lo sciopero generale. Lo proclamò per prima la Camera del Lavoro di Monza, il 15 settembre, giorno in cui a Rocconigi nasceva il Principe ereditario, al quale fu dato il nome di UMBERTO e imposto il titolo di Principe di Piemonte.

Lo sciopero di Monza si estese con rapidità straordinaria in tutta l'Italia. A Firenze, a Bologna, a Roma e in altri centri durò una sola giornata, ma in altre città si prolungò per molti giorni. Così a Milano durò cinque giorni, durante i quali si sospesero i pubblici servizi e la pubblicazione dei giornali, e si commisero atti inauditi di violenza contro i lavoratori che non volevano scioperare; a Genova per due giorni gli scioperanti furono padroni della città, guastarono le linee ferroviarie e costrinsero il Governo a mandare tre navi da guerra e a dar i poteri pubblici al generale DEL MAYNO; a Napoli, dove furono mandate altre due navi da guerra e due reggimenti di cavalleria, lo sciopero ebbe la durata di quattro giorni, si diede l'assalto alle tranvie, si saccheggiarono i negozi, si tentò di erigere barricate e si ebbero conflitti con la truppa; a Torino ci furono dei morti e feriti; a Venezia gli scioperanti interruppero ogni comunicazione con le terraferma, sospesero il servizio interno delle gondole e dei vaporetti e l'illuminazione pubblica, imposero la chiusura dei negozi e delle chiese, ruppero i fili telefonici, impedirono il trasporto degli ammalati all'ospedale e per tre giorni, insomma, obbligarono la città a vivere in balia del disordine e della prepotenza; a Lugano gli anarchici strapparono lo stemma dal Consolato Italiano lo calpestarono e lo gettarono nel lago; a Verona, a Brescia, a Cremona e altrove si ebbero altre violenze.

Il 18 settembre i deputati dell'Estrema Sinistra, riuniti nella Camera del Lavoro di Milano, deliberarono di chiedere la convocazione immediata del Parlamento per imporre le dimissioni del Ministero e discutere un disegno di legge che vietasse l'intervento della forza pubblica nella lotta tra capitale e lavoro; e decisero su proposta di ARTURO LABRIOLA di continuare lo sciopero fino al 21 settembre; ma l'on. GIOLITTI seppe parare il colpo e quel giorno stesso fece emanare un regio decreto che scioglieva la Camera e convocava i comizi per il 6 e 13 novembre.

Le violenze dei socialisti durante lo sciopero preoccuparono non poco i cattolici, e il Pontefice fu pregato di revocare il Non expedit e permettere loro l'accesso alle urne. Pio X diede facoltà ai vescovi di concedere ai fedeli di partecipare alla lotta elettorale in quei collegi dove sembrava probabile la vittoria di un sovversivo e così l'intervento dei cattolici riuscì di non poco aiuto a Giolitti.

Infatti, le elezioni, segnano, come aveva previsto Giolitti, la sconfitta dell'estrema sinistra che perse 8 seggi; i socialisti (riformisti) invece aumentano i voti ma non i seggi, su tutta la penisola ottenendo 301.525 voti rispetto ai 164.946 delle elezioni di quattro anni prima. Dei "rivoluzionari" fu eletto un solo sindacalista, ENRICO DUGONI.
Buona la partecipazione per la prima volta dei cattolici, liberatisi dal "non expedit" papale in vigore fin dal 1874, due deputati cattolici entrarono a Montecitorio: il marchese CARLO OTTAVIO CORNAGGIA (del collegio di Milano) e l'avvocato AGOSTINO CAMERONI (collegio di Treviglio (Bg). La Camera nuova risultò più moderata della precedente e in gran maggioranza devota a GIOLITTI.

Il 30 novembre del 1904, VITTORIO EMANUELE III inaugurò la XXII Legislatura con un discorso, ricordando:
"Quando per la prima volta qui rivolsi la parola al Parlamento, affermai la mia salda fiducia nella libertà. L'esperienza di questi anni l'ha confermata, e mi ha persuaso che solo con la libertà si possono risolvere i grandi problemi messi ora innanzi a tutti i popoli dalle nuove aspirazioni e dai nuovi atteggiamenti delle forze sociali. Il mio governo continuerà pertanto quella politica di ampia libertà entro i limiti della legge fortemente difesa, che trovò così largo consenso nel Paese. La nuova legislatura avrà innanzi a sé come compito principale la cura assidua delle classi lavoratrici, intesa al fine di elevare progressivamente il tenore di vita e di avviare ad eque e pacifiche risoluzioni i conflitti di interesse fra capitale e lavoro con una sapiente legislazione, che alla lotta infeconda sostituisca la cooperazione di tutto le classi sociali. L'ardente contrasto fra capitale e lavoro, che ora si combatte con la sola arma dello sciopero, fonte di tanti dolori e nel quale vince solamente il più forte, potrà essere in molti casi composto con l'arbitrato, che assicuri la vittoria alla giustizia e all'equità".

Il 1° dicembre 1905, con 292 voti contro 29 dati a COSTA e 113 schede bianche, fu eletto presidente della Camera l'on. GIUSEPPE MARCORA, ex-garibaldino e uno dei capi del partito radicale. Marcora, assumendo la carica, esordì così: "Non ricorderò tanto la parte da cui vengo, quanto il posto dove sono". E sul quale, diciamo noi, l'aveva messo Giolitti.
(Ricordiamo che la nascita ufficiale del Partito Radicale era avvenuta l'anno prima al congresso del maggio 1904. Non erano mancate le divergenze, fra i fedeli alla monarchia e l'incompatibilità alla stessa con le aspirazioni democratiche del partito. A capeggiare il primo gruppo ETTORE SACCHI che uscì vincitore dal congresso, mentre a guidare il gruppo avversario GIUSEPPE MARCORA; che però Giolitti premiò, chiamandolo alla presidenza della Camera).

Giolitti non fu l'unico ad invitare i radicali. Zanardelli nel 1901 aveva già tentato chiamando due importanti esponenti radicali ad entrare nel governo, che però i due rifiutarono affermando che non avrebbero potuto appoggiare le sue proposte riguardo alle esose spese militari messe in programma.

Giolitti invece non li chiama al governo, ma offre a Marcora la presidenza della Camera, un ruolo chiave, decisivo per ogni partito che volesse avvicinarsi a un ruolo di governo. Ed infatti negli anni successivi furono diversi radicali ad entrare a far parte del governo (fra cui lo stesso Sacchi, Pantano (nel breve governo Sonnino), poi Nitti, Caldaro e altri) fino a diventare parte integrante della coalizione governativa.

Nel periodo giolittiano molti di loro smisero di essere radicali, e concessero allo statista molti anni di appoggio leale; anche perché non aveva senso stare all'opposizione con un Giolitti che non minacciava né le istituzioni parlamentari, né le libertà civili, né il progresso industriale, anzi era un promotore di una legislazione sociale. E lo stesso Re non era un reazionario.
I radicali - la cui base elettorale si trovava tra gli impiegati statali, negli insegnanti e in quella classe intellettuale che apparteneva alla struttura dello Stato ne godeva i benefici e volevano accrescerli- continuarono ad essere dei massoni e anticlericali. Il loro partito era delle "Libertà politiche e del socialismo economico"; alcuni gruppi (come quelli vicino a De Marco) criticavano il governo per i troppi benefici che dava alle corporazioni, di essere imperturbabili verso i sindacati, ed erano scettici sul "collettivismo" sociale; ma la maggior parte appoggiò la politica giolittiana.

NUOVE VIOLENZE ANTITALIANE A INNSBRUCK
INTERPELLANZE PARLAMENTARI

L'indomani delle elezioni presidenziali, l'on. TITTONI rispose alle interrogazioni degli onorevoli BARZILAI e BRUNIALTI sui fatti di Innsbruck, dove, un mese prima, inaugurandosi la facoltà giuridica italiana, gli Italiani erano stati insultati, aggrediti ed arrestati. Il ministro degli Esteri deplorò i fatti, ma, disse che
"gli eccessi di una folla eccitata non possono affievolire i legami che uniscono la scienza e la civiltà tedesca alla scienza e alla civiltà italiana, né possono influire sulle relazioni fra l'Italia e l'impero Austro-ungarico che hanno profonde radici nella tutela di grandi interessi, nel raggiungimento di alti fini, nei fermi e leali propositi dei due Governi".
Probabilmente non gli avevano raccontato nulla di ciò che era avvenuto in Italia dalla restaurazione fino alla fine degli anni Sessanta dell'800.

L'on. BRUNIALTI invece inviò un saluto "a tutti coloro sui quali i tedeschi hanno sfogata la loro vile rabbia, Vada da quest'Aula il saluto ai professori della facoltà italiana, ai quali mando a dire che vi potranno distruggere le cattedre, ma non menomare la fede; a CESARE BATTISTI malamente ferito mentre esercitava quella missione di giornalista che dovrebbe esse sacra anche per i barbari, al pari della Croce Rossa; agli studenti combattenti con il diritto attinto dalla costituzione imperiale per poter compiere i loro studi nel sereno ambiente dove il veneto leone ancora ricorda alle genti che giustizia è fondamento dei regni, perché essi sappiano, che dovunque sono nel mondo italiani che lavorano o studiano, che combattono o soffrono per la civiltà nostra, lì è anche la vigile, unanime, augurale coscienza del Parlamento italiano".

L'on. BARZILAI si compiacque che la "Camera nuova, uscita dai recenti comizi, prima di affacciarsi al lavoro legislativo avesse sentito .... il bisogno quasi di lavarsi l'anima da tutte le impurità della lotta, rivolgendo, nell'oscurità presente, il pensiero a quella terra italiana, dove pareva si fosse indugiata tutta la poesia italiana, tutto il sentimento di dovere e lo spirito di sacrificio".

Al Senato, nelle sedute del 5, del 6 e del 7 dicembre, fu discussa e aspramente criticata la politica interna del Governo. Fra gli altri, attaccarono vivacemente Giolitti i senatori PELLOUX e GUARNIERI. Il primo accusò il Governo di "avere spinto le classi proletarie, senza freno e senza ritegno, agli scioperi ingiustificati, alle organizzazioni settarie, alla lotta e infine all'odio di classe" e, dopo avere accennato allo spirito di ribellione che si era infiltrato nei dipendenti di quasi tutte le amministrazioni statali e avere ricordato i disordini, i tumulti, le scene selvagge dello sciopero, concluse:

"Mai, dalla sua formazione ad oggi, il Regno d'Italia ebbe ad attraversare momenti così difficili e così tristi. Che cosa farà il Ministero per riparare? Non è il tempo di tergiversare sulle frasi elastiche; non bastano più i luoghi comuni così usati ed abusati di dire che non si vuole né reazione né rivoluzione; qualche cosa bisogna volere! e bisogna dirlo chiaramente, e non con frasi ambigue e contorte. Sino a pochi anni addietro due metodi di Governo erano di fronte: quello del prevenire e quello del reprimere. Il Ministero attuale ne ha trovato un terzo: né reprimere, né prevenire".
Indubbiamente Pelloux, ex generale, ex presidente del Consiglio, rimpiangeva e aveva nostalgia degli sbrigativi cannoni del suo collega Bava Beccaris. Non avvertendo che il 1905, già non era più il 1898.

Il secondo, GUARNIERI, accusò il presidente del Consiglio di "demolire lo Stato e di preparare la fine della monarchia e dell'unità italiana".
Anche lui indubbiamente non conosceva gli ottimi rapporti che c'erano fra Giolitti e il Re (che alcuni storici ritengono che fu proprio il Sabaudo l'ispiratore di tutta la politica di Giolitti, pur stando in disparte). Liberali ambedue, sì, ma non in senso dottrinario. Il re era un uomo di profonde letture; il suo ministro no. Il primo aveva conquistato il senso del liberalismo, ripiegandosi su se stesso, sviluppando la sua vita interiore; il secondo lo aveva espresso dalle sue tradizioni familiari.
Il loro atteggiamento spirituale era molto complesso, diverso nell'origine, ma molto simile gli effetti nel modo di essere; ed entrambi non dimenticavano mai le debolezze che esistono nella personalità di ogni grande uomo; ma non dimenticavano nemmeno le risorse della più umile natura umana.

I tempi favorirono questi due geni della moderazione. Le prime lotte sociali avevano sconvolto dalle fondamenta la vita del Paese. Giolitti e il re furono d'accordo nell'accettare la dura realtà della lotta tra capitale e lavoro e tutti i rischi che implicava, tanto per l'istituto monarchico che per il regime parlamentare. Scioperassereo pure i lavoratori. Poiché le loro condizioni erano veramente intollerabili e i profitti del capitale consentivano larghissimi miglioramenti, l'intervento dello Stato si limitò unicamente al consiglio, che veniva dato continuamente ai datori di lavoro, di andare incontro alle rivendicazioni delle masse. Liberi i lavoratori di associarsi per la tutela dei loro diritti, erano, però, tenuti a rispettare la libertà altrui.
Giolitti e il re non si commossero eccessivamente nemmeno al primo sciopero generale. Aspettarono di vedere nei fatti se era proprio un pericolo per le istituzioni. E avevano ragione. Lo scioperò sfumò, e la conseguenza fu che i datori di loavoro si tranquillizzarono e le masse lavoratrici si calmarono. In dodici anni, la medi dei salari aumentò del cento per cento.
Tutta l'arte di governo di Giolitti e del Re si riduceva nel moderare gli entusiasmi e nel sollevare gli avviliti.

L'on. GIOLITTI all'attacco di GUARNIERI, si difese affermando di voler governare per la libertà e con la libertà, diminuendo la gravità dei fatti e dichiarando che, non lo si poteva rimproverare di avere autorizzato tante associazioni, costituitesi di pieno diritto e non a scopo delittuoso.

"Noi - aggiunse - siamo in un periodo di trasformazione sociale, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo. In tutto il mondo le ultime classi sociali vogliono prendere il loro posto al sole, vogliono vivere meglio, vogliono migliorare le loro condizioni economiche, ed è questo il grande problema. Come il terzo stato è venuto su a prendere il suo posto, così anche il quarto stato vuol fare altrettanto, e nessuna legge che vieti le associazioni o ne regoli gli statuti potrà impedire questo moto mondiale.
Ciò che si può fare è di regolare e disciplinare questo movimento, non con la violenza, ma con leggi che tutelino gli interessi di tutte le classi sociali, affinché tutte si affezionino alle istituzioni .... Bisogna render forte la Monarchia non fucilando le masse popolari, ma affezionandole profondamente alle istituzioni, promovendo noi il progresso, senza aspettare che lo promuovano i socialisti, facendo noi tutto ciò che è possibile a loro favore, e non imponendo loro di associarsi per migliorare le loro condizioni. E quando io vedo che ci sono stati dei proprietari che combattevano le leghe e ne domandavano la soppressione, perché queste chiedevano qualche centesimo al giorno di più per i contadini, dico che quei proprietari sono i veri nemici della Monarchia italiana".

Anche alla Camera, alcuni giorni dopo fu criticata la politica di Giovanni Giolitti. Fu l'on. SONNINO ad attaccarlo. Gli chiese "cosa intendesse fare per evitare la rovina della nazione", e, fra l'altro, lo accusò di non aver nulla previsto, di "aver continuato per anni a svolgere una politica che non poteva tra i suoi effetti non avere anche quello di aprire l'adito a nuovi pericoli di tal fatta, senza nulla provvedere nello stesso tempo per anticiparne le conseguenze o per contenerne gli eccessi".

LA QUESTIONE FERROVIARIA - DIMISSIONI DI GIOLITTI

Urgeva intanto risolvere la questione dei ferrovieri, dato che il 30 giugno del 1905 scadevano le convenzioni ferroviarie con le Società che il Governo non voleva rinnovare. Circa cinquantamila ferrovieri si erano organizzati nelle file della Federazione e della associazione chiamata "Il Riscatto", le quali organizzazioni erano dirette da una giunta detta Costituente con sede in Milano e da un comitato di agitazione, detto degli Otto.

Il 2 dicembre del 1904 gli Otto avevano presentato all'on. Giolitti un memoriale contenente i "desiderata" dei ferrovieri; il 14 gennaio del 1905 sollecitarono il presidente del Consiglio telegraficamente a rispondere e, trasferitasi a Roma, il 27 di quel mese la Costituente dichiarò che avrebbe aspettato fino al 15 di febbraio.

Di fronte all'atteggiamento dei ferrovieri il Consiglio dei Ministri stabilì l'esercizio di Stato e il 21 febbraio il ministro dei Lavori Pubblici TEDESCO presentò alla Camera il relativo disegno, nel quale si miglioravano le condizioni del personale, ma si stabiliva l'arbitrato obbligatorio e si comminavano pene per gli organizzatori e gli esecutori degli scioperi.
Alla presentazione di tale disegno i ferrovieri risposero proclamando l'ostruzionismo, che su tutte le linee d'Italia cominciò il 26 febbraio. I ritardi enormi dei treni, le lunghissime soste nelle stazioni, la lentezza straordinaria di tutti i servizi indignarono immensamente l'opinione pubblica.

Di tale indignazione si resero interpreti alla Camera gli onorevoli CAPECE-MINUTOLO di Bugnano, ROSADI, CAVAGNARI e PRINETTI, ai quali il ministro Tedesco rispose, il 27 febbraio, che il Governo altro non poteva fare che invitare le Società a punire gli ostruzionisti ! Ma al Senato il ministro TITTONI, parlando in nome di Giolitti ammalato, disse che un Governo liberale deve non solo rispettare la libertà, ma esigerne il rispetto.
Il Senato votò una mozione con cui si invitava il Governo ad intervenire per far cessare lo sconcio e a studiare il modo d'impedire che l'ostruzionismo paralizzasse i pubblici servizi e il Paese.

L'on. Giolitti o perché temeva, dopo l'ostruzionismo, uno sciopero ferroviario, e che essendo ammalato non avrebbe saputo fronteggiare, o perché vedeva nella mozione del Senato una condanna alla sua politica, il 4 si dimise con una lettera al re in cui diceva che aveva bisogno di un lungo riposo per rimettersi in salute. I suoi colleghi, non avvertiti, si dimisero anch'essi.
Ma forse questa scelta fu dettata dal voler lasciare ad un ministero da lui influenzato, ma non personalmente diretto, la gestione della difficile vertenza per la statalizzazione delle ferrovie.
Il re dovette affidare l'incarico ad un nuovo deputato, ma lo scelse su indicazione di Giolitti: ALESSANDRO FORTIS, che fu subito contrastato e rinunciò all'incarico; ma dopo un dibattito alla Camera, Fortis fu nuovamente designato a formare un governo.

 

La formazione e l'arco di tempo in cui rimase in vita questo "ministero ombra", e furono molti a considerarlo tale, ritenendo le dimissioni di Giolitti una temporanea fuga, pur rimanendo lui il "regista"

i fatti li narriamo nelle prossime pagine…

 

… periodo dal 1905 al 1906

 

FORTIS E SONNINO - TENSIONI AUSTRIA - MOTI NEL SUD

TITTONI PRESIDENTE INTERINALE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, SUE DIMISSIONI - IL PRIMO MINISTERO FORTIS; IL PROGRAMMA - IL DISEGNO DI LEGGE PER L'ESERCIZIO DI STATO DELLE FERROVIE - SCIOPERO FERROVIARIO - DISEGNO DI LEGGE SULLE LIQUIDAZIONI FERROVIARIE - LA POLITICA ESTERA - LA QUESTIONE MAROCCHINA - TENSIONE DEI RAPPORTI ITALO-AUSTRIACI - STIPULAZIONE DEL "MODUS VIVENDI " CON IL GOVERNO SPAGNOLO - SANGUINOSI CONFLITTI IN PUGLIA E IN SICILIA - LA CALABRIA FUNESTATA DAL TERREMOTO - DIMISSIONI DEL GABINETTO - SECONDO MINISTERO FORTIS - ATTACCHI AL NUOVO GABINETTO - DIMISSIONI DI FORTIS - I NOVANTOTTO GIORNI DEL MINISTERO SONNINO - LE DIMISSIONI COLLETTIVE DEL GRUPPO PARLAMENTARE SOCIALISTA - CADUTA MINISTERO SONNINO
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IL PRIMO MINISTERO FORTIS - SUO PROGRAMMA

Come abbiamo visto nelle precedenti pagine, dopo le inconsuete "dimissioni" di GIOLITTI, nel marzo del 1905, che però furono considerate come "una fuga", l'incarico di costituire il nuovo Ministero, fu dal Re affidato all'on. ALESSANDRO FORTIS (su designazione di Giolitti), ma questi (che godeva di forti legami negli ambienti industriali e della finanza), dopo alcuni giorni di consultazioni, per le pretese dei giolittiani puri, i quali volevano che lui dichiarasse di essere delegato dell'ex presidente del Consiglio, rinunciò al mandato. Allora (il 16 marzo) il sovrano, accettò -questa volta- le formali dimissioni di Giolitti, ma riconfermò in carica i suoi ministri ed affidò all'on. TOMMASO TITTONI l'interim della presidenza del Consiglio e dell'Interno.

Riconvocata la Camera il 22 marzo, l'on. TITTONI fece le dichiarazioni seguenti:
"La presente crisi ha origine da un fatto estraneo al Parlamento, dalla malattia dell'on. Giolitti, che tolse al Governo il suo capo. Autorevoli designazioni indicarono alla Corona l'on. Fortis come interprete del programma e continuatore dell'on. Giolitti. Ma varie circostanze lo persuasero a declinare il mandato. Queste circostanze fecero dubitare se ancora si mantenesse compatta la maggioranza, che nelle elezioni dello scorso novembre, si era affermata intorno al programma del Ministero. E perciò per invito della Corona il Ministero dimissionario, costituzionalmente responsabile dell'atto che compie, si presenta al Parlamento per chiedere un voto non sugli uomini, ma sulle cose. Se, come noi crediamo e desideriamo, questa maggioranza, che univa diverse parti della Camera in un intento comune, sussiste sempre ed è sempre fedele al suo programma, essa si riaffermerà nelle suo forze più vive e più varie che si riassumevano nello strenuo duce, al quale, sapendo di esprimere l'animo degli amici e degli avversari, mando l'augurio di una rapida guarigione. Ma se la discussione o il voto del Parlamento additassero una maggioranza con un nuovo programma, anche in questo caso la nostra presenza su questo banco, che consideriamo come l'adempimento di un alto dovere politico, avrà contribuito ad un'opera di sincerità costituzionale".

Contro queste dichiarazioni parlarono diversi deputati, fra i quali SALANDRA che affermò che "la fuga del Governo innanzi al pericolo apparve l'estremo abbassamento dell'autorità dello Stato già parecchie volte compromessa", e BARZILAI che pronunciò un discorso pieno d'arguzia.

TITTONI prese nuovamente la parola per difendersi dalle critiche mossegli, concludendo con l'affermare che, anche senza l'onorevole Giolitti, sussisteva ancora un programma intorno cui si era raccolta la maggioranza.
Anche l'on. FORTIS parlò dichiarando che quella che si voleva considerare maggioranza personale dell'on. Giolitti si era raccolta intorno al programma tracciato nella relazione al re per lo scioglimento della Camera.

L'opposizione di Destra propose l'ordine del giorno puro e semplice, ma la Camera, lo respinse, e con 273 voti contro 88 approvò il seguente dell'on. MARSENGO BASTIA:
"La Camera, affermando che si deve continuare l'indirizzo di politica liberale, che costituì il programma delle ultime elezioni generali ed ebbe anche sanzione dalla maggioranza di quest'assemblea, passa all'ordine del giorno".
Dopo questo voto Tittoni si dimise e il Re riaffidò di nuovo l'incarico di comporre il Ministero ad ALESSANDRO FORTIS, che lo costituì il 28 marzo, assumendo la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'interno, lasciando TITTONI agli Esteri, il generale ETTORE PEDOTTI alla Guerra, il contrammiraglio CARLO MIRABELLO alla Marina, LUIGI RAVA all'Agricoltura, ANGELO MAJORANA alle Finanze, il Tesoro all'on. PAOLO CARSANO, i Lavori Pubblici all'on. CARLO FERRARIS, la Pubblica Istruzione all'on. LEONARDO BIANCHI, le Poste e i Telegrafi all'on. GISMONDO MORELLI-GUALTIEROTTI e la Grazia e Giustizia all'on. CAMILLO FINOCCHIARO-APRILE.

IL DISEGNO DI LEGGE PER L'ESERCIZIO DI STATO DELLE FERROVIE -
SCIOPERO FERROVIARIO - DISEGNO DI LEGGE SULLE LIQUIDAZIONI FERROVIARIE

Il 4 aprile del 1905, FORTIS esponendo al Parlamento il suo programma, affermò che urgeva risolvere il problema ferroviario e prendere tutti i provvedimenti per assicurare, il l° luglio, il passaggio dell'esercizio delle ferrovie allo Stato; che doveva essere mantenuto il regime di libertà, che "in tutte le questioni, scaturite legittimamente dal nuovo movimento sociale dipendente dall'organizzazione non contrastata dei lavoratori, si sarebbero portati criteri d'equità e di confidenza, quali si convenivano verso nuove Energie" che potevano "armonizzare con le altre già costituite ed operanti nella vita sociale moderna", ma non si sarebbe mai consentito che l'autorità dello Stato fosse diminuita o disconosciuta, né che fossero minacciate "quelle ragioni d'ordine pubblico, le quali sono patrimonio comune e condizione essenziale del vivere libero e civile"; disse ancora che la politica estera, "chiaramente additata da ripetuti voti del Parlamento e dalla manifesta volontà del paese, fondata su salde alleanze ed amicizie" non poteva né doveva subire alcuna deviazione; che questa politica aveva scopi pacifici, ma il fermo proposito di assicurare al paese i benefici della pace non poteva far dimenticare le necessità di apprestare i mezzi di difesa e che perciò bisognava provvedere al miglioramento degli ordini militari e rivolgere speciali cure alla Marina.

"Che se per corrispondere a codesti supremi doveri e interessi nazionali, occorreranno più larghi mezzi, non certo il Parlamento italiano vorrà negarli. Dobbiamo e vogliamo però assicurarvi che non perderemo mai di vista i limiti imposti dalle nostre condizioni finanziarie e che procureremo tutte le possibili economie".

Il giorno 7-8 aprile, il ministro FERRARIS presentò il disegno di legge per l'esercizio di Stato delle ferrovie non concesse ad imprese private, nel quale, fra l'altro, si affermava che tutti gli addetti alle ferrovie esercitate dallo Stato, qualunque fosse il loro grado ed ufficio, erano considerati pubblici ufficiali e che coloro i quali abbandonavano o non assumevano l'ufficio o prestavano l'opera propria in modo da interrompere o perturbare la continuità e regolarità del servizio erano considerati dimissionari e quindi surrogati.

Per protestare contro questo disegno di legge, i ferrovieri, dietro disposizioni del Comitato degli Otto (sindacalisti rivoluzionari) proclamarono il 17 aprile uno sciopero generale dei ferrovieri, esteso per solidarietà agli altri lavoratori; ma l'ordine non fu eseguito che da metà del personale ferroviario e l'appoggio degli altri lavoratori fu molto scarso, un fallimento. Inoltre lo sciopero si svolse senza gravi incidenti, se si eccettuino quelli di Foggia, dove la truppa sparò sui ferrovieri uccidendone quattro e ferendone una dozzina.
Fallimento perché il Segretariato della resistenza si era rifiutato di collaborare con i "rivoluzionari" che avevano indetto lo sciopero, e quest'atteggiamento fece riemergere i forti contrasti all'interno dello stesso Segretariato, con le dimissioni di alcuni dirigenti riformisti, accusati dall'ala rivoluzionaria di aver abbandonato a se stessi i lavoratori.

Nonostante lo sciopero la Camera discusse in due giorni il disegno ferroviario cominciando il 17 e, nella seconda tornata del 19, lo approvò con 289 voti conto 45. Il Comitato degli Otto, vedendo fallito lo sciopero generale, il 20 ordinò di riprendere il lavoro. Anche il Senato, il 21 aprile, con 108 voti contro 9 approvò il disegno, che, il giorno dopo, divenne legge.
Sotto la responsabilità del ministro dei Lavori Pubblici, ma autonoma, fu istituita l'Aministrazione delle Strade Ferrate, con un direttore generale e un comitato amministrativo, e più tardi fu aggiunta una Commissione parlamentare permanente di sorveglianza. La direzione e il comitato ebbero sede a Roma insieme ad un Ispettorato centrale e a dodici servizi centrali. Furono stabilite direzioni compartimentali a Torino, Genova Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Palermo e una direzione speciale a Messina.

La rete statale, nel continente e nella Sicilia comprendeva 10.557 chilometri. Rimaneva la Società Italiana per le Ferrovie meridionali, che esercitava 2046 chilometri e la Società Veneta che esercitava le proprie linee ed alcune dello Stato. Più tardi, riscattata la rete mediterranea e sottratte alla Veneta le linee statali, la rete raggiunse con le nuove costruzioni 13.023 chilometri (10 luglio 1907).
Votati i nuovi crediti per la Marina e gli aumenti al bilancio della Guerra (giugno 1905) la Camera si prorogò, ma il 28 luglio fu convocata straordinariamente per discutere il disegno delle liquidazioni ferroviarie, però, essendovi contestazione su ingenti somme, non pochi deputati si dichiararono contrari ad approvare il disegno e i socialisti minacciarono l'ostruzionismo.

Nella seduta del 30 luglio, l'on. EMANUELE GIANTURCO svolse il seguente ordine del giorno: "La Camera, confermando la sua fiducia nel Ministero, lo invita a riprendere in considerazione la materia delle liquidazioni con le Società ferroviarie Mediterranea, Adriatica e Sicula, tenendo conto della discussione seguita e provvedendo intanto al soddisfacimento delle somme non soggette a contestazione". Nella stessa seduta la Camera approvò con 261 voti contro 112 la prima parte dell'ordine del giorno relativo alla fiducia; la seconda parte fu approvata per alzata e seduta.

LA POLITICA ESTERA - LA QUESTIONE MAROCCHINA
TENSIONE DEI RAPPORTI ITALO-AUSTRIACI
IL "MODUS VIVENDI" CON LA SPAGNA - SANGUINOSI CONFLITTI IN PUGLIA E IN SICILIA

Durante il ministero Fortis, la politica estera, affidata a TITTONI, ebbe come base l'alleanza con gli imperi centrali e l'amicizia con la Francia, con l'Inghilterra e la Russia, ma sia verso le potenze alleate sia verso le potenze amiche, l'Italia teneva un contegno remissivo, quasi di nazione che, avendo bisogno di essere in buoni rapporti con le altre, faceva di tutto per non inimicarsele.
Amici della Francia ed alleati della Germania, l'Italia si trovò nel 1905 in una situazione molto difficile in seguito all'accordo anglo-francese per il Marocco, nel quale l'Inghilterra aveva accordato mano libera alla Francia. Irritato da quest'accordo, GUGLIELMO II, inscenando una protesta teatrale, sbarcò il 31 marzo a Tangeri, poi partì alla volta dell'Italia e, giunto il 5 aprile a Napoli, s'incontrò il giorno dopo con Vittorio Emaneule III, con il quale ebbe colloqui intorno alla questione marocchina.

La Germania voleva che, per risolvere tale questione, si convocasse una conferenza europea e affidava l'incarico all'Italia di notificare alla Francia questa sua esigenza. L'on. TITTONI non seppe far di meglio che consigliare amichevolmente alla Francia di venire ad un accordo con la Germania per la conferenza; e la Francia, accogliendo il consiglio, firmò a Parigi l'accordo il 29 settembre 1905.

"La Francia parve grata all'Italia dell'animo benevolo, onde si era "intromessa nell'ardua questione"; il 25 ottobre la squadra francese onorava il re d'Italia a Genova dove si era recato ad inaugurare i grandiosi lavori portuali.
Nonostante questo buon risultato come mediatrice, la Germania accusò l'Italia "di aver agito più da amica della Francia e dell'Inghilterra, che da alleata dell'Impero tedesco". E il cancelliere BULOW, prima e dopo il colloquio che ebbe con TITTONI a Baden-Baden il 28 settembre per intendersi sulla conferenza marocchina, "espresse duri giudizi affermando che era l'Italia ad aver bisogno degli imperi centrali, e non questi dell'Italia".
La concordata conferenza marocchina non calmava gli sdegnati europei, rinfocolati da rivelazioni giornalistiche e da interviste ministeriali. Il 26 ottobre GUGLIELMO, in uno di quei suoi impulsivi discorsi, ammoniva i Berlinesi esser tempo di tenere asciutte le polveri e affilare le spade (Gori)".

Con l'Austria l'idillio era stato di breve durata. Ora, non solo si maltrattavano gli Italiani dell'impero e si aizzavano contro di loro gli slavi, ma si strillava a Vienna appena in Italia si faceva allusione ai fratelli irredenti. Inoltre si criticava la condotta della gendarmeria italiana in Macedonia, si facevano le grandi manovre nel Trentino, rivolte a respingere un'ipotetica invasione italiana, e si giungeva a chiedere conto al governo italiano dell'espressione "Trentino nostro" usata dall'on. MARCORA, presidente della Camera, nel commemorare, il 26 luglio, Socci.

L'8 novembre 1905, il Governo italiano stipulò con il Governo Spagnolo un modus vivendi col quale, per agevolare l'esportazione della seta, della canapa e del marmo, riduceva il dazio, sui vini spagnoli da 20 a 12 lire l'ettolitro. Dieci giorni dopo fu con regio decreto reso esecutivo l'accordo.

La notizia del "modus vivendi" determinò il ribasso del prezzo dei vini nazionali e, per conseguenza, diede l'avvio ad una grave agitazione fra i produttori vinicoli del Piemonte e del Meridione. A Bari, il 25 novembre, ci fu un grande comizio di protesta, altri comizi avvennero, in seguito, nelle altre città delle Puglie e a Taurisano (Lecce) dove i dimostranti in un conflitto con la forza pubblica causarono un morto e numerosi feriti.
Un altro conflitto più grave era avvenuto il 16 agosto a Grammichele, in provincia di Catania, dove i contadini infuriati avevano assalito il Municipio e il circolo dei galantuomini e si erano avuti quattordici morti e circa cento feriti. Per questi conflitti protestò vivamente l'11 dicembre TURATI alla Camera, addossandone la colpa al Governo; ma l'on. FORTIS ritorse l'accusa sui socialisti, la cui propaganda produceva effetti funesti sulle masse ignoranti.

"Voi credete - disse - che, quando dite alle masse che bisogna seguire il metodo della lotta di classe, le masse possano accogliere il vostro principio, e poi svolgerlo ed applicarlo scientificamente. Le masse intendono diversamente e la lotta di classe si traduce in odio feroce, implacabile; le masse intendono che quest'odio si debba tradurre a sua volta in altrettante opere di ribellione, di massacro, di vendetta".

IL TERREMOTO IN CALABRIA

Maggior numero di vittime aveva fatto un paio di mesi prima il terremoto. La notte dal 7 all'8 settembre 1905, e poi nei giorni 8 e 9, violentissime scosse, precedute ed accompagnate da intensa attività del Vesuvio e dello Stromboli, avevano devastato parecchie zone della Calabria, radendo al suolo interi paesi e causando la morte di migliaia di persone. Il re era accorso sui luoghi del disastro, il Governo aveva prontamente soccorso le popolazioni colpite e notevoli aiuti erano giunti da ogni parte d'Italia, dalle terre irredente e dai paesi stranieri. Più tardi, nella prima metà del novembre, Fortis aveva voluto visitare la Calabria per portare a quelle popolazioni il suo personale conforto, rendersi conto dei loro bisogni, studiare un piano di provvedimenti speciali.

DIMISSIONI DEL GABINETTO - SECONDO MINISTERO FORTIS
ATTACCHI AL NUOVO GABINETTO - DIMISSIONI DI FORTIS

Il 13 dicembre fu iniziato alla Camera il dibattito sul disegno di legge per la convalidazione del decreto riguardante il modus vivendi con la Spagna, dibattito che durò fino al 16 e al quale presero parte numerosi oratori quasi tutti contrari al trattato. L'onorevole GORIO presentò il seguente ordine del giorno: "La Camera, confermando la propria fiducia nella politica del Governo, passa alla discussione dell'articolo".


Il 17 dicembre la Camera, per evitare una crisi, approvò con 253 voti contro 190 la prima parte dell'ordine del giorno, ma respinse la seconda con 293 voti contro 145. E il giorno dopo, il ministero si dimetteva.

Il sovrano affidò l'incarico di comporre il nuovo Gabinetto allo stesso FORTIS, che tenne la presidenza del Consiglio e l'Interno, lasciò l'on. CARCANO al Tesoro, l'on. FINOCCHIARO-APRILE alla Grazia e Giustizia e l'onorevole MIRABELLO alla Marina e affidò gli Esteri all'on. DI SAN GIULIANO, le Finanze al senatore PIETRO VACCHELLI, i Lavori Pubblici all'on. FRANCESCO TEDESCO, le Poste e Telegrafi all'on. IGNAZIO MARSENGO BASTIA, la Guerra al generale LUIGI MAINONI D'INTIGNANO, la Pubblica Istruzione all'on. ENRICO DE MARINIS, e l'Agricoltura all'on. NERIO MALVEZZI dei MEDICI.
Riapertosi il Parlamento, il 30 gennaio del 1906 il nuovo Ministero Fortis si presentò alla Camera. Il presidente del Consiglio ripeté su per giù le stesse cose che aveva detto il 4 aprile e aggiunse che le liquidazioni finali con le Società ferroviarie sarebbero state presto sottoposte all'approvazione del Parlamento insieme con la convenzione per il riscatto della rete mediterranea e che avrebbe sollevato dalle tristi condizioni in cui versavano la Calabria e la Sicilia con leggi speciali.
Le dichiarazioni del Fortis furono frequentemente interrotte da rumori, risa e commenti, quindi cominciò la discussione, sulla quale quasi tutti gli oratori criticarono aspramente la soluzione della crisi e la costituzione del nuovo Gabinetto, che il TURATI chiamò "l'abito variopinto d'Arlecchino, portato con la prosopopea di chi crede di vestire l'abito di gala".

L'on. SONNINO pronunciò un discorso demolitore:

"Come volete che il paese prenda sul serio le promesse di un Gabinetto come questo, composto di personalità professanti fin qui principi discordi, stretto intorno ad un programma nebuloso perché sconfinato, sotto la guida di chi ha dimostrato per ben due volte nello spazio di cinque mesi, che, alla prova del fuoco, è disposto a transigere su molte, su troppe cose, pur di non mettere a cimento la propria vita ministeriale ? Il paese si fa ogni giorno più scettico intorno alla sincerità degli istituti parlamentari che lo reggono .... Mancanza di sincerità vi fu nell'accettazione del rinvio delle liquidazioni ferroviarie, mentre non s'intendeva intavolare nuove trattative; mancanza di sincerità vi fu nella doppia posizione del voto di fiducia in occasione del modus vivendi; mancanza di sincerità vi è nella stessa composizione del Ministero, che rappresenta non un fascio di consensi per una comune azione, ma una riunione di dispareri, cioè un nuovo elemento di contraddizione e di fiacchezza nella condotta della cosa pubblica .... Le necessità vere dell'ora reclamano un Governo che non sustanzi le ragioni della sua vita in un equilibrismo sterile né in artificiose antitesi; che dia sicuro affidamento di voler tradurre in atto, puntandovi sopra magari la vita, un programma positivo di riforme, ed insieme di severa correttezza nei metodi di lotta politica ed elettorale, che tenda insomma con ogni sforzo al risanamento di questa nostra grama vita parlamentare, elevando il dibattito politico e più spirabili aere e togliendoci da questo triste ambiente di bizantina agitazione nel vuoto".

Cercò GIOLITTI, nella tornata del l° febbraio 1906, di salvare il Ministero, ma quel giorno stesso la Camera respingeva con 221 voti contro 188 un ordine del giorno di fiducia presentato dall'on. LAMBERTI e il Fortis fu costretto a presentare le dimissioni del suo ministero.

I NOVANTOTTO GIORNI DEL MINISTERO SONNINO

L'incarico di formare il nuovo ministero questa volta lo ebbe SONNINO (il "demolitore" di Fortis), che lo costituì l'8 febbraio 1906 prendendo per sé la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno, e chiamando agli Esteri l'on. FRANCESCO GUICCIARDINI, alle Finanze l'on. ANTONIO SALANDRA, al Tesoro l'on. LUIGI LUZZATTI, , alla Guerra il generale CARLO MIRABELLO, alla Pubblica Istruzione l'on. PAOLO BOSELLI, ai Lavori Pubblici l'on. PIETRO CARMINE, alle Poste e ai Telegrafi l'on. ALFREDO BACCELLI, all'Agricoltura l'on. EDOARDO PANTANO e alla Grazia e Giustizia l'on. ETTORE SACCHI.

Un governo composto in prevalenza da uomini appartenenti alla destra e al centro; tuttavia ha l'appoggio dei socialisti; gli ultimi due ministri citati sopra sono radicali, e segna un mutamento di posizione del partito che fio a ora aveva sempre rifiutato la partecipazione a un qualsiasi governo.

L'8 marzo del 1906, presentatosi al Parlamento, SONNINO espose il suo programma, affermando che era necessario provvedere alle ferrovie e, in primo luogo, al riscatto delle meridionali, risolvere nella sua totalità la questione del Mezzogiorno, riconosciuta come il problema fondamentale della vita della Nazione, provvedere alla colonizzazione interna e alle assicurazioni operaie, abolire il sequestro preventivo dei giornali, limitare al potere esecutivo la facoltà di sciogliere i Consigli comunali e provinciali e, in politica estera, rimaner fedeli alla Triplice e mantener salda l'amicizia con la Francia e con l'Inghilterra.

La Camera dei Deputati, essendosi dimesso MARCORA, gli sostituiva nell'ufficio di presidente, con buona votazione, BIANCHERI. Il 15, nella nomina degli Uffici, i candidati ministeriali rimanevano soccombenti per opera dell'Estrema Destra e di alcuni dello stesso gruppo sonniniano, irritati perché erano stati inclusi nel Gabinetto il SACCHI radicale e il PANTANO repubblicano.
Sosteneva il Ministero il Gruppo parlamentare socialista, che il 10 marzo, in una riunione, aveva votato il seguente ordine del giorno: "Il gruppo socialista, ritenuto che il proletariato non può avere fiducia politica in nessun governo della borghesia, considerando che nel caso presente non sarebbe utile alla classe lavoratrice il provocare il ritorno ad un governo sedicente liberale, ma protettore degli affaristi ed alleato dei clericali, delibera di dare voto favorevole per mettere il nuovo Ministero alla prova dei fatti, deciso sin da ora ad ogni combattiva opposizione quando l'azione del Governo si mostri contraria alle libertà popolari o inerte per la realizzazione delle riforme presentate".

Nonostante fosse respinta la proposta di TURATI di mettere un controllo all'impiego dei fondi segreti (6 aprile) e la direzione del Partito Socialista e il Segretariato di resistenza sconfessassero, richiamandosi al voto del Congresso di Bologna del 1904 proclamante l'incompatibilità della lotta di classe con l'appoggio a un governo borghese, il gruppo parlamentare socialista, questo, ricambiato ad usura di favori personali, sostenne il Ministero Sonnino per circa due mesi, durante i quali si verificò una tremenda eruzione del Vesuvio e la propaganda antimilitarista iniziava a prendere proporzioni allarmanti.

 

LE DIMISSIONI COLLETTIVE DEL GRUPPO PARLAMENTARE SOCIALISTA

Ma nel maggio del 1906 anche l'appoggio del gruppo socialista venne a mancare a Sonnino, in seguito ad un conflitto sanguinoso, avvenuto a Torino tra operai e forza pubblica, che provocò lo sciopero generale.
Il 10 maggio, dopo alcune interrogazioni sui disordini scoppiati in molte città, il gruppo socialista presentò una mozione che reclamava "provvedimenti legislativi diretti a prevenire gli eccidi nei conflitti tra i cittadini e la forza pubblica". SONNINO e BIANCHERI fecero notare che nessun disegno di legge poteva esser letto all'assemblea se prima almeno tre uffici non ne avessero ammessa la lettura; ma, insistendo l'on. FERRI nella proposta di scrivere all'ordine del giorno della seduta dell'indomani la mozione, il presidente del Consiglio affermò:
"Dinnanzi ad una mozione di questa forma, non faccio questione di regolamento. Io non ammetto che vi siano stati né che vi possano essere in Italia eccidi proletari. Non ammetto quindi una mozione di questo genere. Invito quindi la Camera a non accettarla".

La Camera gli dette ragione e con 199 voti contro 28 respinse la proposta del Ferri.

Allora il gruppo socialista, come atto di protesta, diede in massa le dimissioni, che non furono accettate; ma, insistendo i socialisti, il presidente BIANCHERI nella seduta del 12 maggio dichiarò vacanti i loro collegi. Nelle elezioni, che ci furono poco dopo, tutti i socialisti dimissionari, meno due, ritornarono alla Camera.

CADUTA DEL MINISTERO SONNINO

Le dimissioni del gruppo socialista resero più debole la posizione del Ministero, che, privo di una maggioranza, era destinato a cadere. Volendo, prima delle vacanze estive, discutere l'inchiesta sulla Marina e le leggi sul Mezzogiorno, il 15 maggio Sonnino chiese che si stabilisse un termine massimo di otto giorni per la presentazione della relazione sul disegno di legge relativo al riscatto dello ferrovie meridionali. La maggioranza della Commissione fissò il termine al 28 maggio, la minoranza si oppose alla fissazione dì un termine e l'onorevole MAGGIORINO FERRARIS presentò un ordine del giorno così concepito: "La Camera respinge la fissazione di un termine alla presentazione della relazione della Commissione sul riscatto delle ferrovie meridionali".
L'on. Sonnino dichiarò che non accettava l'ordine del giorno e aggiunse: "credo che chiunque desidera che la Camera prima delle vacanze faccia un lavoro utile debba votare contro". Ma la Camera con 179 voti contro 152 e 40 astenuti, approvò l'ordine del giorno Ferraris (17 maggio).
Non restò altro da fare a Sonnino che dare le dimissioni con l'intero ministero. Era durato in carica 98 giorni.
Durava invece da 13 mesi l'assensa di GIOLITTI, che riposatosi abbastanza bene dalla sua "fuga", torna alla ribalta. Infatti, il Re chiama proprio lui a costituire un nuovo Governo.
…ed è il prossimo periodo che ora ci attende…

…periodo dal 1906 al 1909

 

IL 3° MIN. GIOLITTI - IL "MODERNISMO" - TERREMOTO DI MESSINA
IL TERZO MINISTERO GIOLITTI; SUO PROGRAMMA - DICHIARAZIONI DELL'ON. GIOLITTI RELATIVE AI LAVORATORI - ATTIVITÀ LEGISLATIVA - DISEGNO DI LEGGE SULA CONVERSIONE DELLA RENDITA - L'INCHIESTA SULLA MARINA - L'INCHIESTA SULL' ESERCITO - IL PRIMO MINISTRO BORGHESE DELLA GUERRA - INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DEI CONTADINI DEL MEZZOGIOGIORNO E DELLA SICILIA - ACCUSO CONTRO L'ON. G. ROMANO - IL PROCESSO NASI - IL NASISMO - I TUMULTI E GLI SCIOPERI DEL 1906 - IL IX CONGRESSO SOCIALISTA E IL TRIONFO DELLA TENDENZA INTEGRALISTA - TORBIDI E SCIOPERI NEL 1907 - IL MOVIMENTO ANTICLERICALE - IL "MODERNISMO" - IL SILLABO E L'ENCICLICA "PASCENDI" - DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULL' INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE PRIMARIE - IL SINDACALISMO ITALIANO E LO SCIOPERO AGRARIO NEL PARMENSE - IL X CONGRESSO SOCIALISTA - IL TERREMOTO CALABRO-SICULO - LA DISTRUZIONE DI MESSINA E REGGIO
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IL TERZO MINISTERO GIOLITTI - SUO PROGRAMMA

Il 18 maggio 1906 - abbiamo visto nelle precedenti pagine, come- usciva dalla scena il Ministero SONNINO, durato solo 98 giorni, battuto alla fiducia con un netto 179 voti contro 152 e 40 astenuti.
Durava da 13 mesi l'assenza di GIOLITTI, che riposatosi abbastanza bene da quella che fu da alcuni chiamata "fuga", ritorna alla ribalta chiamato dal Re per formare il nuovo Ministero.

 

GIOLITTI, lo costituì il 27 maggio, assumendo la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno e affidando gli Esteri a TOMASO TITTONI, le Finanze all'on. FAUSTO MASSIMINI, il Tesoro all'on. ANGELO MAJORANA, i Lavori Pubblici all'on. EMANUELE GIANTURCO, le Poste e i Telegrafi all'on. CARLO SCHANZER, la Grazia e Giustizia all'onorevole NICCOLÒ GALLO, la Pubblica Istruzione all'on. GUIDO FUSINATO, la Guerra al generale ETTORE VIGANÒ, la Marina al viceammiraglio CARLO MIRABELLO, l'Agricoltura, Industria e Commercio all'on. FRANCESCO COCCO-ORTU.
Questo terzo Ministero Giolitti ebbe vita lunga: durò, infatti, dal 27 maggio del 1906 al 9 dicembre del 1909; fu però funesto, come il primo, a parecchi dei suoi componenti. FUSINATO, si dimise nell'agosto del 1906 per nevrastenia; GALLO cessò di vivere il 7 marzo del 1907; il giorno prima fu colpito da apoplessia MASSIMINI; nel maggio seguente si ritirò MAJORANA, insidiato dal male che doveva spegnerlo ancor giovane; il 10 novembre, infine, morì il ministro GIANTURCO.
Giolitti sostituì Fusinato con LUIGI RAVA, Massimini con LACAVA, Gallo con VITTORIO EMANUELE ORLANDO, Maiorana con CARCANO e Gianturco con PIETRO BARTOLINI.

DICHIARAZIONI DELL'ONOREVOLE GIOLITTI RELATIVE AI LAVORATORI
ATTIVITA LEGISLATIVA
DISEGNO DI LEGGE SULLA CONVERSIONE DELLA RENDITA
INCHIESTA SULL'ESERCITO - IL PRIMO MINISTRO BORGHESE DELLA GUERRA
INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DEI CONTADINI DEL
MEZZOGIORNO E DELLA SICILIA


Il 12 giugno, Giolitti espose al Parlamento il suo programma; vi entravano l'inchiesta sulla Marina e i provvedimenti per il Mezzogiorno, per la Sicilia, per la Sardegna e per i danneggiati dal terremoto e dal Vesuvio. Affermò anche che riteneva opportuno nominare due Commissioni parlamentari, affidando ad una l'incarico di studiare le condizioni dei lavoratori della terra nelle province meridionali e in Sicilia, specialmente in rapporto ai patti agrari; e all'altra l'incarico di studiare le condizioni della Sardegna e specialmente quelle degli operai delle miniere. Degno di nota furono le dichiarazioni di Giolitti relative ai lavoratori, affermando:

"Il problema che in questo momento domina tutti gli altri é quello del miglioramento delle classi lavoratrici. Dal modo come si compirà il grande movimento sociale che attraversiamo, dal miglioramento morale e materiale, ma ordinato, costante, pacifico delle più numerose classi della Società dipende l'avvenire della civiltà nostra, la prosperità e la grandezza del nostro paese. A rendere sicuro e ordinato tale progresso devono tendere la costante azione del Governo e le riforme legislative. Anzitutto è evidente che il benessere delle classi operaie, è inscindibilmente connesso con la prosperità dell'agricoltura, delle industrie, del commercio, perché solo dove il capitale e il lavoro abbondano vi possono essere alti salari é buone condizioni di lavoro. Nelle condizioni attuali d'Italia, l'aiuto più diretto ed immediato che si possa dare al lavoro nazionale è quello di agevolare i mezzi di comunicazione facilitando le esportazioni, completando rapidamente la rete stradale, dando efficace impulso ad un buon ordinamento ferroviario, organizzando bene i servizi marittimi. Altra condizione indispensabile per l'incremento della pubblica ricchezza è, da un lato una più rapida diffusione dell'istruzione popolare, e dall'altro un grande elevamento della istruzione tecnica superiore, ora affatto inadeguata ai continui progressi delle industrie".

Le dichiarazioni dell'on. Giolitti ebbero l'approvazione della Camera, che ad un ordine del giorno dell'on. CRESPI di fiducia nel programma governativo la confermò con 262 voti favorevoli e 98 contrari.
Nel primo mese di governo del terzo Ministero Giolitti intensa fu l'attività legislativa: furono approvati i provvedimenti per il Mezzogiorno, per le isole e per o danneggiati dal Vesuvio, fu approvato il disegno di legge per il riscatto delle ferrovie meridionali e fu votata la conversione della rendita.
Il 29 giugno del 1906 il ministro del Tesoro Majorana presentò alla Camera un disegno di legge sulla conversione dei titoli delle rendite consolidate 5 per cento lordo e 4 per cento netto in 3.75 per cento dal 1° luglio 1907 o in 3.50 per cento netti dal 1° luglio 1912.

Ad evitare giuochi di borsa, Giolitti invitò l'assemblea a discutere quel giorno stesso il disegno, quindi fu nominata la Commissione, che risultò composta degli onorevoli COLAJANNI, DI RUDINÌ, FORTIS, GIOVANELLI, MARCORA, RAVAF SONNINO, TURATI e LUZZATTI. Quest'ultimo lesse, con molti applausi, la relazione, poi si precedette alla votazione e il disegno fu approvato con 264 voti contro 11. Nel medesimo giorno il disegno fu approvato dal Senato, sanzionato dal re e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Il successo dell'operazione, che doveva dare all'erario un utile di 20 milioni annui per i primi cinque anni, di 40 milioni poi, fu pienissimo: su un capitale di 8 miliardi e 200 milioni fu chiesto soltanto meno di cinque milioni il rimborso e inoltre il corso della rendita si mantenne superiore alla pari.

Il giorno prima (28 giugno) era cominciata alla Camera la discussione intorno alla relazione della Commissione d'inchiesta sulla Marina, inchiesta che era stata ordinata il 27 marzo del 1904 e che era stata condotta da una Commissione di 17 membri, di cui era presidente l'on. GEROLAMO GIUSSO e relatore l'on. LEOPOLDO FRANCHETTI. L'inchiesta era stata lunga e minuziosa e nella relazione, che comprendeva cinque volumi, erano consacrate gravissime accuse contro il ministero della Marina, relative allo sperpero del pubblico denaro e ai contratti con la Terni e con la Casa Amstrong.
Durante il dibattito diversi furono i deputati che si scagliarono contro la Commissione, la quale fu difesa non solo dal suo presidente e dal suo relatore, ma anche dagli onorevoli ALBASINI, BISSOLATI, COMANDINI, LACAVA, NITTI, PRINETTI. L'amministrazione della Marina fu difesa da BETTOLE e dal ministro MIRABELLO. Per evitare uno scandalo, nella seduta del 4 luglio, Giolitti accettò un ordine del giorno dell'on. ARLOTTA di fiducia nella marina italiana e il presidente BIANCHERI lo pose ai voti e lo dichiarò approvato fra il tumulto della Camera. I socialisti coprirono d'ingiurie il vecchio Biancheri che, indignato o per la vergogna, abbandonò quasi fuggendo il suo seggio e poi si dimise. La Camera nel febbraio del 1907 gli diede come successore l'on. MARCORA

Nonostante le rivelazioni dell'inchiesta, il Parlamento si mostrò favorevole a concedere maggiori spese per la Marina da guerra, e Mirabello, nei sei anni del suo ministero, poté innalzare il bilancio ad oltre 160 milioni a rinnovare il naviglio, che si arricchì della San Marco, più tardi, della Dante Alighieri, della Giulio Cesare e della Leonardo da Vinci.
L'inchiesta sulla Marina fu seguita, a distanza di parecchi mesi, da quella sull'esercito. Fu lo stesso Giolitti a presentare un disegno di legge per la nomina di una Commissione destinata ad indagare sull'organizzazione e sull'amministrazione dei servizi dipendenti dal Ministero della Guerra, disegno che fu approvato il 16 maggio del 1907.

Intanto il ministro della Guerra VIGANÒ aveva presentato un disegno di legge per una spesa straordinaria di 200 milioni, da ripartirsi in 10 annualità. Il 13 giugno, in nome del gruppo socialista, l'on. TREVES sostenne che bisognava respingere, fin che durava l'inchiesta, ogni credito straordinario militare; ma la Camera respinse la proposta di Treves e approvò la richiesta dei fondi riducendola però da 200 alla cifra di 60 milioni.
Il 15 dicembre del 1907 la Camera votò l'accrescimento del contingente annuo incorporabile. Verso la fine del mese, il generale Viganò presentò le dimissioni e al suo posto fu chiamato il senatore SEVERINO CASANA, ingegnere ed ex-sindaco di Torino, che fu il primo ministro borghese della Guerra.

Dopo circa un anno, la Commissione d'inchiesta presentò la prima parte della sua relazione, in cui, fra le altre cose, era messo in rilievo il disagio morale degli ufficiali, dovuto alle difficoltà economiche ed alla lentezza della carriera, e si proponeva un aumento degli stipendi e un più rapido passaggio da un grado all'altro. Inoltre era messa in evidenza la grave deficienza delle difese frontiere di terra e di mare, si affermava non doversi più oltre procrastinare una soluzione completa del grave problema che doveva essere risolto con unità di vedute e subordinato a criteri generali di carattere permanente, e si riteneva urgente la costruzione di nuove fortificazioni che potevano approssimativamente importare una spesa di 140 milioni per le frontiere terrestri e di 50 milioni per quelle marittime.

Nel giugno del 1908 il ministro CASANA presentò un disegno di legge con cui fino al 30 giugno 1917 si chiedevano altri 223 milioni. Contro questo disegno l'on. BISSOLATI presentò il seguente ordine del giorno: "La Camera, persuasa della necessità di sistemare la difesa del paese entro i limiti della spesa attuale, respinge ogni domanda di nuovi crediti militari". Ma la Camera con 230 voti contro 18 respinse l'ordine del giorno, ed approvò i crediti nuovi chiesti dal ministro:

Un'altra inchiesta votò il Parlamento nel 1907: quella "sulle condizioni dei contadini nelle province del Mezzogiorno e in Sicilia". La Commissione nominata si propose specialmente di studiare le condizioni dei contadini e la natura dei patti agrari. Essa fu presieduta dal senatore FAINA, il quale, riassumendo in una relazione finale le varie relazioni contenute in parecchi volumi, sostenne che nel Mezzogiorno e nella Sicilia l'impedimento al progresso dell'agricoltura era costituito, dalla distruzione dei boschi, dalla malaria, dal latifondismo e dalla scarsità d'acqua e concluse affermando che dal rimboschimento, dall'aumento dei mezzi di comunicazione e dalla diffusione della cultura dipendeva l'avvenire del Mezzogiorno.
ACCUSE CONTRO L'ON. ROMANO
IL PROCESSO NASI - IL NASISMO

Poiché parliamo di accuse e d'inchieste, non è inopportuno qui accennare al "caso Romano" e al ben più importante "caso Nasi".
L'on. GIUSEPPE ROMANO, deputato del collegio di Sessa Aurunca, fu, nell'aprile del 1907, dal giornale socialista di Napoli la "Propaganda", accusato di essere il capo della camorra di Aversa, mercante di voti, protettore di malviventi, persecutore dei galantuomini che non volevano vendergli i "voti e capo di tutta la malavita della Terra di Lavoro". Il ministro Orlando, richiesto dall'on. MORGARI il 23 maggio di quell'anno, se volesse prendere atto di quelle accuse, rispose che non poteva riconoscere ai giornali il diritto alla pubblica accusa. Dilagando lo scandalo, il Procuratore del Re di Santa Maria Capua Vetere aprì un'istruttoria contro l'onorevole Romano, che però, per insufficienza d'indizi e per prescrizione, fu prosciolto dai reati di falso e di peculato, di cui era stato anche accusato.

Vicende più lunghe e più complesse ebbe il "caso Nasi", ministro delle Poste nel primo Gabinetto Pelloux (1898-1899) e ministro della Pubblica Istruzione nel Gabinetto Zanardelli (1901-1903) contro cui lanciò la prima accusa, nel dicembre del 1903, l'on. ETTORE CICCOTTI con un'interpellanza sull'impiego delle eccedenze passive del bilancio dell'Istruzione Pubblica.

Nella seduta del 9 febbraio del 1904 l'on. Bissolati svolse l'interrogazione seguente "Il sottoscritto interroga il ministro della Pubblica Istruzione per sapere se ha riaffidato all'economo il servizio dei pagamenti dei sussidi ai maestri, e se ha vidimato all'economo di compilare la nota degli oggetti di proprietà dello Stato che siano risultati all'uscita del precedente ministro e se gli risulta la scomparsa di originali telegrammi di Stato".

Allora, consentendolo lo stesso Nasi, fu affidato all'on. VINCENZO SAPORITO, siciliano e nemico di Nasi e relatore dei rendiconti consuntivi, l'incarico di esaminare i documenti relativi alla gestione dell'ex- ministro. Il Saporito, compiute le indagini presentò il 22 marzo la relazione da cui risultava che il Nasi e il suo segretario cav. Ignazio, Lombardo avevano compiuto gravi irregolarità: sperperi, abusi, dissipazioni di fondi, sussidi ingiustificabili, asportazioni di oggetti, spese personali addossate all'erario.

Nella seduta del 23 marzo, l'on. Nasi dichiarò che la relazione del Saporito era piena di errori e ispirata dall'ostilità di chi l'aveva stesa e domandò che fosse fatta una regolare inchiesta. Il 24 la Camera stabilì che le indagini del Saporito sarebbero proseguite da una Commissione di cinque membri, a comporre la quale furono chiamati gli onorevoli CAPPELLI, presidente, PRAMPOLINI, segretario, CHIAPUSSO, GORIO e TORRIGIANI. La Commissione nei primi di maggio presentò la relazione che confermava le accuse, affermando fra le altre cose che il Ministro aveva addossato allo Stato le spese di dispacci privati, aveva esagerato nelle spese di viaggi, aveva sottratto oggetti del Ministero, si era appropriati di libri pervenuti al medesimo ed infine proponeva che fossero inviati gli atti all'autorità giudiziaria.
Nella seduta del 7 maggio del 1904 la Camera approvò il rinvio degli atti e concesse l'autorizzazione a procedere contro il Nasi, il quale però riuscì a fuggire all'arresto riparando all'estero e invocando nello stesso tempo "l'incompetenza dei tribunali ordinari a giudicarlo".

Tre anni dopo, e precisamente il 10 giugno del 1907, la Corte di Cassazione di Roma diede ragione al Nasi dichiarando l'autorità giudiziaria incompetente a giudicare un ministro.
Il 20 giugno, la Camera, dietro proposta dell'on. TURATI, nominò una Commissione di cinque membri (onorevoli Calissano, Alessio, Fani, Grippo e Leonardo Bianchi) per riferire sulla sentenza della Corte di Cassazione. I commissari proposero di deferire Nunzio Nasi al Senato costituito in Alta Corte di Giustizia, e la Camera, approvate le proposte, nominò tre commissari, Paesini, Mariotti e Pozzi, per sostenere davanti al Senato l'accusa contro l'ex-ministro.

Il 12 luglio del 1907 il Senato si costituì in Alta Corte e il suo Presidente, il vecchio e giolittiano TANCREDI CANONICO, successo al Saracco; fece arrestare il Nasi, che era ritornato a Roma. L'arresto provocò a Trapani e a Palermo dimostrazioni e conflitti sanguinosi e poiché in Sicilia l'ex-ministro era considerato - e in parte lo era - vittima degli avversari politici e si credeva che questi osteggiando il Nasi volessero colpire l'isola, si formò una lega generale per gl'interessi siciliani.
Il processo cominciò il 5 novembre. NASI respinse sdegnosamente l'accusa di peculato, difese l'accentramento di tutto il lavoro nella sua segreteria particolare, dichiarò di non aver presi per sé i libri, ma per distribuirli ai vari enti e di avere speso cospicue somme per far sostenere dalla stampa le sue idee sulla riforma della scuola media, per far partecipare molti professori al Congresso di Cremona e per diffondere l'influenza commerciale e politica in Tripolitania.
Contro l'on. Nasi deposero gli onorevoli Bissolati, Cappelli. Ciccotti, Chiapusso, Cortese, Saporito e Torrigiani e altre persone. A proposito del CICCIOTTI, Nasi ricordò di averlo fatto passare da professore straordinario ad ordinario e di essersi opposto al Consiglio Superiore dell'Istruzione, il quale voleva annullare il concorso alla cattedra di storia antica nell'Università di Messina in cui il Ciccotti medesimo era riuscito vincitore.
Moltissimi furono i testi favorevoli a Nunzio Nasi: Fortis, Orlando, Baccelli, Nitti, Nathan, Castellino, Rastignac, Calza e molti altri, e tutti furono concordi nel dichiarare che l'ex ministro era generoso, modesto e incapace di appropriazioni per lucro personale.

Il 18 febbraio del 1908, l'on. POZZI pronunziò in nome dei Commissari della Camera la requisitoria, affermando "essere necessario colpire non coprire". A difesa del Lombardo parlarono gli avvocati Scimonelli e Marchesano; in difesa di Nasi gli avvocati Filippo Bonacci ed Angelo Muratori. Quest'ultimo pronunziò un'arringa poderosa e commovente. Grande commozione, destò l'autodifesa del Nasi.


Il 24 febbraio del 1908, l'Alta Corte, presieduta dall'on. Giuseppe Tancredi, assolse IGNAZIO LOMBARDO per non provata reità e condannò per peculato continuato con danno lieve NUNZIO NASI alla reclusione di undici mesi e venti giorni da scontarsi in casa ed all'interdizione dai pubblici uffici per quattro anni e due mesi.
La Camera dichiarò NASI decaduto da deputato; ma il condannato insisté nel proclamarsi innocente ed ebbe nella sventura il conforto dell'affetto e della solidarietà della Sicilia, la quale forse fu intemperante nella protesta.
Disordini, infatti, avvennero a Trapani, dove furono abbattuti e buttati a mare gli stemmi dello Stato, s'intitolarono al Nasi e ai membri della sua famiglia alcune strade e per molto tempo l'autorità statale non fu riconosciuta dalla città esasperata. L'agitazione "nasista" degenerò in movimento autonomista, ch'ebbe perfino un organo molto battagliero, "L'azione di Catania".
Trapani fu fedelissima a Nasi; lo rielesse deputato tante volte quanto la Camera annullò le elezioni e con Trapani gareggiarono parecchi collegi della Sicilia e del Napoletano in segno di protesta contro Giolitti, al cui odio si dovette in gran parte la sventura del Nasi, il quale non trasse profitto per sé dei denari dello Stato e se irregolarità commise le commise per bontà d'animo, per negligenza e per necessità d'ambiente.
Trascorso il periodo dell'interdizione, Nunzio Nasi, legittimamente eletto poté ritornare alla Camera dei deputati.

I TUMULTI E GLI SCIOPERI DEL 1906
IL NONO CONGRESSO SOCIALISTA E IL TRIONFO DELLA TENDENZA INTEGRALISTA
TORBIDI E SCIOPERI NEL 1907

Frequenti furono i tumulti e gli scioperi nel 1906. In Sicilia scioperarono gli zolfatari, che a Caltanissetta ebbero conflitti con la forza pubblica e con il loro atteggiamento ottennero che fosse subito votata la legge sul Consorzio obbligatorio degli zolfi; a Bari scioperarono i metallurgici, a Napoli gli studenti universitari, a Roma gli allievi guardie municipali, a Torino e a Genova i tranvieri, nel Vercellese i risaiuoli. Scioperarono anche i lavoratori del mare provocando per reazione la serrata degli armatori e il disarmo delle navi. E tra uno sciopero e l'altro si ebbero atti terroristici degli anarchici, che fecero scoppiare bombe nella capitale.

IL IX CONGRESSO SOCIALISTA
E IL TRIONFO DELLA TENDENZA INTEGRALISTA

Dal 7 al 9 ottobre del 1906 si tenne a Roma il IX congresso socialista sotto la presidenza di ANDREA COSTA. In questo Congresso si manifestò ancor più insanabile il dissidio tra riformisti e sindacalisti e trionfò la tendenza integralista che faceva capo a FERRI e a MORGARI. Fu, infatti, con 26.947 voti approvato l'ordine del giorno presentato dagli integralisti, il quale affermavano che il partito mirava alla socializzazione dei mezzi di produzione da raggiungersi con il metodo della lotta di classe e con il criterio di "una gradualità entro al seno stesso della società borghese" , usando i mezzi legali e solo in via eccezionale la violenza.

Non meno frequenti che nel 1906 furono i torbidi e gli scioperi nel 1907. Si ebbero quello degli operai delle Acciaierie di Terni, che, con la serrata, durò 93 giorni, quello dei vetrai di diciotto stabilimenti, quello dei tranvieri a Napoli, quello agrario ad Argenta, durato tre mesi, lo sciopero generale a Bari, lo sciopero dei gassisti a Milano cui seguì lo sciopero generale esteso a Bologna, a Parma, a Cremona e a Torino. Dovunque tumulti, conflitti, saccheggi; occupazioni violente di terre in Puglia dove l'agitazione durò dal settembre al novembre, barricate a Napoli; qua e là morti e feriti.
Le agitazioni si estesero anche tra gl'impiegati dello Stato e non lasciarono immune, purtroppo l'esercito. Carabinieri e guardie carcerarie chiesero miglioramenti, sottufficiali di Marina si agitavano alla Spezia, si agitavano i magistrati, patrocinati dal senatore QUARTA, procuratore generale della Cassazione di Roma, si agitavano i professori universitari. I ferrovieri poi non mancarono di scioperare e il Governo non seppe infliggere altra punizione che quella di considerare dimissionari sedici fra i più compromessi.

In mezzo a tanti scioperi ricominciava il movimento anticlericale,
che contribuì ad accrescere i disordini.

IL MOVIMENTO ANTICLERICALE
IL MODERNISMO - IL SILLABO E L'ENCICLICA "PASCENDI"
DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULL'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLA SCUOLE PRIMARIE

II Grande Oriente di Roma, preoccupato degli accordi avvenuti con i cattolici nelle elezioni politiche ed amministrative intesi a combattere il pericolo socialista, nel novembre del 1906 ordinava ai massoni di essere intransigenti verso i clericali; in quel torno di tempo si costituiva un "Comitato nazionale" per fare una manifestazione anticlericale in occasione del 307° anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno, e la manifestazione, il 17 febbraio del 1907, avvenne a Roma, in Campo di Fiori; frequenti dimostrazioni anticlericali avvenivano a Messina, inscenate anche dagli studenti, che come impetuosità furono superati da quelli di Padova. A dare esca alle agitazioni anticlericali si diffondevano notizie vere o false di atti turpi commessi da preti in collegi femminili o in convitti maschili. Specie lo scandalo suscitato dalle turpitudini del sacerdote don Riva compiute in un asilo infantile milanese diretto dalla sedicente suora Giuseppina Fumagalli, commosse l'opinione pubblica e fece diventare più intensa la campagna anticlericale.

Si ebbero dimostrazioni a Roma, a Milano, a Venezia, a Mantova, a Livorno, a Sampierdarena e alla Spezia, dove anticlericali e socialisti incendiarono una cappella e devastarono una chiesa e furono quindi dispersi dalla truppa, lasciando sul terreno un morto e vari feriti, per cui fu proclamato lo sciopero generale. Altre dimostrazioni avvennero a Pisa, a Torino, a Genova, a Firenze e a Roma e furono tali le violenze contro i religiosi che lo stesso Grand'Oriente si vide costretto a condannarle.
Massoni, socialisti e anticlericali in genere non erano i soli nemici che la Santa Sede doveva combattere, vi erano anche i modernisti capitanati da don ROMOLO MURRI, contro i quali una lotta senza quartiere fu ingaggiata dal Pontefice, che il 3 luglio del 1907 pubblicò un "Sillabo" in cui erano condannate 65 proposizioni dei modernisti e l'8 settembre emanò l'enciclica "Pascendi dominici gregis" che ufficialmente estese la condanna a tutte le forme di modernismo, giudicato "un indirizzo di pensiero contrario alla dottrina cattolica". Seguì un severo controllo sull'attività dei sacerdoti, che avrebbe poi portato nel 1910, all'obbligo per tutti di prestare un giuramento antimodernista.

Ma anche Croce e Gentili accusarono il "modernismo" di "voler conciliare principi non conciliabili, come fede e scienza, accettazione dei dogmi e spirito critico".
La personalità più originale del modernismo italiano, era ERNESTO BONAIUTI, a lui si devono alcuni interventi su "Studi religiosi" una delle principali riviste nella diffusione del "movimento modernista" e autore anche di "Lettere di un prete modernista" e "Nova et vetera", dove esprimeva le aperture al socialismo; subito condannate dal Vaticano.

La lotta anticlericale ebbe un'eco al Parlamento. Nel maggio del 1907 si rimproverò il Governo di aver pagato al Vaticano nove milioni; ma risultò che tale somma era dovuta in compenso dei beni incamerati delle Case generalizie. Altro rimprovero mosso al Governo ebbe origine dagli onori militari resi al cardinal Lorenzelli, ex-nunzio a Parigi, nel suo solenne possesso dell'Arcidiocesi di Lucca.


L'on. GIOLITTI, rispondendo, nella seduta del 9 maggio, all'on. BARZILAI, dichiarò che gli onori militari erano stati resi perché i cardinali erano ritenuti equiparati ai principi reali ma rassicurò che....
"lo Stato e la Chiesa erano due linee parallele che non dovevano incontrarsi mai".

Il 14 gennaio del 1908, l'amministrazione popolare del Comune di Roma, presieduta dal sindaco ERNESTO NATHAN, ex-Gran Maestro della Massoneria, approvò il seguente ordine del giorno: "Il Consiglio Comunale di Roma fa voti perché Governo e Parlamento, in coerenza alle leggi vigenti, dichiarino esplicitamente estranee alla scuola primarie qualsiasi forma d'insegnamento confessionale". Continuava ad esserci però il regolamento del 1895, che conservava l'obbligo dell'insegnamento religioso nelle scuole se richiesto dagli interessati.

Su tale questione si ebbe un animato dibattito alla Camera. L'on. BISSOLATI, massone, presentò il seguente ordine del giorno: "La Camera invita il Governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa sia impartito, sotto qualsiasi forma, l'insegnamento religioso".
Alla discussione che ne seguì presero parte numerosi deputati, fra cui gli onorevoli BISSOLATI, FERDINANDO MARTINI, SALANDRA, SACCHI, RAVA, COMANDINI, FRADELETTO, NITTI, BERENINIJ LEONARDO BIANCHI, MIRABELLI, TURATI, FORA e i clericali AGOSTINO CAMERONI e MAURI. Il dibattito si protrasse fino al 27 febbraio del 1908, quando Bissolati presentò una mozione che proponeva la....

"completa abolizione dell'insegnamento del catechismo cattolico
nelle scuole elementari";

BISSOLATI disse, fra le altre cose, che sapeva di suscitare con il suo ordine del giorno nel paese....
"la fiaccola di un incendio non facilmente domabile", e dichiarò di compiacersene. "Me ne compiaccio - affermò - perché la fiaccola io l'ho gettata nell'edificio dell'apatia e della incoscienza, che sono i vizi peggiori della nostra vita pubblica; perché credo che, sotto lo stimolo e sotto l'aculeo di questa discussione, le coscienze dei cittadini italiani saranno tratte ad elaborare se stesse, ad occuparsi di tutti quei grandi problemi, con i quali ha attinenza il problema che stiamo discutendo. Queste coscienze saranno sollecitate a salire le vette delle grandi idealità e dei grandi interessi collettivi ! È vero, sopra le vette soffia la tormenta; ma è appunto in questa tormenta di lotte civili che le Nazioni possono sentire, riconoscere se stesse e darsi una missione nella storia".

 

L'on. CAMERONI attaccò vigorosamente il principio della scuola laica, il quale, - disse -
"poggia sopra una visione monca ed unilaterale dello spirito e della società umana, il quale muove da una concezione astratta ed unilaterale dei rapporti tra Stato e cittadino, il quale lede i diritti primordiali delle famiglie italiane nella educazione della prole, e vilipende la sovranità popolare a beneficio di minoranze prepotenti e faziose", e concluse con un attacco violento alla Massoneria, "quella setta che, attraverso il sogno radioso del Risorgimento Nazionale, ha cercato di sradicare la religione d'Italia, quella setta, la quale si rode e si sgomenta al pensiero che si sfasciano quelle barriere che essa ha creduto di erigere incrollabili, in nome della libertà ed unità d'Italia, tra la fede e il popolo, quella setta che non rappresenta il popolo, che anzi l'offende nei suoi più cari sentimenti e nelle sue più salde tradizioni e, accendendo la guerra religiosa, gli ritarda l'evoluzione morale e materiale cara a tutti i patrioti. Il popolo forte e sano d'Italia - concluse l'on. Cameroni - domanda invece alla rappresentanza nazionale che voglia riconoscergli piena ed intera la prima, la più elementare delle libertà, quella di educare i figli del proprio sangue nella fede per farne dei cittadini forti ed utili alla Patria".

A CAMERONI rispose l'on. MARTINI, ex-governatore dell'Eritrea, dov'era stato sostituito dal marchese Salvago-Raggi. Sostenne che "l'insegnamento religioso deve essere dato nel luogo che gli è proprio, cioè nelle chiese e che l'insegnamento di Stato deve essere laico".

SALANDRA disse che ...
"lo Stato non deve essere antireligioso o areligioso", affermò che "il pericolo clericale non è una realtà" e sostenne che "è dannoso per il nostro paese l'espulsione dei cattolici dalla vita italiana politica ed è contrario ai maggiori interessi della Patria "quella qualsiasi forma di persecuzione, anche legale, di cui l'approvazione della mozione Bissolati sarebbe il primo segno. La nostra patria non è ancora così forte, così possente nella sua fibra, da consentire che sia, per atto della nostra politica, attenuato od annientato il patriottismo di una parte della popolazione italiana. Noi abbiamo bisogno di raccogliere intorno alla patria nostra, intorno allo Stato italiano, tutte le nostre forze, da qualunque parte esse giungono. Così come io crederei assurda, inopportuna e dannosa una politica di persecuzione e di ostilità contro i cattolici".

Intervenne SONNINO e si dichiarò favorevole alla soluzione intermedia patrocinata dal Governo:
"dare ai Comuni la facoltà di stabilire se si dovesse o no impartire l'insegnamento religioso, lasciando però ai padri di famiglia il diritto di chiedere, per proprio conto e sotto il controllo delle autorità scolastiche, fosse data ai loro figli l'istruzione religiosa".

L'on. GIOLITTI, come conclusione del dibattito, disse: "I sistemi non possono essere che tre: o proibire l'insegnamento religioso, o imporlo, come qualcuno ha pensato, o lasciare la libertà di dare tale insegnamento a coloro che lo domandano. Noi crediamo che l'ampia via della libertà sia quella che corrisponde ai sentimenti dell'immensa maggioranza degli italiani, e che più sicuramente conduce al vero progresso ed alla prosperità del nostro paese".

La Camera alla fine degli interventi, il 27 febbraio 1908 giunta al voto, respinse con 347 voti contro 60 la "mozione Bissolati".
(indubbiamente non mancarono i voti dei socialisti.
E a questi dobbiamo ritornare, ripartendo dall'anno precedente)

 

IL SINDACALISMO ITALIANO E LO SCIOPERO AGRARIO NEL PARMENSE -
IL X CONGRESSO SOCIALISTA

I sindacalisti italiani, decisi a romperla con i riformisti, il 27 giugno del 1907 si riunirono a congresso in Ferrara mentre questa provincia era funestata dallo sciopero agrario; un secondo congresso ci fu il 3 novembre dello stesso anno a Parma, dove poco dopo doveva scoppiare un gravissimo sciopero agrario, organizzato e guidato dai sindacalisti.
L'astensione dal lavoro fu deciso il 26 aprile del 1908 in un congresso delle organizzazioni dei lavoratori della terra ed ebbe inizio il 10 maggio, capitanato da ALCESTE DE AMBRIS, capo dei sindacalisti parmensi e direttore dell'Internazionale (l'uomo che influenzò prima D'Annunzio e poi lo stesso Mussolini come ideologia che però abbandonò subito per farne una tutta sua- vedi i singoli anni della questione Fiume).

Gli scioperanti parmensi trovarono avversari ben più forti di loro nei proprietari della provincia, stretti intorno all'Associazione agraria, che si procurò manodopera per il lavoro dei campi assoldando lavoratori liberi fuori provincia, e a questi volontariamente si unirono studenti e giovani di buona famiglia, che più che usare la zappa non esitarono ad usare le armi per difendersi - così sostenevano- dalle violenze dei sindacalisti che giravano le campagne incitando gli analfabeti contadini a scioperare.

Fra disordini e tumulti, lo sciopero durò più di un mese e mezzo. Il 19 giugno 1908, avendo gli scioperanti tentato d'impedire l'arrivo dei liberi lavoratori (al grido di "crumiri") chiamati per la mietitura, la truppa intervenne per difenderli. Allora la Camera del Lavoro proclamò nella città lo "sciopero generale a oltranza", cui la Federazione industriale rispose con "la serrata".
Nacquero tumulti e la truppa, fatta segno da fitta sassaiola, occupò il 20 giugno i locali della Camera del Lavoro e arrestò una settantina di sindacalisti con l'accusa di "insurrezione armata contro i poteri dello Stato".


Alcuni dirigenti e lo stesso DE-AMBRIS, sgomento per la piega che prendevano le cose, fuggirono riparando a Lugano.
Dalla Svizzera DE AMBRIS consigliava la resistenza; ma i lavoratori desistettero dalla inutile agitazione. Continuò ancora per poco lo sciopero generale a Parma, per farlo cessare il Governo restituì il 24 giugno la Camera del Lavoro, provocando le proteste degli agrari e le dimissioni della Giunta comunale parmense.
Il fallimento dello sciopero segna la fine della prima stagione del sindacalismo rivoluzionario, e la Confederazione generale del lavoro (CGdL) conferma i rapporti privilegiati con il PSI riformista (soprattutto a settembre, al X Congresso - vedi sotto).

Già il 10 luglio, il Partito socialista in un convegno riunito in Parma sconfessò i metodi usati nello sciopero e deliberò un'inchiesta, la quale riuscì ad assodare che l'amministrazione De Ambris aveva sperperato i fondi raccolti fra le organizzazioni per lo sciopero.
Il 19 settembre ci fu poi a Firenze il X Congresso nazionale socialista; qui fu votato un ordine del giorno che biasimava i metodi e le massime del sindacalismo rivoluzionario, sconsigliava lo sciopero generale e stabiliva un programma minimo di azione parlamentare. A direttore dell'Avanti! fu nominato BISSOLATI.

Riprendendo il gruppo riformista la direzione, a maggioranza fu approvata una mozione in cui si sottolineava l'incompatibilità dei principi del PSI con la teoria e la pratica del sindacalismo rivoluzionario.
Fra gli altri interventi ci fu quello di SALVEMINI che criticò il disinteresse mostrato dal PSI nei confronti della questione meridionale, e oltre questo, propose il suffragio universale come strumento fondamentale per la modifica della condizione politica del Sud. Criticato l'intervento da TURATI, la sua mozione non sarà nemmeno inserita tra le proposte centrali del programma socialista (che era un "programma minimo" in vista della prossima legislatura).

Nonostante questa presa di distanza dalle agitazioni, queste continuarono. I ferrovieri reclamavano la revoca delle punizioni per lo sciopero dell'ottobre del 1907, il reintegro dei licenziati per i fatti della primavera del 1908; e le otto ore di lavoro e l'aumento della paga; mentre gruppi di impiegati governativi, spalleggiati dai partiti estremi, si agitavano contro i disegni di legge sullo stato giuridico e sullo stato amministrativo dei pubblici funzionari.
Intanto i viveri rincaravano, sempre più acuto si faceva il disagio economico e finanziario, aggravato dai disastri naturali: inondazioni nel centro e nell'alta Italia, i terremoti nella Calabria (ottobre 1907) e nella Basilicata (marzo 1908).
Ma il peggio doveva ancora accadere, quasi a fine anno.

 

IL TERREMOTO CALABRO-SICULO
LA DISTRUZIONE DI MESSINA E REGGIO
LA LEGGE A FAVORE DEI DANNEGGIATI DAL TERREMOTO

Erano quelle di sopra le condizioni d'Italia, quando il 28 dicembre del 1908 un terribile terremoto, ripetutosi ad intervalli e seguito da un violentissimo maremoto, devastò la punta meridionale della Calabria e quella prospiciente della Sicilia, radendo al suolo numerosi villaggi e le belle città di Messina e di Reggio e causando oltre 150.000 morti.

Enorme fu il dolore di tutta la nazione e grandissimo lo slancio di solidarietà per portare aiuto nelle regioni colpite. Il re, la regina e i ministri Bertolini ed Orlando partirono subito per i luoghi del disastro, dove pure si recarono i duchi d'Aosta e di Genova; da ogni parte si organizzarono squadre di soccorso che gareggiarono con le truppe e coni marinari d'Italia e con gli equipaggi delle squadre russa, inglese, francese, e tedesca prontamente accorse.
Tutto il mondo fornì mirabile prova di solidarietà umana: comitati di soccorso si costituirono in Inghilterra, in Francia, in Germania, in America e denari e aiuti di ogni tipo giunsero in Italia.

L'8 gennaio del 1909 la Camera fu convocata straordinariamente per approvare un disegno di legge, presentato dal Governo, in favore dei danneggiati dal terremoto, disegno che stabiliva la somma di 30 milioni per la ricostruzione degli edifici pubblici, raddoppiava la tassa di bollo sui biglietti ferroviari e di navigazione e aumentava di un ventesimo le tasse sugli affari e le imposte sui terreni, sui fabbricati e sui redditi di ricchezza mobile.

In quell'occasione l'on. Giolitti disse: "I popoli forti, anziché lasciarsi abbattere dalle sventure, devono con ogni energia, proporsi di ripararvi efficacemente ed immediatamente. Messina e Reggio dovranno risorgere. È un impegno solenne che oggi assumono Governo e Parlamento. Ma prima che questo possa avvenire, è urgenza assoluta provvedere alle persone colpite, ricostituendo in quelle due province la vita civile, ora purtroppo distrutta".
Il giorno dopo, il disegno fu approvato con 406 voti contro 5. Il Senato lo approvò qualche giorno dopo.
Dal momento che bande di "sciacalli" si erano organizzate nelle zone colpite per commettere ruberie e saccheggi, fu proclamato nei primi del gennaio lo stato d'assedio nelle province di Messina e Reggio, che durò fino al 14 febbraio. Inoltre, a dirigere quelle province fu mandato come commissario straordinario il generale Mazza.

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A parte le questioni interne, i disastri, gli scioperi, le insofferenze fra riformisti e rivoluzionari, nel corso dell'anno 1908, erano accaduti dei gravi fatti nella politica estera, che provocarono il ritorno dei fermenti irredentistici in Italia, e tesi rapporti del Governo con Austria, quando quest'ultima a ottobre aveva proclamato l'annessione della Bosnia-Erzegovina, sottoposta alla Turchia, anche se fino allora gli Austriaci la occupavano militarmente e l'amministravano in nome del Sultano, in base alle decisioni prese al Congresso di Berlino del 1878.

Dobbiamo ora necessariamente ritornare alla Politica Estera dell'Italia, fin da quando
era caduto (dopo Adua) il ministero Crispi; cioè dal 1896, e poi dal 1900, quando sul trono era salito in nuovo Re Vittorio Emanuele III, che non solo in politica interna, ma anche in quella estera s'intendeva perfettamente con Giolitti.

 

… periodo 1896 - 1911

VENT'ANNI DI POLITICA ESTERA, - QUARTO MINISTERO GIOLITTI

L' ITALIA E L' ETIOPIA DOPO LA PACE DEL 1896 - LA CONVENZIONE ITALO-FRANCO-INGLESE PER LA ETIOPIA - LA SOCIETÀ ANONIMA COMMERCIALE DEL BENADIR - IL RISCATTO DEI PORTI DEL BENADIR - L' ITALIA E IL MULLAH - COMBATTIMENTO DI DANANE, MELLET, BULABÒ E BALAD - UCCISIONE DEI CAPITANI BONGIOVANNI E MOLINARI - LA CONFERENZA DI ALGESIRAS - I RAPPORTI TRA L' ITALIA, LA GERMANIA E L' AUSTRIA - VISITE E CONVEGNI - I "GIOVANI TURCHI" - L'ANNESSIONE ALL'AUSTRIA DELLA BOSNIA E DELL' ERZEGOVINA - IL DISCORSO DELL'ON. TITTONI E CARATE BRIANZA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA ESTERA - DICHIARAZIONE DELLA SERBIA - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA ED ELEZIONI POLITICHE - INAUGURAZIONE DELLA XXIII LEGISLATURA - IL DISCORSO DELLA CORONA - IL CONVEGNO DI RACCONIGI TRA IL RE D'ITALIA E LO ZAR NICOLA II - ACCORDO ITALO-RUSSO - IL FAMOSO DISCORSO DEL GENERALE ASINARI DI PERNEZZO - LE CONVENZIONI MARITTIME - IL DISEGNO DI LEGGE SUI PROVVEDIMENTI FINANZIARI - DIMISSIONI DEL MINISTERO GIOLITTI - IL SECONDO MINISTERO SONNINO - IL MINISTERO LUZZATTI - ATTIVITÀ LEGISLATIVA - IL DISEGNO DI LEGGE SULLA RIFORMA ELETTORALE - DIMISSIONI DI LUZZATTI - QUARTO MINISTERO GIOLITTI - IL DISEGNO DI LEGGE SULLE ASSICURAZIONI - IL CINQUANTENARIO DEL REGNO D' ITALIA
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RIEPILOGHIAMO: L'ITALIA E L'ETIOPIA DOPO LA PACE DEL 1896
LA CONVENZIONE ITALO-FRANCO-INGLESE PER L'ETIOPIA
LA SOCIETA ANONIMA COMMERCIALE DI BENADIR
IL RISCATTO DEI PORTI DEL BENADIR
L'ITALIA E IL MULLAH - UCCISIONE DEI CAPITANI BONGIOVANNI E MOLINARI

Per comprendere meglio gli avvenimenti che accadranno dopo l'ottobre del 1908 (occupazione dell'Austria nella Bosnia-Erzegovina) dobbiamo ricollegarci a quelli precedenti, fin da quando nel 1896 ci furono (dopo Adua) le dimissioni di Crispi. Da allora, la politica estera, in parte nel retroscena subì qualche variazione, anche se più o meno fu sempre tacitamente rinnovata la Triplice Alleanza.
Ma prima che finisse il secolo, ma ancora di più dopo la morte di Umberto, salito al trono Vittorio Emanuele III con a fianco Giolitti, ambedue si erano manifestati avversari della politica Crispina e di quel che in questa c'era di appassionata francofobia, di colonialismo, e di acceso militarismo.
Significa allora che erano anticolonialisti? Che si associavano all'anticolonialismo e all'antimilitarismo socialista?
Nemmeno per sogno, i due anzi, criticavano la piccineria di quei governi che non avevano voluto associarsi all'Inghilterra nell'impresa d'Egitto.
Fin dai primi passi i due pensarono sempre alla Libia, senza farne quasi mai parola agli italiani. Ma in ogni occasione, in ogni incontro, a Vienna come a Berlino, con i Francesi o con gli Inglesi, si ribadiva il concetto che la Libia era zona di vitale interesse per l'Italia.

E se ne parlò in gran segreto anche durante la visita dello Zar a Racconigi. Il re e Giolitti aspettavano solo il momento buono; e la questione in undici anni fu studiata in tutti i suoi aspetti: diplomatico, finanziario, economico, militare.

Entrambi, fin dai primi passi, si orientarono verso una distensione nelle relazioni con la Francia. Non rinnegarono la Triplice (ed infatti, furono accusati, tanto Giolitti che il Re di esserne dei fautori, di essere germanofili, e addirittura austriacanti), ma nel rinnovarla, gli diedero un significato più preciso e aderente ai reali interessi dell'Italia; sano significato di un contratto stipulato per difendere la pace e per garantire l'ordinato progresso; e non era colpa dell'Italia se i tedeschi invece davano a quell'Alleanza un significato nibelungico, di fedeltà incondizionata e irrazionale. Ed infatti lo abbiamo visto quando dopo la visita (festosa e senza brindisi per la Germania e al capo venerato della casa d'Absburgo) di Loubet in Italia, ci fu una palese rigidità di Guglielmo (una gelosia di colui che si riteneva il "padrone del vapore" chiamato "Europa").

Fino alla visita di Loubet, pareva che la Francia, da un momento all'altro, dovesse all'Italia chiedere conto di quel colpo di mano del 1870.

Ma la Francia era pur sempre una sorella latina dell'Italia, e sebbene repubblica, aveva passato un lungo periodo di amicizia delle correnti più monarchiche del Regno di Sardegna -poi Regno d'Italia; e nello stesso tempo amicizia con i gruppi e correnti repubblicane da Napoleone I a Napoleone III.
Si può comprendere quindi con quale ansia gli elementi più ragionevoli del liberalismo italiano perseguissero il riavvicinamento con la Francia. E più che tutti i trattati, ebbe il suo pieno e rassicurante significato quella visita che il presidente Loubet rese al re d'Italia, proprio a Roma capitale del regno.
"La Lombardia" di Milano nel suo numero 46, ma anche "il Sole" di Milano, n.54, pubblicavano articoli poi ripresi anche dal Bollettino Ufficiale dei Mercati Italiani del 18 marzo 1904) con il singolare appello del Comm. Banfi; indirizzato "... a tutti coloro che intendono fare omaggio alla Francia e portare il loro saluto ad Emilio Loubet".


L'articolo del "Bollettino" era intitolato:
"Come si prepara un plebiscito a Loubet":
"L'arrivo ormai ufficialmente certo, del presidente Loubet in Italia per la fine di Aprile ha suscitato in molti il desiderio di manifestare la gioia degli italiani per la rinnovata amicizia fra l'Italia e la Francia. A Roma è sorto un comitato di feste; Torino e Milano, coi loro sindaci alla testa, raccolgono offerte per un ricordo al presidente Loubet. Ma gli altri comuni, specialmente i medi e i piccoli, che non possono mandare un proprio delegato, vogliono pure partecipare a questa esplosione di sentimento. E il modo di far partecipare anche i piccoli comuni, è stato genialmente trovato dal Comm. Banfi, che l'ha subito praticamente applicato.

Ha spedito a tutti i Comuni d'Italia (ben 8.000) delle schede pregando i rispettivi Sindaci di raccogliere delle firme, bollarle col timbro del Comune, e spedirle al Comitato dei festeggiamenti, il quale penserà a raccogliere tutte le schede per farne degli album da presentare al presidente Loubet quando avrà posto piedi in Italia.
Come si vede è una patriottica manifestazione che, mentre ha carattere di massima semplicità, riuscirà certo solenne e grandiosa e, non vi è dubbio, particolarmente gradita non solo a Loubet, ma anche a tutta la Francia.
Sarà questa una vera manifestazione plebiscitaria dei Comuni italiani, la quale dirà come tutta l'Italia ricordi i vincoli di fratellanza con la nazione francese".

Nota: La lettera di Banfi fu poi estesa anche a tutti i Presidenti di società italiane, e vi si diceva: "Molte Società hanno risposto all'appello inviando le schede con le firme dei Soci della loro Società.…Non dubitando che la Sua Società non vorrà essere esclusa, la prega di inviargli colla massima sollecitudine l'allegata scheda firmata dai Soci della Società da lei rappresentata". (Bollettino Ufficiale dei Mercati Italiani n. 78, del 18 marzo 1904).
Alla Triplice, ma soprattutto al Kaiser Guglielmo II diede molto fastidio prima queste iniziative e ancora di più le successive accoglienze entusiastiche riservate al francese, e non a lui il mese precedente.

Quanto sull'amicizia con l'Inghilterra, questa in Italia era quasi un dogma indiscusso; nemmeno i più accesi nazionalisti lo ponevano in discussione. Negli ultimi anni dell'Ottocento, l'Inghilterra che ancora pensava ai possibili ritorni dell'imperialismo francese, aveva visto nell'unificazione dell'Italia un mezzo radicale per sottrarre la penisola all'influenza dell'antica sua rivale; e si era anche data da fare cercando di promuovere e di incoraggiare un'espansione italiana in Africa, proprio per sbarrare la via alla Francia.

Ma torniamo indietro di qualche anno, che ci serve per ricapitolare alcuni avvenimenti
che abbiamo già velocemente trattato nei precedenti capitoli.

Annullato il trattato di Uccialli, le potenze europee fecero a gara per crearsi interessi in Etiopia. Nel 1896 la Francia ottenne da MENELIK la concessione ferroviaria Gibuti-Dirè-Dana-Addis Abeba; quindi concluse un trattato con il Negus per la delimitazione del suo protettorato sulla costa somala e in seguito poté fare accordare ai suoi sudditi, concessioni importanti di territori e di miniere.
L'Inghilterra, nel 1897 concluse con l'Etiopia un trattato di amicizia e di commercio, delimitò la frontiera verso l'Harrar, stipulò un accordo per il regime delle acque del Nilo e per le opere di sbarramento del lago Tana, ottenne ad Itang una stazione commerciale e la facoltà di congiungere il Sudan e l'Uganda con una ferrovia attraverso l'Abissinia; ebbe notevoli concessioni minerarie e, nel 1904, ottenne la facoltà di collegare, attraverso l'Etiopia, il Somaliland con il Sudan per mezzo di una strada ferrata.

Anche la Russia, che con il pretesto dell'affinità della religione aveva assunto l'aria di protettrice dell'Etiopia, cercò di crearsi degli interessi in quella regione, ma dopo gli avvenimenti d'Oriente, i Russi vi persero tutta quell'influenza che erano riusciti ad esercitarvi.
Invece la Germania vide crescere di giorno in giorno la sua influenza presso il Negus, fornendogli il medico (dott. Steinkuler), il precettore di LIGG IASU (dott. Paulow) e l'organizzatore del ministero (dott. Zintgraff) e stipulando con lui un vantaggiosissimo trattato d'amicizia e di commercio.

L'Italia, dopo la pace dell'ottobre del 1896, stipulò, il 10 luglio del 1900 il trattato relativo alla frontiera, e, più tardi, due convenzioni: una, il 15 maggio del 1902, per la delimitazione del confine tra l'Eritrea, il Sudan e l'Etiopia verso il Setit e l'altra il 16 maggio del 1908 per il confine tra l'Abissinia e la Somalia italiana, e tra l'Abissinia e l'Eritrea verso la Dancalia. Inoltre fu impiantata una linea telegrafica congiungente Massaua con Addis Abeba, e una società italiana ebbe l'autorizzazione di eseguire ricerche minerarie in territorio etiopico.

Il 13 dicembre del 1906 fu firmata a Londra una convenzione tra l'Inghilterra l'Italia e la Francia relativa all'Etiopia, con la quale i tre precisano i loro interessi in Abissinia impegnandosi a rispettarli reciprocamente. Quelli dell'Inghilterra erano costituiti dalla regolazione e dallo sfruttamento delle acque del Nilo e dalla costruzione delle ferrovie Sudan-Uganda e Sudan-Somaliland; quelli della Francia dalla costruzione della ferrovia Gibuti-Addis Abeba, quelli dell'Italia dal riconoscimento dell'hinterland dell'Eritrea e della Somalia in Etiopia e dalla facoltà di collegare le due colonie con una ferrovia.

Il 25 maggio del 1898 il Governo italiano aveva ceduto l'amministrazione della Somalia alla Società Anonima Commerciale Italiana del Benadir, costituitasi a Milano due anni prima. Cedendo l'amministrazione, il Governo si era impegnato di pagare ogni anno alla Società la somma di L. 400.000, che soltanto dopo dieci anni sarebbero potuto essere ridotte a 350.000. La Società a sua volta si era impegnata a provvedere all'amministrazione della giustizia, alla sicurezza del territorio, all'applicazione delle convenzioni di Berlino e di Bruxelles (1885-1890) circa l'abolizione della schiavitù, al servizio postale e allo sviluppo civile e commerciale della Somalia.

Ma la Società non fu in grado, anche per i pochi capitali di cui disponeva, di mantenere gli impegni e sopratutto non si curò di fare rispettare le convenzioni riguardanti la schiavitù, il che diede origine, negli anni 1903-1904 a tre inchieste condotte dai consoli PESTALOZZA e MERCATELLI e dall'on. GUSTAVO CHIESI e dall'avv. TIRELLI.
Solo allora il Governo italiano s'incaricò direttamente dell'amministrazione della colonia, mandandovi da Zanzibar il console MERCATELLI con l'incarico di Commissario generale, e riscattò i porti del Benedir con un accordo stipulato a Londra il 13 gennaio dei 190; con quest'accordo il sultano di Zanzibar, dietro il compenso di 3.600.000 lire, lasciava all'Italia il pieno possesso dei porti di Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsuik.

Avendo provveduto alla sistemazione della colonia, il Governo pensò ad assicurarne la tranquillità, minacciata seriamente da Mohammed ben Abdullah, meglio conosciuto col nome di MAD MULLAH, il quale, con lo scopo di creare uno Stato indipendente, aveva predicato la guerra santa contro gli Europei nella Somalia inglese costringendo l'Inghilterra ad organizzare diverse spedizioni. Il 5 marzo del 1905, il Governo italiano, per mezzo di PESTALOZZA, stipulò ad Illig con Mullah un accordo, con il quale gli concedeva il diritto di risiedere nei territori del Nogal e di Hod e la protezione italiana.

Nel febbraio del 1907, essendo i Bimal insorti, truppe italiane composte di indigeni li assalirono a Danane e inflissero loro una grave sconfitta. Nel luglio, nell'agosto e nel settembre del 1908, il maggiore ANTONINO DI GIORGIO, comandante delle truppe della Somalia, sconfisse gli insorti a Mellet e spinse l'occupazione fino a Barice e ad Alfgoi. Nel novembre, essendo sorti dissensi tra lui e il governatore CARLETTI, Di Giorgio rientrò in Italia e fu sostituito dal maggiore VINCENZO ROSSI, il quale completò l'occupazione del territorio dell'Uebi Scebeli sconfiggendo i ribelli a Bulabò e a Balad.

Un anno prima, e precisamente il 15 dicembre del 1907, a Bardale, presso Lugh, in uno scontro con una banda abissina di razziatori, erano caduti i capitani BONGIOVANNI e MOLINARI. Per impedire il ripetersi di simili incidenti, il Negus MENELIK e il capitano COLLI di FELIZZANO, rappresentante italiano in Etiopia, firmarono, il 16 maggio 1908, in Addis Abeba una convenzione con la quale, dietro compenso di tre milioni, l'imperatore riconobbe all'Italia il possesso di Lugh e una linea di confine che, partendo da Dolo, andava fino all'Uebi Scebeli.
Due anni dopo, con legge del 6 aprile 1908, si sistemò definitivamente la Somalia, la cui amministrazione fu affidata ad un Governatore civile e la difesa e la sicurezza ad un corpo di truppe coloniale e di polizia indigena.

LA CONFERENZA DI ALGESIRAS -
I RAPPORTI TRA L'ITALIA, LA GERMANIA E L'AUSTRIA -
VISITE E CONVEGNI

Per discutere la questione marocchina, il 16 gennaio del 1906 si riunirono ad Algesiras i rappresentanti del Marocco, della Germania, dell'Austria, della Francia, dell'Italia, dell'Inghilterra, del Belgio, della Spagna, del Portogallo, degli Stati Uniti, dell'Olanda, della Russia e della Svezia. Rappresentava l'Italia il vecchio ma abile VISCONTI-VENOSTA.
Le questioni relative alla repressione del contrabbando delle armi alla dogana furono facilmente risolte nelle prime sedute con altre di minor conto; ma le difficoltà sorsero quando si trattò di risolvere quella dell'organizzazione della polizia marocchina e della creazione di una banca, perché la Francia reclamava di organizzare la polizia con la collaborazione della Spagna e pretendeva che i capitali francesi nella costituenda banca, fossero illimitati, mentre la Germania voleva che la polizia fosse organizzata da ufficiali europei appartenenti a Stati di second'ordine e i capitali francesi fossero limitati.
Le due questioni furono risolte il 31 marzo con decisioni favorevoli alla Francia, la quale ebbe l'incarico insieme alla Spagna di organizzare la polizia. Quanto alla banca, pur lasciando la prevalenza al capitale francese, si stabilì di aprire pure a quello tedesco.

Il contegno del VISCONTI-VENOSTA, il quale alla conferenza d'Algesiras aveva appoggiato il punto di vista francese, indignò GUGLIELMO II e fece sì che la stampa germanica si scagliasse contro l'Italia accusandola d'infedeltà, ma nella seduta al Reichstag del 14 novembre 1906 il cancelliere BULOW dichiarò corretta la condotta dell'Italia e affermò che la Triplice possedeva "ancora il vantaggio, oltre che di assicurare la pace europea, di eliminare i conflitti fra le tre nazioni alleate".
Inutile dire che Bulow risentiva molto dell'egocentrismo del suo "cesarista" imperatore, e aveva molto meno comprensione e collaborazione di quella che dal sovrano riceveva invece Giolitti nel dirigere la politica estera.

Inoltre aggiungiamo queste note: se Tittoni era un filo-germanico, Bulow per gusti educazione e cultura era molto più italiano che tedesco, conosceva la storia d'Italia meglio di molti politici italiani; e appassionato dell'Italia lo divenne ancora di più quando il Cancelliere sposò la figlia di donna Laura Minghetti, una delle più colte e più brillanti dame dell'Italia umbertina.

A dissipare le nubi che avevano oscurato l'orizzonte italo-germanico valse la presenza alla Consulta di TITTONI, che ripetiamo, era amico sincero della Germania; il 18 dicembre di quello stesso anno, dichiarò alla Camera che "la Triplice avrebbe continuato ad essere la base della politica italiana e ad essa intendeva rimanere fedele": "In Italia - disse - non mancano quelli che hanno predetto che noi un giorno avremmo dovuto decidere a scegliere tra le alleanze e le amicizie. Ebbene, fino a che la Triplice Alleanza continuerà nell'azione pacifica, che è la sua caratteristica, e fino a che le Potenze a noi amiche persevereranno nella politica di pace, che ora seguono, noi non dovremo scegliere, né decidere; dovremo soltanto continuare nella politica attuale, per la quale la fedeltà alle alleanze ci permette di mantenere le amicizie assicurando in tal modo la pace in Europa. E questo non è artificio, non è machiavellismo, non è politica a partita doppia, come a torto è stato detto; ma è la via semplice, piana, che necessariamente si presenta a chi davvero desidera il mantenimento della pace".

Anche gli Alleati dell'Italia cercavano di dissipare le nubi e rinsaldare l'amicizia. Il 6 giugno del 1906, un mese circa dopo la chiusura della conferenza di Algesiras, GUGLIELMO II e FRANCESCO GIUSEPPE da Vienna inviavano a Vittorio Emanuele III, per telegrafo, una formale "espressione d'inalterabile amicizia"; il 24 giugno del medesimo anno, per il centenario di Custoza, ufficiali austriaci intervenivano alla cerimonia; e al giubileo del maresciallo Beck, capo dello Stato Maggiore austriaco partecipava ufficialmente il generale SALETTA, capo dello Stato Maggiore italiano, che ricevette a Vienna grandi accoglienze; sul finire del 1906, essendo a Ragusa, a Zara e a Sussak avvenute dimostrazioni antitaliane, il Governo austriaco chiedeva scusa all'Italia, la quale vedeva con piacere il cancelliere austriaco Golachowsky rimpiazzato dal barone AERHENTHAL che il 4 dicembre parlava delle "cordiali e sincere relazioni con l'Italia".

I due sovrani alleati avrebbero però voluto che fosse più docile e più ligio alla loro politica VITTORIO EMANUELE III. Questi invece pareva che tenesse molto alla sua indipendenza, specie in politica orientale, e quelli non videro di buon occhio il viaggio del re d'Italia ad Atene (8-12 aprile 1907) per restituire la visita fattagli nel novembre del 1906 dal re di Grecia.
Di ritorno dalla Grecia, Vittorio Emanuele fece una sosta in Sicilia, dove, il 14 aprile inaugurò l'Esposizione Agricola di Catania. Il 17 il re giunse a Gaeta, e il giorno dopo, s'incontrò con EDOARDO VII d'Inghilterra.
Dopo quello Francese (di Loubet del 1904) anche quest'incontro non poteva far piacere alla Germania, ma il Governo tedesco ritenne necessario nascondere il suo disappunto per non indebolire l'alleanza e BULOW il 30 aprile dichiarò al Reichstag: "Le relazioni amichevoli tra l'Inghilterra e l'Italia non solo sono conciliabili con la posizione dell'Italia nella Triplice, ma sono per questa, utili e desiderabili".

A queste dichiarazioni facevano riscontro quelle che TITTONI rivolgeva alla Camera il 15 maggio del 1907: "L'antica formula - fedeltà incrollabile alla Triplice Alleanza, amicizia sincera per l'Inghilterra e per la Francia e rapporti cordiali con le altre Potenze - rimane sempre l'esponente della nostra politica, e il modo schietto con il quale questa politica è praticata dall'Italia è il solo possibile".

Il 31 marzo del 1907 il BULOW aveva avuto un convegno a Rapallo con TITTONI; il 14 luglio fu la volta del barone AERHENTHAL che s'incontrò a Desio con lui, dal quale, il giorno dopo, fu accompagnato presso il re a Racconigi. Nei colloqui di Desio e di Racconigi si riaffermò l'accordo tra l'Italia e l'Austria sia in rapporto alla situazione generale europea sia sul mantenimento dello "status quo" nei Balcani e si convenne che alla scadenza (giugno 1908) il trattato della Triplice si sarebbe rinnovato fino al 1914.

Ma nell'animo dell'AERHENTHAL non albergava proprio per nulla il proposito di mantenere lo "status quo" nei Balcani; anzi desiderava e preparava in quegli stessi mesi, l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina e a questa annessione lasciò intendere il 22 agosto del 1907, quando TITTONI gli restituì la visita a Sommering.
Altra mira dell' AEHRENTHAL era quella di riaffermare l'egemonia austriaca nel prossimo Oriente, approfittando della prostrazione della Russia dopo la disastrosa guerra contro il Giappone. Egli, difatti, il 27 gennaio del 1908 comunicò alla Delegazione Ungherese l'idea di ottenere dal Sultano la concessione di una linea ferroviaria da Seraievo a Mitrovitza. La concessione fu data, ma la Russia e la Serbia ne furono allarmate e, d'accordo con la Francia e l'Italia, contrapposero al disegno austriaco quello di una ferrovia dal Danubio all'Adriatico.

Queste nuove nubi furono dissipate con l'incontro tra GUGLIELMO II e VITTORIO EMANUELE III a Venezia, avvenuto il 23 marzo del 1908; con la visita fatta dal BULOW a TITTONI e a GIOLITTI a Roma nell'aprile successivo; e cielo azzurro vi era alle feste del maggio a Vienna per il sessantesimo anno di regno di Francesco Giuseppe, durante le quali s'inneggiò alla Triplice.
Ma altre nubi dovevano di lì a non molto sorgere nel cielo della politica europea, e più volte il cielo non mostrò né l'azzurro né brillò il sole.

I GIOVANI TURCHI
L'ANNESSIONE ALL'AUSTRIA DELLA BOSNIA E DELL'ERZEGOVINA

IL DISCORSO DELL'ON. TITTONI A CARATE BRIANZA

Parve per un momento che i disegni di barone di AEHRENTHAL sul vicino Oriente dovessero fallire, quando nell'impero ottomano, nel luglio del 1908, capitanata da ENVER bey, scoppiò la rivoluzione dei "Giovani Turchi", che riuscivano ad ottenere la costituzione, a ravvivare il sentimento patriottico degli Ottomani e a liberare l'impero da qualsiasi influenza delle Potenze europee.
Ma l'astuto cancelliere austro-ungarico trasse profitto dalla situazione creata dalla rivoluzione turca per far guadagnare terreno all'Austria in Oriente, dove la politica sua e quella dell'arciduca ereditario FRANCESCO FERDINANDO avevano lo scopo di abbassare la Serbia con l'innalzare la Bulgaria, scongiurando così il pericolo che quella rappresentava: cioè di attirare nella sua orbita l'elemento slavo della monarchia austro-ungarica.

In seguito ad accordi tra i governi bulgaro ed austriaco, il 5 ottobre del 1908 la Bulgaria, che era vassalla della Turchia, proclamò la propria indipendenza, eleggendo re il principe FERDINANDO di SASSONIA Coburgo-Gotha ed annettendosi la Rumelia Orientale. Il giorno dopo, l'Austria, non tenendo conto dell'art. 25 del Trattato di Berlino, proclamò l'annessione della Bosnia Erzegovina che dal 1878 occupava militarmente ed amministrava in nome del Sultano, e ritirò le truppe dal sangiaccato di Novi Bazar.
L'azione del Governo austro-ungarico suscitò lo sdegno e le proteste di quasi tutte le nazioni europee, non esclusa l'Italia.
II 6 ottobre 1908, il ministro TITTONI, inaugurando a Carate Brianza il congresso lombardo delle scuole di disegno, volle accennare agli avvenimenti balcanici e, fra le altre cose disse:

"L'Italia può attendere serenamente gli avvenimenti perché, comunque si svolgeranno, non la sorprenderanno né la troveranno impreparata o isolata. La posizione che l'Italia ha oggi fra le potenze, la pone in grado di tutelare efficacemente i propri interessi e, al tempo stesso, di portare un efficace contributo alla causa della pace. Del resto non è da meravigliarsi se certi troppo sottili avvenimenti con i quali la diplomazia creò situazioni di diritto, che sono mere finzioni ed alle quali contraddice lo stato di fatto da esse contemporaneamente create, non resistono a lungo all'azione del tempo. Una cosa sola a noi importa ed è, da un lato, che la pace non sia messa in pericolo, e, dall'altro, che le possibili variazioni nella penisola balcanica non turbino l'equilibrio degli interessi e sopratutto non le turbino a nostro danno. Come noi ci siamo premuniti in tempo contro simili eventualità, lo dirò quando sarà i1 momento e forse gli avvenimenti lo diranno per me prima che io parli. Quindi, qualche mese fa fu posta all'improvviso la questione delle ferrovie balcaniche, io chiesi al Parlamento di attendere con calma e fiducia che il Governo desse conto dell'opera sua, e dell'attesa Parlamento e Paese non ebbero a pentirsi. Ebbene, oggi il Governo deve chiedere alla pubblica opinione la stessa fiducia nell'opera sua, poiché ha la coscienza che potrà dimostrare di averla pienamente meritata".

Il discorso del ministro degli Esteri, non era molto chiaro, anzi era molto oscuro, e addirittura fece credere che l'Austria avesse dato all'Italia compensi per l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina. Si parlò perfino della cessione del Trentino. Ma l'Italia -con il passare dei giorni, delle settimane e dei mesi- non ebbe nulla e l'indignazione contro TITTONI fu enorme, né scemò per le violente dimostrazioni irredentiste provocate dall'aggressione patita a Vienna da duecento studenti italiani per opera di duemila studenti austriaci; cosicché s'iniziò ovunque a gridare "abbasso Tittoni !" e a Roma fu bruciato il ritratto del ministro degli Esteri assieme a quelli di Giolitti e di Francesco Giuseppe.

DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA ESTERA
DICHIARAZIONE DELLA SERBIA

Il 1° dicembre del 1908 cominciò alla Camera la discussione sulla politica estera, che durò quattro giorni. La politica di TITTONI fu difesa dall'on. GUIDO FUSINATO che presentò e svolse una mozione di approvazione dell'opera della Consulta.
Invece molti parlarono contro la politica estera del Ministero; fra questi l'on. BARZILAI, il quale fece una critica spietata sull'opera di Tittoni e concluse, rivolgendosi al ministro degli Esteri:

"Guardi, io avrei creduto che ella, all'indomani dei fatti dolorosi per noi, e dolorosi certamente per lei, all'indomani dei fatti che hanno dimostrato a quale risultato di delusioni profonde la portavano le intimità con i cancellieri degli Stati alleati, in quel giorno io avrei creduto che un grande esempio ella avesse richiamato alla sua mente, alla sua coscienza. Non è doloroso privilegio suo quello di subire l'insuccesso o l'ingenuo nelle trattative con le potenze straniere.
Altri inganni vi furono. Fu un inganno che creò la Triplice Alleanza; come è un inganno oggi quello che l'ha virtualmente distrutta. Orbene, Benedetto Cairoli, dopo che Barthélémy Saint-Hilaire aveva assicurato Cialdini che lui non pensava all'occupazione del Bardo, quando il fatto smentì l'affidamento, disse: "io ritengo l'interesse del paese superiore alla difesa della mia persona; io non mi presento alla Camera, non voglio che la discussione alla Camera inacerbisca il dissidio tra l'Italia e la Francia: io sono un fallito della politica e mi ritiro". Ella, onorevole ministro, non seppe avere questo gesto, che avrebbe riabilitato l'opera sua, perché l'avrebbe definita come opera non fortunata, ma cosciente e, sopratutto, diretta alla tutela del Paese".

L'on. MIRABELLI, repubblicano, svolse una mozione sostenendo che tutta quanta l'azione diplomatica, implicante realmente e virtualmente un onere finanziario, doveva essere sottoposto all'esame e al sindacato del potere legislativo e disse:
"La politica segreta delle alleanze è un'anticaglia delle vecchie diplomazie. Un ministro qualsiasi non può essere arbitro dei destini di una nazione: la politica estera di una nazione deve essere fatta dalla nazione stessa".
Anche l'on. SONNINO criticò aspramente la politica di Tittoni e dell'intero ministero. "Non è mio desiderio - egli concluse - di esagerare l'individuale responsabilità dell'on. Tittoni. L'incerto e ripetuto oscillare tra direttive diverse così all'estero come all'interno, e il difetto d'armonia e di coerenza nell'azione del Governo nei vari rami della sua attività politica, provengono da tutto un metodo seguito dal presente Gabinetto considerato nel suo complesso; metodo, o mancanza di metodo, che antepone il parere all'essere; che si riduce a vivere sempre alla giornata, lasciandosi andare alla deriva secondo il mutare dei venti; che vede in ogni questione quasi il solo lato strettamente parlamentare in quanto l'una e l'altra soluzione possano influire sui voti a Montecitorio, e che tende a considerare sostanzialmente risolto ogni problema più grave e complesso, ogni volta che il Ministero abbia in proposito riportato soltanto un voto di fiducia politica".

L'on. BISSOLATI disse: "Noi accusavamo ed accusiamo anche oggi l'onorevole TITTONI di essere stato impari a quel compito cui lo chiamavamo, cui lo incoraggiavamo di eliminare i dissidi fra Italia ed Austria e di stringere possibilmente i legami d'amicizia fra i due Stati. E tanto più lo condanniamo e lo accusiamo in quanto oggi raccogliamo il frutto della sua debolezza e della sua remissività".

Il discorso più elevato e più giusto di tutto il dibattito fu quello pronunziato il 3 dicembre dall'on. FORTIS. Egli, fra l'altro, toccò con molta sincerità il tasto degli anormali rapporti italo austriaci:

"Io e i miei amici vogliamo rimanere, malgrado tutto, fedeli alla Triplice Alleanza, che abbiamo sempre sostenuta e difesa. Dico malgrado tutto, perché .... questa fedeltà .... ci viene resa di giorno in giorno più difficile. E così non dovrebbe essere. Anche ieri, da uno dei più convinti fautori della Triplice Alleanza l'on. Sonnino, abbiamo sentito qualche lagnanza. Io voglio essere più rude; e dirò che non mi lamento dei mali trattamenti usati ai nostri connazionali soggetti all'impero austro-ungarico e non voglio troppo affliggermi delle rappresaglie immeritate, dei giudizi ingiusti, di tutto un insieme di piccole contrarietà, che pure rendono amara la vita. Io di un'altra cosa mi lagno, che mi dà molta pena e mi cagiona gravi apprensioni, ed è la misura veramente straordinaria degli armamenti della nostra vicina alleata. La situazione è piuttosto grave ed è molto dolorosa. Io confido che l'abilità, e la buona volontà dei due Governi, come riuscirono fin qui ad evitare gravi inconvenienti, così riusciranno ad evitarli in avvenire. Ma ad ogni modo io prevedo il giorno in cui bisognerà dire a nostra volta al barone di Aerhenthal, o a chi per lui, con il proverbio italiano: Patti chiari ed amicizia lunga. O cessa questa condizione anormalissima di cose, per cui l'Italia non ha ormai da temere la guerra che da una potenza alleata .... o non può cessare, ed allora riprendiamo serenamente la nostra libertà d'azione .... Intanto pensiamo ai casi nostri .... Qui dentro siamo tutti concordi, e se anche non lo fossimo noi, è concorde il paese tutto nel volere che il Governo domandi il sacrificio che occorre per completare la nostra difesa, per mettere la nostra potenza militare in condizione di garantire la pace".

FORTIS con gli applausi fragorosi che coronarono il suo discorso, indubbiamente aveva interpretato il pensiero di tutti; il suo successo fu enorme, ministri e deputati corsero a baciarlo ed abbracciarlo e fra questi ci fu lo stesso GIOLITTI.
Il giorno dopo, l'on. TITTONI si difese con un lungo discorso in cui dimostrò che all'Italia non spettavano compensi territoriali, rimproverava l'Austria di avere suscitato con l'annessione tanto sdegno in Europa, si diceva favorevole ad una conferenza europea e concludeva col dire che si associava alla proposta di aumentare le forze militari e col dichiarare che i recenti avvenimenti non potevano modificare la politica estera italiana basata sulle alleanze e sulle amicizie.
Dopo un discorso dell'on. GIOLITTI, che osannava al grande avvenire della nazione, la Camera approvò con 297 voti contro 140 la mozione FUSINATO.

Tuttavia l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina minacciò di accendere un gravissimo conflitto europeo. Se ciò non avvenne lo si dovette all'impreparazione militare della Russia in seguito alle sconfitte subite per opera del Giappone, al mancato appoggio all'impero moscovita della Francia e dell'Inghilterra, all'accordo della Turchia con l'Austria, che pagò alla prima 54 milioni di corone.
Rimasta sola e minacciata da un concentramento di truppe austriache alla frontiera, la Serbia, alcuni giorni dopo che la Russia aveva riconosciuto l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina, dovette sottoscrivere la seguente dichiarazione impostagli dall'Austria (31 marzo 1909):

"La Serbia riconosce che non è stata colpita nei suoi diritti dal fatto compiuto nella Bosnia Erzegovina e quindi essa si conforma alle decisioni delle Potenze circa l'articolo 25 del Trattato di Berlino. Accettando i consigli delle Grandi Potenze, la Serbia s'impegna da questo momento ad abbandonare l'attitudine di protesta e di opposizione assunta verso l'annessione dall'autunno scorso e s'impegna inoltre verso l'Austria-Ungheria per vivere con quest'ultima come una buona vicina. In conformità di queste dichiarazioni, e fiduciosa delle intenzioni pacifiche dell'Austria-Ungheria, la Serbia ricondurrà il suo esercito allo stato della primavera del 1908, in ciò che concerne la sua organizzazione, la sua dislocazione ed il suo effettivo".
La soluzione al problema slavo, non era stata trovata ma solo rimandata.

SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA ED ELEZIONI POLITICHE
INAUGURAZIONE DELLA XXIII LEGISLATURA
IL DISCORSO DELLA CORONA
IL CONVEGNO DI RACCONIGI DEL RE D'ITALIA E LO ZAR NICOLA II
ACCORDO ITALO-RUSSO

Con il decreto dell'8 febbraio del 1909 la Camera fu sciolta e convocati i comizi elettorali per le elezioni del 7 e 14 marzo.

Votarono 1.903.687 elettori, il 65% degli aventi diritto.
I risultati furono favorevoli al Ministero Giolitti; tuttavia l'Estrema Sinistra si accrebbe di una trentina di deputati: i socialisti, infatti, da 26 salirono a 42, i repubblicani da 20 a 23, i radicali da 36 a 49. Il partito cattolico, che in quattro anni si era fortemente organizzato, mandò al Parlamento 24 rappresentanti.


Nelle liste dei radicali il collegio di Montegiorgio di Fermo nelle Marche, elesse deputato anche con i voti dei socialisti, il prete don ROMOLO MURRI, uno dei capi del "modernismo", da Pio X nel 1907 scomunicato e sospeso a "divinis" per la sua attività politica, il quale andò a sedere, in abito talare, tra i radicali.

La XXIII Legislatura fu inaugurata a Palazzo Madama il 24 marzo con il seguente discorso della Corona:

"Nella solennità di questo giorno, mentre cordialmente si rivolge a voi la mia parola bene augurando ai lavori della Legislatura che s' inizia, avverto anche più intenso quel cordoglio che tuttora rimane profondo nell'animo mio. La furia distruggitrice della natura, immensa e terribile come non fu mai, aprì la più crudele piaga nel cuore della Patria, atterrando due città fra le più nobili e belle, di cui l'Italia andasse superba, e funestando intere regioni di rovine e di lutti. Ma fu conforto che, di contro alla catastrofe orrenda, pur rifulgessero eroismi individuali e virtù collettive. Mentre, con serena coscienza del proprio dovere e con alto spirito di abnegazione, l'esercito e l'armata attendevano all'ardua e perigliosa opera di soccorso, una commovente concordia fraterna avvinse gli Italiani di ogni parte in uno slancio solo di affetto, di carità, di sacrificio. E con luminoso esempio di solidarietà umana, tutte le Nazioni civili, partecipando alla nostra sventura, offrirono il cuore e le braccia dei valorosi loro figli, rivolsero ai superstiti le più provvide cure, ci confortarono di amichevole simpatia, così che il dolore d'Italia apparve e fu veramente dolore del mondo. Il sentimento di riconoscenza, che a tutti esprimo, confermi il proposito nostro che Messina e Reggio rinascano ad un avvenire degno del loro glorioso passato".

Quindi il re accennò alla riforma tributaria, alla ricostituzione del patrimonio forestale, alla trasformazione della scuola, alla riorganizzazione delle forze militari e concluse dicendo che l'Italia avrebbe sinceramente raggiunta la meta assegnatele dalla sua gloria secolare e dalla sua fiorente giovinezza.
Della questione balcanica non un accenno. Eppure tutta Italia, a parte il terremoto, parlava solo di quello.

A presidente della Camera fu confermato l'on. MARCORA; tra i vicepresidenti fu eletto con 113 voti il socialista ANDREA COSTA. Dopo queste elezioni, cominciò la discussione sulla risposta al discorso della Corona e gli onorevoli PANTANO e MIRABELLI attaccarono il Governo per la sua politica passata e poi chiese il programma che intendeva svolgere.
GIOLITTI pose la questione di fiducia, e la Camera con 179 voti contro 74 approvò le dichiarazioni del presidente del Consiglio.

Il 4 aprile, il senatore CASANA, vivamente osteggiato dall'elemento militare, diede le dimissioni da ministro della Guerra e fu sostituito dal tenente generale PAOLO SPINGARDI. In quello stesso tempo una violenta offensiva fu condotta dall'on. NITTI, dall'Estrema e da un gruppo della Sinistra, contro l'on. COCCO-ORTU, ministro dell'Agricoltura. E ancora più violenta fu quella ingaggiata gli ultimi giorni di maggio dall'Estrema contro il Governo, accusato di tresca con i clericali; ma un ordine presentato dal radicale ALESSIO fu a grandissima maggioranza respinto.

La lotta contro i clericali tornò a divampare nell'ottobre del 1909, in seguito alla fucilazione, avvenuta in Spagna, di FRANCISCO FERRER, fondatore della scuola laica. Le democrazie italiane, che forse non avevano mai prima di allora udito il nome dell'agitatore spagnolo, si commossero; in Italia ci fu uno sciopero generale di protesta e in ogni città fu intitolata al Ferrer una via o una piazza.
Il 23 di quello stesso mese di ottobre, nonostante le minacce dei socialisti (che già avevano impedito la sua visita nel 1904) giunse in Italia lo ZAR NICOLA II, che finalmente rendeva la visita a Vittorio Emanuele III. La visita però, anziché a Roma, fu resa, per precauzione, a Racconigi, dove fu invitato ERNESTO NATHAN, il massone sindaco di Roma, che portò allo zar l'omaggio della capitale italiana.
Conseguenza del viaggio dello zar fu l'accordo seguente (segreto, e che conosceremo molti anni più tardi) firmato a Raccongi il 24 ottobre dall'on. TITTONI e da ISVOLSKI:

"I. - La Russia, e l'Italia s' impegnano, in prima linea, al mantenimento dello "status quo" nella Penisola Balcanica.
II. - Per ogni eventualità che potesse nascere nei Balcani, le due Potenze appoggeranno l'applicazione del principio di nazionalità, mediante lo sviluppo degli Stati balcanici, ad esclusione d'ogni dominio straniero.
III. - Le due Potenze si opporranno, con un'azione comune, ad ogni tendenza a fini contrari a quelli espressi; per azione comune s'intenderà un'azione diplomatica, ogni azione d'indole diversa dovendo naturalmente restare riservata ad una intesa ulteriore.
IV. - Se la Russia e l'Italia intendessero stipulare per l'Oriente europeo accordi nuovi con una terza Potenza, oltre quelli attualmente esistenti, ognuna di esse non potrebbe farlo che con la partecipazione dell'altra.
V. - L'Italia e la Russia s'impegnano a considerare con benevolenza, l'una gl'interessi russi nella questione degli Stretti, l'altra gl'interessi italiani in Tripolitania e Cirenaica.

La visita dello Zar al sovrano d'Italia, ovviamente suscitò vivo malcontento in Germania e in Austria, specialmente in Austria, dove si faceva di tutto per mostrare ostilità all'Italia, e dove l'Italia aveva due nemici accaniti e potenti: l'arciduca ereditario FRANCESCO FERDINANDO e il capo di Stato Maggiore CONRAD von HÓTZENDORFF. Quest'ultimo non si stancava mai di fare piani d'invasione in Italia e dal consigliare l'imperatore a dichiararci la guerra. Un giornale vicino ai vertici militari, il "Danzer's Armèe Zeitung", con un articolo giunse a proporre di scatenare una guerra preventiva contro l'Italia all'indomani del terremoto calabro-siculo; sostenendo che con la nazione in ginocchio, quello era il momento più propizio per attaccare. Aerhenthal si dissocerà dal contenuto dell'articolo; ma a Tittoni non bastava e presentò le dimissioni, che poi Giolitti persuase a ritirarle. Bisognava "sdrammatizzare"; Tittoni ubbidì e tornerà a riprendere le trattative per la definizione (Sic) della questione balcanica.

IL FAMOSO DISCORSO DEL GENERALE ASINARI

Un imbarazzante incidente con l'Austria ci fu nel novembre del 1909. L'11 di quel mese, il generale ASINARI di BERNEZZO, comandante del Corpo d'Armata di Milano, assistendo a Brescia all'inaugurazione della bandiera che le donne di Aquila avevano donata al reggimento di cavalleria residente in quella città, pronunziò questo discorso:

"Carlo Alberto diede l'insegna tricolore al suo Regno, mentre essa veniva innalzata contro il nemico sugli spalti di Brescia e di Venezia, rinnovanti le gesta dell'antico valore italico. Vittorio Emanuele II la fece sventolare in Campidoglio dinanzi a tutta l'Europa ammirata. Umberto I la difese eroicamente nel quadrato di Villafranca. Vittorio Emanuele III la regge alteramente dall'alto del Gran Sasso d'Italia con lo sguardo rivolto all'Oriente, donde tante città sorelle guardano ansiose al Leone di San Marco aspettando la loro liberazione. Voi, Colonnello, potete chiamarvi fortunato di trovarvi in questa città, perché dalle sue stesse mura apprendete una delle pagine più belle del Risorgimento italiano. Da questa medesima caserma si spiegano al vostro sguardo le colline bagnate di sangue di tanti martiri e di là, non troppo lontane, le terre irredente, le quali attendono l'opera vostra. Le donne aquilane confezionarono il vostro stendardo ufficiale; sappiate portarlo al sole della vittoria".

Il Governo di Vienna protestò per le parole pronunciate dal generale e lo "sdrammatizzatore" GIOLITTI, ligio ai voleri dell'Austria, collocò a riposo il generale ASINARI di BERNEZZO, cui però giunsero plausi da ogni parte d'Italia.
Quello contro il comandante del Corpo d'Armata di Milano fu uno degli ultimi provvedimenti politici presi dal terzo Ministero Giolitti, destinato a vivere un'altra ventina di giorni ancora.
Il suo errore fu quello come il solito di "sdrammatizzare" gli eventi, con lo stesso atteggiamento di sorridente scetticismo col quale aveva considerato, all'inizio del secolo, la lotta di classe in Italia. Giolitti era persuaso che tutte le crisi, in un modo o nell'altro, si sarebbero risolte pacificamente.

Così l'Italia in Libia (che leggeremo nel prossimo capitolo), Giolitti era sì riuscito ad impedire che l'Italia fosse coinvolta nella prima guerra balcanica; ma agli Imperi centrali con la "questione Libia" si limitò a chiedere ai due suoi alleati il riconoscimento della sovranità italiana in Libia, e rinnovò pure il 5 dicembre 1912, la Triplice Alleanza (con scadenza l'8 luglio 1914 - dieci giorni prima di quel giorno ci sarà l'assassinio dell'Arciduca a Sarajevo).
A Giolitti da molte parti quel rinnovo della Triplice gli fu rimproverato, che avrebbe dovuto essere più guardingo nel firmarlo, in considerazione dei segni premonitori della guerra generale, che erano già evidenti.
Il colpo che era stato inferto alla Turchia con le due guerre, aveva acceso e stava esaltando i vari nazionalismi balcanici, e quindi inconsapevole o no, Giolitti pur occupando Tripoli sparse tante micce sui Balcani, tutte pronte ad accendersi alla minima scintilla.

Non solo, ma il più civile e moderato nazionalismo che si manifestò in Italia tra il 1914 e il 1915, era stato messo in movimento proprio dalla conquista della Libia.

(qualcosa del genere si ripeté all'inizio degli anni 1990; il "Muro" era caduto a Berlino, ma è sui Balcani che riesplosero i nazionalismi; gli stessi di questo periodo giolittiano e che poi portarono alla Grande Guerra).

LE CONVENZIONI MARITTIME
IL DISEGNO DI LEGGE SUI PROVVEDIMENTI FINANZIARI
DIMISSIONI DEL MINISTERO GIOLITTI


Essendosi la Navigazione generale italiana rifiutata di continuare a tenere l'esercizio dei servizi marittimi, il ministro delle Poste e Telegrafi, on. Schanzer, aveva stipulato nuove convenzioni con il Lloyd Italiano. Le nuove convenzioni incontrarono viva opposizione nel Paese e nella Camera e invano furono strenuamente difese dal ministro SCHANZER nella seduta parlamentare del 30 giugno 1909. Fu tale l'opposizione che il senatore PIAGGIO, rappresentante del Lloyd Italiano, con una lettera diretta al presidente del Consiglio, rinunciò alle convenzioni stipulate. L'8 luglio, Giolitti, dopo avere comunicato alla Camera la lettera, chiese la sospensione del dibattito sul disegno di legge e la Camera, accettata la proposta, prese le vacanze estive.

Il 18 novembre, l'on. Schanzer presentò gli emendamenti apportati al disegno sulle convenzioni marittime, ma l'opposizione non disarmò. Allora l'on. Giolitti, che desiderava sbarazzarsi di alcuni membri del suo Gabinetto e forse anche di prendersi un po' di riposo, pensò di dimettersi, ma per non mostrare che anche questa volta "fuggiva" a causa delle difficoltose convenzioni, presentò alcuni (improponibili) disegni di legge, tra cui uno di riforma tributaria con il titolo di "provvedimenti finanziari", che fissava un'imposta progressiva globale sui fabbricati, sui terreni e sui redditi di ricchezza mobile.
Gli uffici della Camera disapprovarono quasi all'unanimità i provvedimenti finanziari, e il 2 dicembre GIOVANNI GIOLITTI annunciò che il Ministero aveva rassegnato le dimissioni.

IL SECONDO MINISTERO SONNINO
IL MINISTERO LUZZATTI - ATTIVITA LEGISLATIVA

IL DISEGNO DI LEGGE SULLA RIFORMA ELETTORALE
DIMISSIONI DEL LUZZATTI IL QUARTO MINISTERO GIOLITTI
IL DISEGNO DI LEGGE SULLE ASSICURAZIONI
IL CINQUANTENARIO DEL REGNO D' ITALIA

Dietro indicazione dello stesso GIOLITTI il Re affidò l'incarico di costituire il nuovo ministero all'on. SONNINO, che lo formò il 10 dicembre del 1909 prendendo per sé la presidenza del Consiglio e gl'Interni e affidando gli Esteri al GUICCIARDINI, le Finanze all' ARLOTTI, il Tesoro a SALANDRA, la Guerra a SPINGARDI, la Marina a BETTOLO, la Grazia e Giustizia a SCIALOJA, l'Agricoltura a LUZZATTI, i Lavori Pubblici a RUBINI, l'Istruzione a DANEO, le Poste e i Telegrafi a DI SANT'ONOFRIO.

Il nuovo Gabinetto Sonnino era destinato ad avere vita brevissima: solo un centinaio di giorni, come il primo. Si dimise il 21 marzo del 1910 a causa delle opposizioni incontrate dal disegno Bettòlo sulle convenzioni marittime e specialmente perché Giolitti si rifiutò di continuare ad appoggiarlo.

L'incarico di formare il nuovo ministero fu dato all'on. LUZZATTI, che il 31 marzo prese la presidenza e gl'Interni, conservò il generale SPINGARDI alla Guerra e mise agli Esteri DI SAN GIULIANO, l'on. LUIGI FACTA alle Finanze, l'on. TEDESCO al Tesoro, l'on. SACCHI al Lavori Pubblici, l'on. LUIGI CREDARO all'Istruzione, l'on. FANI alla Grazia e Giustizia, CIUFFELLI alle Poste e Telegrafi, l'on. LEONARDI-CATTOLICA alla Marina e l'on. RAINERI all'Agricoltura.

LUZZATTI fornì prova di molta attività e di molta abilità. Il disegno di legge sulle Convenzioni marittime, che era stato lo scoglio contro di cui si era sfasciata la nave dei due precedenti ministeri, fu approvato il 28 maggio del 1910. Approvata fu anche la legge sull'istruzione primaria che DANEO aveva preparata. Inoltre furono emanati decreti in favore delle Puglie, promosse inchieste sui conflitti agrari della Romagna, apportato migliorie al sistema ferroviario, aumentate le paghe ai ferrovieri, stanziati 250 milioni di mutui per i comuni, istituito il Demanio forestale, caldeggiata la riforma del Senato e proposto un allargamento del voto politico con un disegno che, presentato alla Camera il 21 dicembre del 1910, riscosse il favore della maggioranza degli Uffici.

Ma l'attività di LUZZATTI, smanioso di popolarità, sembrava volesse sottrarsi alla tutela giolittiana, non poteva non ispirare preoccupazioni all'on. GIOLITTI, il quale, creduto giunto il momento di riafferrare le redini del potere, si servì del disegno sulla riforma elettorale per fare lo sgambetto a Luzzatti.
La riforma elettorale che prima era stata appoggiata proprio dai giolittiani si trovò ad un tratto, osteggiata da loro stessi. Il BERTOLINI, relatore, in nome della Commissione parlamentare che aveva esaminato il disegno di legge, ne chiese il rinvio. Il 18 marzo, la Camera, discussa la relazione, a gran maggioranza accettò il rinvio. I ministri Sacchi e Credaro, avendo il gruppo radicali, cui essi appartenevano, dato il voto contrario, si dimisero e il 20 marzo, l'on. Luzzatti, rimasto solo, presentò anche lui le dimissioni.

Ottenuto quello che voleva, e avuto l'incarico di formare il nuovo ministero, GIOLITTI lo costituiva il 31 marzo del 1911, prendendo la presidenza del Consiglio e gli Interni, chiamando alle Poste e ai Telegrafi l'on. CALISSANO, alla Grazia e Giustizia l'on. FINOCCHIARO e all'Agricoltura, Industria e Commercio l'on. NITTI e lasciando DI SAN GIULIANO agli Esteri, SPINGARDI alla Guerra, LEONARDI-CATTOLICA alla Marina, FACTA alle Finanze, TEDESCO al Tesoro, SACCHI ai Lavori Pubblici e CREDARO alla Pubblica Istruzione.

Il 6 aprile l'on. GIOLITTI espose al Parlamento il suo programma, in cui erano compresi il monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili sarebbero andati a beneficio del fondo per le pensioni operaie, e l'allargamento del suffragio politico e amministrativo a tutti coloro che avevano servito sotto le armi o compiuti i trent'anni. Iniziatosi il dibattito, le dichiarazioni del Governo furono combattute dal centro destra e dal centro sinistra per mezzo degli onorevoli SONNINO e MARTINI e difese da BERTOLINI e da BISSOLATI.
Il giorno 8 aprile, l'ordine del giorno di fiducia al Ministero, presentato dall'on. CAREANO, fu approvato.

Il disegno di legge sulle assicurazioni fu presentato ai primi di giugno. Gli Uffici fecero buon viso al disegno, ma alla Camera trovò vivissima opposizione. BERTOLINI presentò allora un emendamento, che limitava il monopolio ai contratti inferiori alle 15.000 lire e lo Stato, nei contratti dei primi sei anni, rimaneva in concorrenza con le compagnie assicuratrici. L'8 luglio il disegno fu approvato in prima lettura. Esso divenne legge l'anno dopo. Il disegno della riforma elettorale fu invece presentato il 3 giugno e sollecitamente approvato dalle due Camere.

Mentre quest'attività legislativa si esplicava, tutta la nazione celebrava il cinquantenario del Regno d'Italia. Il 17 marzo 1911, fu commemorato al Parlamento il giorno della proclamazione del Regno fatta a Torino, il 27 marzo una solenne cerimonia celebrativa avveniva in Campidoglio alla presenza del sovrano; questi il 4 giugno inaugurava a Roma il monumento nazionale a Vittorio Emanuele II e, nel frattempo, a Roma e a Torino si inauguravano due grandi esposizioni e la reale Accademia dei Lincei promuoveva una pubblicazione con l'intento di rilevare tutti i progressi fatti dall'Italia nel cinquantennio della sua unità ed indipendenza.
Fra le voci solenni dei discorsi commemorativi che esaltavano, non senza retorica, l'opera del Risorgimento, si alzava gagliarda intanto la voce dei giovani liberali e dei nazionalisti, che -sognando prosperità e grandezza- in un altro modo volevano celebrare il cinquantenario del Regno: "spingendo" l'Italia verso le coste libiche.
Ma non erano solo gli italiani a esaltarsi con la campagna nazionalista, che quasi tutti i giornali "spingevano", ma anche il Re e Giolitti giudicarono che il momento propizio era arrivato…

…di questo momento e di questa guerra ("desiderata" da molti)
ci occuperemo nel prossimo capitolo

… che abbraccia buona parte del rimanente anno 1911

 

LA GUERRA TURCA (Libia) - LA VIGILIA
- L' ULTIMATUM
REAZIONE AL "GIOLITTISMO" - I GIOVANI LIBERALI E I NAZIONALISTI - LA CAMPAGNA NAZIONALISTA PER LA CONQUISTA DELLA LIBIA - I RAPPORTI ITALO-TURCHI - VIGILIA DI GUERRA - L' ULTIMATUM ITALIANO ALLA PORTA - LA PRIMA NOTA ITALIANA ALLE POTENZE - RISPOSTA DELLA TURCHIA ALL'ULTIMATUM - DICHIARAZIONI DI GUERRA - SECONDA NOTA ITALIANA ALLE POTENZE -
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REAZIONE AL « GIOLITTISMO » - I GIOVANI LIBERALI E I NAZIONALISTI
LA CAMPAGNA NAZIONALISTA PER LA CONQUISTA DELLA LIBIA

 

Il 30 Marzo del 1911, Giolitti dopo aver ottenuto quello che voleva (le dimissioni di Luzzatti), e avuto l'incarico di formare il nuovo ministero, riprendeva le redini del potere. Presentando alla Camera il suo programma il 6-8 aprile, nonostante la sua celebre frase all'indirizzo dei socialisti da qualche tempo moderati (disse infatti "Carlo Marx è stato mandato in soffitta"), il gruppo parlamentare socialista voterà compatto la fiducia al IV governo Giolitti; che ottenne 340 voti a favore, 88 contrari e 9 astenuti.
E' questo il periodo giolittiano dove la destra e la sinistra avevano perduto quasi ogni significato: Sonnino, Luzzatti, Fortis, Salandra, componevano i loro ministeri con uomini di destra o di sinistra, indifferentemente. Ma il caposcuola, o meglio chi tirava i fili anche quando era in "fuga" e c'erano altri a fare il premier, rimaneva, lui, il pedagogo Giolitti. Molti nuovi deputati, entravano per la prima volta dalla porta di sinistra, facevano qualche esperienza e dopo brevissimo tempo dopo aver fatto il giro del semicerchio, li ritrovavi che entravano dalla porta destra. Gli uomini che avevano guidato i fasci di Sicilia

Molti dei nuovi da introdurre nella politica attiva, li sceglieva Giolitti stesso, li faceva eleggere deputati e li seguiva con occhio vigile, anche se erano dei rivoluzionari; lui sapeva che dopo un solo anno di vita parlamentare, anche il più acceso rivoluzionario si ammorbidiva, e accettava certe norme di convivenza con gli avversari. Ai parlamentari che rivelavano certe attitudini, faceva fare il giro dei ministeri chiave, e quando voleva riprendere un po' di forze (o evitare grossi scogli) ritornava al suo banco di deputato, ed uno dei suoi discepoli saliva per qualche mese alla presidenza, poi tornava lui.
Lui e il re, operando così, in apparenza sotto la modestia e la mediocrità, senza scosse e senza rivoluzioni, in undici anni avevano portato il Paese ad accettare questa politica che alcuni definivano "priva di ideali e di fede"; e che a forza di "sdrammatizzare" avevano entrambi, re e primo ministro, visti da una parte svuotato completamente le rivendicazioni rivoluzionarie delle masse operaie, e visti dall'altra parte addormentato la politica, il nazionalismo, "fatto ammalare il partito liberale; una malattia che covava già da tempo pericolosamente, fin dalla crisi del 1896, che aveva preso e abbattuto il vecchio glorioso partito del Risorgimento nel suo massimo e degno superstite, Francesco Crispi. Da allora il partito liberale visse, o sopravvisse, come potè, senilmente, di riguardi e di cure, ben tappato in casa, difendendosi dai colpi d'aria della propaganda socialista con la pesante coltre dell'alleanza elettorale cattolica".


Questo e altro scriveva LUIGI FEDERZONI, su "L'Idea Nazionale", foglio di destra con un nutrito gruppo di intellettuali (Corradini, Davanzati, Rocco, Oliva ecc.) impegnati politicamente nel nazionalismo; settimanale finanziato da imprenditori e operatori finanziari (poi divenne quotidiano dall'ottobre 1914, quando s'impegnerà a propagandare l'interventismo).

L'errore di molti fu di considerare i due soggetti senza ambizioni, deboli e scettici; mentre invece l'ambizione era smisurata; infinitamente piu grande e audace che non il posteriore mussoliniano sogno imperiale.
Solo il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, fin dal 1903, se ne accorse, e lamentandosi con Bulow e Guglielmo, osservò che il re d'Italia era "troppo attivo e troppo ambizioso".
Alberto Consiglio, nella Biografia del "re silenzioso", scrive "...testimonianza preziosa quella di Bulow, che desterà un grande stupore in chi è abituato a giudicare V.E. III un sovrano debole. La verità dunque è diversa. Non è, dunque, azzardato concludere che la politica di Giovanni Giolitti, fu nei primi quattordici anni del secolo, anche la politica di Vittorio Emanuele III, e che il Re fu il principale ispiratore e collaboratore del suo ministro". (e allora perchè non pensare che fu (dietro le quinte) anche il principale ispiratore e collaboratore del successivo? Lo Statuto non lo usò fino al 25 luglio 1943; solo quel giorno si ricordò che aveva la facoltà di potersi avvalere di quello)

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Ritorniamo al 1911, quando tutti credevano che il Re e Giolitti, da quando insieme fecero i primi passi, erano entrambi deboli, cioè due soggetti che vivevano alla giornata, con tendenze non belliciste, non imperialiste, non nazionaliste. Questo bonario "giolittismo", da alcuni gruppi accusato di essere "privo di ideali e di fede", a lungo andare non poteva non suscitare una viva reazione nell'animo di quei giovani che, aborrendo le livellazioni del socialismo, disprezzando il pacifismo e la politica del piede di casa e quella supina acquiescenza agli imperi centrali, univano al sentimento patrio l'orgoglio nazionale e sognavano per l'Italia un avvenire di prosperità e di grandezza.

E se la reazione della massa non era proprio del tutto spontanea, bastava dare risalto a quelle voci che diffondevano in tutti i modi -la stampa in prima fila- questi "grandi" sentimenti nazionalistici, che mandavano indietro la memoria all'epoca di Scipione.

A questo punto il Re e Giolitti -che da tanto tempo lo aspettavano- giudicarono che il momento propizio era arrivato. E si prepararono bene, loro due, in silenzio.
Propizio anche all'esterno per una serie di motivi: la crisi marocchina che aveva portato la Francia ad un pelo dalla guerra con la Germania, andava placandosi; certo la Francia non poteva essere contenta di vedere l'Italia in Libia, però dopo la questione marocchina, non avrebbe potuto stendere la mano sulle due ultime province africane dell'Impero Ottomano, senza scatenare un conflitto generale. Tanto più che la Germania e l'Austria perseguivano con ogni mezzo la politica del "Drang nach Osten", appoggiando energicamente il regime modernista e nazionalista dei "giovani turchi".
Non poteva essere sfavorevole all'impresa dell'Italia, la Russia, per via delle sue tradizioni antiturche. Né lo era l'Inghilterra, che temeva l'insediamento della Germania nel Mediterraneo. Né a sua volta la Germania che temeva di perdere con l'Italia una preziosa alleata. Infine la stessa Austria non poteva assumere un atteggiamento diverso da quello della Germania.

Ma oltre a questi motivi, le suddette nazioni nemiche o amiche pensavano tutte ad una sola cosa: che l'Italia si sarebbe rotta il muso per la seconda volta in Africa; anche perché l'esercito italiano non riscuoteva tanto credito negli ambienti militari internazionali; inoltre il valore dei Turchi tutti lo avevano sperimentato sulla propria pelle.

Quello che accadde prima, durante e dopo la guerra, fu invece un capolavoro di discrezionalità e d'abilità diplomatica e militare. Ma tutto era già stato deciso da molto tempo nei più minuti particolari. L'ora X la conosceva solo Giolitti e il Re, e nell'ultima fase, quella operativa, solo il capo di stato maggiore e il ministro degli esteri San Giuliano.
Come vedremo in queste e nelle prossime pagine, nell'arco di poco più di un anno, l'Italia dichiarò: all'improvviso guerra alla Turchia; sconfisse le sue forze armate; proclamò unilateralmente la sovranità sulla Libia; costrinse l'impero Ottomano a trattare direttamente con l'Italia senza ingerenza delle altre potenze; e infine indusse la Turchia a riconoscere le sue conquiste. Il tutto mantenendo (ma solo apparentemente) inalterate le buone relazioni con le altre potenze.

Ricordiamo qui, che quando parliamo di Libia, ci riferiamo alla Tripolitania e alla Cirenaica. Solo dopo la conquista fu dato il nome a questo riunito territorio, con l'antico nome romano.

Già all'inizio del 1911 in Italia, messa in giro ad arte e in sordina, l'idea di un'occupazione della Libia incominciava a raccogliere consensi anche in alcuni ambienti socialisti e dei sindacati. Le voci di dissenso furono davvero poche; e tra queste si distinse solo quella di SALVEMINI per la lucidità della sua analisi tesa a dimostrare come la Libia non potesse costituire in effetti la nostra terra promessa ma, molto più modestamente e realisticamente, uno "scatolone di sabbia", come la definì.

Insomma, Liberali, cattolici e nazionalisti erano favorevoli alla conquista della Libia per considerazioni di politica internazionale, per motivi di prestigio nazionale, per interessi economici, per ragioni di politica interna. Anche giornali poco inclini al colonialismo, come il Corriere della Sera di Albertini, diedero il loro contributo alla campagna a favore dell'impresa sostenendo la tesi che il territorio libico era una miniera intatta di grandi ricchezze naturali (e non si parlava allora di petrolio), e che la sua conquista avrebbe risolto il problema principale dell'economia italiana, cioè la mancanza di materie prime e di risorse naturali. La stampa cattolica, per sostenere la penetrazione commerciale e finanziaria del Banco di Roma (tutto cattolico), alimentava la propaganda imperialista presentando la guerra contro la Turchia come una nuova "crociata contro gli infedeli" e l'occupazione della Libia come una conquista di anime alla cristianità, nonostante la dichiarazione ufficiale del Vaticano che la guerra era soltanto un problema politico, col quale la religione nulla aveva a che fare.

In Arte, la reazione al "giolittismo" diede origine al futurismo, mentre in politica produsse due movimenti: quello dei liberali giovanili e quello dei nazionalisti.
II Partito Liberale Giovanile, capitanato da GIOVANNI BORELLI e sorto intorno al 1899, ebbe nuclei combattivi a Milano, a Mantova, a Bologna, a Firenze, a Ravenna e in altre città e come organi l'"Idea Liberale" di Milano e il "Risorgimento" di Firenze. "Esso - scrive il Gori - "nella sua passeggera esistenza confessò le sue opinioni liberali e monarchiche senza ambagi e senza timori, mostrando, forse per la prima volta, che un manipolo di gente convinta e risoluta poteva tenere la piazza a dispetto delle torme socialiste, le quali se n'erano fatte fin qui un monopolio. E, forse per la prima volta, il pubblico intuiva che i corifei di partiti di massa, di frequente non erano i più coraggiosi ma i più paurosi: i quali, servendo ai capricci delle plebi, stimano scansarne da sé gli eccessi e raccogliere allori, abietti sia pure, ma non sudati. Il pubblico imparò anche un'altra penosa e operosa verità, ossia che non sempre il cittadino, che rispetta le istituzioni e paga le tasse, è certo d'esser protetto nelle sue opinioni e nei suoi averi, se da se medesimo non vi provvede".

I nazionalisti, ancor più combattivi e tenaci del periodo crispino, dopo circa un decennio di propaganda, nel dicembre del 1910, riunitisi in congresso a Firenze, costituirono l'"Associazione Nazionalista" che si disse il partito della nazione, riconobbe come capo ENRICO CORRADINI, assertore del primato italiano nel mondo e glorificatore della grandezza italica, ed ebbe per organo l'"Idea Nazionale" (che abbiamo già citato sopra), che vide la luce a Roma il 1° marzo del 1911, nell'emblematico quindicesimo anniversario di Adua.

Questo giornale cominciò subito un'intensa campagna per la conquista della Tripolitania, integrata dall'azione dei nazionalisti che con conferenze, viaggi in Libia, libri e articoli su altri giornali, riuscirono a creare in Italia un clima favorevole alla nuova impresa africana, guadagnandosi l'adesione di quasi tutta la stampa (ovviamente ufficiale), di molti cattolici, dei giovani liberali, di alcuni socialisti, repubblicani, sindacalisti e anarchici, quali PODRECCA, BARZILAI, LABRIOLA, ORANO, OLIVETTI, MERLINO e MASSIMO ROCCA, e di tutta la Sicilia, che nella Libia vedeva un vicino sbocco della sua popolazione e della sua attività.

Le pressioni a favore vennero dai fronti più disparati: la Banca di Roma che aveva già investito molto denaro in varie imprese in Libia, convinta da anni che sarebbe diventata una colonia italiana; i cattolici moderati che cercavano di conciliare cattolicesimo e bellico patriottismo; il "Corriere della Sera" il quotidiano più rappresentativo della borghesia italiana, che fino allora ostile alla politica di Giolitti si schierò a favore al pari dei sindacalisti rivoluzionari, di vari settori della sinistra; ed infine a dare pure loro il contributo, scesero in campo i poeti come D'Annunzio e PASCOLI si misero a celebrare il primo le "Canzoni delle geste d'oltremare", e il secondo a inneggiare all'impresa dell'Italia con il famoso pezzo, che divenne uno slogan....

"La grande proletaria s'è mossa"

Per i nazionalisti, l'imperialismo era una legge invincibile nella vita delle nazioni e l'Italia non poteva sottrarsi ad essa. Dopo le umiliazioni di Dogali e di Adua, bisognava riscattare il prestigio nazionale ed affermare la vocazione italiana all'imperialismo con la guerra contro la Turchia e la conquista della Libia, la "quarta sponda", che i nazionalisti pure loro dipingevano come terra promessa, ricca di risorse agricole e minerarie, terra fertile che aspettava il lavoro fecondatore degli italiani.

Questa campagna nazionalista non trovò impreparato il Governo (anzi molti lo ritengono l'ispiratore). Lo abbiamo già scritto, da molti anni la Libia era oggetto di cure della politica estera italiana; trattati e accordi internazionali che riguardavano quel territorio africano erano stati stipulati e si era iniziata da qualche tempo una penetrazione pacifica in Libia istituendovi consolati, uffici postali, scuole, ambulatori, agenzie di banche molte imprese, incoraggiando l'emigrazione e il commercio; ma la penetrazione pacifica non aveva dato nessun utile risultato, anzi era servito solo a mettere sull'avviso il Governo turco e ad indurlo ad ostacolare ogni altra azione italiana.

In Agosto rapporti con la Turchia intanto diventavano di giorno in giorno più tesi; la stampa turca minacciava l'espulsione di tutti i sudditi italiani dall'impero ottomano e la proclamazione della guerra santa, l'associazione turca Unione e Progresso, promuoveva comizi e dimostrazioni contro l'Italia, nelle città libiche gli "ulema" predicavano lo sterminio degli infedeli e specialmente degli Italiani.

Eppure Camera e Senato erano chiuse, andate in vacanza; Giolitti se ne stava in panciolle a Dronero, San Giuliano era a Fiuggi a fare le cure con le acque, il Re era a San Rossore, tutti i politici al mare e ai monti. Chi era livida di rabbia era la stampa, quella nazionalista infuriata; ma come, là ci buttano fuori a calci e loro sono tranquillamente in vacanza!?

Chi più d'ogni altro, sentiva la necessità e l'urgenza di occupare la Libia era DI SAN GIULIANO, il quale, spronato dai nazionalisti e giustamente temendo che con il differire l'impresa si rischiava di non poterla più compiere e di perdere quell'ultimo lembo di Africa, sul quale anche la Germania pareva che avesse messo gli occhi addosso, convinse (Sic) Giolitti che non c'era tempo da perdere e si accordò con lui sui modi di condurre l'impresa, che doveva farsi improvvisamente e risolutamente (ed era ciò che il Re e Giolitti aspettavano).
Precipitò la situazione quando si seppe che partiva da Costantinopoli il piroscafo turco "Derna" carico di munizioni diretto a Tripoli.
Ma sia Giolitti che il Re (ufficialmente in panciolle) avevano già predisposto tutto. Disinteresse, le vacanze, il panciolle, le pantofole, tutto calcolato; compreso il Parlamento chiuso. Infatti scavalcandolo, brandendo solo lo Statuto il Re e Giolitti, decisero tutto loro. Giolitti aveva poi chiamato il capo di stato maggiore generale Pollio per l'intervento all'ora X. Costui disse che per la spedizione erano sufficienti 20.000 uomini, Giolitti gli rispose, di prepararne il doppio, 40.000 e ottimamente equipaggiati, così vuole il re (diventarono poi 80.000).

Un bel mattino gli italiani appresero dai giornali che l'Italia aveva deciso di sfidare la Turchia, con un buon numero di uomini, buttandosi in un'impresa da grande potenza, contro una Turchia che aveva messo tante volte nel sacco la Russia, l'Inghilterra, la Francia, l'Austria.
Senza tergiversare, senza farsi impressionare da minacce, senza farsi ingannare da lusinghe, Giolitti indubbiamente fu audace, spregiudicato e molto realista. Non ricorse nemmeno alla propaganda, a discorsi "da balcone"; avrebbe potuto annunciare al mondo che l'Impero Romano aveva cominciato il suo Risorgimento e che presto sarebbe "risorto sui colli fatali dell'Urbe". Queste sciocchezze le lasciò dire a Gabriele d'Annunzio e più tardi al suo "successore"; lui guardava al sodo, e si lasciò perfino insultare dalla piazza (soprattutto da quell'anticolonialista e antinterventista, che diventerà fra breve un "imperialista" e un "belligerante" per eccellenza), e con indifferenza accolse le calunnie contro l'Italia (qualcosa del genere accadde poi proprio con Mussolini in Etiopia - spregiudicatezza, audacia e realismo- ma con la differenza nell'aspetto esteriore dell'impresa. Giolitti in questa circostanza veramente "tirò diritto". (anche se sbagliò pure lui, seminando la strada di mine vaganti).

Il 23 settembre 1911, fu pubblicato un decreto reale che richiamava alle armi i militari di prima categoria della classe 1888. Lo stesso giorno il vice ammiraglio AUGUSTO AUBRY ebbe ordine di sorvegliare il naviglio turco con la Prima squadra composta delle navi Vittorio Emanuele, Regina Elena, Napoli, Roma, Pisa, Amalfi, San Marco, San Giorgio, Agordat, Partenope e Tevere"; al contro ammiraglio FARAVELLI fu ordinato d'incrociare nelle acque di Tripoli con la seconda squadra formata dalle navi Benedetto Brin, Regina Margherita, Saint Bon, Emanuele Filiberto, Garibaldi, Varese, Ferruccio, Marco Polo, Coatit, Minerva, Eridano; la terza squadra, di cui facevano parte le navi Re Umberto, Sicilia, Sardegna, Carlo Alberto, Puglia, Iside, Vulcano, Bronte, Sterope, Città di Milano e Garigliano, agli ordini del contrammiraglio BOREA RICCI, costituì la riserva.

Lo stesso 23, per mezzo del commendator DE MARTINO, reggente, nell'assenza dell'ambasciatore GARRONI, l'ambasciata italiana a Costantinopoli, fu consegnata al Governo turco una nota in cui il Governo italiano protestava vivamente per le angherie cui erano soggetti a Tripoli gli Italiani e avvertiva che sarebbe considerato atto gravissimo l'approdo a questa città di trasporti militari.
Alla nota italiana, la Porta rispose che la Turchia era disposta ad accordare all'Italia qualunque concessione economica compatibile con la dignità del Paese, ma intanto il 25 i capi arabi tripolini telegrafavano al Governo inglese pregandolo di intervenire per impedire l'occupazione italiana e il giorno dopo approdava a Tripoli il Derna, facendo precipitare gli eventi.
La Germania nei confronti della Francia -mentre le trattative erano in corso per fare proprio loro due da mediatrici tra Italia e Turchia- inviava nel porto di Agadir il piroscafo Panther, con chiari intenti intimidatori; ai Turchi? No, ai Francesi, qualora dal Marocco avessero qualche brutta intenzione di allungare le mani.

Il 26 settembre l'Italia inviò la seguente nota alle Potenze:

"L'azione alla quale il Governo italiano si è deciso riguardo a Tripoli è da considerarsi come l'ultimo anello di una catena di avvenimenti che hanno spinto il Governo Italiano di fronte all'imprescindibile necessità di un'azione decisiva. Il continuo espandersi del dominio di altre Potenze nel Mediterraneo ha già da qualche tempo sollevato a Roma la preoccupazione che l'Italia, nonostante la sua posizione geografica, che fa di essa una potenza mediterranea per eccellenza, potesse a poco a poco essere esclusa completamente dalla sfera africana di questo mare. Già al primo sorgere di codesta prospettiva l'Italia dovette rivolgere la propria attenzione a Tripoli, l'unico territorio che avrebbe potuto escludere la possibilità di un danno irreparabile per gli interessi italiani. Il Governo italiano, nonostante l'urgenza impellente della questione, ad un'azione rapida e decisiva per raggiungere lo scopo, ha preferito un lavoro moderato e progressivo.
La piega assunta dalla questione marocchina in seguito alle trattative franco-germaniche che hanno dato per risultato l'assoluto dominio della Francia nel Marocco, ora assolutamente non permette più all'Italia di attendere oltre. Le possibilità che un'altra Potenza, con l'andare del tempo, possa desiderare di ampliare ancora di più la sua sfera di dominio nel Mediterraneo, favorita forse da una diversa costellazione politica, fa sì che l'Italia si trovi obbligata, per ragioni di conservazione, ad affrettare il passo ed a rafforzare i mezzi per far valere le sue aspirazioni per ciò che riguarda una posizione privilegiata a Tripoli.

Il desiderio dell'Italia di ottenere da parte della Turchia il riconoscimento dei suoi grandi interessi in Tripolitania, interessi che sono dati dalla sua posizione geografica, ha trovato disgraziatamente a Costantinopoli il più tenace rifiuto. Invece di mostrare accondiscendenza amichevole la Turchia ha rifiutato di trattare gli interessi italiani alla stregua di quelli delle altre Potenze. Davanti a tale palese ingiustizia e di fronte alla situazione creata dall'insediamento definitivo della Francia nel Marocco, la convinzione di tutta Italia è che il Governo commetterebbe una colpa gravissima, ed irreparabile verso gli interessi politici ed economici del paese, se non agisse in modo da risolvere la questione di Tripoli in una maniera consona ai vitali interessi dell'Italia nel Mediterraneo. Alla Turchia rimane aperta la via per un accomodamento pacifico, ed a Roma non si può credere fino a prova contraria che il Governo turco rifiuterà di discutere, respingendo a priori le proposte dell'Italia per un'amichevole discussione delle divergenze".

Nella notte dal 26 al 27 settembre 1911 DI SAN GIULIANO spedì per telegrafo un ultimatum a Costantinopoli, che, per ritardo di trasmissione, fu da De Martino consegnato al Governo turco il giorno 28 alle 14,30. L'ultimatum era concepito nei seguenti termini:
"Prego la S. V. di presentare alla Sublime Porta la nota seguente:
Durante una lunga serie di anni il Governo italiano non hai mai cessato di far constatare alla Sublime Porta la necessità assoluta di mettere fine allo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono state lasciate dalla Turchia e che queste regioni siano ammesse a godere dei medesimi progressi compiuti in altre parti dell'Africa settentrionale. Questa trasformazione imposta dalle esigenze generali della civiltà costituisce per l'Italia un interesse utile di primissimo ordine a cagione della vicinanza di quelle regioni alle coste italiane.

"Malgrado la condotta tenuta dal Governo italiano, che ha sempre lealmente accordato il suo appoggio al Governo imperiale ottomano in diverse questioni politiche, anche in questi ultimi tempi, nonostante la moderazione e la pazienza di cui il Governo italiano ha fornito prova finora, non solamente le sue intenzioni relative alla Tripolitania sono state disconosciute dal Governo imperiale, ma ciò che è ben peggio, ogni iniziativa da parte degli Italiani in quelle regioni ha sempre incontrato la più ostinata ed ingiustificata opposizione sistematica.

Il Governo imperiale, che aveva così dimostrato finora la sua costante ostilità contro ogni legittima attività italiana in Tripolitania ed in Cirenaica, ha recentemente, con un passo nell'ultima ora, proposto al regio Governo di giungere ad un'intesa, dichiarandosi disposto ad accordare qualunque concessione economica compatibile con i trattati in vigore, e con la dignità e con gli interessi superiori della Turchia, ma il Governo italiano non si crede ormai più in grado di entrare in simili trattative, di cui l'esperienza del passato ha dimostrato l'inutilità e che, invece di costituire una garanzia per l'avvenire, non potrebbero che determinare una causa permanente d'attriti e di conflitti. D'altra parte le informazioni che il Governo reale riceve dai suoi agenti consolari in Tripolitania ed in Cirenaica rappresentano la locale situazione estremamente pericolosa a causa dell'agitazione che vi regna contro gli Italiani e che è provocata nel modo più evidente da ufficiali e da altri organi dell'autorità. Quest'agitazione costituisce un pericolo imminente non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri d'ogni nazionalità, che, giustamente commossi e preoccupati per la loro sicurezza, hanno cominciato ad imbarcarsi, lasciando senza indugio la Tripolitania.
L'arrivo a Tripoli di trasporti militari ottomani, del cui invio il Governo reale non aveva mancato di fare osservare anticipatamente al Governo ottomano le serie conseguenze, non potrà che aggravare la situazione ed imporre al Governo reale l'obbligo stretto ed assoluto di provvedere ai pericoli che ne risultano.

"Il Governo. italiano, vedendosi in tal modo ormai forzato a pensare alla tutela della sua dignità e dei suoi interessi, ha deciso di procedere all'occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica. Questa soluzione è la sola che l'Italia possa adottare, ed il Governo italiano si aspetta che il Governo imperiale dia gli ordini occorrenti affinché essa non incontri da parte degli attuali rappresentanti ottomani alcuna opposizione ed i provvedimenti che necessariamente ne deriveranno possano effettuarsi senza difficoltà. Accordi ulteriori saranno presi dai due Governi per regolare la situazione definitiva che ne risulterà. La regia ambasciata a Costantinopoli, ha ordine di domandare una risposta perentoria in proposito da parte del Governo ottomano entro un termine di ventiquattro ore dalla presentazione alla Sublime Porta del presente documento. In mancanza di che il Governo italiano sarà nella necessità di procedere all'attuazione immediata dei provvedimenti destinati ad assicurare l'occupazione. La Signoria Vostra aggiunge che la risposta della Sublime Porta entro il predetto termine di ventiquattro ore ci deve essere comunicato anche per il tramite dell'ambasciata di Turchia a Roma".

Allo scadere del termine, giungeva al Governo italiano la risposta della Sublime Porta che era del seguente tenore:

"L'ambasciata conosce le molteplici difficoltà delle circostanze che non hanno permesso alla Tripolitania ed alla Cirenaica di godere nella misura desiderata dei benefici del progresso. Basta invero un'esposizione delle cose per stabilire che il Governo costituzionale ottomano non potrebbe essere chiamato responsabile di una situazione che è opera dell'antico regime. Ciò posto, la Sublime Porta, ricapitolando il corso dei tre ultimi anni cerca invano le circostanze nelle quali essa si sarebbe dimostrata ostile alle imprese italiane interessanti la Tripolitania e la Cirenaica. Al contrario le è sempre parso comprensibile e razionale che l'Italia cooperasse con i suoi capitali e con la sua attività industriale al risorgimento economico di questa parte dell'impero. Il Governo imperiale ha coscienza di aver dimostrato disposizione d'accoglimento ogni volta che si è trovato di fronte a proposte concepite in quest'ordine d'idee. Esso ha pure esaminato e generalmente risolto con lo spirito più amichevole ogni reclamo presentato dalla regia ambasciata. È necessario aggiungere che esso obbediva così alla sua volontà tanto spesso manifestata di coltivare e mantenere rapporti di fiducia e di amicizia con il Governo italiano? Infine, questo solo sentimento l'ispirava quando proponeva recentissimamente alla regia ambasciata un accomodamento basato su concessioni economiche allo scopo di fornire all'attività italiana un vasto campo nelle suddette province. Seguendo come soli limiti per le sue concessioni la dignità e gl'interessi superiori dell'impero, come pure i trattati in vigore, il Governo ottomano dava la misura dei suoi sentimenti di conciliazione senza però perdere di vista i trattati e le convenzioni che lo impegnano di fronte alle altre Potenze ed il cui valore internazionale non potrebbe decadere per volontà di una parte.
Per ciò che concerne l'ordine e la sicurezza tanto nella Tripolitania quanto nella Cirenaica, il Governo ottomano ben situato per apprezzare la situazione, non può che costatare, come già ha avuto occasione di farlo, la mancanza totale di ogni ragione che possa giustificare apprensioni per la sorte dei sudditi italiani e per gli altri stranieri colà stabiliti. Non soltanto non vi sono in questo momento agitazioni in quella regione, ancor meno propaganda eccitatrice, ma gli ufficiali e gli altri organi dell'autorità ottomana hanno per missione di assicurare la tutela dell'ordine, missione che essi compiono con tutta coscienza. Quanto all'arrivo a Tripoli del trasporto militare ottomano, da cui la regia ambasciata prende motivo per trarne conseguenze gravi, la Sublime Porta crede dover far notare che non si tratta effettivamente che di un piccolo trasporto la cui spedizione è anteriore di parecchi giorni alla nota del 23 settembre. E indipendentemente dal fatto che questa spedizione che non comprendeva del resto le truppe, non ha potuto avere sugli animi che un'influenza rassicurante. Ridotto ai suoi termini essenziali, il disaccordo attuale risiede nella mancanza di garanzie atte a rassicurare il Governo italiano circa l'espansione economica dei suoi interessi in Tripolitania e Cirenaica. Il Governo reale non procedendo ad un atto così grave come ad un'occupazione militare, si unirà alla volontà che ha la Sublime Porta di appianare questo disaccordo. Pertanto il Governo imperiale chiede che il Governo reale gli voglia far conoscere la misura di tali garanzie, alle quali esso sottoscriverà volentieri, purché non tocchino la sua integrità territoriale. Esso prende a tale effetto impegno di non modificare affatto in qualsiasi caso durante i negoziati la situazione presente della Tripolitania e della Cirenaica, specialmente dal punto di vista militare, e vuole sperare che il Governo reale, arrendendosi alle sincere disposizioni della Sublime Porta, aderirà a questa proposta".

Quel giorno stesso DE MARTINO presentava al Gran Visir la seguente dichiarazione:

"In obbedienza agli ordini di Sua Maestà il Re, suo Augusto sovrano, il sottoscritto incaricato d'affari d'Italia ha ordine di significare a Vostra Altezza quanto segue: Il termine che il Governo reale aveva ultimamente accordato al Governo imperiale, in vista dell'attuazione delle misure diventate necessarie, è trascorso senza che gli pervenisse una risposta soddisfacente. La mancanza di tale risposta non fa che confermare il malvolere o l'impotenza di cui il Governo e le Autorità imperiali hanno già fornito in numerose prove specialmente per ciò che concerne la tutela degli interessi o dei diritti italiani in Tripolitania e in Cirenaica. Il governo italiano si vede per conseguenza obbligato a provvedere direttamente alla salvaguardia di quei diritti ed interessi come della dignità e dell'onore del Paese con tutti i mezzi di cui dispone. Gli avvenimenti che seguiranno non potrebbero essere considerati altrimenti che come la conseguenza necessaria, per quanto penosa, del contegno adottato da lungo tempo dalle autorità dell'impero di fronte all'Italia. Essendo quindi interrotte le relazioni d'amicizia e di pace fra i due Stati, l'Italia si considera da questo momento in stato di guerra con la Turchia. Il sottoscritto, d'ordine del suo Governo, ha per conseguenza l'onore di far conoscere a Vostra Altezza che i passaporti saranno messi oggi stesso a disposizione dell'incaricato d'affari dell'impero ottomano a Roma e prega Vostra Altezza di voler fargli pervenire senza ritardo i propri passaporti. II Governo reale ha incaricato il sottoscritto di dichiarare nello stesso tempo a Vostra Altezza che i sudditi ottomani potranno continuare a risiedere sul territorio del regno senza che vi sia a temere alcuna offesa alla loro sicurezza personale, alle loro proprietà ed ai loro affari".

Contemporaneamente il Governo italiano lo stesso giorno dava comunicazione alle Potenze dell'annuncio della dichiarazione di guerra alla Turchia accompagnandola con una lunga relazione sugli incidenti che l'avevano determinata:
"Il conflitto - così la nota che riportiamo integralmente- che sembra scoppiato improvvisamente fra l'Italia e la Turchia non è che l'epilogo di una lunga serie di vessazioni e di soprusi, ancor più reali che apparenti, fatti all'Italia e agli italiani dai Turchi dell'impero ottomano. Da qualche tempo innumerevoli erano le lagnanze dei nostri connazionali in ogni parte dell'impero al Governo del Re, che reclamavano sollecita opera di giustizia, per lunghe angherie, per la negata giustizia, per vera e propria sopraffazione che essi subivano e la cui soluzione era eternamente dilazionata. In questa categoria di reclami eternamente insoluti che dimostrano il conto che delle premure del regio Governo faceva la Sublime Porta, basta ricordare il reclamo Giustiniani e l'intervento arbitrario dell'autorità ottomana nel corso della giustizia locale, quello di Napoleone Guarnani, di Kuhn e di Cuttoni, di Marcopoli, degli eredi Sola, rispettivamente creditori verso lo Stato o verso personaggi della famiglia imperiale. La ditta Stagni, dalle ostilità dell'autorità locale ottomana, fu costretta ad abbandonare la concessione del taglio del legname nella provincia di Brussa. E così rimasero sempre insoluti tutti i danni d'ordine pubblico subiti dai sudditi italiani nelle varie province dell'impero, come quelli dipendenti dai massacri di Adana nel 1909 e dal saccheggio dell'Agenzia della Società di Navigazione Generale Italiana a Santi Quaranta. E numerosi altri reclami e infinite altre controversie di maggiore o minore gravità esistono - come ad esempio quelle per sfregi e aggressioni compiute contro il personale appartenente ai consolati italiani - tali da dimostrare come da qualche tempo i nazionali fossero circondati da un'atmosfera ostile, non rispondente alle nuove relazioni ufficiali esistenti fra i due Stati.

"Col nuovo regime, che tante speranze destò in Italia, gl'incidenti dolorosi si moltiplicarono e si aggravarono. Un fatto gravissimo avvenne recentemente: il ratto della giovanetta minorenne Giulia Franzoni, d'anni sedici, rapita fraudolentemente alla propria famiglia di onesti operai adibiti ai lavori delle ferrovie ottomane a Adana, sequestrata e convertita a viva forza all'islamismo e maritata con la violenza a un cittadino musulmano, nonostante le proteste dei genitori e degli stranieri di altre nazioni e nonostante l'intervento del regio consolato e della regia ambasciata. Questo incidente, che ha per ogni nazione importanza grave, ne ha più ancora per l'Italia che deve provvedere alla tutela di una numerosa emigrazione italiana, la quale trova lavoro nelle opere ferroviarie dell'Asia Minore. Ora il fatto di non aver trovato una rapida soluzione punitiva per questo barbaro sistema di forzata conversione e di ratto di un'ingenua fanciulla, può essere incentivo ad altri fatti consimili, che siano diretti a colpire tutta la popolazione operaia, che è in gran parte italiana, costretta a vivere con la propria famiglia in tali regioni.
" Ma gli atti più perseveranti d'avversione, di ostilità delle autorità ottomane, furono compiuti in quella parte dell'impero dove maggiori sono gl'interessi degli Italiani, cioè nel Mar Rosso e in Tripolitania. Dai rapporti dei nostri consoli, dalle relazioni di coloro che tornavano da quelle regioni, dai continui incidenti sollevati per colpa dei funzionari turchi, è dimostrato chiaramente come se si volesse creare un ambiente di ostilità agli interessi italiani, quasi diffidandone lo sviluppo sempre crescente. Il contegno dell'autorità ottomana nel Mar Rosso e sulla costa araba prospiciente la colonia Eritrea, è stato sempre violento e continuamente provocante. Troppo lunga sarebbe la serie degli incidenti con i quali fu fatta offesa alla bandiera italiana. Citiamone soltanto alcuni, avvenuti sotto il nuovo regime. Il 5 giugno 1909 la cannoniera Nurahad, a 40 chilometri dalla costa turca, si impossessò con atti di violenza della somma di 2340 talleri a bordo del sambuco italiano Selima, vero atto di pirateria senza nessuna attenuante. Recentemente ha avuto una certa notorietà l'incidente del Genova, sequestrato da una cannoniera turca a Hodeida e sottoposto a iniquo procedimento e a tentativi di appropriazione a mano armata.
" Animato da spirito di conciliazione, il Governo italiano accettò di fare un'inchiesta in proposito per comporre l'incidente, inchiesta i cui risultati farebbero onta a qualsiasi Governo civile per quanto riguarda la condotta dei funzionari locali. Ma non basta! Mentre erano in corso le trattative per l'incidente del "Genova, il comandante di una cannoniera turca penetrava a mano armata a bordo del sambuco "Selima il 5 dicembre del 1910, e costringeva il nacuda a consegnare la corrispondenza dei negozianti di Massaua. Prepotenze di altra natura e di non minore gravità furono commesse a danno dei sambuchi eritrei appartenenti a Ali Kozem e a Kalid Kamed. Mentre le autorità turche perpetravano altre molestie di minore gravità verso altri sambuchi, esse, sempre felici di cogliere qualsiasi circostanza per danneggiare il commercio eritreo, si sfogavano il 31 agosto 1911, sperando l'impunità, sulla merce eritrea caricata a bordo del sambuco ottomano Fath Es-Salam, ne bastonavano il nacuda, lo buttavano a mare e lasciavano il veliero in avaria, dopo aver preso a bordo tutta la merce, compresi i viveri dell'equipaggio. I sambuchi dei negozianti eritrei, terrorizzati dalle continue minacce loro sovrastanti per parte delle autorità turche sulla costa araba, hanno perciò, in gran parte, rinunciato a trafficarvi, con gravissime danno del commercio della nostra colonia.
"In Tripolitania l'ostilità sistematica delle autorità ottomane, ora aperta e violenta, ora subdola e maligna, assume proporzioni ancor maggiori. Uno solo è il proposito loro; muovere guerra agli interessi economici e commerciali dell'Italia, impedire in tutti i modi lo sviluppo dell'influenza italiana. Citiamo pochi esempi, prescegliendoli dalla lunga serie che potremmo riferire anche a persuasione del più indulgente lettore. Il banco di Roma inizia in Tripolitania con capitale italiano una vera e benefica opera di progresso economico e di incivilimento del paese. Le autorità vietano agli indigeni di avere relazioni con quell'istituto e li puniscono per reati immaginari se vi ricorrono; si impedisce al banco di ottenere il riconoscimento giuridico dinanzi ai tribunali locali e quando dopo due anni di laboriose trattative il riconoscimento non si può negare, le angherie ricominciano sotto altra forma. I "valì" si susseguono rapidamente nel governo del "vilayet", ma la politica è sempre la medesima; finché nel 1910 il nuovo valì IBRAHIM pascià dichiara apertamente al Consiglio d'amministrazione che egli farà opposizione sistematica e irresistibile ad ogni iniziativa italiana, lasciando comprendere chiaramente che tali erano le istruzioni del proprio Governo. E così tutte le proposte, tutte le domande di concessioni e imprese fatte da italiani, quali d'acqua, impianti rediotelegrafici, lavori stradali ecc., sono sempre respinti. Contro i trattati s'impediscono ai regi sudditi sia l'acquisto di terreni, sia le volture catastali; a Homs, a Bengasi, gl'indigeni che vogliono vendere sono minacciati, e la vendetta si esplica con pretesti estranei alla vera causa. Contro gl'impegni assunti, si oppone l'ostruzionismo alla missione archeologica e mineralogica italiana.

"Tutti gli ostacoli e le difficoltà si accumulano contro gli impianti italiani - molini, oleifici - e contro la nostra navigazione. Gli indigeni, terrorizzati, non osano valersi di tali benefiche istituzioni e impianti per timore di proditorie vendette.
In mezzo a questi impedimenti e difficoltà accadono gravissimi fatti delittuosi, quali l'assassinio di padre GIUSTINO e DERNA e l'altro di GASTONE TIRRENI, avvenuto a breve distanza fra Tripoli e Hons, assassinio che si volle coprire con l'apparenza di un suicidio, smentito dai testimoni e dalle posteriori rivelazioni; barbaro delitto per il quale non si poté mai ottenere una qualsiasi soddisfazione, neppure una seria istruttoria né criminale né civile, invocata dai parenti dell'ucciso e insistentemente richiesta dalle autorità diplomatiche e consolari. Una dichiarazione "di non luogo a procedere e d'estinzione dell'azione penale per intervenuta amnistia" fu tutto quanto si degnarono di concederci le autorità del luogo. Tali due luttuosi fatti notoriamente cagionati dall'odio dei Turchi contro gli Italiani, gettarono la costernazione e lo scoraggiamento nella colonia italiana, che divenne forzatamente timida davanti a qualsiasi utile iniziativa. Ogni intervento delle regie autorità consolari nel vilayet è contrastato apertamente o di nascosto dalle autorità ottomane, come lo dimostra l'incidente del giornalista ARBIB, bastonato dalla polizia, contro la quale l'intervento del regio drogomanno Samaz non ebbe altro effetto se non quello di provocare una nuova e più flagrante violazione delle capitolazioni. Tutta questa ininterrotta serie di soprusi, violenze, intimidazioni e sopraffazioni è apertamente incoraggiata e sostenuta dal giornale "Marasd, organo ufficiale del valì del vilayet, stampato nella sua tipografia e ispirato dallo stesso valì, giornale largamente diffuso tra gli arabi e che non risparmia in nessuna occasione oltraggi e insulti verso l'Italia.
Da tutto quanto procede, chiaramente emerge che il Governo italiano si è trovato di fronte a un sistema o programma di avversione preconcetta contro i sudditi e contro le iniziative italiane in genere, in Tripolitania in modo speciale. La calda e quasi universale simpatia con la quale l'Italia aveva salutato l'avvento al potere della giovane Turchia, il proposito di dar tempo al nuovo regime di consolidarsi, di non creare difficoltà o imbarazzi all'impero ottomano o all'Europa, consigliarono al Governo d'Italia una pazienza e condiscendenza che non aveva avuto esempio nella storia dei popoli. Si sperava sempre nel consolidamento del nuovo Governo, nell'accoglimento dei buoni consigli, nella condiscendenza, nel ricambio di una buona amicizia che da parte nostra si era spinta fino al sacrificio dei propri interessi. Ma tutto fu vano. Ogni giorno la situazione peggiorava. Di fronte al nostro così paziente, si ergeva a Costantinopoli alternativamente o un Governo che dava melliflue parole è promesse alle quali mancava poi ogni corrispondenza nei fatti, ovvero un Governo senza autorità che non era capace d'imporre l'obbedienza alle dipendenti autorità locali, un Governo cui mancava la forza di far rispettare ed osservare i trattati, le capitolazioni, gl'impegni contratti, un Governo insomma che ha mancato nei riguardi dell'Italia ai propri doveri internazionali.
La misura era ormai colma. Gli attacchi violenti ed oltre ogni limite ingiuriosi della stampa ottomana, l'ostruzionismo sistematico e la malafede delle autorità in sott'ordine, la straordinaria serie di incidenti e reclami d'ogni genere ogni giorno in aumento, hanno finito per scuotere e stancare l'opinione pubblica, la stampa, il parlamento il Governo d'Italia. Ormai l'Italia non ha più alcuna fiducia di risolvere amichevolmente le proprie questioni con la Turchia; e disillusa di tante buone parole e promesse mendaci, datele in questi ultimi anni, perduta la pazienza, e decisa ad uscire da una tolleranza che potrebbe essere rimproverata quale debolezza e riconoscimento d'inferiorità, ha stabilito di ottenere con la più grande energia il rispetto dei propri diritti e la tutela dei propri interessi. La colpa ricade su coloro che da tre anni sono venuti ogni giorno provocandoci e creandoci con dei piccoli e grandi incidenti un ambiente di ostilità nelle varie province dell'impero, e specialmente in Tripolitania, sì da rendere malsicura l'incolumità dei sudditi italiani e pericoloso il pacifico svolgimento del commercio eritreo nel Mar Rosso"

 

Ma ormai era tardi. L'azione della diplomazia era terminata e la parola era già al cannone.
Il 29 settembre il Re come consentiva l'art. 5 dello Statuto, dichiarava guerra alla Turchia, senza approvazione né ratifica da parte del Parlamento, il quale, in vacanza da fine luglio, riaprirà solo il 22 febbraio 1912.
Nel frattempo in Italia, fin dal giorno dell'ultimatum (del 26 set.) la direzione del partito socialista congiunta a quella della CGdL proclamava uno sciopero generale contro la guerra, che ottiene però solo un parziale successo anche a causa di lacerazioni interne al PSI e alla CGdL.
Più violente invece le agitazioni in Romagna guidate da due giovani, il rivoluzionario BENITO MUSSOLINI, e il repubblicano PIETRO NENNI.


Altre difficoltà interne poi sorsero pochi giorni dopo (il 15-18 ottobre a Modena) al XII congresso socialista. Spaccatura irreversibile dentro i riformisti di sinistra con TURATI e MODIGLIANI che passano all'opposizione per protestare contro la guerra; mentre la corrente di BISSOLATI in contrasto con le direttive del partito continuerà a sostenere le scelte di Giolitti; la corrente rivoluzionarie è invece intransigente e ottiene la sua vittoria morale, ottenendo la maggioranza relativa dei voti. Ma nessuna delle mozioni ottiene la maggioranza assoluta, e quindi rimase in carica la direzione riformista.

Dopo la dichiarazione di guerra, la Turchia inviava, in data del 30 settembre, alle Potenze la seguente nota:
"Malgrado il termine di ventiquattro ore, termine estremamente breve, che ci è stato fissato dall'Italia nel suo ultimatum, ci siamo affrettati a rispondere assai prima dello scadere del termine, affinché il governo italiano non avesse bisogno di procedere ad un'occupazione militare per ottenere da noi in Tripolitania e in Cirenaica garanzie di espansione economica. Ci dichiarammo pronti a tali garanzie in quanto non toccassero la nostra integrità territoriale. Ed a tale scopo prendemmo l'impegno di non modificare durante le trattative la nostra situazione militare in dette province.
Senza neppure rispondere a queste offerte concilianti, il Governo italiano, nello stesso tempo e prima dello spirare del termine invia la sua flotta a far attaccare una nostra torpediniera nelle acque del Mare Adriatico, e poi ci invia una dichiarazione di guerra in regola.
Penosamente sorpresi da questa ostilità inattesa che non è affatto giustificata dalla nostra attitudine verso l'Italia, noi vogliamo credere che - date le intenzioni concilianti, dalle quali siamo animati- vi sia ancora il tempo di arrestare gli effetti nefasti di una guerra che non ha cause reali. E' perciò che ci rivolgiamo ai sentimenti pacifici ed umanitari, come all'amicizia del vostro Governo, perché intervenga presso l'Italia e la persuada del nostro sincero desiderio di negoziare con essa per prevenire un'inutile effusione di sangue".
Fu tutto inutile. La guerra era ormai "voluta" e ormai iniziata! La Flotta era già sul posto e all'opera, il Corpo di spedizione già in partenza.
...non ci resta ora che seguire gli eventi di questa guerra...

....periodo della seconda metà anno del 1911

 

LA GUERRA TURCA (di LIBIA) - LA PRIMA FASE (1911)
IL CORPO DI SPEDIZIONE - LA FLOTTA - LE OPERAZIONI NAVALI: DA PREVESA A S. GIOVANNI DI MEDUA - BOMBARDAMENTI DI TRIPOLI, TOBRUCK E DERNA - SBARCO DEI MARINAI A TRIPOLI - II PROCLAMA ALLA POPOLAZIONE - BUELIANA. - SOSPENSIONE DELLE OPERAZIONI NELL'ADRIATICO E NELLO IONIO - PROCLAMA DEL GENERALE CANEVA - OCCUPAZIONE DI DERNA E DI HOMS - LA BATTAGLIA DELLA GIULIANA E LA PRESA DI BENGASI - LA SANGUINOSA GIORNATA DI SCIARASCIAT - II TRADIMENTO DEGLI ARABI - L'EROISMO DELL' 11° BERSAGLIERI - LA RIBELLIONE DOMATA - COMBATTIMENTI AD HOMS - LA BATTAGLIA DEL 26 OTTOBRE - ACCORCIAMENTO DELLA LINEA INTORNO A TRIPOLI - MENZOGNE E CALUNNIE DELLA STAMPA ESTERA - LE OPERAZIONI A DERNA, AD HOMS E A TOBRUCK - L'AVIAZIONE - IL DECRETO D'ANNESSIONE - LA PROTESTA DELLA SUBLIME PORTA - L'AVANZATA ITALIANA NELLA ZONA DI TRIPOLI - LA FEROEIA DEGLI ARABOTURCHI - IL FERIMENTO DI JEAN CARRÈRE - LA CONQUISTA DI AIN-ZARA - OCCUPAZIONE DI TAGIURA - RICOGNIZIONE A ZANZUR - BIR TOBRAS - ATTIVITÀ BELLICA AD ROMS, DERNA TOBRUCK - FINE DELLA PRIMA FASE DELLA GUERRA
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IL CORPO DI SPEDIZIONE - LA FLOTTA
LE OPERAZIONI NAVALI: DA PREVESA A S. GIOVANNI DI MEDUA
BOMBARDAMENTO DI TRIPOLI
BOMBARDAMENTO DI TOBRUCK E DERNA
LO SBARCO DEI MARINAI A TRIPOLI
IL PROCLAMA ALLA POPOLAZIONE
I PRIMI ATTACCHI NEMICI - BU-MELIANA
LE OPERAZIONI NELL'ADRIATICO E NELLO JONIO SOSPESE


Oltre la flotta che era già sul posto, si era intanto rapidamente preparato un corpo di spedizione, che all'inizio fu di circa 36 mila uomini poi salito a 80 mila. Comandante supremo fu il generale friulano CARLO CANEVA; capo di Stato Maggiore il maggior generale GASTALDELLO; le due divisioni che costituivano il corpo furono messe una sotto il comandò del tenente generale conte GUGLIELMO PECORI-GIRALDI, che ebbe sotto di sé i generali RAYNALDI e D'AMICO, l'altra sotto il comando del tenente generale OTTAVIO BRICCOLA che ebbe come comandante delle brigate i maggiori generali AMEGLIO e GIARDINA. A disposizione del corpo di spedizione furono messi una squadriglia di 11 aeroplani (per la prima volta impiegati dall'Italia a scopi bellici) comandata, dal capitano PIAZZA, e uno stormo di 12 dirigibili.

Mentre il corpo era allestito, svolgeva una discreta attività la flotta, di cui la quadra dell'ammiraglio AUBRY vigilava nell'Egeo e davanti la costa siriaca, mentre una divisione della seconda squadra bloccava Tripoli, e la squadriglia delle siluranti (29 cacciatorpediniere, 28 torpediniere d'alto mare, 8 torpediniere di prima classe, una trentina di torpediniere minori e 9 sommergibili), al comando del DUCA degli ABRUZZI Luigi di Savoia, vegliava alla sicurezza dell'Adriatico e dello Jonio.
Fu quest'ultima squadra ad aprire le ostilità. Nel pomeriggio del 29 settembre, poco dopo il termine stabilito per l'apertura delle ostilità, un cacciatorpediniere e una torpediniera della flotta turca, la Tocat e l'Antalia, uscendo dal porto di Prevesa, venivano in modo deciso attaccate dal cacciatorpediniere italiano l'"Artigliere, comandato dal capitano BISCARETTI. La prima, colpita gravemente, tentava di rientrare nel porto, dove vi era una cannoniera ottomana; le seconda, circondata da quattro siluranti italiane (la torpediniera l'"Alpino e i caccia Corazziere, Zeiro e Spiga) attirate sul posto dalle cannonate, ammainata la bandiera, si gettava sulla spiaggia permettendo all'equipaggio di sbarcare. L'Alpino, avvicinata la nave incagliata la disarmava e ne asportava la bandiera; il caccia turco e la cannoniera, ripetutamente colpiti erano poi messi fuori uso.
Il mattino del 30, l'Artigliere e il Corazziere, avvicinatisi al porto di Gumenitza ne videro uscire due torpediniere turche, che attaccarono le navi italiane, dalle quali però furono ben presto costrette a rientrare piuttosto malconce nel porto. Gli equipaggi turchi, abbandonate le loro navi sconquassate, aprirono dalla spiaggia, insieme con la popolazione, un nutrito fuoco di fucileria contro i due caccia italiani, ma che poi penetrati nel porto li dispersero e catturarono il Teties, bellissimo yacht dell'ex-sultano ABDUL RAMID.

L'Alpino, presso il porto, s'impadronì di un bastimento turco, il Neua, carico di truppe e munizioni. Un altro piroscafo turco, il S'abah, fu catturato il l° ottobre a San Giovanni di Medua dalla Marco Polo e mandato con le altre prede a Taranto. Il 3, la regia nave Aretusa mandava a picco nel Mar Rosso una torpediniera turca e il 5 l'Artigliere, molestato dai cannoni turchi della costa Albanese, bombardava San Giovanni di Medua.
Tripoli intanto era bloccata dalle navi della seconda squadra: Garibaldi, Varese, Perruccio e Coa-tit. Il 1° ottobre giunsero la Carlo Alberto, la Sicilia, l'Umberto e la Benedetto Brin su cui stava l'ammiraglio FARAVELLI che quel giorno stesso intimò allo stazionario turco SEDULBAR e al Derna di uscire dal porto. Nel pomeriggio le navi italiane furono rinforzate dall'arrivo della Filiberto e del Bronte.

Il 2 ottobre, per ordine del vice ammiraglio FARAVELLI, il contrammiraglio THAON De REVEL, comandante la seconda divisione della seconda squadra, andò ad intimare la resa della piazza di Tripoli. Al "deftardar" Betir bey, che domandava tempo per ricevere istruzioni da Costantinopoli, furono accordate ventiquattro ore di tempo.
Tripoli era difesa da due fortezze, la Sultanieh ed Hamidiè, muniti di un centinaio di bocche da fuoco, da alcuni fortini, da un bastione e dalle batterie del Faro e del Molo; la guarnigione era costituita da 2000 soldati di fanteria in tre reggimenti di tre battaglioni ciascuno, da un battaglione di cacciatori, da quattro squadroni di cavalleria, da dieci batterie da campagna, da cinque da montagna, da una da fortezza e da numerose truppe irregolari indigene.
Scaduto il termine accordato ad avendo le autorità turche rifiutato di arrendersi, alle 15.30 del 3 ottobre la Benedetto Brin aprì il fuoco contro i forti del Faro e del Molo, la Garibaldi e la Ferruccio contro il forte Hamidiè, la Sicilia, la Sardegna e la Re Umberto contro i forti di Gargaresch.

Il bombardamento proseguì fino al tramonto e fu ripreso la mattina del giorno dopo contro il forte Hamidiè e i forti di Gargaresch. Dopo pochi colpi nessuna delle batterie rispondeva più e nel pomeriggio il tiro delle navi italiane, che era stato rovinoso per i due forti, ma non aveva recato nessun danno alla città, cessava.
La mattina stessa del giorno 3, le navi della prima squadra Agordat, Vittorio Emanuele, Pisa, Amalfi,, Napoli e Roma si presentavano dinanzi a Tobruck e, mentre due altre navi italiane si accostavano a Derna, la cui stazione radiotelegrafica doveva nel pomeriggio esser distrutta, intimavano la resa e il giorno dopo aprivano il fuoco contro la fortezza e una trincea difesa da Turchi ed Arabi; quindi venivano sbarcati alla punta esterna della rada 400 marinai al comando del capitano di fregata ANGELO FRANCK, i quali, assaliti alle spalle il villaggio e la fortezza e vinta la debole resistenza del nemico, si impadronivano alle 11 del forte e vi innalzavano il tricolore.

All'alba del 5 ottobre, le navi della seconda squadra si avvicinarono a Tripoli e sbarcarono i primi marinai che trovarono i forti semi diroccati e deserti, innalzarono la bandiera sul forte Sultanieh, demolirono il forte Hamidiè e presidiarono gli altri piantandovi a difesa le mitragliatrici.

Nel pomeriggio il capitano VERRI, alla testa di un drappello di marinai, da lui chiamati "Garibaldini del mare", fece un'ardita ricognizione in città e poté constatare che i soldati turchi avevano abbandonata Tripoli, portandosi dietro i morti e i feriti mentre la cittadinanza aspettava calma e fiduciosa lo svolgersi degli eventi.
Intanto alcuni capi arabi si recavano a bordo della Brin a fare atto di sottomissione e il console tedesco TILGER, in nome di tutto il corpo consolare, pregava l'ammiraglio FARAVELLI di occupare la città e di tutelarvi l'ordine.
Consigliatosi con il suo Stato Maggiore, Faravelli decise di occupare la città con le compagnie marinai da sbarco delle navi, in tutto 1.700 uomini, divisi in due reggimenti posti al comando dei capitani di fregata GRASSI e BONELLI. Comandante del presidio nominò il capitano di Vascello UMBERTO CAGNI e governatore provvisorio di Tripoli il contrammiraglio RICCI-BOREA D'OLMO.
Alle ore 15 la bandiera italiana sventolava sul "konak; un'ora dopo, protetti dalla "Coatit e da due cacciatorpediniere, sbarcavano i marinai, i quali con continue e sapienti evoluzioni diedero in modo perfetto agli indigeni l'illusione che le truppe sbarcate erano molto più numerose di quelle che in effetti erano. Ad ossequiare le autorità militari, insieme con dodici capi arabi si recò HASSUNA pascià, capo del Municipio, discendente da antica famiglia tripolina e amico sincero dell'Italia, il quale implorò il rispetto ai beni, alle persone, ai costumi ed alla religione.
Primo atto del nuovo governo fu di intimare il disarmo; e poiché vi era stato un principio di saccheggio da parte della plebaglia fu incaricato il capitano GRAVERI di provvedere al servizio di polizia; chiamò intorno a sé alcuni carabinieri, arruolò gli zaptiè turchi rimasti, e in brevissimo tempo rimise l'ordine, che fu mantenuto da pattuglioni armati, che perlustravano senza interruzione le vie della città.

Il 6 ottobre, il governatore RICCI-BOREA prese possesso del palazzo del Governo, e FARAVELLI lanciò agli abitanti di Tripoli un proclama in cui, fra l'altro, era detto:
"A nome di S. M. il Re d' Italia vi assicuriamo non solo il rispetto alla più completa libertà vostra, alla vostra religione, ma anche il rispetto di tutti i vostri beni, delle vostre donne, dei vostri costumi. Vi annunciamo che sarà abolita la coscrizione, vi saranno elargiti i possibili miglioramenti economici e che vi consideriamo fin d'ora strettamente legati all'Italia"
Il giorno 7 ottobre il governatore ricevette nel konak il corpo consolare ed HASSUNA pascià, che gli presentò cento notabili arabi della città e dei dintorni, ricevette il capo degli ulena, quindi le delegazioni degli Ebrei e dei Greci. Intanto si faceva buona guardia agli avamposti, dove giorno e notte avvenivano scambi di fucilate tra i marinai italiani e i turchi imboscati nell'oasi e qualche attacco, rapido e senza conseguenze fu sferrato da un buluc di cavalleria ottomana contro un posto italiano avanzato sulla via di Gharian.

Un attacco in forze fu invece sferrato nella notte del 10 ottobre. Due buluc di fanteria e uno di cavalleria, muniti di un cannone, attaccarono energicamente una trincea italiana che difendeva i pozzi di Bu-Meliana. I marinai italiani erano circa duecento, ma resistettero saldamente alle forze del nemico, che alla fine ritiratosi lascio sul posto armi, munizioni e il cannone.

I corrispondenti dei giornali austriaci, tedeschi e inglesi vollero attenuare l'importanza del fatto, scrivendo che si era trattato dell'attacco di una pattuglia di venti uomini. Solo allora il pubblico italiano si accorse come le potenze europee, anche da quelle alleate all'Italia, l'impresa di Tripoli non era vista di buon occhio. E così era infatti. L'azione delle siluranti italiane nel basso Adriatico (quasi Egeo) aveva suscitato le proteste dell'Austria nonostante la dichiarazione del Governo italiano che lo status quo orientale non sarebbe stato toccato. Dato l'atteggiamento austriaco, l'on. Giolitti si vide costretto ad ordinare, in nome del re, al Duca degli Abruzzi di non intraprendere nell'Adriatico e nello Jonio altre operazioni offensive.

Si completava intanto il corpo di spedizione, composto di due divisioni di fanteria, due reggimenti di bersaglieri (8° e 11°), alcuni squadroni di cavalleria, batterie da costa, da fortezza e da campagna, compagnie del genio, ambulanze e assistenze. Le quattro brigate di fanteria erano formate dell'82° (colonnello BORGHI) e 84° (colonnello SPINELLI), del 6° (colonnello BELLUZZI) e del 40° (colonnello PASTORELLI), del 22° (colonnello ZUPPELLI) e del 42° (colonnello MOCALI) e del 4° (colonnello MOCCAGATTA) e del 63° (colonnello AIRENTI). Intendente generale era il maggior generale GAZZOLA, comandante dell'artiglieria il maggior generale GIGLI, del genio il colonnello MAROCCO, della sanità, il colonnello MINICI, del Commissariato il colonnello BAROCELLI.

IL PROCLAMA DEL GENERALE CANEVA-
L'ARRIVO IN LIBIA DEL CAPO DI SPEDIZIONE
OCCUPAZIONE DI DERNA E DI HOMS
LA PRESA DI BENGASI

In data 9 ottobre 1911, il generale CANEVA, comandante del corpo di spedizione, lanciò alle truppe il seguente proclama:
"Per decreto di Sua Maestà il -Re, assumo il comando del corpo italiano di spedizione in Tripolitania. Noi salpiamo dai lidi della patria, accompagnati dall'unanime consenso e dai fervidi voti di tutto il popolo nostro, il quale fermamente vuole che anche sulle sponde opposte del Mare Mediterraneo sia rispettato il nome italiano e con esso la dignità nazionale e i vitali interessi della nostra gente. Sono questi, diritti sacrosanti, e per sostenerli, noi portiamo in Tripolitania le armi d'Italia contro il turco, che esercitandovi malo dominio, li ha disconosciuti: contro il turco che i nostri liberi commerci inceppa e la vita dei nostri connazionali non assicura, che le giuste rimostranze della Nazione nostra pone in non cale, che ai danni del nome italiano aizza il fanatismo musulmano e lancia per le stampe pubblico vilipendio. Noi, portando in Tripolitania le armi italiane, non muoviamo al danno della terra e delle popolazioni tripolitane: queste e quella devono invece per opera italiana e con comune beneficio essere redente a nuova civiltà e a nuova ricchezza. Ora voi sentite appieno le alte finalità dell'impresa che la patria ci affida. Alla tutela dei diritti nazionali provvederà la virtù delle vostre armi.
Le vie del mare, il nostro sbarco sulle coste tripolitane, i nostri vincoli con la patria sono a noi assicurati dalla potenza e dal valore della regia marina che già così brillanti operazioni ha compiute e che è con noi, fraternamente, nella nobile impresa. La diligenza delle preparazione, la larghezza dei mezzi, la superiorità del numero e della militare istruzione, la nostra disciplina e il vostro valore, sono virtù sicure di prospero successo nelle operazioni di terra. Alla redenzione civile delle nuove genti provvedano l'umanità, la moderazione e la giustizia, che sono retaggi antichi e mai offuscati della nostra stirpe. Il rispetto assoluto dei sentimenti e delle pratiche dell'altrui religione, il rispetto deferente della donna e della famiglia, il rispetto tutelare della prosperità, l'amore e il culto della giustizia, siano guida costante a ciascuno nelle relazioni pubbliche e private con la popolazione indigena; e noi vedremo fiorirci intorno il rispetto e la devozione. In quelle terre dove portiamo ora il vessillo e la civiltà della nuova Italia, in quelle terre che sono ora scadute per lunga barbarie e per incivili reggimenti, in quelle terre fu un tempo Roma con le sue aquile vittoriose e con la sua civiltà redentrice.
Ricordiamo, e il ricordo sia fiamma alle anime nostre. Volgiamo riverenti e devoti un pensiero d'amore al vostro Re, alla vostra Italia, al popolo nostro e salpiamo sereni, e sicuri nella luce dell'armi con la visione e la fede della nostra altissima missione".

Nel pomeriggio dello stesso giorno 9 ottobre giunse a Napoli Vittorio Emanuele III, il quale insieme con il ministro della Guerra, assistette alla partenza del grosso del corpo di spedizione, avvenuta la sera fra l'entusiasmo indescrivibile della "folla napoletana" che esprimeva - secondo le parole di un manifesto del sindaco Del Carretto - "…nella pienezza del suo animo esultante l'augurio di luminosi ed eccelsi trionfi".
L'11 ottobre sbarcarono le prime truppe a Tripoli; altri contingenti il 12 e il 13. Man mano che sbarcavano, i soldati sostituivano i marinai, i quali ritornavano alle loro navi. Il 14 ottobre RICCI-BOREA cedette i poteri al generale Caneva: dall'alto del castello fu abbassata la bandiera azzurra con stella bianca, insegna della Marina, e fu innalzata la bandiera con due stelle rosse, insegna dell'Esercito.
Il Ricci-Borea rivolse un ordine del giorno ai marinai lodandoli per lo slancio, la disciplina e il valore dimostrati. Caneva, a sua volta, indirizzò un proclama in lingua araba alle popolazioni della Tripolitania, in cui, fra l'altro, diceva: "Da ora in avanti .... voi sarete governati dai capi vostri sotto l'alto patronato di S. M. il Re d'Italia, che Dio abbia nella sua guardia, incaricati di guidarvi secondo giustizia, ma con clemenza e dolcezza. Le leggi tutte religiose e civili, saranno rispettate; rispettate saranno le persone e le proprietà, rispettate le donne e rispettati i diritti e i privilegi annessi alle opere pie e religiose. L'azione dei capi dovrà avere per unico scopo il vostro benessere e la vostra quiete e ispirarsi perciò alla "Legge e alla Sunna". La giustizia vi sarà resa secondo la "Scoria" da giudici che nella medesima siano versati e abbiano condotta morale lodevole. Nessuna angheria di capi, nessuna prevaricazione di giudici sarà tollerata. Solo il Libro e la Legge e la Sunna avranno impero. Nessun tributo sarà levato per essere speso fuori del paese e quelli ora in vigore saranno riveduti e diminuiti e anche soppressi secondo giustizia.
Nessuno sarà chiamato a prestare servizio sotto le armi contro la sua volontà; si accetteranno solo coloro che vorranno volentieri mettersi all'ombra della bandiera italiana per la protezione delle persone e delle proprietà e per garantire al paese la pace e la prosperità. Gli altri rimarranno alle loro case intenti ai lavori dei campi, alla pastura delle mandrie, allo scambio delle merci, a tutte le arti necessarie al vivere civile. Così ognuno potrà pregare nella sua moschea per la grandezza del popolo italiano e per la gloria del suo Re, che Iddio lo salvi, i quali hanno preso voi, o popoli di queste contrade, sotto la loro tutela e protezione e intendono che il loro nome sia temuto dai vostri nemici, ma da voi solo amato e benedetto".

 

Il 15 ottobre, la seconda divisione della prima squadra composta delle navi Napoli, Pisa, Amalfi, San Marco e Agordat, intimò la resa a Derna, ma i parlamentari non solo ottennero un rifiuto, ma furono anche presi a fucilate. Il giorno dopo i notabili arabi di Derna dichiararono al comandante delle navi di volersi arrendere, ma la guarnigione turca riconfermò i propositi di resistenza. Allora la Pisa aprì il fuoco, che nel pomeriggio divenne generale, cui risposero con ostinazione i Turchi. Un tentativo di sbarco fallì per le pessime condizioni del mare; ma il 18 ottobre con il mare un po' più calmo, le compagnie da sbarco riuscirono ad approdare e a prender possesso della città. Il contrammiraglio PRESBITERO ricevette la sottomissione dei capi arabi. Lo sbarco delle truppe iniziato il 19 durò fino a tutto il 21 ottobre.

Quasi contemporaneamente avveniva l'occupazione di Homs. Il giorno 17 l'incrociatore Varese intimò la resa alle autorità turche e concesse loro sei ore di tempo. Allo scadere del termine fu aperto il fuoco che in breve sconvolse le trincee turche e la casa dello stesso governatore. Il bombardamento continuò ad intervalli tutto il 18; poi il 19 una deputazione di notabili arabi, recatasi a bordo della Varese, scongiurò che venisse subito effettuato lo sbarco per far cessare il saccheggio che turchi e predoni avevano cominciato; il 20 mattina; dopo brevissima resistenza del nemico, sbarcò a Homs il corpo di spedizione, costituito dall'8° bersaglieri al comando del colonnello MAGGIOTTO.

L'OCCUPAZIONE DI BENGASI

Più difficile che non quella delle altre località sulla costa fu l'occupazione di Bengasi, dove la colonia italiana visse alcune settimane di angoscia. Dinanzi a Bengasi si presentò il 18 ottobre un convoglio di nove piroscafi carico di truppe e scortato dalle corazzate Vittorio Emanuele, Regina Elena, Roma e Napoli, dall'incrociatore corazzato Amalfi, dagli incrociatori protetti Piemonte, Liguria, Etruria e Lombardia e da una squadriglia di cacciatorpediniere e torpediniere. Le forze navali erano agli ordini del viceammiraglio AUBRY, quella di terra sotto il comando del tenente generale OTTAVIO BRICCOLA.
Intimata la resa al mutasserif e avutone il rifiuto, l'Aubry, anche in considerazione del mare agitatissimo, diede tempo ai turchi fino al mattino seguente, ma neppure all'alba del 19 la risposta fu affermativa. Allora sulla nave ammiraglia Vittorio Emanuele fa issata la bandiera di combattimento e immediatamente subito dopo fu aperto il fuoco contro la spiaggia della Giuliana, dove doveva effettuarsi lo sbarco, contro la caserma della Berka e contro il castello, su cui sventolava la bandiera turca, che ai primi colpi fu abbattuta.

Alle 8.50, protette dal tiro delle navi e guidate dal capitano FRANK, sotto una pioggia insistente e con il mare agitato, presero terra le compagnie da sbarco con alcuni pezzi da 76 e si schierarono sul ciglio delle dune, appostando alla sinistra le artiglierie e permettendo agli zappatori del genio di costruire alcuni pontili su cui cominciarono a passare le truppe.
Il generale GIOVANNI AMEGLIO, siciliano, ricevuto il comando dell'avanguardia (4° Fanteria e una batteria da montagna) e l'ordine di riordinare le truppe e muovere, per il terreno a sud del lago Salato, sulla Berka, fece avanzare le compagnie di marina oltre la prima linea delle dune per allargare la zona di sbarco; ma furono subito bloccate da un nutritissimo fuoco di fucileria da parte del nemico appostato nelle varie pieghe del terreno fra il Sibbah e il lago Salato.

A sostegno dei marinai Ameglio mandò una compagnia e mezza del 63° e alcuni plotoni del 4° che sostennero magnificamente il fuoco dei numerosi nemici. Ma purtroppo le perdite italiane furono sensibili e fra queste si registrò quella del guardiamarina MARIO BIANCO, caduto mentre alla testa dei suoi marinai si lanciava all'assalto.
Per proteggere lo sbarco, che a causa del mare mosso si svolgeva lentissimamente, fu occupata l'altura della Giuliana con due compagnie del 63°, furono inviati 400 fanti presso la punta Buscaiba a sostenere il piccolo reparto di marinai che vi resisteva; poi una batteria da montagna, sbarcata alle 11, fu messa sulle dune tra la spiaggia il lago Salato e un'altra, sbarcata qualche ora dopo, fu portata presso il primo pontile.
Gli obbiettivi del generale Ameglio, approvati dal generale Briccola, erano i seguenti
1° occupazione della caserma della Berka e delle località adiacenti;
2° occupazione delle alture a nord di Sidi Daud, con posti di osservazione verso Sidi Hussein e l'abitato di Bengasi;
3° occupazione di quella località tra il lago Salato e la spiaggia, indicata dal terreno, per proteggere il fianco destro delle truppe che sbarcavano.

"Alle 15.30 - è scritto nella relazione del generale Briccola - il 4° Fanteria diede inizio alla manovra, muovendo in due schiere distanziate convenientemente con formazioni poco vulnerabili e in perfetto ordine. Quell'avanzata su terreno scoperto in dolce salita e sotto il fuoco nemico apparve dalla spiaggia e dalle navi un esempio veramente mirabile di applicazione dei più sani criteri tattici e poté essere eseguita con crescente interessamento in tutto il suo sviluppo. Alle truppe già affaticate dai disagi del mattino, il comandante della brigata aveva comandato di deporre gli zaini. In perfetta corrispondenza di tempo, il generale Ameglio guidò di persona l'attacco frontale dei marinai e di un battaglione misto del 4° e 63° fanteria. Arduo fu invece far sloggiare gli Arabi dalle trincee; i due ufficiali superiori presenti capitano di fregata FRANK e tenente colonnello GANGITANO, caddero entrambi feriti piuttosto gravemente; così pure due comandanti di compagnia ed altri ufficiali.

Il generale Ameglio si portò allora in prima linea e condusse le truppe a ripetuti attacchi alla baionetta che assicurarono in breve tempo il possesso delle trincee. Il sole calava intanto rapidamente e il seguito delle operazioni si svolse in una semi-oscurità. Nondimeno gli ultimi suoi raggi illuminarono la vecchia bandiera del 4° fanteria issata sulla caserma della Berka al posto del vessillo turco abbattuto poco prima da una cannonata delle navi.


L'emblema nazionale fu avvistato a bordo e l'ammiraglio lo salutò subito con una salve di 21 colpi di cannone al suono della Marcia reale, fra gli urrà degli equipaggi.
Le batterie da montagna con tiri precisi e calmi avevano accompagnato le truppe per tutta la marcia di avvicinamento, sospendendo il fuoco solo quando furono a contatto.
Dopo Berla furono occupati Sidi Daud e Sidi Hussein a poche centinaia di metri dalle prime case di Bengasi. In relazione ad ordini dati in precedenza dal generale Briccola, le truppe si arrestarono bivaccando e prendendo le necessarie misure di sicurezza. Durante tutta la notte ci furono fucilate lungo la linea degli avamposti, provocate dalla presenza di gruppi di arabi. Alle ore 17 circa, continuando tenace la resistenza del nemico ed essendo informato che anche da Bengasi gruppi di armati dirigevano il fuoco sulle nostre truppe, il generale Briccola mandò a pregare l'ammiraglio di riprendere dal mare il bombardamento della città.

Mentre continuava il crepitio delle fucilate, l'ammiraglio riprese il bombardamento al luce dei riflettori: spettacolo imponente e terrificante, il quale portò al pronto innalzamento della bandiera bianca della resa sul castello. In quest'ultima fase - fatta quasi al buio- rimasero danneggiati il regio consolato d'Italia, quello d'Inghilterra una moschea, oltre al castello ed altri edifici. Così ebbe termine la giornata del 19 ottobre, che nella storia militare del nostro paese sarà ricordata per il fatto -quasi senza precedenti- di uno sbarco a viva forza, con mare agitato e in spiaggia aperta, di cinque battaglioni e due batterie compiuto in poche ore e per la mirabile prova di resistenza, di valore e di disciplina data dai nostri soldati e marinai. E specialmente questa giornata dovrà essere ricordata come memorando esempio e manifestazione meravigliosa di concorso di intenti e di fraterno cameratismo di armi che nel più puro amor di patria insieme unisce e rinsalda le forze di mare e di terra italiane".

Ma non mancarono le molestie nemiche durante l'intera notte; poi la mattina del 20 ricominciò il bombardamento questa volta più mirato e i turchi e gli arabi incalzati dal tiro dei cannoni e dalle truppe già sbarcatesi ritirarono nei quartieri settentrionali della città, ma poi sloggiarono nello stesso giorno.

Il nemico impegnato nella battaglia era forte di 4000 uomini e si batté con accanimento, subendo numerose perdite; gli italiani subirono perdite più lievi: un ufficiale morto e nove feriti, ventiquattro soldati e marinai morti e sessantasette feriti.
Il 21 ottobre il generale Briccola, insediatosi nel consolato italiano, ordinò il disarmo della popolazione che fu eseguito con grande rapidità. Nella notte giunsero da Tripoli rinforzi e il 24 ottobre giunse il secondo corpo d'occupazione della Cirenaica scortato da una divisione navale comandata dal Duca degli Abruzzi che si trovava a bordo della Vettor Pisani.

PREPARATIVI DI RIVOLTA A TRIPOLI
LA SANGUINOSA GIORNATA DI SCIARA-SCIAT
IL TRADIMENTO DEGLI ARABI
L'EROISMO DELL'11° BERSAGLIERI
LA RIBELLIONE DOMATA - COMBATTIMENTI AD HOMS
LA BATTAGLIA DEL 26 OTTOBRE
LA MORTE DEL CAPITANO VERRI
L'ORDINE DEL GIORNO DEL GENERALE CANEVA -
L'ELOGIO DEL RE ALLE TRUPPE

Con la conquista di Tripoli, Homs, Bengasi, Derna e Tobruk, i principali punti della costa libica venivano a trovarsi in mano italiana; ma subito fuori da questi centri abitati vi era il nemico, numeroso ed agguerrito, il quale, con la resistenza, agli sbarchi italiani, aveva mostrato chiaramente il proposito di ostacolare tenacemente ogni progressiva occupazione.
L'Italia non credeva alla possibilità di una seria e lunga resistenza da parte dei Turchi, sapendo che in Tripolitania e in Cirenaica, prima della dichiarazione di guerra, i soldati turchi non assommavano che a quattromila. Inoltre l'Italia confidavano nella neutralità della Francia e dell'Inghilterra, le quali non avrebbero permesso il passaggio di truppe ottomane attraverso le frontiere, la prima dalla Tunisia la seconda dall'Egitto.

Purtroppo l'Italia s'ingannava. Armi e uomini armati dall'uno e dall'altro confine riuscirono a penetrare in Libia con relativa facilità. Penetrarono specialmente gli ufficiali, fra cui il comandante in capo delle forze ottomane in Tripolitania e Cirenaica, il famoso ENVER bey, che tanta carriera doveva percorrere e tanto danno arrecare all'Italia organizzando lui la resistenza degli Arabi.
Credeva inoltre l'Italia che gl'indigeni libici (gli antichi Berberi) nemici dei Turchi e insofferenti del dominio ottomano, dovessero favorire o almeno non ostacolare la nostra conquista; ma anche su questo l'Italia s'ingannava. Aveva l'Italia, è vero, fra gli Arabi amici sinceri e fedeli; ma il loro numero era esiguo e la loro autorità non giungeva molto lontano dalla costa piuttosto cosmopolita e interessata ai commerci. La grande maggioranza della popolazione, specie quella dell'interno, era contraria all'Italia perché considerata infedele e al dominio italiano preferiva quello turco; inoltre l'Italia aveva contro la potente organizzazione dei Senussi, che vedevano negli italiani non soltanto i nemici dell'islamismo, ma coloro che avrebbero posto fine a quello speciale stato di cose cui era legata la vita della Senussia (Una confraternita musulmana fondata da Alì as Sunusi all'inizio dell'800, dando vita a uno Stato con capitale Giarabub).

Nell'illusione di esser benvoluti dagli indigeni e di esser considerati come liberatori l'Italia non esercitava grande vigilanza su Tripoli e non si accorgeva che qualche cosa si tramava ai suoi danni. Eppure i segni della trama non mancavano: un soldato italiano era stato pugnalato nell'oasi da alcuni arabi; fra la città e la campagna era un andare e venire di gente che avrebbe dovuto con il suo contegno destare legittimi sospetti; il 19 ottobre era stata scoperta una beduina che recava cartucce mauser avvolte in una pezzuola e ad un beduino dell'interno era stato sequestrato un biglietto diretto a Gharian, al maggiore dei cacciatori Ali bey; il 22 ottobre un giornalista scopriva nella soffitta di un ospedale circa venti soldati armati, i quali, interrogati, dichiaravano che appena scoppiata la rivolta, dovevano mostrarsi nelle vie per far credere ai cittadini che le truppe turche fossero già entrate; e lo stesso giorno 22 un ufficiale turco, travestito da donna, fu fermato agli avamposti.

Mentre gli italiani erano nella più completa fiducia, i Turchi, d'accordo con gli indigeni di Tripoli, preparavano un piano per ributtarli in mare. Il piano era semplice e terribile: il 23 ottobre gli Arabi dell'interno e i Turchi dall'esterno, avrebbero assalite le trincee, gli arabi della città e dell'oasi in pratica avrebbero preso gli Italiani alle spalle.
La mattina del 23, una schiera di circa 500 arabo-turchi attaccò dimostrativamente le linee italiane tra Bu-Meliana e Gargaresch, ma fu facilmente respinta a fucilate e a cannonate. Ma contemporaneamente, ad est, dalla parte di Sciara-Sciat, numerosi reparti di fanteria turca e di arabi, protetti dai palmizi e dai muretti dei giardini, assalivano la sinistra dello schieramento italiano formato da qualche compagnia dell'82° e dall'11° bersaglieri agli ordini del colonnello FARA.
Gli Italiani risposero prontamente al fuoco e pareva che il nemico volesse battere in ritirata davanti a questa decisa difesa quando improvvisamente dall'oasi fu aperto un terribile fuoco di fucileria alle spalle degli Italiani, che così furono avviluppati da Sciara-Sciat a Henni. Sparavano dalle cime dei palmizi, dalle case, dalle feritoie praticate nei muri; l'oasi alle spalle degli italiani era diventato un inferno. Sebbene assaliti da ogni parte, si difesero coraggiosamente e più di una volta passarono al contrattacco seminando la strage fra il nemico. Anche i turchi, che assalivano di fronte, furono respinti dagli eroici bersaglieri, sostenuti dalla 5a e dalla 7a compagnia dell'82° Fanteria.

Scrive il generale Caneva nel suo rapporto ufficiale: "Non ritenendo prudente sguarnire le fronti sud e sud-ovest contro le quali pareva probabile che si rinnovassero gli attacchi del mattino, il comandante della divisione, generale PECORI-GIRALDI inviò a sostegno, dell'11° bersaglieri, un battaglione dell'82° reggimento fanteria dai sobborghi di Tripoli ed un gruppo d'artiglieria da fortezza dalla Caserma di cavalleria. Del battaglione dell'82° reggimento, però ostacolato nel suo avanzare dai ribelli, una compagnia soltanto riuscì a giungere in giornata ad Henni. Della 4a e 5a compagnia dell'71° bersaglieri una parte fu raccolta dal battaglione dell'82° ed una parte ripiegò su Henni.
Il combattimento, accanito e sanguinoso durò circa otto ore, fintanto che gli arabi furono passo passo snidati dai loro rifugi e le nostre truppe, liberatesi da ogni attacco proditorio sul tergo, con un'azione quanto mai energica e tenace, poterono alla fine rioccupare le primitive posizioni di combattimento. Questa giornata fu veramente onorevole per le nostre truppe e specie per l'11° bersaglieri che seppe difendersi dall'attacco accerchiante con mirabile resistenza e con invitto spirito aggressivo".

Ma le perdite italiane furono considerevoli. I soli bersaglieri ebbero 400 morti e 200 feriti. Le perdite del nemico furono valutate ad un migliaio di morti e altrettanti arabi fatti prigionieri dagli italiani.
Mentre nell'oasi si combatteva, a Tripoli città si delineava la rivolta. Ci fu prima un fermento inesplicabile il mattino, poi all'improvviso si videro chiudere case e botteghe; nel pomeriggio s'iniziò a sparare dalle finestre e dai tetti delle case contro soldati italiani in gruppi o isolati; a quel punto furono impiegate le truppe in assetto di guerra per disperdere la folla riottosa ripristinare l'ordine pubblico e verso sera un bando del Governatore ordinò la consegna delle armi, il coprifuoco, lo stato d'assedio.
Purtroppo nello zelo italiano ci fu anche un'irrazionale feroce rappresaglia. Numerose pattuglie sguinzagliate nelle vie a perquisire le case, eseguirono moltissimi arresti; e non pochi ribelli, il giorno dopo, furono fucilati. Una vendicativa rappresaglia che colpirà anche la popolazione civile e che susciterà l'indignazione nella stampa internazionale; non solo ma provocherà un'intensificazione della guerriglia araba che ostacolerà e ritarderà moltissimo i progressi dell'occupazione italiana in Libia.

Rappresaglia che oscurò un po' il valore dell'11° bersaglieri che fu consacrato in un ordine del giorno del generale Caneva:
"Nel giorno 23 del corrente mese, l'11° reggimento bersaglieri, impegnato nelle trincee dell'oasi orientale di Tripoli, è stato proditoriamente assalito a tergo da abitanti indigeni che apparivano e dovevano ritenersi sottomessi al nostro Governo. Nella contingenza difficilissima, per l'imprevedibile attacco, per l'insidiosità del terreno, per il frazionamento inevitabile dell'azione, seppero gli ufficiali ed i bersaglieri dell'110 reggimento affrontare vigorosamente gli eventi. E nonostante le notevoli perdite che a loro vennero dal tradimento, seppero con lunga lotta abbattere e giustiziare sul posto od arrestare i traditori spazzandoli dal loro tergo e ricuperando la loro linea di difesa.
Io segnalo al plauso dell'intero corpo d'operazione la brillante condotta degli ufficiali e dei bersagliari dell'11° reggimento, la loro bravura, la loro invitta virtù militare. Onore ai caduti per la causa italiana, onore agli ufficiali ed ai militari tutti dell'11° reggimento bersaglieri, onore al colonnello che tante virtù ha saputo infondere nel suo reggimento".
Nei giorni 22 e 23 ottobre accaniti combattimenti ebbero luogo pure ad Homs. Più accanito quello del 22, che durò tredici ore, dalle sei del mattino alle sette della sera, e nel quale fornirono prova di grande valore indistintamente tutte le truppe agli ordini del colonnello MAGGIOTTO e un manipolo di marinai, fra cui l'eroico cannoniere MICHELE MELONI, ricordato da D'Annunzio nella "Canzone dei Trofei".

All'alba del 26 ottobre, già annunciate dai capitani PIAZZA e MOIZO, che nei giorni precedenti avevano con i loro monoplani eseguito ardite ricognizioni aeree, diverse migliaia d'arabi e turchi assalirono con impeto le linee italiane tra Sidi Messri e Bu-Meliana. Respinti in un primo attacco, ritornarono con impeto maggiore all'assalto e, dalla parte ove sorgeva la villa di NEGIAD-bey, favoriti dalla natura del terreno, riuscirono a sfondare le difese italiane e prendere alle spalle i fanti dell'84° reggimento.

Ma lo sfondamento non ebbe fatali conseguenze. Un plotone dei cavalleggeri Lodi appiedato sopraggiunto tempestivamente, combattendo con bravura, riuscì a saldare la linea e, mentre una batteria del 21° artiglieria si appostava alla sinistra di Bu-Meliana fulminando la cavalleria araba, l'84° contrattaccava audacemente alla baionetta e riconquistava la trincea perduta.

Alla battaglia, che in alcuni punti ebbe la durata di tre ore, parteciparono valorosamente l'11° bersaglieri, il 40° e l'82° fanteria, alcune compagnie da sbarco e, con i loro tiri, le corazzate Sicilia e Carlo Alberto.
Aeroplani volarono sul campo durante questa azione. In quella battaglia, dopo aspra mischia, l'8a compagnia dell'84° conquistò la bandiera verde del Profeta e una bandiera turca. L'eroe della giornata fu il capitano PIETRO VERRI, che però trovò la morte mentre alla testa di una compagnia di marinai caricava con impeto il nemico gridando: "Avanti, Garibaldini del mare !"

Le perdite italiane non furono lievi: 13 ufficiali e 361 uomini di truppa morti e 16 ufficiali e 142 uomini di truppa feriti; ma gravissime furono quelle del nemico che contò nelle sue file più di 2000 morti e circa 4000 feriti.
Il giorno dopo, il generale Caneva elogiò le truppe con il seguente ordine del giorno:
"Ieri il nemico ha portato un violento attacco contro tutta la nostra linea di difesa che fu anche assalita a tergo da attacchi a tradimento degli abitanti dell'oasi. Ma voi avete saputo ad un tempo spazzare dalle vostre spalle i traditori e respingere davanti a voi un forte nemico infliggendogli gravissime perdite. Avete dato prova di esemplare fermezza e di mirabile valore. Ed io cito qui, a titolo d'onore, voi tutti e la compagnia da sbarco della Regia Marina, che con voi ha strenuamente combattuto".

Anche i ministri della Guerra e della Marina fecero giungere ai difensori di Tripoli l'alto elogio del sovrano telegrafando: "Sua Maestà il Re alle forze di terra e di mare, che combatterono in Tripolitania e Cirenaica, invia l'espressione del suo compiacimento e dell'alta sua ammirazione per il coraggio e per il sangue freddo di cui diedero ripetute prove. La Marina e l'Esercito, vieppiù stretti da così saldi vincoli, ancora una volta hanno ben meritato del Re e della Patria".

ACCORCIAMENTO DELLA LINEA INTORNO A TRIPOLI
MENZOGNE E CALUNNIE DELLA STAMPA STRANIERA
LE OPERAZIONI GUERRESCHE A DERNA, AD HOMS E A TOBRUCK
L'OPERA DEGLI AVIATORI
LA DIVISIONE DE CHAURAND A TRIPOLI -
IL DECRETO D'ANNESSIONE DELLA TRIPOLITANIA E DELLA CIRENAICA ALL'ITALIA
LA COMUNICAZIONE ITALIANA ALLE POTENZE
LA PROTESTA DELLA SUBLIME PORTA

L'AVANZATA DELLE TRUPPE ITALIANE NELLA ZONA DI TRIPOLI

LA FEROCIA DEGLI ARABOTURCHI NELLE RELAZIONI DEI GIORNALISTI STRANIERI

Nonostante la vittoria delle armi italiane, la linea di difesa intorno a Tripoli, troppo vasta per le truppe di cui allora disponeva il comando, fu, dopo il 26 ottobre, accorciata, portandosi indietro d'un chilometro dal lato orientale, di modo che, la nuova linea, invece che da Sciara-Sciat ad Henni, andò dalle tombe dei Caramanli a Messri e alla caserma di cavalleria. Quell'accorciamento della linea fu anche imposto dalle condizioni sanitarie di Sciara-Sciat ed Henni, pericolose per il grandissimo numero di cadaveri lasciati dal nemico.

L'arretramento delle linee italiane diede occasione ai giornalisti stranieri di inventare fandonie sul conto degli italiani, di parlare di sconfitta e di affermare che la situazione dell'Italia era insostenibile. Né si limitarono a questo i corrispondenti dei giornali esteri, specie quelli inglesi tra cui si distingueva GEORGE MACAULAY TREVELYAN; fu da loro anche scritto che i soldati italiani, dopo il combattimento del 23 ottobre, avevano fatto un vero macello degli arabi, uccidendo donne, vecchi e fanciulli senza curarsi d'indagare se fossero colpevoli o no. A questa feroce campagna di diffamazione opposero fiere smentite il Governo e il generale Caneva, cui si aggiunse un onesto giornalista francese JEAN CARRÈRE, che dimostrò essere gli Italiani troppo magnanimi verso la popolazione araba e agli Inglesi ricordò i loro eccessi nel Transwal, nella Rodhesia e nel Sudan.

Continuavano intanto le operazioni di guerra. A Derna, il 27 ottobre, gli italiani infliggevano al nemico una grave sconfitta catturando inoltre 500 prigionieri; a Homs, il 28 ottobre, bersaglieri e marinai, sostenuti dalla "Marco Polo respingevano sanguinosamente migliaia e migliaia di arabi, che per tutto il giorno si erano accaniti invano contro quelle linee; quel giorno stesso altri attacchi nemici furono respinti a Tobruck; il 1° novembre il tenente GAVOTTI volava con il suo aeroplano su Ain-Zara e bombardava con buon esito un accampamento arabo (da un aereo ed è uno dei primi bombardamenti della storia).

Il 3 novembre, il 3° battaglione del 63° Fanteria respingeva l'attacco di un reparto arabo presso il fortino di Messri, e il 4, nella stessa posizione, un altro attacco nemico sostenuto dall'artiglieria turca falliva e i capitani aviatori Piazza e Moizo bombardavano altri accampamenti arabi.

In quei giorni giunse a Tripoli una 3a divisione, comandata dal tenente generale DE CHAURAND, che aveva sotto di sé i maggiori generali di brigata DEL MASTRO e NASALLI ROCCA. Facevano parte della nuova divisione i reggimenti 18° (colonnello BALDINI), il 33° (colonnello PINNA), il 23° (colonnello MONDAINI) e il 52° (colonnello AMARI).
Creandosi così a Tripoli un così grande corpo di esercito, vi si mandò a comandarlo il tenente generale FRUGONI.
Nello stesso giorno in cui giungeva Frugoni (5 novembre), il Re firmava il seguente decreto:
"Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del ministro degli Esteri; sentito il Consiglio dei Ministri; visto l'articolo 5 dello Statuto fondamentale del Regno abbiamo decretato e decretiamo: La Tripolitania e la Cirenaica sono poste sotto la sovranità piena ed intera del Regno d'Italia. Una legge determinerà le norme definitive per l'amministrazione di quelle regioni. Affinché tale legge non sarà promulgata si provvederà con decreti reali. Il presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge".

Una decisione questa che a molti parve intempestiva. Il Re proclamava la sovranità assoluta dell'Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica ancor prima di aver concluso la guerra.
Contemporaneamente Di SAN GIULIANO dirigeva ai regi ambasciatori all'Estero il seguente telegramma:

"L'occupazione delle principali città della Tripolitania e Cirenaica, i costanti successi delle nostre armi, le forze preponderanti che abbiamo colà riunite e le altre che ci apprestiamo a inviarvi hanno reso inefficace e vana ogni ulteriore resistenza della Turchia. D'altra parte, per porre fine ad un inutile spargimento di sangue, urge togliere dall'animo di quelle popolazioni ogni pericolosa incertezza. Perciò, con odierno decreto reale, la Tripolitania e la Cirenaica sono state sottoposte definitivamente e irrevocabilmente alla sovranità piena ed intera del regno d'Italia. Qualunque altra soluzione meno radicale che avesse lasciato anche un'ombra di sovranità nominale del Sultano su quelle province sarebbe stata una causa permanente di futuri conflitti tra l'Italia e la Turchia, che potrebbero più tardi scoppiare fatalmente anche contro la volontà dei governanti, in un momento ben altrimenti pericoloso per la pace europea. La soluzione da noi adottata è l'unica che tuteli definitivamente gl'interessi dell'Italia, dell'Europa o della Turchia stessa. La pace firmata su queste basi eliminerà ogni causa di dissenso profondo e la Turchia e noi potremo più facilmente ispirare tutta la nostra politica al grande interesse che abbiamo al mantenimento dello status quo territoriale della penisola Balcanica di cui è condizione essenziale il consolidamento dell'impero ottomano.

"Desideriamo perciò vivamente, qualora la condotta della Turchia non lo renda impossibile, che le condizioni di pace riescano quanto più si può confacenti ai suoi legittimi interessi ed al suo prestigio. La Tripolitania e la Cirenaica hanno cessato di far parte dell'impero ottomano, ma noi siamo oggi disposti ad esaminare con largo spirito di conciliazione i mezzi per regolare nel modo più conveniente ed onorevole per la Turchia le conseguenze dei fatti irrevocabilmente compiuti. Certo, noi non potremmo mantenere tali propositi concilianti se essa si ostinasse a prolungare inutilmente la guerra.
" Confidiamo però che l'opera concorde delle grandi Potenze indurrà la Turchia a prendere senza indugio sagge e risolutive decisioni che rispondano ai suoi veri interessi ed a quelli di tutto il mondo civile. L'Italia in ogni modo coopererà a questo risultato con il mostrarsi altrettanto disposta ad eque condizioni di pace quanto decisa ai mezzi più efficaci per imporla nel più breve termine possibile".
'
Questo telegramma suscitò una nota della Sublime Porta indirizzata alle Potenze, nella quale vi era detto:
"Il Governo imperiale ottomano apprende che il Governo italiano ha di motu proprio promulgato un decreto proclamando l'annessione delle province ottomane di Tripoli e di Bengasi e ha comunicato il decreto alle Potenze. La sublime Porta protesta nel modo più energico contro tale proclama, che considera privo di valore così in linea di diritto come in linea di fatto. Un simile atto è privo di efficacia, perché è contrario ai più elementari principi delle leggi internazionali ed anche perché la Turchia e l'Italia sono ancora in stato di guerra e perché il Governo turco è deciso a preservare e difendere con le armi i suoi diritti sulle due province in questione, che sono imprescrittibili ed inalienabili. D'altra parte il proclama e la sua comunicazione violano gli impegni contratti solennemente in base a trattati, specialmente a quello di Parigi e di Berlino, tanto dall'Italia verso le grandi Potenze quanto dalle Potenze verso il Governo ottomano per quanto riguarda l'integrità territoriale dell'impero ottomano. In tali condizioni l'annessione proclamata dall'Italia rimane nulla in linea di diritto, come è inesistente in linea di fatto".

Il giorno dopo del decreto di annessione, la brigata Del Mastro rioccupò il forte Hamidiè e respinse il nemico tornato alla riscossa; il 7 novembre una compagnia del 93° fanteria, spinta in ricognizione verso Sciara-Sciat, fu attaccata dal nemico, ma, sostenuta dalle altre compagnie del battaglione, da una batteria a tiro rapido e dai cannoni delle navi, dopo un'ora di sanguinoso combattimento mise in fuga il nemico; nei giorni successivi seguirono scontri, duelli di artiglierie, ricognizioni di alpini, granatieri, bersaglieri e cavalleggeri verso Ain-Zara, Gargaresch e Sidi-Messri, con scambi di fucilate; a Gargareseh furono presi dieci cannoni turchi; gli alpini occuparono il fortino di Sidi Messri, l'incrociatore Liguria bombardò Zuara al confine tunisino.

ll 12 novembre, mentre il ghibli imperversava con grande violenza, un migliaio di turchi assalì le trincee di Bu-Meliana, ma furono respinti con gravi perdite dalle batterie del 21° Artiglieria. Il 13 novembre, continuamente molestato dal nemico il fortino di Sidi Messri, alcune campagne dell'84° operarono una vigorosa sortita e ricacciarono gli Araboturchi, togliendo loro un cannone.

Il 13, il 14, il 15 e il 16 caddero abbondantissime piogge e il 17 il fiume Megenim straripò allagando alcune vie della città e alcune trincee. Dal 18 al 31 ebbero luogo esplorazioni, scaramucce, duelli d'artiglieria, ricognizioni di aeroplani. Il 23, presenti i generali DE CHAURAND, LEQUIO e NASALLI ROCCA e le rappresentanze di tutti i reggimenti, con una messa al campo e un discorso del colonnello FARA furono commemorati i caduti dell'11° bersaglieri.

Il 26 novembre, sotto la direzione del generale CANEVA e al comando del generale De Chaurand, la 3a divisione, l'11° bersaglieri, due squadroni di cavalleria e parecchia artiglieria si spinsero avanti per rioccupare le posizioni che in seguito alla battaglia di un mese prima erano state abbandonate. Tutti gli obbiettivi furono raggiunti nonostante la tenace resistenza del nemico, che lasciò nelle mani italiane dieci cannoni e 400 feriti prigionieri e sul campo numerosi morti. Si calcola che i turchi e gli arabi abbiano avuto circa 3000 uomini fuori combattimento; gli Italiani 16 morti e 109 feriti.

Nella moschea e nel villaggio di Henni e nel cimitero di Chui, gli italiani poterono constatare l'inaudita ferocia del nemico e i corrispondenti esteri, guardando i soldati barbaramente mutilati nelle giornate del 23 e 26 ottobre, denunziarono al mondo civile le barbarie degli arabi e dei turchi della cui sorte esso si era fino allora preoccupato e lagnato.
Uno di questi corrispondenti, quello del Journal", così scriveva:
"Ho visto, in una sola moschea, diciassette italiani crocifissi, con i corpi ridotti allo stato di cenci sanguinolenti ed informi; ma i cui volti serbano ancora le tracce di un'infernale agonia. Si è passati per il collo di questi disgraziati una lunga canna e le braccia riposano su questa canna. Sono stati poi inchiodati al muro, e morirono a piccolo fuoco, fra sofferenze inenarrabili. Dipingervi il quadro orrendo di queste carni decomposte, che pendono pietosamente sulla muraglia insanguinata è impossibile. In un angolo un altro corpo è crocifisso, ma siccome era quello di un ufficiale, si sono raffinate le sue sofferenze. Gli si cucirono gli occhi. Tutti i cadaveri, ben inteso, erano mutilati, evirati, in modo indescrivibile ed i corpi apparivano, gonfi come informi carogne. Ma non è tutto! Nel cimitero di Chui, che serviva di rifugio ai turchi e donde tiravano, da lontano potemmo vedere un altro spettacolo. Sotto la porta stessa di fronte alle trincee italiane, cinque soldati erano stati sepolti fino alle spalle; le teste emergevano dalla sabbia, nera del loro sangue: teste orribili a vedersi; vi si leggevano tutte le torture della fame e della sete. Debbo ancora parlarvi di tutti gli altri orrori, debbo descrivere tutti quegli altri corpi che sono stati trovati sparsi nei palmeti fra i cadaveri degli indigeni? Lo spettacolo è indescrivibile. È un calvario spaventoso, del quale ho seguito le fasi con le lagrime agli occhi, pieno d'immensa pietà, pensando alle madri di quei disgraziati figliuoli".

E GASTONE LEROUG, corrispondente del Matin:
"I piccoli bersaglieri, caduti il 23 ottobre, non morirono solamente da eroi, ma anche da martiri. Non trovo parole adatte per esprimere l'orrore provato oggi, quando in un cimitero abbandonato abbiamo scoperto questi miseri avanzi. Nel villaggio di Henni e nel cimitero arabo era stato operato un vero macello: degli ottanta infelici fatti prigionieri, i cui cadaveri si trovavano lì, è certo che almeno la metà, erano caduti vivi nelle mani degli arabi e che tutti sono stati portati in questo luogo cintato da mura, dove gli arabi erano al riparo dal piombo italiano. Allora è avvenuta la più terribile e ignobile carneficina che si possa immaginare. Si sono loro tagliati i piedi, strappate le mani, evirati; poi sono stati crocifissi. Un bersagliere ha la bocca squarciata fino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli tratti, un terzo ha infine le palpebre cucite con spago da sacco. Quando si pensi che due ore prima di cadere questi eroi avevano diviso amichevolmente il rancio con gli arabi che dovevano torturarli, non si può non provare un indicibile senso di stupore e di orrore".

IL FERIMENTO DI JEAN CARRERE
LA MEDAGLIA DORO ALL'11° BERSAGLIERI E ALL' 84° FANTERIA
LA CONQUISTA DI AIN ZARA
OCCUPAZIONE DI TAGIURA RICOGNIZIONE A ZANZUR - BIR-TOBRAS - LE OPERAZIONI AD HOMS, A DERMA, A BENGASI E A TOBRUCK


FINE DELLA PRIMA FASE DELLA GUERRA

La notte dal 30 novembre al 1° dicembre del 1911, il giornalista francese amico dell'Italia JEAN CARRÈRE fu aggredito e ferito da uno sconosciuto a Tripoli, che senza dubbio ubbidiva ad ordini segreti del comitato giovane turco Unione e Progresso. Il giorno dopo, l'ala destra del fronte italiano orientale, composta del 52° fanteria, del battaglione alpini Fenestrelle, dei battaglioni bersaglieri 15° e 33° e della 2a compagnia zappatori del genio, dopo un'intensa attività dell'artiglieria, eseguì un balzo in avanti per migliorare le posizioni.
Il 3 dicembre le bandiere dell'11° bersaglieri e dell'84° fanteria, con commovente cerimonia, furono fregiate della medaglia d'oro per le gloriose giornate del 23 e 26 ottobre. Le truppe intanto si preparavano ad un'azione che doveva aver luogo il giorno dopo e doveva condurre alla conquista di Ain-Zara.

Ain-Zara, a pochi chilometri da Tripoli, era località importante perché era un centro di raduno e di resistenza delle truppe regolari turche, perché era fornita di acqua sorgiva e infine perché era una base del nemico, non lontana dal mare e dai luoghi di rifornimento.
L'azione di Ain-Zara, preparata dal generale PECORI-GIRALDI, fu, il 4 dicembre, eseguita dalle brigate "Raynaldi della 1a divisione e Giardina della 2a le quali, sostenute dalle batterie di montagna e dai tiri della Carlo Alberto, nonostante la molestia del vento e della pioggia, raggiunsero brillantemente gli obbiettivi, conquistando otto cannoni e costringendo 8000 arabi e turchi a fuggire verso il deserto. Numerose furono le perdite del nemico; gli italiani ebbero un centinaio di uomini fuori combattimento, fra cui, mortalmente ferito, il valoroso colonnello PASTORELLI del 40° fanteria.

La mattina del 6 dicembre, il 52° fanteria attaccò e sloggiò dalla moschea di Ben-Said i nemici che la difendevano, quindi l'artiglieria rase al suolo la moschea e sconvolse le trincee vicine. Il 13 fu occupata Tagiura e assicurato il completo dominio dell'oasi di Tripoli, dopo un'avanzata, che si effettuò senza ostacoli, di due colonne, davanti la cui marcia gli arabi sventolavano bandiere bianche e i turchi si ritiravano abbandonando le loro artiglierie.
Il 16 dicembre una colonna italiana si spinse senza difficoltà fino a Zanzur, a 15 chilometri circa a ovest. di Tripoli, e ne distrusse il telegrafo.

Tre giorni dopo, per accertare la posizione del nemico, mosse da Ain-Zara una colonna comandata dal colonnello FARA e composta di due battaglioni dell'11° bersaglieri, uno di granatieri, una sezione di artiglieria da montagna e uno squadrone di cavalleggeri Lodi. La colonna, partita durante la notte, doveva all'alba giungere a Bir Tobras, un'oasi a quindici chilometri circa a sud-est di Ain-Zara, ma, smarritasi nell'oscurità, non poté giungere in vista della mèta che alle 10.30 del mattino del giorno 19.

Attaccata, a qualche chilometro di distanza dall'oasi da numerose forze nemiche, la colonna si difese splendidamente. Dopo due ore di combattimento, l'attacco poteva dirsi respinto e poiché la sabbia aveva inutilizzate le mitragliatrici e la ricognizione era stata portata a termine, il colonnello Fara ordinò il rientro a Ain-Zara
Il nemico, accortosi del ripiegamento italiano, e ricevuti nel frattempo notevoli rinforzi, ritornò all'attacco, costringendoli nuovamente alla difesa. Tuttavia la colonna continuò la marcia del rientro, respingendo cinque assalti consecutivi; ma verso le 15.30 il colonnello Fara vista la necessità di fermarsi, avviò i feriti con buona scorta ad Ain-Zara, quindi dispose le truppe in quadrato trincerato sopra un gruppo di dune.

Così disposti resistettero magnificamente per tutto il resto della giornata. Alle ore 20 il nemico, che era stato di un'aggressività straordinaria, parve stanco; a mezzanotte un tentativo d'attacco fu prontamente respinto; alle 3.30 del 20 dicembre la colonna disposta in quadrato con l'artiglieria e i feriti al centro e i granatieri del maggiore GRAZIOLI all'avanguardia, riprese la marcia verso Ain-Zara, dove giunse alle 7 del mattino dopo avere incontrato lungo la via i rinforzi (un battaglione di granatieri, un battaglione di bersaglieri e due batterie da montagna) guidati dal generale LEQUIO.

Questa mal riuscita ricognizione diede buon giuoco alla Massoneria per far richiamare dalla Libia il generale PECORI-GIRALDI, cattolico osservante e accusato di sentimenti clericali.
Non taceva intanto la guerra negli altri punti della costa. Ad Homs, il cui presidio era stato notevolmente rinforzato e messo sotto il comando del generale REISOLI, il 1° dicembre alcune compagnie di bersaglieri sostennero un vittorioso combattimento col nemico, durante il quale fu distrutta la linea telegrafica turca tra Msellata e Sliten, e il 15, dopo aspra mischia, un battaglione di bersaglieri e due compagnie di alpini sconfissero numerose forze araboturche sul vicino Mergheb.
A Derna gli italiani, comandati dal tenente generale VITTORIO TROMBI, ai cui ordini stavano i maggiori generali DEL BONO e CAPELLO, avevano di fronte imponenti forze nemiche comandate da ENVER bey, dal colonnello NURÌ bey, dal maggiore MUSTALÀ KEMAL bey e dal colonnello AZIZ EL MESSRI.

Scontri di una certa entità ci furono intorno a Derna il 13 e il 16 novembre; il 22 una ricognizione italiana, cui parteciparono due battaglioni di fanteria, uno di alpini, tre sezioni di mitragliatrici, una di artiglieria da campagna e una compagnia di marinai della Napoli, inflisse perdite gravissime al nemico; il 24 una colonna sbaragliò sull'altipiano, uccidendo 300 nemici e ferendone 500, una schiera di arabo-turchi personalmente comandati da Enver bey, il quale il 28 ebbe il coraggio d'intimare la resa al presidio di Derna, ma fu messo in fuga a cannonate lui e i suoi uomini.
Sanguinoso fu lo scontro del 1° dicembre e più ancora quello del 16, durante il quale la bandiera del 26° fanteria, corse il pericolo di cadere nelle mani degli arabi e fu salvata dall'impetuoso attacco alla baionetta della 6a compagnia. Brillante fu l'azione del 26 dicembre sostenuta all'"uadi" Derna da quattro battaglioni e mezzo di fanteria con sei pezzi da campagna e quattro sezioni di mitragliatrici al comando del generale DEL BONO e non meno brillante il combattimento avvenuto nella stessa località il giorno dopo e finito col completo successo degli italiani.

Sul fronte di Bengasi gli scontri di maggiore importanza ci furono dalla metà del novembre in poi. Il 18 di quel mese le linee arabe furono assalite da una colonna italiana che rientrò dopo avere inflitto al nemico notevoli perdite; il 27 un attacco in forze dei turco-arabi comandati da ETHEM pascià fu nettamente respinto e respinti furono due altri attacchi che il nemico, ricevuti rinforzi, sferrò nella notte dal 30 novembre al 1° dicembre e nella notte dal 3 al 4, dal 10 all'11, dal 20 al 21 e dal 21 al 22 dicembre.

Un attacco più vigoroso degli altri fu sferrato il giorno di Natale ma anche questa volta il nemico fu respinto lasciando sul terreno 150 morti, 500 feriti e 3 cannoni.
Attacchi numerosi, quasi quotidiani, ci furono a Tobruck. Notevoli quelli del 28 novembre, della notte dal 21 al 22 dicembre e del 28 dello stesso mese.
A Tripoli il 24 dicembre fu eseguita una ricognizione verso Bu Selim; ma il giorno di Natale fu trascorso nella calma più assoluta. Quel giorno sbarcò una rappresentanza degli studenti universitari italiani recante una pergamena con 20.000 firme da offrire all'esercito combattente e una colonna romana, donata dal sindaco di Roma, da collocare a Messri. Essa portava la seguente epigrafe: "Gli studenti delle Università Italiane agli eroi caduti per la gloria d'Italia".

Il 26 dicembre giunse notizia che il Sovrano, su proposta dei ministri della Guerra e della Marina, aveva firmato i decreti di promozione per merito di guerra del capitano di vascello UMBERTO CAGNI a contrammiraglio e del colonnello GUSTAVO FARA a maggior generale. Il 28 fu inaugurata la colonna romana a Messri e il 29 gli studenti furono ricevuti dal generale FRUGONI e dal governatore CANEVA.

Così, con la promozione dei valorosi, con l'omaggio all'esercito della gioventù italiana studiosa e con le tante altre cerimonie che ricordavano l'eroismo dei soldati italiani, finiva a Tripoli l'anno 1911 e si chiudeva la prima fase della guerra.

Si chiudeva però l'anno in un clima di crescenti tensioni tra le nazioni europee per la crisi balcanica; all'Italia (che combatteva in Libia, quindi combatteva contro la Turchia) fu resa vita difficile per avere libertà d'azione nella conduzione della guerra nel Mar Egeo e nel Mediterraneo orientale, dove le navi turche invece si muovevano fornendo così armi e armati in Cirenaica.
Non certo inferiori -all'inizio del nuovo anno- erano pure le tensioni interne sociali che nei successivi mesi causeranno molti scioperi; provocando più forti i vecchi contrasti dentro i socialisti e dentro il sindacalismo italiano; né mancarono le tensioni alimentate dalle differenti posizioni assunte riguardo alla guerra in Libia…
…che come leggeremo nel prossimo capitolo, terminerà poi a Ottobre con la Pace di Losanna, anche se lasciò disseminate un po' dappertutto lunghi spezzoni di micce, in attesa di essere accese da qualche Stato balcanico con il desiderio indipendentista (e il colpo inferto alla Turchia aveva esaltato i nazionalismi balcanici!); o micce già accese dalla stessa Austria, convinta com'era, che dopo la guerra in Libia, essa si poteva permettere indisturbata di passeggiare sui Balcani fino in Grecia.

… siamo dunque al periodo anno 1912

 

LA GUERRA TURCA (di LIBIA) - OPERAZIONI DI TERRA E NAVALI
LE OPERAZIONI NAVALI NEL MAR ROSSO: LA BATTAGLIA DI KUNFUDA - LA REPRESSIONE NEL MEDITERRANEO - TENSIONE DEI RAPPORTI ITALO-FRANCESI - OCCUPAZIONE DI TAJIURA - COMBATTIMENTI DI GARGARESCH E DI AINZARA - SCONTRI A DERNA, A BENGASI E A TOBRUCK - II GENERALE CANEVA A ROMA - CONVERSIONE IN LEGGE DEL DECRETO SALL'ANNESSIONE DELLA LIBIA - AZIONE NAVALE DI BEIRUT - GLI SFORZI DELLE POTENZE PER LA PACE - BATTAGLIA DEL MERGHEB -COMBATTIMENTI DI DERNA - RICOGNIZIONE DI BIREL-TURK - LA BATTAGLIA DELLE DUE PALME - ATTENTATO A VITTORIO EMANUELE III - LO SBARCO A MACABEZ - PRESSIONI DELLE POTENZE A COSTANTINOPOLI - IL BOMBARDAMENTO DEI DARDANELLI - L'OCCUPAZIONE DI RODI - LA MARCIA DELLE TRUPPE ITALIANE DA KALITHEA A RODI - LA BATTAGLIA DI PSITHOS -

OCCUPAZIONE ITALIANA DI ALCUNE ISOLE DELL'EGEO -

ESPULSIONE DEGLI ITALIANI DALL' IMPERO OTTOMANO

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LE OPERAZIONI DI GUERRA ALL'INIZIO DEL 1912

Le operazioni navali, sospese (su forti pressioni dell'Austria) nel basso Adriatico e nello Ionio, continuarono invece con maggiore intensità nel Mar Rosso. Queste operazioni avevano lo scopo d'impedire che la Turchia riuscisse, attraverso quel mare, il Sudan e l'Egitto, a far passare armi ed armati in Cireniaca e di proteggere l'Eritrea, che i Turchi dicevano di voler molestare.

Giolitti, per accelerare la conclusione della guerra e colpire l'Impero turco nei suoi centri vitali, prospettò la possibilità di estendere le operazioni alle isole dell'Egeo o nei Dardanelli. Ma le altre potenze europee si opposero con forza; e per fortuna che erano quelle "amiche", dell'Alleanza, a cominciare dall'Austria, la quale dichiarò che l'occupazione di isole dell'Egeo da parte italiana era contraria agli accordi della Triplice.
La Germania era contraria anch'essa, ma, come vedremo in queste pagine, si impegnò poi a fare pressioni sull'Austria per dare via libera all'azione militare italiana nell'Egeo, ma solo perché temeva che una lunga guerra di logoramento avrebbe indebolita troppo l'Italia e messo in pericolo l'esistenza della stessa Triplice.
Ma GUGLIELMO II, non sottovalutava neppure, che la presenza italiana nell'Egeo (indebolendo la Turchia oltre misura) costituiva una seria minaccia e un grave pericolo nel momento in cui (e già si preannunciavano) nei Balcani a danno dell'Impero turco ma anche per l'indipendenza di alcue regioni, si sarebbero scatenati dei conflitti tra Austria e Russia e i stati satelliti alleati o meno.
Le operazioni navali italiane, miravano inoltre a rendere insostenibile o per lo meno difficile la situazione dei Turchi nella penisola arabica, fra l'altro disturbata da agenti di Giolitti che, sostenevano, finanziavano e armavano la rivolta di SAID IDRISS, emiro dell'Assir, che combatteva contro l'esercito ottomano comandato da IZZET pascià.

Comandava le forze navali italiane nel Mar Rosso il capitano di vascello GIOVANNI CERRINA-FERONI, che non aveva dato mai tregua ai porti turchi, aveva più volte fatto bombardare accampamenti nemici sulla costa arabica, dato una caccia spietata al naviglio ottomano, che aveva perduto non poche unità.
Le ultime navi turche del Mar Rosso furono annientate il 7 gennaio del 1912 davanti a Kunfuda. Ecco come si svolse la brillante azione secondo il rapporto del Comandante Cerrina-Feroni:

"Convinto che numerose cannoniere turche erano rifugiate nei canali interni di Farisan, probabilmente verso Kunfuda, e grossi reparti di truppe si trovavano a Loheja, Midy e Kunluda, decisi di operare simultaneamente con tutte le navi disponibili a Massaua, coordinando la loro azione in modo di impedire la sfuggita delle cannoniere. Per nascondere l'intento, feci operare una diversione preliminare dalla Calabria e dalla Puglia con il bombardamento dell'accampamento di Gebaltar. Subito dopo comandai al Piemonte, al Garibaldino ed all'Artigliere di esplorare la costa cominciando da Gidda, poi di imboccare il canale interno di Farsan da Lidh e proseguire verso sud. Contemporaneamente inviai la Calabria e la Puglia, appena reduci da Gebaltar, ad investire Loheja e Afidy, che furono bombardate danneggiando l'accampamento, distruggendo il forte di Midy, battendo afficacemente le colonne di truppe e di cammelli marcianti verso Loheja. Intanto il Piemonte, il Garibaldino e l'Artigliere, proseguendo per il canale Nord, il giorno 7 scorsero a Kunfuda sette cannoniere turche, nonché lo yacht Fouwette, armato da guerra, con tutti i fuochi accesi. Alcune cannoniere salparono, appena avvisato il cacciatorpediniere in avanscoperta. Ad oltre 6000 metri dal canale aprirono il fuoco contro l'Artigliere, che rispose opportunamente non impegnandosi a distanza limitata, durante l'attesa del Piemonte e del Garibaldino sopraggiungenti.

"S'impegnò allora fra le nostre navi e le cannoniere turche appoggiate dalle batterie a terra un violento combattimento durato quasi tre ore e finito nella notte con un completo immobilizzo del nemico, che, demoralizzato, abbandonò le navi, alcune delle quali furono portate prima in secca. Nessun danno da parte italiana. La mattina seguente riconosciuta l'impossibilità di ricuperare alcune cannoniere perché troppo danneggiate, ne completarono l'annientamento con le artiglierie e l'incendio, catturando lo yacht, che fu possibile risparmiare. Fu bombardato poi l'accampamento ed il fabbricato con la bandiera turca. Il nemico ha abbandonato Kunfuda. Durante la notte gli equipaggi abbandonarono le cannoniere, sbarcando sulla spiaggia munizioni, materiale e bandiere, che il mattino seguente le lance armate del Piemonte, approdate a terra, requisirono. Furono raccolti molti trofei di guerra, molte mitragliatrici, strumenti nautici, imbarcazioni e bandiere. Fra le cannoniere distrutte una era di 500 tonnellate circa, armata con cannoni da 76 e mitragliere da 37, una di 350 tonnellate con cannoni da 65 e mitragliere da 35, cinque da 200 tonnellate con cannoni da 47 e mitragliere da 37, tutto sopra coperta, moderne".
Compito delle navi italiane, specie di quelle del Mediterraneo, era anche di reprimere il contrabbando che su larga scala era esercitato dalle frontiere tunisina ed egiziana. Uno dei punti della costa libica, presso il confine tunisino, dove maggiormente era esercitato il contrabbando, era Zuara. La corazzata italiana Iride e la torpediniera Cassiopea vi andarono il 19 dicembre ad eseguire una ricognizione ed operarono uno sbarco a Sidi Said, che poté effettuarsi dopo un vivace combattimento con una schiera araba di 400 uomini, metà dei quali rimasero sul terreno.

Il 22 dicembre 1911, l'incrociatore Puglia catturò il piroscafo Kaiseride, che, camuffato da nave ospedale turca, era forse diretto ad un porto europeo per caricare materiale destinato agli arabi. Il 17 gennaio, nel porto di Sfax fu perquisito il piroscafo Odessa, al quale furono confiscate mille casse di materiale bellico diretto a Zuara.
Il 16 gennaio del 1912, la regia nave Agordat fermò a trenta miglia dal Capo Spartivento il transatlantico francese Charthage, che faceva servizio tra Marsiglia e Tunisi. Essendovi nel piroscafo un aeroplano destinato ai Turchi in Libia e non avendo il comandante voluto consegnarlo, il Chartage fu bloccato e condotto a Cagliari. In seguito, avendo il Governo francese assicurato ufficialmente che l'aeroplano non era destinato ai turchi, il piroscafo fu rilasciato.
Il 18 gennaio, una delle cinque torpediniere che accompagnavano l'Agordat fermò al largo dell'isola di San Pietro di Sardegna un altro piroscafo francese, il Manouba che recava a bordo 29 passeggeri turchi, i quali si dicevano medici e infermieri. Essendosi il comandante rifiutato di consegnare i turchi, anche il Manouba fu bloccato e condotto a Cagliari, da dove due giorni dopo, sbarcati i passeggeri, il piroscafo proseguì la sua rotta.

 

La stampa francese, avuta notizia dei fatti, strillò. Alla Camera francese, il 22 gennaio, furono svolte interpellanze da deputati esaltati, che chiedevano una riparazione "eclatante" dall'Italia, come si espresse l'on. LAROCHE, o parole "energiche e rassicuranti" dal presidente del consiglio, come fece l'ammiraglio BIENAIMÉ, il quale disse avere la Marina, Italiana commesso "un vero attentato contro la libertà e l'onore della bandiera francese" e una mancanza di riguardo "premeditata", e dichiarò: "Il paese vuole una soddisfazione e, se occorre andare fino alla riparazione; esso è pronto".
Il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri POINCARÉ assicurò che gli incidenti stavano per accomodarsi, che i 29 passeggeri turchi erano stati consegnati al console francese a Cagliari e sarebbero stati rimandati al luogo d'imbarco impegnandosi la Francia ad impedire che raggiungessero Tunisi quelli che non erano né medici o infermieri; si lamentò dell'ingratitudine italiana e si augurò che "le relazioni amichevoli delle due nazioni, riposando sulla comunanza di ricordi, non sarebbero state turbate". Terminò pronunciando la frase celebre: "une muage qui passe n'assombrira pas l'horizon".
Quando però il Manouba e il Chartage giunsero a Tunisi ebbero accoglienze trionfali, che dimostrarono ad usura come la Francia nutrisse sentimenti ostili all'Italia: "Le società sportive -scrive il Curatulo- e le ginnastiche francesi e musulmane erano al completo. Vi erano pure il 4° reggimento dei "chausseurs" con fanfara, un battaglione di zuavi con la propria banda musicale; essi venivano a ricevere il colonnello DE BUVER, che si trovava tra i passeggeri, e poi vi era il delegato della Residenza, i generali, il vice presidente del Municipio, i capi servizio tutti al completo. La gioia e le acclamazioni con cui fu salutato l'approdo del "Chartage furono intense: grida di: "Viva la Francia ! Vita la Patria ! Viva da Repubblica ! Viva l'aeroplano ! Viva il comandante Thémèse ! Abbasso l'Italia! Abbasso la Sicilia ! Viva la Turchia !. Tutti vollero stringere la mano al comandante THÉMÈSE; qualche gentile rappresentante del bel sesso non resisté alla tentazione di abbracciarlo".

L'improvvisa tensione dei rapporti italo-francesi, fu però paradossalmente provvidenziale perché valse a modificare il contegno della Germania e dell'Austria verso l'Italia, i rapporti ridiventarono quasi cordiale. La stessa stampa dei due imperi, che fino allora era stata paladina della Turchia ed aveva perfino caldeggiato l'idea di una nuova Triplice, in cui l'impero ottomano avrebbe sostituito l'Italia, ora, eccettuati pochi giornali, voleva che all'alleanza delle tre nazioni aderisse anche la Turchia, pacificata con l'Italia.

COMBATTIMENTI DI GARGARESCH E DI AIN-ZARA
SCONTRI A DERNA, A BENGASI E A TOBRUCK
IL GENERALE CANEVA A ROMA

CONVERSIONE IN LEGGE DEL "DECRETO ANNESSIONE LIBIA"

Dopo qualche settimana di calma, intorno a Tripoli, nel gennaio del 1912, furono riprese le operazioni aeree. Grossa ricognizione, il 10, nella parte orientale dell'oasi con otto battaglioni una batteria da montagna, la terza divisione dei carabinieri, l'11° fanteria e uno squadrone di cavalleria; il 13 occupazione stabile dell'oasi di Tagiura, dove subito s'iniziò la costruzione di ridotte; il 15 ricognizione di uno squadrone di cavalleria verso Bir Akara e di un altro squadrone verso l'uadi Rubka con un cruento scontro con i beduini.

Il 18, a Gargaresch, dove si stavano costruendo dei fortini, ci fu un accanito combattimento. Al mattino, una colonna, composta di tre battaglioni del 52° fanteria, di uno del 1° granatieri, di una batteria da montagna e di due squadroni di guide e comandata dal Colonnello AMARI, fu assalita da nuclei di Arabo-turchi, che furono messi in fuga dall'artiglieria. Ma verso mezzogiorno il nemico tornava con forze maggiori ed attaccava violentemente gli italiani tentando anche di avvolgerli alla destra. Il combattimento durò fin quasi le 17, poi i nemici, respinti, ripiegarono in disordine verso Fonduk el-Toger.

Nella notte dal 27 al 28 gennaio 1912, preceduto da un attacco dimostrativo contro le linee italiane di Gargaresch, fu sferrato dai Turco-arabi, con forze assommanti ai 7000 uomini sostenuti da artiglierie, un energico attacco alle posizioni di Ain-Zara, che durò fino all'alba ma fu nettamente respinto. Il nemico, inseguito fino alle undici dalle colonne italiane, lasciò sul terreno circa mezzo migliaio di morti e un numero doppio di feriti. Anche nelle altre zone libiche la guerriglia riprese violenta. A Homs, nelle notti del 2 e del 3 febbraio, ci furono attacchi nemici però prontamente respinti; un terzo attacco, il 4 febbraio ma fu stroncato dalle artiglierie italiane.

A Derna, nel febbraio, il nemico si accanì contro l'acquedotto nella speranza d'impadronirsene. Assalti sferrò nella notte dal 2 al 3; respinto, tornò all'alba contro le ridotte Lombardia e Piemonte, ma fu ricacciato con perdite. Nella notte dal 10 febbraio all'11 febbraio, ENVER bey assalì con diverse migliaia di uomini e alcuni pezzi d'artiglieria, due punti delle linee italiane e riuscì ad espugnare la ridotta Lombardia, ma dopo un lungo e accanito combattimento il nemico fu dai fanti dell'Aosta e dagli alpini dell'Edolo ricacciato e messo un fuga.

A Bengasi, la notte sul 18 gennaio, mezzo migliaio di beduini assalì il blockhaus n. 3, difeso da 18 uomini del 68° fanteria comandati dal tenente NERI BIANCHINI, ma per ben due volte fu respinto dall'eroico manipolo. Il 19 un altro attacco contro le difese di Bengasi si infranse dopo tre ore di combattimento, e la notte dal 30 al 31, assalendo la ridotta del Foyat, gli Arabo-turchi subirono una sanguinosa disfatta.
Scontri di varia entità si verificarono a Tobruck il 14 e il 16 gennaio e il 3 e il 5 febbraio. Più accanito di tutti fu poi quello avvenuto nella notte del 17 febbraio alla ridotta del Tumulo.
Ai primi di febbraio giunsero a Tripoli un battaglione di ascari eritrei e uno squadrone di meharisti, comandati, l'uno dal maggiore DE MARCHI, l'altro dal capitano POLLERA, che furono immediatamente impiegati in ricognizioni; in quello stesso mese, con elementi libici, fu costituita a Tripoli una compagnia di savari che prese il nome di "banda del Gharian"; altri drappelli di savari furono costituiti a Bengasi.

Il 3 febbraio, chiamato dal Governo a Roma, partì da Tripoli il generale CANEVA, che lasciò temporaneamente il comando supremo e il governatorato al generale FRUGONI. Si disse allora che Caneva non sarebbe tornato più a Tripoli e quella diceria trovò facile credito presso il pubblico italiano, il quale, malcontento perché la guerra durava più del previsto e non accennava a finire, ne dava la colpa all'imperizia dei capi e principalmente al generalissimo.

CANEVA giunse a Roma il 7 febbraio e, in lunghi colloqui con i ministri e con il sovrano, dimostrò come fossero inopportune le impazienze del pubblico e ingiuste le accuse di lentezza che gli muovevano i facili critici. In Libia la guerra andava fatta con criteri diversi da quelli richiesti da una guerra europea. Occorreva sottomettere il paese a poco a poco e non andare a cercare il nemico nell'interno. Quanto alla Turchia, due sole erano le vie per indurla alla pace; l'azione diplomatica e l'azione navale.

Il 23 febbraio 1912, si riaprì il Parlamento. Il presidente della Camera, On. MARCORA, vivamente applaudito, pronunciò un patriottico discorso; egualmente applauditi gli interventi dell'on. LACAVA, del ministro della Guerra SPINGARDI e del ministro della Marina LEONARDI CATTOLICA; approvato all'unanimità fu un ordine del giorno cosi concepito:
"La Camera, con animo riconoscente ed orgoglioso, manda un saluto ed un plauso all'Esercito e alla Marina che, segnalandosi nel mondo, mantengono alto l'onore d'Italia!".

Infine l'on. Giolitti presentò il disegno di legge per l'annessione della Tripolitania e della Cirenaica, proponendo che esso fosse deferito all'esame di una commissione di 21 membri.
A far parte della Commissione furono chiamati gli onorevoli GIULIO ALESSIO, GUIDO BACCELLI, BARZILAI, BERTOLINI, BETTÒLO, BOSELLI, CARCANO, COCCO-ORTU, DANEO, ENRICO FERRI, FUSINATO, GUICCIARDINI, LACAVA, LUIGI LUZZATTI, RICCARDO LUZZATTO, MARTINI, ORLANDO, PANTANO, RONCHETTI, SALANDRA e SONNINO.

Il disegno di legge, che si componeva di un solo articolo, ed era accompagnato dalla seguente relazione:
"Onorevoli deputati, l'Italia ha sempre considerato come suo interesse vitale l'equilibrio delle influenze politiche nel Mediterraneo ed ha costantemente ritenuta condizione essenziale per tale equilibrio la libera e piena esplicazione della sua attività economica e della sua influenza in Tripolitania e in Cirenaica. Da lunghi anni, nonostante i mutamenti di uomini e di vicende, l'Italia ha diretto i suoi sforzi al conseguimento pacifico di questo fine, adoperandosi, con grande perseveranza e nei modi più leali, a conciliarlo col suo desiderio di mantenere amichevoli rapporti con la Turchia. Noi non saremmo ricorsi all'estremo mezzo di una guerra, se ogni altra soluzione non fosse stata resa impossibile, se ogni forma di attività italiana in Libia non avesse incontrato da parte del Governo ottomano una pertinace e sistematica opposizione, talora dissimulata, talora aperta, la quale divenne ancor più intensa e spesso provocante dopo l'instaurazione del regime costituzionale in Turchia, che aveva in principio destato tante speranze e tante simpatie. Nonostante tale contegno del Governo ottomano, l'Italia continuò per lungo tempo ad usare generosità e tolleranza in Tripolitania e in Cirenaica, cercando in tutti i modi di dimostrare che aveva unicamente di mira una pacifica opera di civiltà, e continuò pure a seguire, nella sua politica estera e in tutte le questioni in cui la Turchia era interessata, un indirizzo favorevole ad essa. A questo contegno l'Italia era indotta da considerazioni d'ordine più generale e dalla speranza che agendo in questo modo il Governo ottomano si sarebbe convinto della utilità di cessare dal porre ostacoli allo sviluppo degli interessi italiani in Libia.
"Tutto fu vano: ogni nostro atto, mosso da spirito di conciliazione e da particolare riguardo alle sue difficoltà interne ed esterne, era considerato dal Governo della Turchia come prova di debolezza e, mentre ne profittava per aggravare le sue continue ostilità e insidie contro qualunque nostra azione economica e civilizzatrice, e mentre preparava e compiva armamenti diretti a più aperte ed offensive provocazioni, continuava a mantenere quelle popolazioni nello stato delle più completa barbarie. Grave responsabilità avremmo assunto di fronte al nostro paese ed all'Europa intera, a gravi pericoli avremmo esposto l'avvenire d'Italia e la pace europea, se avessimo lasciato durare a lungo una situazione lesiva del nostro decoro e dei nostri vitali interessi, e cosi tesa da non poter avere altra soluzione che una guerra, e non avessimo tenuto conto del pericolo che questa venisse a scoppiare poi in un momento in cui avesse dato luogo a gravi e pericolose ripercussioni internazionali. D'altra parte era ormai evidente che non poteva durare a lungo la dominazione della Turchia sopra regioni poste a contatto con le Nazioni più civili, e nelle quali essa, che le aveva in tempo relativamente recente conquistate, nulla facendo per migliorarne le condizioni, si ostinava ad impedire che penetrasse per opera di altre Nazioni qualsiasi più elementare principio di vivere civile, tanto da mantenervi sulle sponde del Mediterraneo il commercio degli schiavi. Il contegno del Governo ottomano verso quelle regioni era tale da condurre inevitabilmente alla loro separazione dal resto dell'Impero, e certamente una fatale legge storica avrebbe indotto altri popoli europei ad assumersi quella missione di civiltà, alla quale fosse venuta meno l'Italia di fronte alla quale si stendono a poche ore di navigazione le coste della Tripolitania e della Cirenaica, dove tanti gloriosi ricordi lasciò la civiltà romana, avrebbe commesso il più grave degli errori se avesse rinunciato ad una missione che la sua storia, la sua posizione geografica e le sue condizioni sociali le impongono. La guerra italo-turca, diventata inevitabile scoppiò nel momento in cui era minore la probabilità di pericolose ripercussioni internazionali; essa è stata da noi fino ad ora condotta in modo da allontanarle il più possibile, e proponiamo oggi alla vostra approvazione la sola soluzione atta ad impedire che si presentino in avvenire.

I popoli hanno sovente un intuito meraviglioso di certe verità e di certi grandi interessi generali e nazionali: ne ha dato in questa occasione un esempio luminoso il popolo italiano, che ha chiaramente sentita la necessità di affrontare, senza indugio e senza impazienza, con calma e con perseveranza, tutti i sacrifici necessari per risolvere definitivamente e radicalmente la questione dell'assetto dell'Africa mediterranea, sottoponendo alla piena e completa sovranità dell'Italia la Tripolitania e la Cirenaica.

"Il sentimento popolare si sarebbe ribellato al pensiero di lasciare sotto la dominazione politica della Turchia le terre bagnate col sangue dei nostri eroici soldati. Ma il sentimento popolare era qui in pieno accordo con i più vitali, con i più positivi interessi del paese. Qualsiasi soluzione che non escludesse ogni dominazione politica della Turchia, avrebbe creato uno stato di cose assai pericoloso nei rapporti internazionali, dando origine, tra noi e le Potenze europee, a situazioni giuridiche e diplomatiche incerte; avrebbe tolto all'Italia ogni prestigio di fronte alle popolazioni indigene, avrebbe dato origine a nuovi conflitti con la Turchia, e avrebbe reso quasi impossibile la vera pacificazione, che è indispensabile per condurre quelle regioni al grado di civiltà che costituisce per l'Italia un impegno d'onore.
Questo con il suo fine intuito comprese il popolo italiano, della cui decisa volontà il decreto del 5 novembre 1911 non è stato che la genuina espressione. Gli esempi che una parte della stampa straniera ha citato, per dimostrare che una soluzione meno radicale avrebbe potuto dare buoni risultati, non calzano, perché, o si tratta di paesi, il cui sovrano indigeno risiede nel paese stesso e personalmente interessato al suo benessere ed è assistito dai funzionari della Potenza occupante, o si tratta di condizioni speciali, come quelle di Cipro, o altrimenti si è dovuto riconoscere, come nel caso della Bosnia ed Erzegovina, l'assoluta necessità di cancellare ogni vestigio di dominazione politica della Turchia.

"Nel caso di Cipro, invece, non era da temere che la Turchia volesse e potesse profittare dell'alta sovranità per creare imbarazzi al Governo britannico; infatti la maggioranza della popolazione di Cipro è cristiana e l'occupazione di quell'isola fu consentita dalla Turchia all'Inghilterra come mezzo di facilitarle l'appoggio, anche militare, cui in pari tempo si obbligava, in un momento nel quale grandi erano le simpatie turche per quella Potenza, che aveva salvato l'impero ottomano dalle più gravi conseguenze della guerra perduta con la Russia. Inoltre, assai più facile era regolare e mantenere rapporti continui, delicati e di natura non ben definita ai tempi dell'antico regime ottomano che oggi, e ciò per molte difficoltà d'ordine costituzionale fra le quali soprattutto grave la questione dell'invio di deputati al Parlamento di Costantinopoli. Ciò è tanto vero che, appena proclamata la costituzione in Turchia, l'Austria- Ungheria dovette necessariamente proclamare alla sua volta l'annessione della Bosnia ed Erzegovina, sebbene l'alta sovranità del Sultano presentasse minori pericoli in quelle province, dove solo un terzo della popolazione è mussulmana, mentre in Libia dove lo è quasi per intero.
Da ciò la necessità nell'interesse dell'Italia, dell'Europa intera e della Turchia stessa, del decreto che sottoponiamo oggi alla vostra approvazione e che costituisce il solo modo di eliminare ogni causa di futuri conflitti tra l'Italia e la Turchia..
Il decreto che vi presentiamo per la sua conversione in legge riserva ad una legge speciale il determinare le norme definitive per l'amministrazione della Tripolitania e della Cirenaica. Dal modo col quale sarà organizzata l'amministrazione di quelle regioni dipenderà in gran parte il loro avvenire; è quindi necessario un complesso di studi diligenti affinché l'opera nostra non sia inferiore alla gravità dell'argomento e alle gloriose tradizioni italiche.

"Al rispetto più rigoroso della religione mussulmana, dei diritti o dei legittimi interessi delle popolazioni indigene, dovrà corrispondere l'ordinamento di un'imparziale giustizia, l'impianto di servizi civili adatti alle condizioni naturali e sociali, lo studio dei grandi problemi economici, dalla risoluzione dei quali dipenderà ad un tempo la prosperità di quelle ragioni e il benessere e il buon nome d'Italia. Onorevoli deputati, il compito che l'Italia si è assunto è dei più grandi e dei più gravi che un popolo si assume. Il popolo italiano con il suo calmo, fermo e patriottico contegno ha dimostrato di averlo compreso. A questo contegno, comune a tutte le classi sociali, corrispose l'eroica condotta del nostro esercito e della nostra armata, veri e schietti rappresentanti dell'anima nazionale. Noi abbiamo ora la certezza che il fine che si propose l'Italia sarà raggiunto; ma perché esso rappresenti una grande opera di civiltà occorre che l'azione del grande legislatore e del Governo non sia menomata da una dominazione politica straniera, è necessario quindi che la sovranità d'Italia sulla Libia sia piena ed intera".

Nel pomeriggio del 24, l'on. GIOLITTI comunicò di aver partecipato al comando generale delle truppe in Tripolitania e a tutti i comandi dell'esercito e dell'armata il saluto del Parlamento votato nella seduta del giorno precedente, e lesse la risposta del generale CANEVA che fu accolta con fragorosi applausi; quindi l'on. FERDINANDO MARTINI lesse la relazione della Commissione, in cui fra l'altro si affermava:

"II decreto del 5 novembre sussegue all'impresa e ne afferma gli effetti; lo conforta la ragione politica consapevole delle difficoltà e dei pericoli di un duplice dominio, lo conforta il sentimento spesso più d'ogni ragione guida fedele dei popoli. Là dove fu data al vento la nostra bandiera, dove cadde reciso il fiore della balda gioventù nostra, sulla terra che vide le epiche audacie della nostra marina, dove, tra il ridestarsi di sopite energie, noi ritroviamo noi stessi, non può sussistere dominazione che la nostra non sia.
E già la Libia fu nostra, la fatica dello zappatore restituisce alle carezze del sole le vestigia della civiltà latina e l'opera magnifica degli avi lontani; la fa nostra oggi la prodezza dell'esercito; sarà più tranquillamente nostra domani, quando, come avvenne in minori colonie italiane, gl'indigeni tolti alle sobillazioni bugiarde, sicuri nelle inviolate credenze, tra la feconda luce dell'incivilimento che tutto disnebbia, fruiranno di non mai godute né sperate prosperità".

Fra i deputati che parlarono intorno alla relazione fu l'on. ENRICO FERRI, che, tra l'altro, disse:
"Osservatore dei fatti sociali, non posso dimenticare la legge storica per cui una nazione, ottenuto il culmine della pienezza della sua vita, passa inevitabilmente per la fase della espansione coloniale. E questo non poteva non essere il destino d'Italia! L'Italia aveva delle speciali ragioni per la sua speciale fortuna sul mare Mediterraneo ove ogni terra palpita ancora della sovranità romana. Gli Italiani che vivono all'Estero -e che finora erano troppo poco considerati e male trattati- risentiranno ora il prestigio della madre patria che rifulge superbamente luminoso. Le speciali condizioni delle classi lavoratrici meridionali, il cui sviluppo è un problema decisivo della nostra vita economica nazionale, imponevano questa necessità. L'unità morale del paese che ha oggi riaffermata innanzi al mondo civile, che finalmente ha mostrato di accorgersene, non cancellerà le ragioni profonde dei partiti politici che sono basati esclusivamente sulla organizzazione di grandi interessi collettivi materiali e morali".

L'on. GIOLITTI, che prese per ultimo la parola, dichiarò di essere "entrato nel concetto della necessità dell'impresa non per forza d'entusiasmo, ma con freddo ragionamento", e, a proposito del decreto, affermò che era stato fatto "per togliere qualunque illusione, per determinare qual'è la meta cui il paese a qualunque costo vuol giungere, in modo che amici alleati, avversari sappiano quale è il punto oltre il quale l'Italia non potrà andare nelle sue concessioni"

Applausi coronarono le parole del presidente del Consiglio. Posta in votazione la legge sulla sovranità italiana in Libia, fu approvata con 431 voti contro 38 ed 1 astenuto. Con un TURATI molto critico sull'impresa libica e con tutto il gruppo socialista che aveva dichiarato che avrebbe votato contro; però 13 deputati socialisti voteranno a favore ma rimarranno nell'anonimato.
La poca fiducia che già avevano fra di loro, fu così avvelenata dai sospetti, e TURATI inizierà a sostenere che "ormai è inevitabile una scissione"; ma la soluzione a questi contrasti con una mozione a maggioranza fu rimandata al successivo congresso del PSI.
Roma quel giorno pareva in festa; i negozi, durante la seduta alla Camera erano chiusi per festa nazionale; un'enorme folla si stipava in Piazza Montecitorio, sventolando bandiere e cantando inni. Alla fine della seduta, quando i ministri e i sottosegretari si affacciarono al balcone, la folla fece loro una dimostrazione delirante, poi, in corteo, si recò in piazza del Quirinale ad acclamare i sovrani.
Al Senato, il giorno dopo, il disegno di legge fu approvato con 202 voti favorevoli su 202 votanti. Erano presenti alla seduta il duca di Genova e il duca d'Aosta, ai quali l'assemblea e il pubblico che gremiva le tribune fecero un'entusiastica dimostrazione.


AZIONE NAVALE DI BEIRUT
GLI SFORZI DELLE POTENZE PER LA PACE
BATTAGLIA DEL MERGHEB - COMBATTIMENTO DI DERNA RICOGNIZIONE DI BIR EL-TURK - LA BATTAGLIA DELLE DUE PALME
ATTENTATO
AL RE D'ITALIA
LO SBARCO A MACABEZ

Il giorno stesso che la Camera approvava la conversione in legge del Decreto sulla sovranità italiana in Libia, la Garibaldi e la Ferruccio, che facevano parte della 2a divisione della 25 squadra sotto gli ordini del contrammiraglio THAON DE REVEL, affondavano nel porto di Beirut due navi turche. Lo stesso contrammiraglio ne dava comunicazione all'ammiraglio Faravelli, comandante della 2a squadra con questo telegramma:

"Ho sorpreso all'alba nel porto di Beirut la cannoniera turca Ave-Illak ed una torpediniera tipo Autaldia. Fu intimata la resa concedendo tempo fino alle nove, comunicando questa decisione al governatore ed alle autorità consolari per mezzo di un ufficiale turco venuto a bordo. Alle ore 9 fu ancora alzato il segno di "arrendetevi !" Non essendo stata ricevuta alcuna risposta fu aperto il fuoco d'artiglieria contro la cannoniera che rispose con vivacità. Alle 9.20 la cannoniera fu ridotta al silenzio con un incendio a bordo. Sospeso il fuoco, mi recai con la sola "Garibaldi all'entrata del porto dove fu iniziata l'azione contro la torpediniera danneggiandola seriamente e completandone poi la distruzione con un siluro. È da escludersi in modo assoluto che sia stato effettuato il bombardamento della città di Beirut. La squadra è subito ripartita".

L'azione navale di Beirut suscitò vivo clamore in Europa. L'Inghilterra, temendo che l'estendersi delle operazioni di guerra italo-turche suscitassero in Asia un incendio religioso pericoloso ai suoi domini indiani, verso la fine di febbraio propose alle Potenze di fare un passo collettivo a Roma per impedire che la guerra si allargasse nel Mediterraneo e specialmente nei Dardanelli, ma la Russia si oppose. Dal canto suo l'Italia con una nota alle Potenze in data del 7 marzo dichiarò che avrebbe risparmiato solamente le coste turche dell'Adriatico e dell'Jonio, secondo i patti fatti (voluti dagli austriaci) con l'Austria.
Sorte migliore della proposta inglese non ebbe quella russa, cioè quella di fare un passo collettivo a Costantinopoli, che fallì per l'opposizione del ministro britannico degli Esteri sir EDWARD GREY, il quale propose che si facesse un passo contemporaneo a Costantinopoli e a Roma. Poiché il 4 marzo il Governo ottomano deliberò di non rinunziare alla sovranità turca sulla Tripolitania e sulla Cirenaica, le Potenze stabilirono d'interrogare soltanto l'Italia, il che fu fatto il 10 marzo.
Rispose cinque giorni dopo Di SAN GIULIANO con un memoriale in cui erano esposte le condizioni che per parte dell'Italia potevano condurre ad un accordo. Esse erano le seguenti:

* Riconoscimento da parte delle Potenze della sovranità italiana in Libia e ritiro delle truppe turche dalla Tripolitania e dalla Cirenaica.
* L'Italia si sarebbe impegnata a riconoscere l'autorità religiosa del califfo in Libia, a rispettare la religione, gli usi e i costumi delle popolazioni musulmane, a non punire coloro che avevano continuato nell'ostilità dopo il decreto d'annessione,
* A garantire ai creditori del Debito Pubblico ottomano la quota rispondente al prodotto che davano le dogane libiche;
* a riscattare i beni posseduti dallo stato ottomano nei due vilayets;
* a togliere l'aumento dei dazi sui prodotti turchi importati in Italia e ad
accordarsi con le grandi potenze per garantire efficacemente l'integrità della Turchia europea.

Pochissimo tempo dopo che Di San Giuliano aveva consegnato il memoriale agli ambasciatori, la Sublime Porta fece sapere ai suoi ministri presso le Potenze europee che "le condizioni di pace formulate dall'Italia erano assolutamente inaccettabili". Cadeva quindi ogni speranza di indurre la Turchia a rinunciare alla Libia e di far cessare una guerra che poteva provocare un conflitto generale.
Nonostante il malumore europeo suscitato dall'affondamento delle due navi turche nel porto di Beirut, l'Italia non sospese le sue operazioni navali né limitò il raggio della sua azione. Neppure la morte del viceammiraglio AUBRY, comandante in capo della flotta italiana (gli successe prima il viceammiraglio FARAVELLI, poi il viceammiraglio LEONE VIALE) avvenuta il 4 marzo del 1912 a Taranto, interruppe o rallentò l'azione italiana sul mare.

Quel giorno stesso un incrociatore italiano bombardò Dubab, sullo stretto di Bab el Maudeb, e una torpediniera i forti di Sceik-Said. Il 10 marzo una nave da guerra con le insegne tricolori, fermò il piroscafo inglese Neghileh e ottenne la consegna di due ufficiali ottomani che erano a bordo; il 29 fu catturata presso Loheia una nave carica di viveri destinati al presidio turco di Hodeida; il 3 aprile fu catturato il piroscafo greco Helpis che portava per conto della Turchia materiale da guerra; il 4 un altro piroscafo greco, il Georges, fu catturato nelle acque di Brindisi.

Mentre le navi italiane facevano buona guardia nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, combattimenti di varia importanza avvenivano in Tripolitania e in Cirenaica. Da Homs, il 26 febbraio, il generale REISOLI riusciva a distrarre molte forze nemiche verso Sliten con la minaccia di uno sbarco in questa località, e il 27 lanciava all'assalto delle posizioni del Mergheb tre colonne di 2000 uomini ciascuna, formate dall'89° fanteria, dal battaglione Alpini Mondovì, dal 2° battaglione del 6° Fanteria e dal 1° del 37°, dall'8° reggimento bersaglieri, da mezza compagnia del genio, da parecchie sezioni mitragliatrici e da sei batterie, le quali dopo otto ore di sanguinoso combattimento, contro un nemico che si batté disperatamente e perse più di 1400 uomini, s'impadronivano di tutte le posizioni avversarie.

Il 3 marzo, a Derna, due battaglioni del 35° fanteria e la batteria D'Angelo, che proteggevano i lavori presso la ridotta Lombardia, furono assaliti da forze di molto superiori, ma resistettero benissimo e alla fine, soccorsi dal resto del 35°, da un battaglione del 28°, dal battaglione Alpini Edolo, rinforzato con elementi dei battaglioni Ivrea e Verona, e da una batteria da montagna e sostenuti dalle artiglierie della ridotta, che fecero tacere i pezzi turchi, dopo alcune ore di duro combattimento, riuscirono a respingere, ma non a disperdere il nemico.
Sul tardo pomeriggio il generale CAPELLO con il 22° fanteria, un battaglione del 40° e il battaglione alpini Saluzzo iniziò un'azione offensiva aggirante sulla destra degli Arabo-turchi determinandone la ritirata. In quella furiosa battaglia, alla quale presero parte 11 battaglioni, gli italiani subirono 8 ufficiali e 52 soldati morti, e 13 ufficiali e 164 soldati feriti; il nemico circa 800 uomini, fuori combattimento.

Il 4 marzo 1912, presso Tripoli, il battaglione italo-eritreo, forte di 600 fucili e sostenuto da un plotone di cavalleria e da un gruppo di cammellieri corridori, in ricognizione verso Bir el-Turk, fu assalito e minacciato di avvolgimento da numerose forze nemiche. Dopo cinque ore di accanito combattimento, costrinse gli assalitori a ripiegare e riuscì a fare ritorno a Tripoli.
Il 5, presso Homs, 5000 Arabo-turchi tentarono di riconquistare le colline del Mergheb, ma i loro assalti s'infransero davanti la strenua difesa del 1° battaglione dell'89° fanteria, del battaglione alpini Mondovì, di due battaglioni dell'8° bersaglieri, di due batterie da campagna e di una da montagna. Poche le perdite italiane; quelle del nemico furono di 400 morti e 1000 feriti.

Il 10 marzo, 1500 Arabo-turchi attaccarono le trincee di Ain-Zara, ma furono prontamente respinti. L'11, a Tobruk, due battaglioni del 34° fanteria e una batteria da montagna, usciti a protezione di una compagnia minatori, impegnarono con il nemico un serio combattimento, al quale parteciparono anche due battaglioni e mezzo del 20° fanteria e che finì con la fuga degli Arabo-turchi, le cui perdite furono di 360 morti e 600 feriti.

Una grossa battaglia fu quella combattuta, presso Bengasi il 12 marzo e che fu detta delle "Due Palme" dal nome dell'oasi in cui avvenne. Il nemico che vi si annidava e molestava continuamente le difese italiane avanzate, era forte di parecchie migliaia di uomini; quelle italiane, che, sotto la personale direzione del generale Ameglio, presero parte all'azione formavano due reggimenti misti costituiti da due battaglioni del 57° fanteria, due del 79°, uno del 4° e uno del 63°; inoltre vi erano due batterie da campagna e tre da montagna e, in riserva, il terzo battaglione del 57°, due squadroni dei cavalleggeri Piacenza e due dei cavalleggeri Lucca.
Dopo un'intensa preparazione di artiglieria, verso le 11, le truppe italiane iniziarono l'avanzata verso l'oasi. L'accanita resistenza di un forte nucleo nemico nascosto in una vastissimo fossato arrestò il centro dello schieramento offensivo italiano, ma ben presto fu superata alla baionetta dai fanti che piombati dentro il fossato fecero strage degli Arabi non lasciandone neppure uno vivo.

Contemporaneamente il generale AMEGLIO spiegò le ali, portò in prima fila le batterie leggere e chiuse il nemico in un inesorabile cerchio di ferro e di fuoco. L'impeto degli assalitori fu pari al disperato valore degli Arabo-turchi. Di questi, dopo una mischia furibonda alla quale assistette dalle alture la popolazione, fu fatta un'orrenda strage.
Alle 13.30 dell'12 marzo, la battaglia era finita e i pochi beduini scampati all'eccidio furono abbattuti a fucilate mentre fuggivano. Le perdite italiane furono di 3 ufficiali e ventisei uomini di truppa morti, di 7 ufficiali e 55 soldati feriti; quelle del nemico furono valutate a un migliaio di morti e circa il doppio di feriti.
Il giorno dopo, alla Camera, il ministro della Guerra SPINGARDI comunicò la notizia della brillante vittoria delle Due Palme, "dovuta ad abile preparazione e condotta di capi, all'efficace cooperazione delle varie armi, alla salda disciplina, al valore di tutti", suscitando un indescrivibile entusiasmo; un'entusiastica dimostrazione ebbe luogo al Senato all'annunzio del successo e a Bengasi quel giorno stesso fu inviato per telegrafo il compiacimento del Sovrano, del Governo, e del capo di Stato Maggiore. Qualche giorno dopo GIOVANNI AMEGLIO era promosso per merito di guerra tenente generale e il colonnello MOCCAGATTA maggior generale.

L'ATTENTATO A VITTORIO EMANUELE III

Il 14 marzo 1912, due giorni dopo la battaglia delle Due Palme, Roma fu commossa dalla notizia di un attentato commesso contro VITTORIO EMANUELE III dal muratore anarchico ANTONIO D'ALBA, che sparò tre colpi di rivoltella, fortunatamente andati a vuoto, contro la carrozza del Re, mentre questi si recava al Panteon. L'attentato, ch'era opera di un pazzo, si disse essere stato preparato dai Giovani Turchi; e a Tripoli, in segno di gioia per lo scampato pericolo e di riprovazione del turpe atto, arabi ed ebrei nelle moschee e nelle sinagoghe fecero solenni cerimonie di ringraziamento che assunsero l'aspetto di manifestazione politica.

Nel successivo aprile le operazioni di guerra furono condotte con più energia ed ebbero un maggiore sviluppo. A Suani Osman presso Bengasi, il 3 aprile un violento attacco nemico fu stroncato dal fuoco micidiale delle batterie italiane, il 6, 7 e 8 altri attacchi furono respinti a Tobruck; lo stesso avvenne il 9 a Derna. Fin dagli ultimi di marzo si preparava un'azione importante, che fu portata poi a termine il 10 e l'11 aprile. Il giorno 9, dopo un lungo bombardamento, fu simulato uno sbarco a Zaira; la mattina del 10 gli incrociatori Marco Polo e Carlo Alberto, gl'incrociatori ausiliari Città di Catania e Città di Siracusa, la torpediniera d'altomare Alcione e il cacciatorpediniere Fulmine bombardarono furiosamente Zuara, a scopo dimostrativo, e dalle navi da trasporto Sannio, Toscana ed Hercules fu simulato uno sbarco; l'11 mattina, continuando il bombardamento di Zuara, una divisione di fanteria, comandata dal generale GARIONI, sbarcò nella penisoletta di Macabez ed occupò il territorio presso Sidi-Said, vicino il confine tunisino. Il giorno seguente fu occupato il forte di Forwa; su questo gli Arabo-turchi lanciarono due assalti successivi che gli ascari eritrei e nuclei di marinai, di finanzieri e del genio respinsero.

IL PASSO DELLE POTENZE A COSTANTINOPOLI
IL BOMBARDAMENTO DEI DARDANELLI
L'OCCUPAZIONE DI RODI - LA BATTAGLIA DI PSITHOS -
OCCUPAZIONE ITALIANA DI ALCUNE ISOLE DELL'EGEO
ESPULSIONE DEGLI ITALIANI DALL'IMPERO OTTOMANO

Il 16 aprile del 1912, sperando di porre termine alla guerra italo-turca, le grandi potenze europee fecero un passo a Costantinopoli presso il ministro degli Esteri ottomano ASSIM bey, al quale gli ambasciatori dichiararono che, avendo già chiesto all'Italia le condizioni di un loro amichevole intervento per la cessazione delle ostilità, rivolgevano questa stessa richiesta alla Sublime Porta.
Il ministro turco promise di comunicare il passo delle Potenze al Capo del suo Governo. Due giorni dopo si apriva la camera ottomana con il sultano SAID Pascià, presente, che leggeva il discorso del Trono, in cui fra le altre cose, era detto:
"La guerra, iniziata ingiustamente e contrariamente ai trattati dall'Italia, continua, nonostante il desiderio di pace manifestato da ogni parte. Anche noi desideriamo la pace, ma la pace non potrebbe porre fine alla guerra che a condizione del mantenimento effettivo ed integrale dei nostri diritti sovrani".

Nel discorso del Trono c'era già la risposta al passo delle Potenze; tuttavia il 23 aprile ASSIM bey consegnava a ciascun ambasciatore un memoriale in cui il Governo turco si diceva pronto ad entrare in trattative per la pace, ma poneva come condizione sine qua non la sovranità ottomana sulla Tripolitania e sulla Cirenaica.
La risposta turca decise il Governo italiano a intensificare la guerra e ad estenderla nell'Egeo con l'occupazione di alcune isole appartenenti alla Turchia. Le potenze europee, interpellate di buona o di mala voglia acconsentirono, ultima l'Austria, la quale volle che verbalmente l'Italia promettesse di riconsegnare, a guerra finita, le isole occupate ai Turchi.
In verità le operazioni, affidate a THAON DI REVEL, cominciarono prima che la risposta turca alle Potenze fosse data; ma si conosceva già che essa sarebbe stata negativa, date le troppe dichiarazioni ufficiose fatte sull'argomento.

La notte dal 17 al 18 aprile alcune navi italiane tagliarono i cavi sottomarini che univano le isole del basso Egeo con l'Asia Minore. Il 18 la divisione navale di Revel sfilò davanti l'imboccatura dei Dardanelli. Cannoneggiate dalle batterie dei forti di gum-galesch e di Sed-dul-Bahr, le regie navi Varese, Ferruccio e Garibaldi risposero al fuoco smantellando le fortezze.
Lo stesso giorno 18 la corazzata Emanuele Filiberto e la torpediniera Ostro presentatasi nelle acque di Wathy (sola di Samo), in cui la Porta teneva illegittimamente una guarnigione, essendo quell'isola un principato autonomo e neutrale, colarono a picco lo stazionario turco Ixaniè, distrussero una caserma ottomana, smontarono alcuni pezzi d'artiglieria e costrinsero i turchi ad ammainare la bandiera.

Il 19 aprile la Sublime Porta notificò alle ambasciate la chiusura assoluta dei Dardanelli. Intanto navi italiane abbattevano le stazioni radiotelegrafiche di Cesme, Aladiez, Kelemmisch e Cividera. Il 28, la divisione navale dell'ammiraglio PRESBITERO occupò l'isoletta di Stampalia, che doveva costituire la base di future operazioni navali nell'Egeo, fece occupare da due compagnie da sbarco le colline dominanti la città di Livadhia e ottenere la resa del presidio turco.

L'occupazione di Stampalia non era che l'inizio di altre occupazioni, per effettuare le quali si era costituito, sotto gli ordini del generale AMEGLIO, un corpo di spedizione di cui facevano parte il 34° fanteria (col. FERRUCCIO TROMBI), il 43° fanteria (col. RIBOTTI), il 57° fanteria (col. VANZO), il 58° fanteria (col. FABBRI), il 4° bersaglieri (col. MALTINI), il battaglione alpini Fenestrelle, due batterie da campo, due da montagna, un plotone di cavalleggeri Piacenza, una compagnia di zappatori, guardie di Finanza, minatori, telegrafisti, sanità, sussistenza.

Queste truppe, concentrate a Tobruck, presero posto sulle navi trasporti militari Sannio, Yalparaiso, Verona, Re Umberto, Bulgaria, Cavour e Lazio, che furono scortate dalla Saint-Bon, dagli incrociatori ausiliari Duca di Genova e Città di Siracusa e dalla squadriglia delle siluranti comandata dal DUCA degli ABRUZZI, imbarcato sulla Vettor Pisani. Al largo incrociavano le squadre del viceammiraglio VIALE, e del viceammiraglio AMERO D'ASTE che insieme con quella del contrammiraglio PREBISTERO dovevano partecipare alla prima importante azione nell'Egeo, consistente nell'occupazione di Rodi.

Partito da Tobruck il 2 maggio, il convoglio, su due linee, precedute, fiancheggiate e seguite da navi da guerra, giunse il giorno 4 maggio alle ore 2 dinanzi alla baia di Kalithea, a 12 chilometri della città di Rodi. Alle 4 si iniziavano, sotto la protezione della Marina, le operazioni di sbarco e in meno di tre ore 8000 uomini prendevano terra e subito dopo venivano sbarcati i servizi logistici, artiglieria, quadrupedi, viveri, ospedali da campo, ecc.; mentre la divisione Presbitero andava ad incrociare nella baia di Trianda e la divisione Viale davanti a Rodi, rimanendo a proteggere il convoglio dell'Amero d'Aste.
Da Rodi il presidio turco si era ritirato nell'interno, verso l'altipiano di Smith. Il generale AMEGLIO, appena sbarcato, avvertì l'ammiraglio Viale che avrebbe mosso sollecitamente contro il nemico avanzando poi verso la capitale. Dal canto suo l'ammiraglio mandò un ufficiale ad intimare la resa al "valì, il quale dichiarò di non aver modo di opporsi e di abbandonare perciò la direzione degli affari. L'ammiraglio Viale, richiesto di risparmiare la città, promise di non bombardarla, ma fece iniziare subito il fuoco delle navi dalla parte di Kalithea e di Trianda sul campo ottomano di Smith.

Mentre a Khalithea venivano sbarcati i servizi logistici, il generale Ameglio faceva avanzare verso il colle di Koskino l'avanguardia del suo corpo, composta di un battaglione alpini, due battaglioni bersaglieri, un plotone di finanzieri, mezza compagnia di minatori, due batterie da montagna, la sezione telefonisti e il plotone di cavalleria. Verso le 12.30 il 57° fanteria e il 1° battaglione del 34° raggiungevano rispettivamente la sinistra e la destra dell'avanguardia.

Poco dopo le 13, le truppe italiane presero contatto col nemico, che, bersagliato dal nitrito fuoco della fucileria e caricato di fianco alla baionetta, si disperse per la campagna, lasciando una cinquantina di prigionieri. Il generale Ameglio li insegui fino alla pianura di Sandrulli, a tre chilometri da Rodi, quindi ordinò alle colonne di fermarsi.

Durante la notte le navi che sostavano nelle acque di Kalithea, di Trianda e Rodi tennero accesi i riflettori. All'alba ricominciò l'inseguimento del nemico, che, demoralizzato, in parte si arrendeva, in parte si nascondeva nelle case di campagna o della città o nei forti, che subito venivano assediati.
Il giorno 5 mattina il generale AMEGLIO, con le sue truppe e i prigionieri, fece l'ingresso a Rodi mentre dalle navi scendevano alcune compagnie. Il valì era fuggito (fu fatto prigioniero due giorni dopo dall'Ostro nella rada di Lindos), ma il reggente interinale fece atto di sottomissione. Nel pomeriggio sul torrione che guarda il golfo fu innalzata la bandiera italiana, accanto alla quale fu fatto sventolare un gonfalone, rosso con un leone alato d'oro, insegna di S. Marco, che alcuni ufficiali del 57° avevano portato seco, poi fu pubblicato un proclama alle popolazioni.
Siccome la notte precedente i turchi avevano aperto le porte delle prigioni liberando circa 300 reclusi, il generale Ameglio dispose affinché questi malfattori fossero catturati e chiusi ancora nelle carceri. Durante le ricerche, che furono fruttuose, furono arrestati numerosi soldati turchi che si tenevano nascosti in abiti borghesi in case ospitali.

Ma il grosso del presidio, ancora in armi, si era ritirato a Psithos, nel centro dell'isola, con il proposito di resistere ed occorreva snidarli da quelle montagne prima che potessero organizzare bande armate con le quali avrebbero dato filo da torcere al corpo di occupazione.
Il generale Ameglio non era uomo da indugiare: il giorno 14 la sistemazione della base era ultimata e i preparativi per l'avanzata verso l'interno erano terminati; poteva quindi attuare il suo piano che era quello di lasciare a Rodi le forze strettamente necessarie per mantenere l'ordine e per presidiare le opere costruite contro eventuali ritorni offensivi del nemico, muovere verso Psithos, accerchiare i Turchi e costringerli ad un combattimento decisivo o alla resa.

Riportiamo fedelmente il rapporto dello stesso
generale Ameglio sulle operazioni per il combattimento di Psithos:

"Le truppe vennero ripartite in tre colonne con i seguenti obiettivi:
Colonna A principale, agli ordini diretti del generale AMEGLIO, composta di quasi tutta la fanteria, di tre batterie da montagna, muovendo da Rodi per la via ordinaria e seguendo l'itinerario Asgura, Koscinò, Afando, Stuvurudiù, doveva attaccare decisamente Psithos da sud-est.
Colonna B, al comando del colonnello MALTINI, composta dei bersaglieri, s'imbarcò a Rodi sul piroscafo noleggiato "Sannio, e sbarcando sulla spiaggia di Kalavarda, doveva portarsi presso a Themilvak e di là, tenendosi sempre pronta a sostenere, in condizioni favorevoli di terreno, un eventuale attacco del grosso del nemico, doveva avanzare fino alla forte posizione di Kalopetra, per sbarrare la via di ritirata da Psithos per il versante di Kalemona verso il monte Sant' Elia, e concorrere, appena, le fosse possibile, all'accerchiamento di Psithos da nord ovest e da nord.
Colonna C al comando del maggiore Rho, composta dagli alpini con mitragliatrici, imbarcando a Rodi sul piroscafo noleggiato Bulgaria e sbarcando sulla spiaggia di Malona, doveva portarsi subito a Platania per sbarrare al nemico la via di ritirata da Psithos per Archipoli, verso monte S. Elia, e poi, tenendosi sempre pronta a sostenere in favorevoli condizioni di terreno un eventuale attacco del grosso delle forze nemiche e cercando il collegamento con la nostra colonna principale proveniente da Stusvurudù, doveva avanzare per Archipoli verso Psithos per concorrere all'accerchiamento del nemico da sud ...."
"Nel pomeriggio del 15 si imbarcarono nel porto di Rodi le truppe della colonna B sul "Sannio e quelle della colonna C sul "Bulgaria. Per mantenere il segreto si fece spargere in città la voce che le truppe che stavano imbarcando erano destinate ad occupare un'altra isola dell'Egeo. Per di più, fino dal mattino, fu preclusa la via agli avamposti a chiunque da Rodi volesse recarsi nell'interno dell'isola. Alle ore 19 del detto giorno con un mare eccezionalmente calmo salparono i due piroscafi: il "Sannio con i bersaglieri per Kalavarda ed il "Bulgaria con gli alpini per Malona. Nella stessa ora dai rispettivi campi partivano le truppe della colonna A principale e s'incolonnavano sulle strade di Keschinè e Asgurù.

Alle ore 23 la colonna principale si riunì al sud del colle di Koschinò e qui rimase, all'addiaccio fino alle ore 2 del giorno 16. Già fino dalle ore 24.30, per mezzo della radiotelegrafia delle navi e della linea telefonica che aveva seguito la colonna mantenendosi collegata con Rodi, il comando delle truppe aveva ricevuto avviso che le colonne B e C avevano ultimato lo sbarco senza inconvenienti a Kalavarda e Malori - rispettivamente alle ore 23.30 e 22.30 e che si erano messe subito in marcia fornite muletti requisiti sui luoghi per il trasporto delle mitragliatrici e dei mezzi militari.

"Alle ore 2 del giorno 16 maggio, la colonna principale ripigliò quindi la marcia verso Kalithea e Psithos ed alle ore 5 giungeva ad Afando. Proseguì quindi per altri tre chilometri circa lungo la mulattiera di Archipoli fino a raggiungere il punto in cui da questo si distacca quella che conduce direttamente a Psithos. Si formarono allora due colonne: una proseguì verso Archipoli fino a Stusvurudiù e poi puntò su Psithos per la mulattiera Archipoli-Psithos; l'altra colonna doveva puntare direttamente su Psithos lungo la mulattiera Afando-Psithos. Assunto tale schieramento, le truppe erano in grado di poter prendere al più presto il collegamento con gli alpini provenienti da Archipoli, e alla ricerca di questi furono subito inviati i cavalleggeri. Ma per il terreno difficile e faticoso, l'avanzare non poteva effettuarsi che in modo lento. Alle ore 9 il collegamento tattico fra le tre colonne operanti era perfettamente raggiunto. Gli alpini comparivano sul contrafforti che separa la conca di Psithos da quella di Archipoli, giusto nel momento in cui i bersaglieri spuntavano sulla cresta della dorsale ad ovest di Psithos .... Verso le ore 9 l'accerchiamento della conca di Psithos era perfettamente delineato e, cosa importante, riusciva per il nemico una sorpresa. Lo dichiarò il giorno dopo lo stesso "bimbasci" e lo dimostrò la difesa slegata, quasi disperata, che egli esplicò invano per molte ore senza mai poter sfuggire alla stretta delle truppe italiane.

Alle 9.30 i pezzi turchi, appostati in un avvallamento a nord di Psithos aprivano il fuoco contro i bersaglieri e, poco dopo contro questi che si erano già trincerati sulla forte posizione di Kalopetra, urtava invano una forte colonna di regolari turchi che cercava scampo da quella parte in direzione di Kalemma. Né fu possibile a questa colonna di gettarsi sul versante occidentale verso Maritza, perché tutta quella zona, come da accordi presi con il comando della seconda squadra era dal mare efficacemente battuta dalle artiglierie delle navi.

"Fallito questo tentativo, alcuni reparti di regolari turchi rimasero di fronte ai bersaglieri per contrastare, da buone posizioni l'avanzata verso M. Leucopoda; gli altri discesero a Psithos con l'evidente scopo di assicurare l'immediata difesa dell'abitato e di rinforzare gli altri reparti che si erano trincerati sulle alture ad est del paese, mentre i pezzi turchi dirigevano il loro tiro, mal regolato e senza effetti, contro la fanteria. Tutti questi sforzi dovevano però riuscire vani. Fino dalle ore 9.30 una delle batteria da montagna italiane aveva aperto il fuoco contro - non riuscendo bene ad individuare l'appostamento- la probabile posizione dell'artiglieria nemica.

"Un'altra batteria bombardava nel contempo Psithos, demolendo in pochi minuti la caserma; infine una terza batteria batteva efficacemente con tiri a zone tutto il terreno attorno al villaggio ed i trinceramenti nemici sulle alture ad est del villaggio medesimo. Frattanto l'avanzata della fanteria proseguiva ininterrotta e l'accerchiamento delle truppe si andava man mano restringendo sull'avversario. Alle ore 10.45, poiché gli alpini per le difficoltà del terreno erano rimasti un poco indietro e ne risultava una lacuna troppo forte tra i bersaglieri che procedevano in cresta verso M. Leucopada e le truppe della colonna principale che puntavano da sud-est verso Psithos, il comandante del 57° fanteria ricevette l'ordine di attraversare con due battaglioni ed una batteria da montagna il vallone di Psithos per portarsi sul contrafforte di destra del detto vallone e puntare là, cioè da sud-ovest, su Psithos, collegandosi a sinistra con i bersaglieri.
Era questo uno sforzo grave il quale richiedeva alle truppe del 57° ed alla batteria, ormai stanche, ancora una prova. Ma la situazione lo esigeva, d'altra parte, conoscendo il valore delle truppe e quello del loro comandante, colonnello VANZO, si poteva essere sicuri che avrebbero fatto anche questo sforzo con slancio e sicurezza. Infatti, in poco più di un'ora, la colonna giunse sulla cresta del contrafforte e di là poté aprire un efficace fuoco di artiglieria contro i reparti nemici che ripiegavano da Psithos verso Maritza, lungo valloni invisibili da qualunque altra direzione. La sorpresa e l'effetto di questi tiri fu grande per il nemico il quale non poté più arrestarsi in forze, come era sua intenzione, sui contrafforti ad est di M. Leucopoda, e dovette ripiegare in gran fretta verso Maritza, come dichiarò il comandante turco, il quale nella precipitazione del momento abbandonò perfino il suo Corano, rinvenuto poi il mattino dopo, quando si presentò agli italiani per arrendersi.

"Tuttavia l'avversario riuscì ancora a collocare una sezione d'artiglieria in una posizione coperta dietro un piccolo contrafforte a sud-est di M. Leucopoda, donde sparò una ventina di colpi contro le truppe italiane, però senza effetto. Verso le ore 15 un vero cerchio di ferro e fuoco chiudeva da vicino il villaggio di Psithos, dove i reparti di retroguardia turchi e dove le munizioni, le buffetterie, il bagaglio e le vettovaglie rinvenute ed il loro stato di abbandono chiaramente indicavano che la sorpresa aveva avuto pieno effetto. I primi prigionieri confermavano che il loro comandante, con il grosso e due cannoni da montagna, si erano ritirati verso Maritza; e poiché premeva di non dar loro tregua si ordinò l'inseguimento per le ali, da effettuarsi con un reggimento di fanteria lungo le alture a nord-est di Psithos e con i bersaglieri lungo la cresta di Leucopoda fino a raggiungere, se possibile, e sbarrare la strada che scende a Maritza. Al calare della notte le truppe dormirono all'addiaccio sulle rispettive posizioni.
Il grosso del nemico era tuttavia riuscito a rifugiarsi nel vallone di Maritza; ma la sua sorte ormai era decisa. Per il mattino dopo era stato stabilito di spingere un reggimento di fanteria ed una batteria dal colle di Psithos verso capo Calamina, e le rimanenti truppe dall'alto per M. Leucopoda su Marita; a quel punto forzatamente, il nemico già esausto e privo di viveri avrebbe dovuto o perire in massa o cedere le armi.
Le sue condizioni erano però così critiche, che decise di arrendersi. La stessa sera alle ore 23 mi si presentò d'ordine del comandante delle truppe turche, quale parlamentare, il maggiore comandante della gendarmeria di Rodi per offrire la resa delle truppe medesime. Questa fu accettata alle seguenti condizioni. Resa completa di tutte le truppe da effettuarsi il mattino dopo a Psithos, alle ore 8; consegna delle armi, delle munizioni e dei materiali da guerra lasciando soltanto la sciabola agli ufficiali come dimostrazione di riguardo per chi aveva combattuto con onore.
Il parlamentare si dichiarò autorizzato ad accettare la resa alle condizioni imposte, e prese impegno che il comandante e le truppe turche si sarebbero presentati il mattino dopo all'ora e con le modalità prescritte. Subito ne furono informati i nostri reparti in avamposti, ma, ad ogni buon fine, tutto fu disposto affinché le truppe si mantenessero pronte ad avanzare secondo quanto predisposto non appena fosse scaduto il termine stabilito per la resa.

Il giorno 17 maggio alle ore 7.30 giunse a Psithos il "bimbasci, comandante delle truppe nemiche accompagnato dal "miralai, capo della gendarmeria dell'Egeo e, poco dopo, giungevano anche le loro truppe.
Il bimbasci e il miralai vennero da me ricevuti in una casa di Psithos e la truppa turca già disarmata, mi rese gli onori nei pressi del villaggio. Con la truppa furono consegnati i fucili, una sezione completa d'artiglieria da montagna con materiale e quadrupedi, molte munizioni per fucileria ed artiglieria. Molti altri fucili e materiali, tra cui un ottimo apparato eliografico di grande portata, abbandonati sui monti e gettati in fondo ai burroni, furono poi ricuperati. I soldati turchi che mancavano all'appello si erano sbandati il giorno prima durante il combattimento, e molti di essi direttamente si costituirono a Rodi. Complessivamente la giornata del 17 maggio fruttò circa 1300 prigionieri, fra cui 38 ufficiali. Alle ore 9.30 lasciai Psithos e, con il mio stato maggiore, il bimbasci e il miralai, giunsi verso le ore 15 a Rodi .... alle ore 19 giungevano tutti i prigionieri turchi .... Durante i combattimenti del giorno 17 le nostre perdite furono: 5 soldati morti, un ufficiale e 28 militari di truppa feriti. Di questi l'ufficiale e due soldati morirono in seguito alle ferite riportate. Non fu possibile precisare le perdite subite dal nemico, ma sembra che esse siano state gravi e non inferiori ad ogni modo ai 200 uomini tra morti e feriti".

L'azione italiana nell'Egeo non si fermò a Rodi. Lo stesso giorno dello sbarco a Kalithea, i cacciatorpediniere Nembo ed Aquilone occuparono l'isola di Lipsos. Dal 4 al 20 maggio, una dopo l'altra, furono occupate le isole di Kalkia, Calimmo, Piscopi Loro, Patmos, Scarpanto, Cago, Nisiro, Simi e Kos. Per rappresaglia all'occupazione di Rodi il giorno 8 maggio il Governo turco decretò l'espulsione degli italiani dalle province dell'Asia Minore eccettuati i preti, le monache, gli operai e le vedove, e per il giorno 20 che gli Italiani fossero espulsi da tutto il territorio dell'impero concedendo loro quindici giorni per regolare i propri affari e dando loro la facoltà di prendere la cittadinanza ottomana. Nessuno, tranne gli israeliti, approfittò di questa concessione e la patria, grata per il contegno di questi suoi figli, promise assistenza e lavoro, e costituendo comitati di soccorso, raccogliendo somme, e apprestando aiuti d'ogni sorta, mostrò quanto fosse grande il suo cuore di madre.
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Ma mentre venivano occupate dalla flotta italiana le isole nell'Egeo, nello stesso mese di maggio non conoscevano soste le altre azioni di guerra in Libia.
E in Africa ritorniamo con il prossimo capitolo...FINO ALLA PACE

... sempre di quest'anno (seconda metà) 1912

 

LA GUERRA TURCA (di LIBIA) - I "NEGOZIATI" I "TRATTATI"
PRESA DI LEBDA - BATTAGLIA DI ZANZUR - SBARCO A MISURATA - BATTAGLIA DI SIDI-SAID - OCCUPAZIONE DI MISURATA - SIDI-ALÌ - L'AVANZATA NEL GARIAN - IL RAID DEI DARDANELLI - KASR EL-LEBEN - BOMBA - I NEGOZIATI ITALO-TURCHI DI OUCHY - IL FIRMATO DEL SULTANO E IL DECRETO DEL RE D'ITALIA - IL TRATTATO DI PACE DI OUCHY (LOSANNA)
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PRESA DI LEBDA - BATTAGLIA DI ZANZUR

SBARCO A MISURATA - BATTAGLIA DI SIDI-SAID

Mentre venivano occupate dalla flotta le isole nell'Egeo, non conoscevano soste nello stesso mese di maggio le altre azioni di guerra in Libia. La mattina del 2 maggio 1912, due colonne italiane, partite da Homs, occuparono dopo un duro combattimento Lebda mentre il maggiore ANTONINO DI GIORGIO dai forti del Mergheb eseguiva una brillante sortita verso il sud impegnando e trattenendo numerosi nuclei nemici pronti a correre in aiuto dei Turco-arabi di Lebda; invano perché nella notte successiva, il nemico, che era tornato all'assalto delle posizioni perdute, fu respinto. Altri attacchi nemici furono sferrati nella zona di Lebda il 3 e il 25 maggio, ma anche questi furono respinti.

Il 3 maggio il battaglione italo-eritreo e il 3° battaglione del 60° Fanteria sconfissero oltre 3000 Arabo-turchi a Bu Chamez, facendone strage e conquistando armi, munizioni e viveri. Il 10 maggio lo stesso battaglione eritreo piombò sopra una carovana di 4000 cammelli che da Ben Gardane si dirigeva verso l'interno e riuscì in gran parte a catturarla; il 13 una colonna mista di ascari, fanti e bersaglieri si spinse fino al confine tunisino e sostituì il cartello indicatore che recava il nome di Turchia con un altro su cui stava scritto Italia.
Scontri di varia importanza avvennero il 13 e il 27 a Tobruck e il 21 ad Ain-Zara.
Importanti azioni si svolsero in giugno. Degno di ricordo il combattimento di Zanzur dell'8 giugno, svoltosi sotto la direzione del generale FRUGONI. Alla divisione Camerana (brigata Giardina: 6° e 40° fanteria e una compagnia di guardie di Finanza; brigata Raynaldi: 82° e 84° fanteria, due batterie da montagna, tre batterie scudate, e una compagnia zappatori) fu commessa la distruzione delle trincee nemiche di Zanzur e la conquista della collina di Abd-el-Gilil. Alle 7.30 del mattino, sostenuta dal fuoco della Carlo Alberto, dopo accanito combattimento la brigata Giardina con elementi della Raynaldi s'impadronì di Abd-el Gilil e un'ora dopo espugnò alla baionetta tutto il sistema di difesa ad ovest del marabuto. Il resto della brigata Raynaldi prima fronteggiò bravamente nuclei nemici provenienti da sud, poi, essendo questi cresciuti di numero ed avendo rioccupati alcuni trinceramenti, li assalì all'arma bianca sloggiandoli dalla posizione e ponendoli in disordinata fuga. Una colonna di riserva comandata dal generale COARDI di CARPENETO e composta di una brigata di cavalleria, del 37° fanteria, del battaglione eritreo, di un nucleo, di menaristi appiedati e dalla batteria da montagna Baseggio, respinse un violento attacco arabo-turco che aveva lo scopo di aggirare la sinistra della divisione Camerana.

Coardi fu validamente aiutato da una seconda riserva agli ordini del generale DE CHAURAND la quale era costituita dalla brigata Montuori (2 battaglioni del 50°, uno del 23°, uno misto del 18° e 93°) da un battaglione del 63° e dalla batteria da montagna Zoppi.

"Alla battaglia di Zanzur - "scrisse nel suo rapporto il generale FRUGONI" - presero parte 19 battaglioni di fanteria, 1 compagnia delle guardie di finanza, 1 compagnia di zappatori del genio, 8 squadroni, 4 batterie da montagna, 3 da campagna, scudate, 2 batterie da 75 A delle ridotte di Gargaresch, 1 batteria di cannoni da 149 ed una sezione di mortai da 210. In totale: 13.494 fucili, 12 mitragliatrici, 50 cannoni. Tutte queste forze, meno 2 battaglioni del 37°, presero parte effettiva alla battaglia.
Parteciparono del nemico le "mehalle" di Zanzur, quelle di Suani-Ben-Adem, di Fonduk Ben-Gascir e di Bir-Tobras; più le "mehalle" di Azizia e una parte dei combattenti di Nuail, in complesso oltre 14.000 uomini. Le perdite dei nostri ascesero a morti: 1 ufficiale, 28 uomini di truppa, 10 ascari; feriti: 13 ufficiali, 203 uomini di truppa e 75 ascari. Complessivamente dunque 330 uomini. Da parte del nemico fino ad oggi (20 giugno 1912) furono ritrovati 1130 cadaveri. Ma i morti debbono raggiungere per certo 2000, dato che in principio della battaglia molti caduti furono asportati dai luoghi della mischia, e che molti morirono lungo la strada nell'affannosa ritirata. Le informazioni poi che si hanno sui feriti sono concordi nello stabilire il loro numero in una cifra molto rilevante. Sembra che una gran parte di essa sia stata trasportata ad Azizia".

"Un altro grosso combattimento fu quello svoltosi a Lebda. La notte dall'11 al 12 giugno, circa 5000 arabi sostenuti da nuclei ottomani e preceduti da contingenti dei bellicosi Orfella assalirono con grande violenza la linea delle ridottine dei monticelli di Lebda e riuscirono nel primo impeto a conquistare la ridotta Gazzani, dove si era ritirato il nostro esiguo presidio. Ma in tutto il resto della linea l'assalto nemico si infranse davanti alla magnifica resistenza dei nostri, che passati all'offensiva, riconquistarono la ridotta, mentre una colonna di riserva, uscita da Homs, assaliva di fianco e da tergo gli Arabo-turchi sgominandoli. I nemici subirono in quel combattimento 1300 morti e un numero non precisato, ma certo grande, di feriti; noi 2 ufficiali e 29 uomini di truppa uccisi; 2 ufficiali e 57 uomini di truppa feriti.

"La notte del 15 giugno un corpo di spedizione al comando del generale CAMERANA, scortato da navi della divisione Borea-Ricci si presentava dinanzi a Misurata e all'alba del 16 metteva a terra una colonna di marinai e fanti comandata dal generale FARA, il quale occupava il colle di Zuruk, il marabuto di Bu-Sceifa e la vicina oasi, rafforzandovisi e respingendo parecchi attacchi con l'aiuto dei cannoni della "Re Umberto.
Il 19 giugno, la brigata del generale BONINI (68 fanteria, 2 battaglioni del 79°, due batterie da campagna, due squadroni di cavalleria, la banda del Barca, nuclei di ascari e drappelli di savari), facendo una ricognizione nell'oasi di Suani Osman, fu attaccata da numerose forze nemiche; dopo alcune ore di vivo combattimento, i beduini furono messi in fuga e i nostri poterono ritornare indisturbati a Bengasi.

"Le ultime operazioni del giugno furono quelle che condussero all'occupazione di Sidi-Said, presso il confine tunisimo, dove i nostri tenevano Bu-Kamech, Macabez e Forwa.
Il 26 giugno il generale LEQUIO, che comandava il campo trincerato di Macabez, con un battaglione del l° granatieri, l'11° bersaglieri, una batteria scudata e una compagnia del genio, avanzò per un tratto di 3 chilometri e costruì una ridotta campale, dove lasciò un battaglione di bersaglieri, la batteria e una sezione di obici da 149.


Il 27 giugno fu operato un secondo e più importante balzo: il colonnello CAVACIOCCHI, uscito dal campo di Bu-Kamech con due battaglioni del 60° fanteria, uno del 2° granatieri, due dell'11° bersaglieri, il 6° e il 7° battaglione eritreo, una compagnia ciclisti, un reparto di meharisti, una batteria da 149. una scudata e due da montagna, espugnò l'altura del Guado e una linea di collinette prospicenti Sidi-Said e vi si rafforzò.
Il 28 giugno, infine, tutte le truppe mobili disponibili divise in due gruppi, comandati rispettivamente dal generale LEQUO e dal colonnello CAVACIOCCHI, mossero all'attacco delle posizioni nemiche di Sidi-Said, che dopo un accanito combattimento furono espugnate dalla colonna Lequio mentre la colonna Cavaciocchi eseguiva una vigorosa azione dimostrativa contro l'altura, di Ras el-Ma.
Le nostre perdite delle tre giornate furono di 1 ufficiale e di 40 uomini di truppa morti, e di 2 ufficiali e di 196 uomini di truppa feriti; le perdite del nemico furono di più di 700 morti abbandonati sul campo oltre un numero grandissimo di feriti. Perfetto fu l'accordo di tutte le armi durante l'azione".

"Frutto tangibile di questa mirabile concordia di sforzi - scrisse nel suo rapporto il generale Garioni, che ideò e diresse la battaglia - è ora il possesso di una importante posizione sulla via di Zelten e di Zuara; l'incontrastato dominio nostro per circa 40 chilometri di costa del confine tunisino a Sidi-Said ed alla linea delle "sebke" ed infine l'affidamento che da queste inospitali spiagge si possa portare sempre più valido ed efficace contributo alla fortuna finale della campagna".


OCCUPAZIONE DI MISURATA - SIDI-ALI'
L'AVANZATA NEL GHERAN
IL RAI DEI DARDANELLI

Anche nel successivo luglio si svolsero importanti operazioni di guerra.
Il giorno 8 fu occupata, Misurata e quel giorno stesso il generale CAMERANA diramava per telegrafo la seguente relazione-comunicato:

"Oggi alle ore 7-7.30, un mese preciso dal giorno della battaglia di Zanzur, al grido di Viva l'Italia, erompente dal cuore delle nostre gloriose truppe acclamanti, veniva issata la bandiera nazionale sul castello di Misurata.
Stamane alle ore 4, tutte le truppe disponibili muovevano all'attacco. Mentre le navi sorvegliavano la costa dal capo Zuruk a Zoriak, con azioni dimostrative a Bu-Sceifa, e ad Agesira, la nostra ala destra, dalle alture costiere aspre e insidiose, doveva avvolgere la sinistra del nemico, mentre al centro il grosso avanzava su terreno scoperto e la cavalleria proteggeva il fianco sinistro, vigilando le provenienze dal deserto. Il combattimento si accese subito vivacissimo. Tutta l'artiglieria disponibile entrò ben presto in azione, fulminando con i suoi tiri efficacissimi i trinceramenti avversari. Il nemico, fortemente trincerato lungo il margine orientale di Misurata, fece accanita resistenza. Ma né i suoi fuochi nutritissimi né la sua tenacia valsero ad arrestare l'irrompente attacco e lo slancio delle nostre truppe. Il combattimento prese subito le proporzioni di una vera e grande battaglia. L'ala destra si trovò più aspramente impegnata sul terreno scoperto, ma rincalzata da un battaglione di bersaglieri, si spinse con irresistibile slancio fin oltre il fianco nemico avvolgendolo fino alle spalle con le baionette alle reni. In nemico da quella parte alle ore 10 fu posto in piena fuga.


Verso la sua destra il nemico, avvalendosi del terreno insidiosissimo dell'oasi, si ritrasse con successiva: ostinata resistenza. Fu soltanto dopo la presa del villaggio di Sidi Zuruk, avvenuta a viva forza con ripetuti attacchi alla baionetta, che, benché difficilissima, la nostra avanzata poté essere proseguita sino a Misurata dove, al nostro giungere il nemico continuava la sua fuga precipitosa verso l'interno. Il nemico ha seminato dei suoi morti il terreno della battaglia. A molte centinaia assommavano le sue perdite ma non ancora accertate. Da parte nostra si ebbero 9 morti e 121 feriti dei quali 4 ascari".

"Presero parte alla battaglia il 35°, il 63° e il 50° fanteria, un battaglione del 40°, i battaglioni alpini Mondovì e Verona, una compagnia del 5° ascari, 1 squadrone dei cavalleggeri Lucca e alcune batterie da montagna e da campagna. Comandavano le varie colonne il generale FARA e i colonnelli PETITTI di RORETO e VILLA FALLETTO.

"La mattina del 14 luglio fu conquistata l'altura di Sidi-Alì, a, sei chilometri ad oriente da Sidi-Said. L'azione, predisposta dal generale GARIONI, fu eseguita dal generale LEQUIO con la seguenti truppe: 11° reggimento bersaglieri, 1° battaglione Granatieri, 28° battaglione bersaglieri, 6° battaglione eritreo, batteria 906 Bono, batteria da montagna Gennarelli, compagnia del genio Galdi. Costituirono la riserva, che rimase agli ordini del maggior generale CAVACIOCCHI e con qualche reparto partecipò all'azione, le truppe seguenti: due battaglioni del 60° Fanteria, 7° battaglione eritreo e la batteria da montagna Mantovani. La resistenza del nemico fu accanita; alle 6,15 la nostra bandiera sventolava sul marabuto di Sidi-Alì. Le nostre perdite furono: 1 ufficiale e 15 uomini di truppa morti, 6 ufficiali e 67 uomini di truppa feriti; il nemico ebbe oltre mezzo migliaio di morti e un numero imprecisato ma grande di feriti.
Per disperdere i numerosi nuclei arabo-turchi che minacciosi stavano scaglionati a cavallo della strada fra Misurata e Sliten, fino oltre Zeira e nei dintorni del Gheran e di Rumelah, il 20 luglio il generale FARA eseguì una ricognizione offensiva, cui parteciparono il 50° e il 63° Fanteria, una compagnia d'ascari e due batterie da montagna. La colonna, partita da Misurata alle 4 era di ritorno a mezzogiorno, dopo avere sostenuto un vigoroso combattimento con il nemico, che con gravissime perdite era stato costretto a ritirarsi nell'oasi di Gheran. Noi avemmo 1 ufficiale e 15 uomini di truppa morti, 5 ufficiali e 98 uomini di truppa feriti".

IL RAID DEI DARDANELLI

La più importante azione del luglio 1912 e certo la più audace di tutta la guerra italo-turca fu il raid dei Dardanelli, eseguito da cinque piccole torpediniere comandate dal capitano di vascello ENRICO MILLO, succeduto nel comando delle siluranti al DUCA degli ABRUZZI promosso contrammiraglio, raid che aveva come scopo di forzare i Dardanelli, ritenuti fino allora inviolabili, di raggiungere la flotta turca ormeggiata a Nagara e di silurarla.

Le navi che parteciparono all'audacissima scorreria furono le torpediniere Spica, comandata dal tenente di VASCELLO UMBERTO BUCCI che aveva con sé i sottotenenti PANUNZIO e CARASSO e il tenente macchinista DE LEONARDO, la Climene (ten. di vascello CARLO FENZI, sottoten. MONTELLA e LUZZI, ten. macch. CHILLEMI), la Perseo (ten. di vascello GIUSEPPE SIRIANNI, sott. COMMERSATTI e PITTALUGA e sott. macch. BOSCARO); l'Astore (ten. di vascello STANISLAO di SOMMA, sottotenenti TOSCANO e PARDO, sottoten. macch. FEDELE) e la Centauro (ten. di vascello ITALO MORENO, sottotenenti DELLA ROCCA e ROSSINI, ten. macch. PICCIARDI.). Erano cinque torpediniere d'alto mare, di un tonnellaggio di poco superiore alle 200 tonnellate, che avevano una velocità di 24 nodi, un raggio d'azione di circa 2000 miglia ed erano armate di tre cannoni da 47 mill. e di 3 tubi lanciasiluro.
Riportiamo la relazione inviata dallo stesso comandante MILLO al viceammiraglio VIALE:

"II giorno 14 luglio, alle 4 antimeridiane, in seguito agli ordini ricevuti, lasciai Stampalia con la "Pisani, i cacciatorpedinieri Borea e Nembo e le torpediniere di alto mare Spica, Centauro, Astore, Climene e Perseo, dirigendo per la baia di Parthani nell'isola di Leros. Qui disposi lo sbarco dalle siluranti del materiale non strettamente necessario. Comunicai che a suo tempo sarei trasbordato sulla Spica per condurre personalmente la ricognizione, mentre la Pisani, sulla quale era imbarcato il comandante MARZOLO per sostituirmi temporaneamente, con i cacciatorpediniere Nembo e Borea avrebbe aiutato l'impresa accompagnando all'imboccatura le torpediniere. I due cacciatorpediniere avrebbero dovuto eventualmente eseguire delle esterne dimostrazioni durante l'azione interna. Il tempo cattivo mi obbligò a rimanere a Parthani fino al tramonto del giorno 17, accennando a migliorare, lasciai quell'ancoraggio dirigendomi a Strati e compiendo la navigazione di notte a luci oscurate in modo da tenere l'operazione per quanto possibile nascosta. Ho scelto Strati perché non collegata in alcun modo con altre isole, perché poco abitata e fuori di ogni linea battuta dai piroscafi e perché mi è sembrata l'unica isola che potesse essere utilizzata per rimanervi per qualche ora nascosto alla fonda ad attendervi la sera per muovere poi ai Dardanelli.
Lemnos, Imbros, Tenedos Metellino avrebbero certamente corrisposto meglio allo scopo perché più vicine al luogo dell'azione, ma non davano nessuna sicurezza che i nostri movimenti non fossero otticamente segnalati al nemico che occorreva invece sorprendere, per cui la scelta non poteva cadere che su Strati.
A Strati le siluranti nel giorno 18 dal pomeriggio al tramonto fecero riposare gli equipaggi, pulire i forni e tutto predisposero per la ricognizione. Poco prima della partenza da Strati trasbordai personalmente dalla Pisani sulla Spica assumendo così il comando diretto della squadriglia di alto mare destinata ad operare e lasciando quello della Pisani e dei due cacciatorpediniere al comandante MARZOLO.
La Pisani, secondo gli accordi presi, mosse da Strati alle ore 18 del giorno 18, alla velocità di 12 miglia, seguita dalla squadriglia al mio comando e dalla sezione dei cacciatorpediniere. Il tempo era buono e calmo il mare. Una leggera foschia all'orizzonte induceva a ritenere che dalle lontane isole di Lemnos, Imbros e Tenedos non ci avrebbero scorti, sicché, con rotte appropriate navigammo per essere alle 23.30 nel punto stabilito. Avviandoci ai Dardanelli si scoprirono i proiettori della difesa esterna in azione a Capo Elles e a Kum-Kalè i quali ci permisero di identificare l'apertura dello stretto dove contavo di entrare, come avvenne, dopo la mezzanotte.

"Lasciata alle 23.30 la Pisani nel punto anzidetto ho, con la squadriglia di alto mare, diretto per imboccare i Dardanelli a 12 miglia di velocità, e per passare possibilmente inosservato ho ordinato la linea di fila (Spica, Perseo, Astore, Climene, Centauro). Constatata poco dopo una corrente contraria di due miglia, aumentai la velocità a 1.5. Il proiettore di Kum-Kalè teneva il fascio fisso che attraversammo senza essere scoperti. Quelli di Elles invece esploravano e ne avevano già oltrepassato il traverso quando quello più interno si fissò sull'Astore che era il n. 3 seguendolo per qualche minuto. Facevamo allora rotta per il levante.

"Fu allora alle 0.40 circa, che il Capo Elles, con un colpo di cannone e un razzo diede l'allarme, che fu ripetuto lungo lo stretto con segnali luminosi. All'allarme seguirono vari colpi di cannone. I proiettili caddero nelle acque della squadriglia. Poiché la difesa apparve fiacca, decisi di continuare la ricognizione e avanzare nello stretto per poi decidere il da farsi a seconda della distanza e aumentata la velocità a 20 miglia diressi a prolungare molto da vicino la costa d'Europa per evitare la zona di mare minata. Erano nel contempo entrati in azione numerosi proiettori che successivamente furono identificati come segue: Foci dello Smandara; Teken; Kilid-Bahr; Cianal; batteria Mejdieh fra Cianak e Nagara; altri due a nord est di Kilid Bahr, oltre a quelli delle navi che scorgemmo in azione solo quando fummo nei pressi di Cianak.

"Il fuoco nemico era allora cessato, ma i segnali luminosi indugiavano lungo le alture e annunziavano una prossima ripresa in basso quando saremmo giunti nel campo di tiro di altre batterie. Prolungando la costa d'Europa ad alta velocità scoprii ad un tratto il proiettore di Smandara; che fino allora si vedeva solo il fascio di luce. Ne passammo in brevissima distanza, sicché, non ci poté illuminare al traverso, per la troppa depressione, ma solo dopo, quando riuscì a presentarsi in direzione della vallata dove scorre il piccolo torrente.
Ho visto personalmente le braccia dell'uomo che in maniche di camicia manovrava il proiettore e perfino udito il comando che doveva essere quello di attenti della batteria situata a ridosso nella vallata perché poco dopo la Spica fu investita a breve distanza da una scarica di cannoni di piccolo calibro, scarica che ne perforò il fumaiolo in più punti.
Il proiettore di Smandara mi permise di costatare che la squadriglia navigava in ordinata linea di fila a distanza serrata e che nonostante il fuoco nemico che successivamente investiva le siluranti, i comandanti conducevano bravamente la loro unità in precisa formazione.
"Proseguendo fummo oggetto di tiri da parte di moschetteria e di altre batterie delle quali non posso precisare l'ubicazione perché i numerosi proiettori nel cui campo entravamo concentravano tutti i loro fasci sulla Spica che per prima risbucava lungo la costa e avanzava, rapidamente, alla velocità di 23 miglia.
Riconobbi in tale tratto i proiettori delle navi nemiche a Nagara (mi sono parsi sette) in funzione e gli altri costieri di cui ho fatto cenno, nonché quello dell'incrociatore Potenky-Schevket. Dalla fonda subito a nord di Cianak le batterie continuavano il fuoco e lo aprivano a mano a mano che avanzavamo e lo specchio d'acqua di prua appariva completamente illuminato come in pieno giorno. La Spica è arrivata così a grande velocità alla punta di Kilid-Bahr, accostando rapidamente dai due lati per non permettere al nemico un tiro efficace e io osservavo un tiro di una batteria nemica che trovasi a Kilid-Bahr nascosta a chi viene da sud e col campo di tiro verso levante, molto bassa, quando la torpediniera su cui ero (Spica) rallentò rapidamente e si fermò in pochi metri mentre le eliche si arrestavano di colpo. Il comandante della Spica (primo tenente BUCCI) subito manovrò molto arditamente per liberarsi riuscendovi dopo appena due o tre minuti, e rimise quindi subito a tutta forza le due macchine. Ciò accadeva in corrispondenza alla linea di tiro che limita a nord lo sbarramento di torpedini e corre all'incirca da Kilid Bahr a Cianak quando cioè si scoprivano i riflettori delle navi a Nagara e pertanto presso il punto più ad est di Kilid Bahr a poche decine di metri da esso.
"Considerato il modo brusco del fermo della Spica e l'arresto delle due eliche, sono indotto a credere che abbia investito dei cavi di acciaio o altro materiale da ostruzione, ma dal quale con sperata fortuna riuscì a liberarsi. L'arresto della torpediniera sulla quale mi trovavo mi permise di osservare bene lo specchio d'acqua a nord della congiungente Kilidi Bahr-Cianak, il quale, era tutto illuminato molto bene dai numerosi proiettori nemici. La batteria di Kilid Bahr a tiro rapido aveva intanto aperto il fuoco sistematico, simultaneo per zone a salve con alzi crescenti, intesi a colpire qualunque galleggiante fosse passato presso la punta come era necessario fare per evitare gli sbarramenti.
In simili condizioni, raggiunto lo scopo della ricognizione ordinatimi, con nessuna probabilità di arrivare a silurare il nemico, con la certezza che le torpediniere al mio comando sarebbero state successivamente investite e distrutte dai proiettili nemici sparati a brevissima distanza e non una avrebbe potuto proseguire verso le navi, poiché la squadriglia era ancora intatta e le navi nemiche a due miglia più a nord, ho allora giudicato inutile il sacrificio di uomini e di torpediniere per proseguire senza alcuna speranza e probabilità di successo e ritenni mio dovere di arrestare la ricognizione e di retrocedere. Liberatasi, come ho detto, fortunatamente la Spica, ho ordinato perciò la ritirata a sud senza soggezione di numerazione accostando a diritta con tutta la barra. La squadriglia entrò tutta così nella zona minata, prendendo la via del ritorno sotto il fuoco di tutte le batterie costiere e della flotta e illuminata dai numerosi proiettori. Ed è alla valentia e all'arditezza dei comandanti che io debbo se non avvennero investimenti tra le varie unità in così difficile frangente. La Spica, rimessa a tutta forza, ho da questa diretto la squadriglia per uscire dalla zona minata e prolungare la costa di Europa. In un tratto diventammo nuovamente bersaglio ai tiri delle varie batterie, ma specialmente di quella della foce dello Smandara. Non avevamo però che proiettori al traverso e a poppavia sicché ogni silurante con opportune accostate riuscì ad evitare che il nemico potesse colpirla, pur continuando ognuno a mantenere alta velocità e le rotte per uscire dallo stretto.
"Nel tratto a sud e a sud est di Smandara il fuoco nemico cessò per un certo tratto e con la Spica in testa diressi per passare fra Kum-Kalè e Capo Elles dove la difesa sembrava essere in nostra attesa. I proiettori di Kum Kalè e di Capo Elles erano rivolti all'interno e frequenti segnali luminosi indicavano il nostro approssimare.

La squadriglia lanciata alla massima velocità, dapprima in linea di fila, poi senza formazione per le accostate di ogni silurante, intese a sfuggire i fasci dei proiettori e ad evitare la regolarizzazione del tiro nemico, ha felicemente e senza danni sensibili attraversato anche la zona di tiro delle batterie del passo esterno (Kum Kalè e Capo Elles) mantenendosi unita. II fuoco nemico era a salve di cannoni di piccolo e medio calibro e mi è parso anch'esso, per la regolarità osservata nei punti di caduta, con punteria preparata. Poi si unirono anche i cannoni di grosso calibro, i cui proiettili caddero a breve distanza dalla Spica. Il fuoco di Capo Elles era molto più vivo di quello di Kum Kalè e il nemico faceva gran consumo di munizioni dirigendo però male il suo tiro, mentre i proiettori riuscivano a tenerci a lungo sotto la loro azione e apparivano ben manovrati.
Oltrepassata la congiungente Capo Elles-Kum Kalè, avvistai la sezione dei cacciatorpedinieri e con essa mi ricongiunsi alla Pisani sulla quale presi imbarco proseguendo per Stampalia. Le avarie riportate dalle cinque torpediniere per il fuoco nemico sono di nessuna entità e si riassumono come segue: Spica, alcuni colpi al fumaiolo, uno da 70 millimetri, gli altri di minor calibro. I proiettili non sono esplosi. Astore, due colpi di piccolo calibro nello scafo, uno da 57 millimetri circa, gli altri nelle soprastrutture e nel materiale di coperta. Perseo, una diecina di colpi da 25 millimetri in coperta e nello scafo, le altre siluranti nulla. Nessun ferito e nessun morto. La ricognizione ha avuto importantissimi risultati per stabilire quali sono le condizioni della difesa dei Dardanelli.

"Conclusione: Fin da quando fu decisa l'azione e comunicai a Leros ai comandanti come intendevo svolgerla, constatai subito l'elevata preparazione morale e professionale di ognuno di essi e recatomi poscia sulle siluranti, anche l'alto sentimento del dovere che animava tutti, ufficiali e bassa forza, sicché ne ebbi grande conforto per l'ardua missione da compiere. Tutto il detto personale posto sotto i miei ordini, sotto il vivo fuoco nemico si è condotto come meglio io non avrei potuto desiderare. E un particolare cenno meritano i sottotenenti di vascello che da poche ore sulle siluranti sono stati al fuoco con giovanile baldanza, e i direttori di macchina con il personale da loro dipendente, i quali hanno condotto gli apparati motori, alcuni dei quali da tanto tempo in servizio, in modo perfetto, sviluppando elevate velocità senza andare incontro ad alcuna avaria.
Nei pressi dello Smandara il proiettore nemico mi permise di scorgere l'intera squadriglia che mi seguiva a 22 miglia di velocità in formazione serrata come se sotto il fuoco nemico muovesse in parata. Allora ho sentito l'alto valore di ciascuna unità e la parola "bravo" mi è uscita spontanea dalle labbra. L'essersi potuta la Spica liberare quando era impigliata a Kilid Bahr e l'avere potuto riprendere il suo posto nonostante l'accartocciamento delle eliche è titolo d'onore per il suo comandante e per il suo personale di macchina. E' da ascriversi a grande fortuna che non sia rimasta là, a colare a picco, come avevo già pensato di ordinare, ma spingersi oltre Kilid Bahr a vedere le condizioni di difesa del nemico, e a costatarla da vicino. Una volta raggiunto lo scopo della ricognizione, voler proseguire era andare incontro ad inutile sacrificio senza alcuna speranza di silurare il nemico.
Non ci è venuto meno l'animo e solo l'esatta constatazione delle condizioni del nemico mi è stata di guida nella decisione presa".

 

OCCUPAZIONE DI ZUARA E DI SIDI ABD EL-SAMAD
IL RITORNO DEL GENERALE CANEVA

CONQUISTA DI CASR EL - LEBEN E DI ZANZUR
LO SBARCO A BOMBA - L'AVANZATA NELLA ZONA DI DERNA

Nel mese d'agosto le operazioni di guerra in Libia proseguirono intensamente. A Derna, dove il nemico si era nel luglio mostrato attivissimo assalendo la ridotta Lombardia e bombardando quotidianamente, se pur inutilmente, la città, al generale TROMBI fu sostituito il generale TASSONI, che subito chiese ed ottenne nuove truppe e nuove artiglierie.
Il 5 agosto, due colonne, comandate dai generali LEQUIO e CAVACIOCCHI partite da Sidi Said e da Forwa, e una colonna agli ordini del generale TASSONI proveniente da Siracusa e sbarcata quel giorno stesso con il sostegno delle navi Sicilia, Sardegna, Re Umberto e Carlo Alberto comandate dal viceammiraglio RICCI BOREA, occuparono Zuara.
Il 15 agosto fu la volta di Sidi Abd el-Samad, ad otto chilometri da Zuara, verso l'interno. L'azione fu diretta dal generale GARIONI, e come abili esecutori del suo piano i generali LEQUIO, CAVACIOCCHI e TASSONI.

Il Lequio, con una colonna formata dell'11° bersaglieri, del 28° battaglione bersaglieri, di alcuni reparti del l° e 2° granatieri, di una compagnia del genio, delle Guide, del 6° e 7° ascari e di reparti del 60° fanteria, s'impadronì al mattino, senza fatica, dell'altura di Sidi el-Samad, mettendo in fuga i Turco-arabi che la difendevano. Questi dalle oasi di Regdaline e di Gemel, dove si erano rifugiati, ritornarono in forze maggiori, più tardi, al contrattacco; ma prima furono trattenuti dagli Ascari, dalle Guide e dai bersaglieri del 28° battaglione, poi assaliti ed accerchiati dalla colonna Tassoni e bersagliati dalle nostre artiglierie infine, dopo quattordici ore di accanito combattimento, sconfitti e inseguiti fino a Regdaline.

Scontri di varia entità ci furono nell'ultima settimana di agosto nelle zone di Bengasi e di Homs. Il 30 agosto gli Arabo-turchi, comandati da KALIL bey attaccarono dimostrativamente le posizioni italiane a nord ovest di Misurata, a sinistra del villaggio di Iedder, e sferrarono un attacco a fondo a quelle di sud est; ma dopo quattro ore di accanito combattimento furono respinti da alcune compagnie del 63° e del 40° Fanteria, dagli ascari e dai savari del capitano Pisciscelli, che rimase ferito.
Il 28 agosto partiva da Tripoli il generale CANEVA, sostituito interinalmente dal tenente generale OTTAVIO RAGNI, giunto poco prima al posto del generale FRUGONI. Il 2 settembre fu emanato il seguente regio decreto:

"Visto il nostro decreto 9 ottobre 1911, n. 1118, con il quale vengono fissate le attribuzioni del comandante del corpo di spedizione in Tripolitania e Cirenaica..., abbiamo decretato e decretiamo:
1° Il tenente generale CANEVA Cav. CARLO, designato per il comando di un'armata in guerra è esonerato dalla carica di comandante in capo del corpo di spedizione in Tripolitania e Cirenaica.
2° Il tenente generale RAGNI cav. OTTAVIO, comandante di Corpo d'Armata, è nominato comandante del Corpo di occupazione in Tripolitania.
3° - Il tenente generale BRICCOLA cav. OTTAVIO, comandante di divisione, è incaricato del comando del corpo di occupazione in Cirenaica.
4° - Le attribuzioni dei comandanti dei corpi di occupazione in Tripolitania e in Cirenaica sono, per quanto riguarda i rispettivi territori, le medesime che col nostro decreto 8 ottobre n. 1118 sopra citato erano stabilite per il comandante del corpo di spedizione in Tripolitania e in Cirenaica".

Con decreto del 19 settembre CANEVA fu promosso generale d'esercito. In Libia i vari settori furono affidati ai seguenti generali: Tripoli: OTTAVIO RAGNI, FELICE DE CHAURAND, LUCA MONTUORI, MICHELE SALAZAR, MASSIMO TOMMASONI e EDOARDO COARDI di Carpeneto; Zuara: VINCENZO GARIONI, ADOLFO TETTONI, CLEMENTE LEQUIO, ALBERTO CAVACIOCCHI e TULLIO TASSONI; Homs: FRANCESCO MARCHI; Misurata: VITTORIO CAMERANA; Bengasi: OTTAVIO BRICCOLA, ARMANO RICCI ARMANI e MACCAGATTA; Derna: EZIO REISOLI, LUIGI CAPELLO, FRANCESCO DEL BUONO e TOMMASO SALSA; Tobruck: CARLO D'AMICO. Le isole dell'Egeo rimasero sotto il comando del generale GIOVANNI AMEGLIO.

Intanto la guerra non aveva tregua. Il 14 settembre, agevolata abilmente da un'azione dimostrativa contro le posizioni nemiche di Bu-Msafer, ad occidente di Derna, condotta da una colonna agli ordini del generale CAPELLO, si effettuava l'occupazione di Casr el Leben, a 20 chilometri dalla città, per opera di due altre colonne comandate dai generali SALSA e DEL BUONO. Tre giorni dopo le nuove posizioni furono violentemente attaccate da numerose forze arabo-turche guidate da ENVER bey, ma queste, fronteggiate dalle truppe di Del Buono e accerchiate da quelle di Salsa, dopo un sanguinoso combattimento furono completamente sconfitte, lasciando sul terreno circa mezzo migliaio di morti. Gli italiani subirono 61 morti e 113 feriti, di cui 4 morti e 9 feriti tra gli ufficiali.

Scaramucce ci furono durante il mese a Misurata e a Bengasi; un serio attacco fu sferrato dal nemico il 27 al Mergheb; altri scontri avvennero in altre parti della fronte. Ma la più importante azione del settembre fu quella voluta dal generale RAGNI per conquistare l'oasi di Zanzur. Avvenne il 20 settembre e vi parteciparono la brigata Maggiotto, la brigata Salazar, la brigata Tommasoni e la brigata celere Di Carpeneto, composta di 4 squadroni di cavalleggeri Firenze, due di cavalleggeri Lodi, del 2° e 6° battaglioni eritreo, del battaglione ascari tripolini e dell' 11° bersaglieri.
L'artiglieria fu diretta dal generale TETTONI. Il nemico si batté con accanimento, ma fu poi disfatto dall'impeto delle truppe italiane, le quali conquistarono tutte le posizioni fissate con vigorosi assalti alla baionetta. Le perdite furono di 200 fra morti e feriti, fra i quali 2 tenenti colonnelli uccisi ed 1 ferito; quelle del nemico oltrepassarono i 2000 uomini. Ben 12.000 arabi e 1500 turchi presero parte al combattimento.

Il 7 ottobre, protette dalle regie navi Vespucci, Bausan, San Giorgio, truppe italiane sbarcarono a Bomba dai piroscafi Favignana e Vincenzo Florio. Il giorno dopo dalle truppe della divisione di Derna comandate dal generale REISOLI fu iniziata un'azione offensiva sulle posizioni occidentali del nemico. L'azione si svolse in tre giorni: l'8 ottobre, la colonna comandata dal generale SALSA, vincendo la resistenza nemica, scalò l'aspro ciglione che domina il Bu-Msafer ed occupò il pianoro di Timsichè; il 9 ottobre la colonna Salsa proseguì nell'avanzata, superando le aspre difficoltà del terreno e congiungendosi alla colonna CAPELLO, che contemporaneamente si era spinta attraverso l'uadi Bu-Msafer; il 10 le truppe, avanzando verso Bu-Suimara-Envaga ingaggiarono un vivace combattimento con gli Arabo-turchi e, dopo averli sconfitti, andarono a rafforzarsi nelle posizioni raggiunte il giorno precedente.

TRATTATIVE DI PACE (di OUCHY)
I COLLOQUI ITALO-TURCHI DI CAUX E DI OUCHY
FIRMA DEI PRELIMINARI - I FIRMANI DEL SULTANO
II REGIO DECRETO DEL 17 OTTOBRE
IL TRATTATO DI PACE TRA L'ITALIA E LA TURCHIA
L'ORDINE DEL GIORNO DI VITTORIO EMANUELE III

Mentre in Libia si combatteva, in Europa si pensava alla pace. Questa era desiderata dall'Italia, ma ancor più desiderata dalla Turchia, incapace di domare la rivolta dello Iemen e dell'Albania e piuttosto preoccupata dal malumore che serpeggiava nelle sue truppe e dal contegno aggressivo del Montenegro, della Serbia, della Bulgaria e della Grecia. Tutte sul piede di guerra per scrollarsi di dosso i Turchi e tutte intenzionate a conquistarsi l'indipendenza (Austria permettendo!).

Anche le Potenze europee desideravano la fine di questo conflitto, impensierite dal fermento balcanico ma anche dal furore anticristiano dei Turchi.

Gli ambasciatori francesi e austriaci a Costantinopoli cercarono d'indurre il ministro degli Esteri Ottomano ASSIM bey a cedere la Tripolitania al bey di Tunisi e la Cirenaica al Kedivè d'Egitto. Il bey e il Kedivè avrebbero in seguito ceduto le due province all'Italia a condizione però che fosse mantenuta nel paese l'autorità spirituale del sultano.
Assim bey invece propose un altro disegno: La Turchia avrebbe dichiarato indipendenti le due province sotto lo scettro di un bey arabo con il quale l'Italia avrebbe trattato per conseguirvi una posizione simile a quella della Francia in Tunisia.
Naturalmente l'Italia non poteva accettare la proposta del ministro turco, incompatibile con la (già) proclamata sovranità italiana su tutta la Libia, né poteva accogliere, e difatti non accolse, la proposta fatta tramite la Francia all'Italia, che, dimessosi ASSIM bey, accettare come suo successore NORADUGHIAN, che avrebbe poi concesso all'Italia la piena sovranità sulla Tripolitania ma a patto che rinunciasse ad ogni pretesa sulla Cirenaica.

Risultato migliore ottennero i negoziati diretti tra l'Italia e la Turchia, avviati per opera di due noti finanzieri, i commendatori VOLPI e NOGARA, dei quali il primo, in qualità di console serbo a Venezia, aveva libero accesso in Turchia, l'altro continuava a risiedere a Costantinopoli come rappresentante della Banca Commerciale.
Nel giugno del 1912, tornando da Costantinopoli, VOLPI si recò dal presidente del Consiglio GIOLITTI e gli disse che il Governo turco era desideroso di intavolare trattative direttamente con l'Italia.


Giolitti rispose che anche lui desiderava l'accordo e propose che la Porta nominasse delle persone di fiducia per incontrarsi con altri fiduciari del Governo italiano.
Il Governo turco scelse il presidente del Consiglio di Stato SAID HALIM pascià e FERID pascià e indicò come luogo d'incontro Vienna o Lucerna; GIOLITTI scelse l'ex-ministro BERTOLINI, l'on. FUSINATO, consigliere di Stato, e VOLPI, ai quali aggiunse come consulente NOGARA, e propose per l'incontro la città di Losanna.
I colloqui cominciarono il 12 luglio, ma il 17 il gabinetto turco di Said pascià si dimetteva e SAID TALIM e FERID si ritiravano. Al posto di Gran Visir fu messo MUKTAR pascià, a quello di presidente del Consiglio di Stato KIAMIL pascià e a quello di ministro della Guerra NAZIM pascià.

Il nuovo ministero turco era favorevole anch'esso alla pace, tanto che non accettò un ordine del giorno dei Giovani Turchi i quali volevano che la guerra fosse continuata fino a quando non fosse accertata la sovranità integrale ed effettiva sulla Tripolitania e sulla Cirenaica. Inoltre il nuovo Gabinetto era propenso a continuare le trattative con l'Italia e nominava, suoi fiduciari NABY bey e FAHREDIN bey, diplomatici di carriera, dando così un colore di ufficiosità ai negoziati.
Le trattative furono riprese il 12 agosto a Caux, presso Losanna; l'8 settembre i fiduciari si trasferirono ad Ouchy; il 16 un accordo di massima era raggiunto e gli onorevoli Bertolini e Fusinato si recavano con Volpi a Torino per accordarsi con Giolitti sulla procedura.

Pareva vicinissima la conclusione della pace e invece i Turchi cominciarono a tergiversare, a far circolar voci secondo le quali la pace non sarebbe stata possibile se l'Italia non si fosse accostata al punto di vista ottomano.
L'Italia rispose con l'azione del 20 settembre a Zanzur e, tre giorni dopo, con una dimostrazione navale nel porto di Smirne. Il contegno risoluto dell'Italia (o meglio il "tirare diritto" di Giolitti) indusse la Porta ad affrettare i negoziati e il 28 settembre giunse ad Ouchy il ministro turco RESCID pascià, il cui arrivo fece sperare in un sollecito accordo.

Questo si annunciò raggiunto il 3 ottobre. Il giorno dopo l'on. Bertolini partì per Cavour, dove si trovava l'on. Giolitti, e Rescid pascià per Costantinopoli per sottoporre al governo le condizioni di pace. Le quali alla Porta, non parvero soddisfacenti. La Turchia voleva che nel trattato s'introducesse una postilla in virtù della quale essa non sarebbe stata obbligata al ritiro delle sue truppe dalla Libia se non dopo l'approvazione del parlamento e la soluzione della questione balcanica.
Inoltre la Porta pretendeva che l'Italia rinunciasse alla tutela dei diritti degli abitanti della Libia presso il Governo turco. .
Alle tergiversazioni ottomane il Governo italiano rispose con un ultimatum con il quale concedeva alla Turchia tre giorni, dal 12 al 15 ottobre, per decidersi ad accettare le condizioni di pace fissate ad Oachy. I preparativi italiani per una vigorosa azione navale e il forzamento dei Dardanelli persuasero la Porta ad accettare le condizioni, e tre ore prima della scadenza dell'ultimatum fu firmato il protocollo preliminare.
Il Governo italiano ordinò subito la sospensione delle ostilità in Libia e i fiduciari turchi telegrafarono a Costantinopoli di riapplicare la normale tariffa doganale alle merci italiane. Il 17 ottobre, conforme ai capitoli del trattato preliminare, furono emanati i "firmani" imperiali, riguardanti le isole, la Libia e l'amnistia all'alleato dell'Italia IDRIS, e il decreto di Vittorio Emanuele III.

Il "firmato" del sultano MAOMETTO V ai popoli della Tripolitania e della Cirenaica diceva:

"Trovandosi il mio Governo da una parte nell'impossibilità di darvi i soccorsi efficaci che vi sono necessari per difendere il vostro paese e d'altra parte essendo sollecito del vostro benessere presente e avvenire, volendo evitare la continuazione di una guerra disastrosa per voi e per le vostre famiglie e pericolosa per il nostro impero, allo scopo di far rinascere nel vostro paese la pace e la prosperità, valendomi dei miei diritti sovrani, vi consento una piena e intera autonomia. Il vostro paese sarà retto da nuove leggi e da regolamenti speciali alla preparazione dei quali voi porterete il contributo dei vostri consigli, affinché essi corrispondano ai vostri bisogni e ai vostri costumi. Io nomino presso di voi come mio rappresentante il mio fedele servitore SCEMSI-EDDIN bey, col titolo di Naib-ul-Sultan (rappresentante del Sultano) che io incarico della protezione degli interessi ottomani nel vostro paese. Il mandato che io gli conferisco, ha una durata di cinque anni. Passato questo termine io mi riservo di rinnovare il suo mandato o di provvedere alla sua successione. Siccome è nostra intenzione che le disposizioni della legge sacra dello Scerial restino costantemente in vigore, noi ci riserviamo a questo scopo la nomina del "cadì", il quale a sita volta nominerà il "naib" fra gli "ulema" locali, conformemente alle prescrizioni dello Scerial. Gli emolumenti di questo "cadì saranno pagati da voi, quelli del Naib-u1-Sultan come quelli degli altri funzionari dello Sceriat saranno prelevati dalle entrate locali".

L'"iradè" per le isole dell'Egeo diceva:
"Si procederà a riforme amministrative e giudiziarie in modo che assicurino agli abitanti delle isole dell'Egeo soggette alla sovranità ottomana la distribuzione equa della giustizia, la sicurezza e il benessere senza distinzione di culto e di religione. I giudici saranno nominati fra le persone notabili che conoscono la lingua locale e che abbiano le capacità necessarie. Viene concessa piena l'intera amnistia ai suddetti abitanti che abbiano preso parte alle ostilità o che si siano compromessi in quell'occasione, eccettuati, ben inteso, i reati comuni. In conseguenza di ciò nessun individuo, a qualunque classe o condizione appartenga, potrà essere perseguitato o danneggiato nella persona o nei beni o nell'esercizio dei suoi diritti a causa dei suoi atti politici o militari, oppure per le opinioni che ha espresso durante il periodo delle ostilità. I detenuti e i deportati per queste ragioni saranno immediatamente rimessi in libertà".

Il regio decreto era invece del seguente tenore:

"Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d'Italia, vista la legge 25 febbraio 1912, n. 83, con la quale la Tripolitania e la Cirenaica furono poste sotto la sovranità piena ed intera del Regno d'Italia, nell'intento di sollecitare la pacificazione delle dette province, abbiamo decretato e decretiamo:
1° È accordata piena ed intera amnistia agli abitanti della Tripolitania e della Cireanica, che hanno partecipato alle ostilità e si sono compromessi in occasione di esse, fatta eccezione per i reati comuni. In conseguenza nessun individuo, a qualunque classe e condizione appartenga, potrà essere processato o molestato nella sua persona e nei suoi beni e nell'esercizio dei suoi diritti, a causa degli atti politici o militari da lui commessi e da opinioni espresse durante le ostilità. Gli individui detenuti e deportarti per tale motivo saranno immediatamente liberati.
2° Gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica continueranno a godere come per il passato la più completa libertà nella pratica del culto mussulmano. Il nome di Sua Maestà Imperiale il Sultano, come Califfo, continuerà ad essere pronunziato nelle preghiere pubbliche dei mussulmani ed è riconosciuta la sua rappresentanza nella persona da lui nominata. I suoi emolumenti saranno prelevati sulle entrate locali. I diritti delle fondazioni pie (Vakuf) saranno rispettati come per il passato e nessun impedimento sarà apportato alle relazioni dei musulmani con il capo religioso denominato "Cadì, che sarà nominato dallo Sceich-ul-Islam, e col "Naib nominato da lui ed i cui emolumenti saranno prelevati sulle entrate locali.
3° Il predetto rappresentante è riconosciuto anche agli effetti della tutela degli interessi dello Stato ottomano e dei sudditi ottomani, i quali permangono
nelle due province dopo la legge del 25 febbraio 1912, n. 83. Con altro nuovo decreto sarà nominata una commissione della quale formeranno parte anche notabili indigeni per proporre per le due province ordinamenti civili ed amministrativi, ispirati a criteri liberali ed al rispetto degli usi e dei costumi locali".

Il 18 ottobre 1912, alle ore 15.15, in una sala del Palace Hotel di Ouchy fu firmato, con la data di Losanna, il trattato di pace di cui riportiamo il testo:

"Sua Maestà il Re d'Italia e Sua Maestà l'Imperatore degli Ottomani, animati da un eguale desiderio di fare cessare lo Stato di guerra esistente fra i due paesi, hanno nominato i loro plenipotenziari:
Sua Maestà il Re d'Italia; il signor PIETRO BERTOLINI, Gran Croce dell'Ordine della Corona d'Italia, Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, deputato al Parlamento, il signor GUIDO FUSINATO, Gran Croce dell'Ordine della Corona d'Italia, Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, deputato al Parlamento, consigliere di Stato; il signor GIUSEPPE VOLPI, Commendatore degli Ordini dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d'Italia.
Sua Maestà l'Imperatore degli Ottomani: Sua Eccellenza MEHMED NABY bey, Gran Cordone dell'Ordine Imperiale dell'Osmaniè, inviato straordinario e ministro plenipotenziari di Sua Maestà l'Imperatore degli Ottomani; Sua Eccellenza RUMBEYOGLOY FAHREDDIN bey, Grande Ufficiale dell'Ordine Imperiale del Megidié, Commendatore dell'Ordine Imperiale dell'Osmanié, inviato straordinario e ministro plenipotenziari di Sua Maestà l'Imperatore degli Ottomani; i quali dopo avere scambiato i loro rispettivi pieni poteri ed averli trovati in buona e dovuta forma, hanno convenuto i seguenti articoli:


Art. 1° I due Governi s'impegnano a prendere immediatamente dopo la firma del presente trattato le disposizioni necessarie per la cessazione immediata e simultanea delle ostilità. Commissari speciali saranno inviati sui luoghi per curare l'esecuzione delle dette disposizioni.
Art. 2° I due Governi s'impegnano a dare immediatamente, dopo la firma del presente trattato, l'ordine di richiamo dei loro ufficiali, delle loro truppe, nonché dei loro funzionari civili, rispettivamente: il Governo ottomano dalla Tripolitania e della Cirenaica e il Governo italiano dalle isole da esso occupate nel mar Egeo. Lo sgombro effettivo delle isole da parte degli ufficiali, delle truppe e dei funzionari civili italiani avrà luogo immediatamente dopo che la Tripolitania e la Cirenaica saranno state sgombrate dagli ufficiali, dalle truppe e dai funzionari civili ottomani.
Art. 3° I prigionieri di guerra e gli ostaggi saranno scambiati nel più breve termine possibile.
Art. 4° I due Governi si impegnano ad accordare piena e intera amnistia. Il Governo Reale agli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica e il Governo Imperiale agli abitanti delle isole del mar Egeo soggette alla sovranità ottomana, i quali abbiano preso parte alle ostilità o che si siano compromessi in occasione di esse, fatta eccezione per i reati di diritto comune. In conseguenza nessun individuo a qualunque classe o condizione appartenga potrà essere processato o molestato nella sua persona o nei suoi beni o nell'esercizio dei suoi diritti, a causa dei suoi atti politici o militari o di opinioni espresse durante le ostilità. Gli individui detenuti o deportati per tale motivo saranno immediatamente liberati.
Art. 5° Tutti i trattati, convenzioni e impegni di qualsiasi genere, specie e natura conclusi e in vigore tra le due alte parti contraenti anteriormente alla dichiarazione della guerra, saranno rimessi immediatamente in vigore e i due Governi saranno posti di fronte all'altro, come pure i rispettivi sudditi nella situazione identica nella quale si trovavano prima delle ostilità.

Art. 6° L'Italia s' impegna a concludere con la Turchia allo stesso tempo in cui essa rinnoverà i suoi trattati di commercio con le altre Potenze, un trattato di commercio sulla base del diritto pubblico europeo. Cioè essa consente a lasciare alla Turchia tutta la sua indipendenza economica e il diritto di agire in materia commerciale e doganale come tutte le Potenze europee e senza essere legata dalle capitolazioni e da altri atti fino a questo giorno.

E' bene inteso che il detto trattato di commercio non sarà posto in vigore che in quanto saranno messi in vigore i trattati di commercio conclusi dalla Sublime Porta con le altre Potenze sulla stessa base. Inoltre l'Italia consente all'aumento dell'11 al 15 per cento dei dazi doganali ad valorem in Turchia come pure alla istituzione di nuovi monopoli e alla riscossione di sopratasse di consumo sui 5 articoli seguenti: Petrolio, Carta da Sigarette, Fiammiferi, Alcol, Carte da giuoco, tutto a condizione che uno stesso trattamento sia applicato simultaneamente e senza distinzione alle importazioni degli altri paesi. In quanto ha tratto all'importazione di articoli formanti oggetto di un monopolio, l'amministrazione di questo monopolio è tenuta a fornirsi di articoli di provenienza italiana secondo il per cento stabilito sulla base importazione annuale di questi stessi articoli, purché i prezzi da offrire per la consegna degli articoli di monopolio si conformino alla situazione dei mercati nel momento della compra, pur prendendo in considerazione la qualità della merce da fornire e la media dei prezzi che sono stati praticati nei tre anni precedenti a quelli della dichiarazione della guerra per le dette qualità. E' inoltre Inteso che se la Turchia invece di stabilire nuovi monopoli sui detti cinque articoli si decidesse a colpirli con sopratasse di consumo, queste sopratasse sarebbero imposte nella stessa misura ai prodotti similari della Turchia e di ogni altra nazione.

Art. 7° Il Governo italiano s'impegna a sopprimere gli uffici postali italiani funzionanti nell'Impero ottomano, allo stesso tempo che gli altri Stati aventi uffici postali o altrimenti sopprimeranno i loro.
Art. 8° La Sublime Porta proponendosi di aprire in una conferenza europea o altrimenti con le grandi Potenze interessate negoziati allo scopo di fare cessare il regime capitolare in Turchia sostituendolo col regime del diritto internazionale, l'Italia riconoscendo il buon fondamento di questa intenzione della Sublime Porta dichiara fin d'ora di voler prestare a questo effetto il suo appoggio pieno e sincero.
Art. 9° Il Governo ottomano volendo attestare la sua soddisfazione per i buoni e leali servizi che gli sono stati resi dai sudditi italiani impiegati nelle amministrazioni e che egli si era visto forzato a congedare all'epoca delle ostilità si dichiara pronto a reintegrarli nella situazione che avevano lasciata. Un trattamento di disponibilità sarà loro pagato nei mesi passati fuori d'impiego e quest'interruzione di servizio non porterà nessun pregiudizio a quelli impiegati che avrebbero diritto a una pensione di riposo. Inoltre il Governo ottomano s'impegna ad usare i suoi buoni uffici presso le istituzioni con le quali è in rapporto (debito pubblico, società ferroviarie, banche ecc.), perché agiscano nello stesso modo verso i sudditi italiani che erano al loro servizio e che si trovano in condizioni analoghe.
Art. 10° Il Governo italiano s'impegna a versare annualmente alla cassa del debito pubblico ottomano per conto del Governo imperiale una somma corrispondente alla media delle somme che in ciascuno dei tre anni precedenti a quello della dichiarazione di guerra sono state consegnate all'esercizio del debito pubblico sulle entrate delle due province. L'ammontare delle dette annualità sarà determinato d'accordo da due commissari nominati uno dal Governo Reale, l'altro dal Governo Imperiale. In caso di disaccordo la decisione sarà rimessa a un collegio arbitrale composto dai detti commissari e da un super arbitro nominati d'accordo fra le due parti. Se l'accordo non si stabilirà in proposito ciascuna parte designerà una diversa Potenza e la scelta del super arbitro sarà fatta di concerto dalle Potenze così designate. Il Governo Reale nonché l'amministrazione del debito ottonano con l'intermediario del Governo Imperiale avranno la facoltà di chiedere la sostituzione delle suddette annualità col pagamento della somma corrispondente capitalizzata al 4 per cento. Per quanto si riferisce al precedente il Governo reale dichiara di riconoscere fin d'ora che l'annualità non può essere inferiore alla somma di lire italiane 2 milioni, e che è disposto a versare all'amministrazione del debito pubblico la somma capitalizzata corrispondente appena ne sarà fatta domanda.

Art. 11° Il presente trattato entrerà in vigore il giorno della sua firma. In fede di che i plenipotenziari hanno firmato il presente trattato e vi hanno apposto i loro sigilli".

Il 28 ottobre, Vittorio Emanuele III emanava il seguente ordine del giorno:

"Nella prova solenne alla quale l'Italia fu chiamata dai suoi nuovi destini, l'esercito e l'armata hanno degnamente compiuto il proprio dovere. Ad una saggia opera di preparazione corrisposero in terra ed in mare l'abile direzione dei capi ed il brillante valore dei combattenti. Il felice risultato conseguito fu un meritato premio all'attiva ed intelligente cooperazione di tutti ed all'abnegazione e alla calma pazienza onde serenamente furono
affrontati i pericoli ed i disagi e al sacrificio di nobili esistenze con entusiastica fede votata alla patria. Sia gloria ai prodi caduti per la grandezza d'Italia! All'esercito e all'armata, che fraternamente uniti nell'ardua impresa degnamente impersonarono la coscienza nazionale giunga la calda espressione del mio più vivo compiacimento, eco fedele del plauso e della gratitudine della patria".

La sovranità italiana sulla Libia fu riconosciuta, entro il mese di ottobre, da tutte le Potenze, prima fra tutte la Russia, ultima la Francia.
Il trattato di Losanna, sebbene criticato da molti, fu il 4 dicembre approvato dalla Camera con 335 voti contro 14, dal Senato con 155 voti contro 2.
L'ambasciatore italiano, conclusa la pace, ritornò a Costantinopoli; fu iniziata subito la restituzione dei prigionieri e fu prontamente liberata la missione Sforza-Sanfilippo che era stata fatta prigioniera dai Turchi all'inizio delle ostilità e giunse a Tripoli, festeggiatissima, l'11 di novembre.

Contemporaneamente alla restituzione dei prigionieri cominciò l'esodo degli ufficiali e dei soldati turchi; ma non tutti partirono; molti poi tornarono ed altri nuovi ne giunsero, che alimentarono la resistenza degli arabi contro l'Italia e capitanarono gli armati indigeni.
Il 7 dicembre si recò a Tripoli l'on. BERTOLINI, cui era stato affidato il portafoglio del Ministero delle Colonie, di recentissima istituzione. Bertolini visitò i dintorni e durante il suo soggiorno a Tripoli radunò i capi arabi e tenne loro un discorso.
Nello stesso mese di dicembre entrò in funzione il naib ul-Sultan, KHEMS EDDIN, la cui presenza, innocua di per se stessa, recò all'Italia un danno indirettamente perché valse a fare schierare contro SIDI AHMED, detto il Gran Senusso. Costui, comprato dall'Italia con doni e denari, si era presto tirato fuori dalla guerra.
Dalla sconfitta turca e dal conseguente abbandono della Cirenaica e della Tripolitania da parte degli Ottomani egli si era ripromesso il vantaggio di succedere al Sultano come rappresentante dell'Islam in Africa,. Queste sue speranze erano state troncate dalla presenza in Tripoli del "naib".

Vedremo in seguito che il Senusso sarà uno dei nemici più accaniti dell'Italia e uno di coloro che più degli altri contrasterà con le armi il possesso della nuova colonia dell'Italia: la Libia.

Che però precisiamo, l'Italia non ottiene dal governo turco una cessione formale, ma solo la sua rinuncia ad amministrarla e ad occuparla militarmente.
E poiché i Turchi manterranno alcuni presidi in Cirenaiaca, l'Italia non restituirà il Dodecanneso e Rodi, e continuerà ad occuparli anche durante la prima guerra mondiale, per poi ottenerli come possedimenti con il "Trattato di Losanna" del 24 luglio 1923.

Ciò che rimase di questa guerra,
furono le tante micce lasciate,
messe o fatte "crescere" sui Balcani
.

Infatti i vari gruppi etnici, dopo la crisi dell'impero Ottomano, ognuno iniziò (ma anche molto prima della firma a Ouchy) a desiderare la propria indipendenza; e subito trovarono alcune potenze pronte ad appoggiare questi legittimi desideri, con patti segreti o interventi più o meno visibili.
Tutta l'arretratezza, la povertà e la mancanza di comunicazione, la penisola balcanica la doveva alla lunga dominazione ottomana. Ma alcune aspirazioni nazionalistiche -anche quando i "Giovani Turchi" costrinsero il sultano ad adempiere gli impegni costituzionali fino allora evasi- rimasero insoddisfatte e si avvicinarono gli slavi alla Triplice alleanza, che era interessata ai Balcani per il petrolio romeno, per le risorse minerarie da sfruttare, per i vari commerci oltre che per instaurarvi un egemonia politica.

Ma la fedeltà dei capi politici slavi alla dinastia asburgica fu scossa, quando nel 1908, l'amministrazione austro-ungarica decise di procedere all'annessione pura e semplice della Bosnia-Erzegovina. Questa era una regione povera, ma i suoi abitanti erano in maggioranza serbi-croati, e l'annessione fu considerata dagli slavi in genere, come un affronto magiaro-tedesco agli slavi Serbi e agli stessi slavi del sud che alla Serbia guardavano. Da quel momento Praga divenne il quartier generale degli indipendentisti "iugoslavi", e fu proprio a Praga a partire dal 1908, che si cominciò a parlare di un futuro stato degli Slavi, cioè della Iugoslavia.

Per le stesse ragioni anche la Russia -per egemonia e per problemi di frontiere- non poteva permettersi di restare a guardare, e per quanto avverso ai rivoluzionari balcanici (i serbi erano diventati i più irrequieti, e Belgrado il principale centro d'attrazione per tutti gli slavi del sud) diede l'impressione a tutti i panslavisti di essere (per motivi etnici) al loro fianco, senza però intervenire, ma facendo circolare la voce che si trattava soltanto di prendere tempo. E questi indugi, quell'accettare senza reagire all'annessione, indusse i comandi austriaci a voler passeggiare sui Balcani, convinti di poter fermare le tendenze centrifughe degli slavi, e le tendenze russofile dei cechi entrati nel mirino dei rancori dei tedeschi della Boemia.

I Greci a loro volta si contrapponevano in Macedonia sia ai serbi sia ai bulgari, divisi tra loro nonostante gli stretti legami etnici e linguistici. Infine c'erano gli Albanesi che pur essendo il popolo meno numeroso per razza e cultura, differenziandosi da tutti gli altri, miravano ad una propria netta indipendenza, pur vendendosi ora a questa ora a quell'altra Potenza, come poi vedremo.
In mezzo a tante ambiguità, in questi ultimi mesi del 1912,
alcune micce nei Balcani si erano già accese.
Siamo dunque alle "Guerre Balcaniche",
che sono null'altro che il preannuncio alla grande guerra europea.

… periodo dal 1913 al 1914

 

GUERRE BALCANICHE - ELEZIONI CON GENTILONI - SETTIMANA ROSSA
LA GUERRA BALCANICA E LE SUE VICENDE - LA TRIPLICE ALLEANZA DI FRONTE ALLA GUERRA BALCANICA - RINNOVO DEL TRATTATO DELLA TRIPLICE - TRATTATIVE DI PACE - LA CONFERENZA DEGLI AMBASCIATORI A LONDRA - L'ALBANIA - DIMOSTRAZIONE NAVALE DELLE POTENZE NELLE ACQUE MONTENEGRINE - ESSAD PASCIÀ - IL TRATTATO DI LONDRA - SECONDA GUERRA BALCANICA - LA PACE DI BUCAREST - IL PRINCIPE DI WIED SOVRANO DELL'ALBANIA - LA GUERRIGLIA IN LIBIA - OCCUPAZIONE DEL GHARIAN, DI TARHUNA E DI BENI ULID - COMBATTIMENTO DI ASSABA - OCCUPAZIONE DI GHADAMES, DI BUNGEIM, DI MISDA E DI SOKONA - LA COLONNA MIANI E L'OCCUPAZIONE DEL FEZZAN. - COMBATTIMENTO DI SCEB, DI ESCKIDA E DI MAHARUGA - MURZUK. -
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LA GUERRA BALCANICA E LE SUE VICENDE


LA TRIPLICE ALLEANZA DI FRONTE ALLA GUERRA BALCANICA -
RINNOVAZIONE DEL TRATTATO DELLA TRIPLICE
TRATTATIVE DI PACE



L'Impero Ottomano governato dall'inetto sultano Abd ul HAMID II, benché da qualche tempo in decadenza, dopo la guerra con l'Italia non perse soltanto il prestigio, ma dimostrò tutta la sua debolezza in Africa settentrionale, e anche sui Balcani, dove più soltanto in teoria la sovranità turca si estendeva anche alla Bosnia e alla Bulgaria.

Ma la guerra dell'Italia per la conquista della Libia non fu l'ultima causa di un'altra guerra ben più importante, che fece perdere alla Turchia la maggior parte del suo territorio europeo.

 

La Bulgaria e la Serbia il 13 marzo e la Bulgaria e la Grecia il 29 maggio del 1912 strinsero alleanza di carattere difensivo ma con lo scopo segreto di muovere guerra alla Turchia per strapparle la Macedonia, che sarebbe stata della Bulgaria e l'Albania che sarebbe stata divisa fra Greci, Montenegrini e Serbi.

Furono i Montenegrini ad iniziare, verso la fine del 1912 le ostilità in Albania. Nonostante gli sforzi delle grandi Potenze di impedire lo scoppio della guerra nei Balcani, questa fu intimata da Sofia a Costantinopoli il 16 ottobre. Seguirono a breve distanza le dichiarazioni di guerra della Serbia e della Grecia.

Le operazioni belliche si svolsero rapide e violentissime. Il 15 ottobre i Montenegrini cinsero d'assedio Scutari, il 23 i Bulgari accerchiarono Adrianopoli e sconfissero i Turchi a Kirk-Kilissè; questi, ritiratisi in disordine il 25 a Lule-Burgos, furono il 29 raggiunti dall'esercito bulgaro e, ancora battuti in una grande battaglia il 31 ottobre e ripiegarono dietro Ciatalgia, ultima linea di difesa turca a pochi chilometri da Costantinopoli.

Il 23 ottobre i Serbi, avanzando con quattro eserciti, occuparono Novi Bazar, Kratovo, Kossovo e Pichtina; il 24, dopo aspra battaglia, Kamonovo, e il 26 Uskub.


I Greci, lanciata una colonna verso Gianina, s'impadronirono il 20 ottobre di Elassona, sconfissero i Turchi a Servia e investirono Salonicco, dove vi entrarono il 10 novembre contemporaneamente ad un esercito bulgaro.

Il 18 novembre i Serbi s'impadronirono di Monastir che, secondo i patti, consegnarono ai Bulgari; il 27, insieme con i Montenegrini, occuparono Durazzo. I Greci intanto avanzando nell'Albania meridionale, occuparono Prevesa e i Bulgari il 17 davano l'assalto alle difese di Ciatalgia, ma tre giorni dopo, davanti all'eroica resistenza turca, sospendevano l'offensiva e il 30 concludevano con il nemico un armistizio di quindici giorni.

La guerra balcanica minacciava di scatenare un conflitto europeo. La Russia non poteva permettere che la Bulgaria andasse a Costantinopoli (e ci mancava ormai poco; erano a Ciatalgia); l'Austria non voleva che la Serbia s'ingrandisse, perché una grande Serbia sarebbe stata un ostacolo insormontabile per la politica absburgica che voleva arrivare fino all'Egeo, ed era decisa ad impedire che i Serbi occupassero l'Albania e si affacciassero all'Adriatico; e dal canto suo l'Italia non poteva rimanere indifferente all'azione della Grecia nell'Albania meridionale, di cui mirava ad impadronirsene, oltre quell'azione che andava svolgendo fra le popolazioni del Dodecanneso per farle ribellare agli italiani.

Nell'ottobre del 1912, sorgendo la minaccia di un conflitto tra la Triplice alleanza e l'Intesa, il conte BERCHTOLD, ministro degli Esteri austro-ungarico, a San Rossore (il 21-23 ottobre) ebbe un incontro con Di SAN GIULIANO e questi, nel novembre (il 4-8) si recò a Berlino per incontrarsi con gli uomini di governo tedeschi. In questi incontri fu riconosciuta l'identità di interessi dell'Austria e dell'Italia nell'Albania e con il consenso di Vienna e Berlino Di San Giuliano ammonì il Governo greco che l'Italia avrebbe impedito alla Grecia di occupare la baia di Valona.

Nello stesso mese di novembre, a dissipare gli equivoci sulla futura condotta dell'Italia in un confitto fra i due gruppi di potenze europee, d'ordine del Governo, l'ambasciatore TITTONI avvertiva POINCARÉ che l'Italia, in virtù di una convenzione italo-austriaca firmata nel 1901, era obbligata a schierarsi a fianco dell'alleata nel caso di un'invasione balcanica in Albania; e tale obbligo, siccome specifico, non restava infirmato dagli accordi generici italo-francesi del 1902 ed italo-russi di Racconigi.

LA CONFERENZA DEGLI AMBASCIATORI A LONDRA

 

Nei convegni di San Rossore e di Berlino
si parlò anche dell'opportunità di anticipare
la rinnovazione del trattato della Triplice, il che avvenne il 5 dicembre a Vienna.

Undici giorni dopo si riunirono a Londra i plenipotenziari turchi, bulgari, serbi, montenegrini e greci per discutere della pace, ma i negoziati si trascinarono lentissimi e con poca probabilità di riuscita date le pretese degli alleati e la resistenza dei Turchi.
I primi pretendevano la cessione delle isole egee e del territorio europeo dell'Impero ottomano meno il Bosforo, Costantinopoli e la penisola di Gallipoli; gli altri erano soltanto disposti a concedere l'autonomia amministrativa alla Macedonia e alla Turchia.

Un piccolo passo avanti si fece quando, nella stessa Londra, per iniziativa dell'Inghilterra, si riunì una conferenza d'ambasciatori allo scopo di riconoscere i risultati della guerra balcanica.
Allora i Turchi si dissero disposti ad accettar la decisione delle Potenze per Candia a affidare all'Europa l'incarico di tracciare i confini e dettare le norme dell'Albania autonoma, e cedere parte del territorio intorno a Adrianopoli, ma rifiutarono di abbandonare questa città e le isole egee.
Le potenze fecero pressioni sulla Turchia perché cedesse Adrianopoli ai Bulgari, Candia ai Greci e la concessione dell'autonomia alle isole dell'Egeo.

I Turchi stavano per cedere quando il partito dei Giovane turchi rioccupò con la forza il potere e dichiarò che avrebbe continuato la guerra.
Il 29 gennaio del 1913 le trattative furono troncate e le ostilità ricominciarono. Pochi giorni dopo, i Bulgari, respinti gli assalti turchi dalle linee di Ciatalgia, occuparono la riva settentrionale del mare di Marmara; Montenegrini e Serbi investirono Scutari verso la fine di febbraio, il 6 marzo Gianina si arrese ai Greci e il 28 marzo Adrianopoli fu espugnata.

L'ALBANIA
DIMOSTRAZIONE NAVALE DELLE POTENZE NELLE ACQUE MONTENEGRINE -
ESSAD PASCIÀ - IL TRATTATO DI LONDRA

Nel frattempo i notabili albanesi, riuniti a Valona per costituirvi un governo provvisorio, esprimevano il voto che l'Albania diventasse uno stato indipendente. Al voto aderiva la conferenza degli ambasciatori riunita a Londra, la quale, non volendo che il nuovo Stato avesse un'entità irrisoria, negava alla Serbia lo sbocco nell'Adriatico, e al Montenegro il possesso di Scutari; ma il Montenegro, aiutato dalla Serbia, continuava le operazioni contro Scutari e allora dalle Potenze il 4 aprile fu fatta una dimostrazione navale (palesemente intimidatoria) nelle acque di Antivari, e vi si unì pure l'Italia partecipando con le navi Saint Bon e Ferruccio.

L'8 aprile 1913, la Serbia tolse per Scutari la sua cooperazione al Montenegro, il quale però si accordò con il comandante dell'esercito turco a Scutari, ESSAD pascià, avventuriere albanese, che nella speranza di costituirsi un proprio stato in Albania vendendosi ora a questa ora a quell'altra Potenza, consegnò il 22 aprile la città ai Montenegrini ed andò a formare un governo provvisorio a Durazzo.
Minacciato dalle Potenze, che posero il blocco alle coste del Montenegro, questo dovette abbandonare Scutari, dove il 14 maggio entrava un corpo di truppe da sbarco internazionali.

SECONDA GUERRA BALCANICA - LA PACE DI BUCAREST
IL PRINCIPE DI WIED SOVRANO D'ALBANIA

Il 30 maggio 1913, a Londra, fra Turchi, Bulgari, Serbi, e Greci e Montenegrini, fu firmato un trattato in virtù del quale la Porta cedeva tutto il proprio territorio europeo che si estendeva oltre la linea Enos-Midia, ad eccezione dell'Albania, i cui confini e il cui regolamento politico fu affidato alle Potenze europee. Inoltre la Porta cedeva agli alleati balcani l'isola di Candia e quella e questi lasciavano arbitri di decidere delle sorti delle isole egee e della penisola del Monte Athos. Le questioni finanziarie sarebbero state definite a Parigi da una Commissione internazionale.
La divisione delle spoglie turche provocò una seconda guerra nella penisola Balcanica, che si era sì sottratta al dominio ottomano, ma nessuno era soddisfatto dei risultati ottenuti.

Volendo l' "amica" Bulgaria fare la parte del leone (e non intendeva riconoscere l'annessione di gran parte della Macedonia alla Serbia) scontentò Greci, Serbi e Montenegrini, i quali assaliti il 29 giugno dagli stessi Bulgari, prima resistettero saldamente, poi passarono all'offensiva respingendo dovunque l'ex alleato. Della nuova guerra approfittarono Turchi, che il 20 luglio rioccuparono Adrianopoli; e ne approfittarono i Rumeni, i quali, accampando pretese sulla Dobrugia, scesero in armi e, passato il Dabubio, marciarono su Sofia.

Le ostilità durarono appena un mese: il 10 agosto 1913 fu a Bucarest firmata la pace, che modificava profondamente la carta dei Balcani. La Grecia, oltre Creta, guadagnava Salonicco, l'Epiro, una buona parte della Macedonia fino a Bitolia, e Cavala; il Montenegro otteneva qualche lembo dell'Albania settentrionale e parte del sangiaccato di Novi Bazar; la Serbia raddoppiava quasi il suo territorio e la Romania, senza alcun sacrificio, acquistava Silistria, ampie rettifiche delle sue frontiere, quasi tutta la Dobrugia e parte della costa del Mar Nero.
Nello stesso mese di agosto, dalle discussioni della conferenza degli ambasciatori a Londra usciva fuori un'Albania (apparentemente) indipendente, eretta in principato ereditario e neutrale. Per il nuovo stato non fu facile trovare un sovrano. Scartate le proposte di dare il trono al principe Ghica, al marchese d'Auletta Giovanni V Castiota Scanderberg e al principe Napoleone, figlio di Gerolamo e di Clotilde di Savoia, fu alla fine scelto il tedesco principe Guglielmo di Wied.

Le guerre balcaniche, concluse in questo modo, finivano con una pace che aveva tutto l'aspetto di un armistizio di un conflitto in corso, perché non dava quella pace un assetto definitivo alla penisola balcanica.
Di tutti gli Stati forse la sola Romania usciva contenta dalla guerra; gli altri no: la Grecia si doleva di non aver potuto impadronirsi dell'Albania meridionale e mentre ne ritirava le truppe, che lasciavano il paese saccheggiando, bruciando e stuprando, cercava di procurare grattacapi all'Italia alimentando l'irredentismo nelle isole egee (Dodecanneso) occupate; malcontento era il Montenegro, per non aver potuto tenere Scutari ed altre terre; malcontenta era la Serbia e più di tutti, naturalmente, la Bulgaria. A questa si attribuiva l'intenzione di voler togliere Salonicco ai Greci e la Macedonia alla Serbia, per la qual cosa Serbia e Grecia stipularono un trattato per aiutarsi a vicenda nel caso di un attacco bulgaro.

Se si considera bene questo stato di cose e si pensi che, a render più difficile la situazione, la Serbia non faceva mistero del suo programma nazionale ed egemonico, suscitando le diffidenze dell'Austria, si vedrà che nell'Oriente balcanico si sono venute determinando tutte le condizioni favorevoli ad un nuovo e non lontano conflitto al quale, questa volta, purtroppo saranno coinvolte anche le grandi Potenza europee e con questi pure altri Stati come quelli d'America e d'Asia.

Lasciamo per il momento le vicende balcaniche, che riprenderemo subito dopo, e ritorniamo in Libia, dove l'occupazione italiana (cioè l'annessione) non è avvenuta così facilmente com'era stata presentata nei trattati italo-turchi firmati ad Ouchy.

LA GUERRIGLIA IN LIBIA

OCCUPAZIONE DEL GHARIAN, DI TARHUNA E DI BENI ULID
COMBATTIMENTO DI ASSABA - OCCUPAZIONE DI GHADAMES, BUNGEIM, MISDA E SOKNA - LA COLONNA MIAMI E L'OCCUPAZIONE DEL FEZZAN - COMBATTIMENTO DI SCEB, ESCHIDA E MAHARUGA - MURZUK

Mentre si combatteva la guerra balcanica, durava ancora, nonostante la pace di Losanna, quella libica.
Da parte della Turchia una vera e propria cessione formale della Libia all'Italia non era mai stata fatta, solo la rinuncia ad amministrarla e ad occuparla militarmente, anche se continuerà a mantenere alcuni presidi in Cirenaiaca e Tripolitania; e per rivalsa l'Italia non restituirà le isole del Dodecanneso e Rodi, e continuerà ad occuparle.

Dobbiamo inoltre aggiungere che la popolazione araba sia in Tripolitania sia in Cirenaica, non diedero per nulla il benvenuto alle truppe italiane che le avevano liberate dai turchi. Creando non poche difficoltà al governo italiano, costretto a mantenere un contingente di 50.000 uomini nella regione, che in pratica era poi solo Tripoli e alcune città costiere, quasi nulla all'interno.
Le spese militari che annualmente erano dal 1900 in poi costanti, annualmente di circa 250-300 milioni di lire, questi dodici mesi di guerra in Libia costarono 1 miliardo e 300 milioni, oltre diverse migliaia di vite umane

Ufficiali turchi, come abbiamo detto, erano rimasti in Tripolitania e in Cirenaica, altri vi tornarono, altri ancora vi furono inviati per organizzare e guidare la resistenza degli indigeni, i quali trovarono anche capi in avventurieri della propria razza e del proprio paese, tra cui acquistò grido e grandissima autorità SULEIMAN EL BARHUNI.

Continuarono pertanto gli attacchi alle difese italiane nelle zone costiere, continuò il contrabbando delle frontiere della Tunisia e dell'Egitto, continuarono le molestie da parte dei ribelli alle popolazioni che si erano all'Italia sottomesse e fu necessario organizzare colonne volanti di soldati metropolitani e di colore, e mandarle ad attaccare gli accampamenti dei nemici, a sorprendere i loro concentramenti, a catturare o a disperdere le loro carovane.
Non essendo sufficienti queste operazioni per debellare il nemico, si pensò di occupare stabilmente alcuni punti dell'interno. I primi balzi in avanti portarono all'occupazione del Gharian, di Tarhuna e Beni Ulid; il 23 marzo del 1913 il generale LEQUIO sconfisse ad Assaba, in un memorabile combattimento, i berberi condotti da Suleiman El Barhuni; quindi sottomise tutto il Gebel, spingendosi a Jefren, a Giado e a Nalut; sul finire dell'aprile il capitano PAVONI, alla testa di 500 ascari libici, occupò la lontana oasi di Ghadames.

Dopo queste fortunate operazioni, sembrò giunto il tempo di occupare il Fezzan. Mentre si preparava la spedizione, che doveva esser comandata dal colonnello MIANI, si precedette ad alcune operazioni preliminari: il 19 giugno del 1913 il capitano NEGRI, proveniente da Beni Ulid, occupò Bungeim; il 5 luglio una colonna partita dal Gharian occupò Mioda; il 22 luglio il capitano HERCOLANI GADDI proveniente da Sirte occupò Sokna, stabilita come punto di concentramento e di costituzione della colonna operante.

Il 10 agosto, la colonna Miani - 1 compagnia di ascari eritrei, 1 sezione mitragliatrici, 3 compagnie di ascari libici, 1 batteria da montagna cammellata su 4 pezzi, 1 reparto del genio, 1 sezione di sanità, 1 convoglio di viveri, acqua e materiali del servizio genio e sanitario e 1700 cammelli da soma e da sella- partì da Sirte e dopo 16 giorni, il 26 agosto, giunse a Sokna.

Compiuta la preparazione logistica e politica, il colonnello Miani con 1 battaglione eritreo, tre compagnie libiche, dieci pezzi da montagna, 1 sezione mitragliatrici, tutti i servizi accessori e un convoglio di 2000 cammelli lasciò Sokna il 4 dicembre. I1 10 sconfisse a Sceb un piccolo corpo nemico; il 13, dopo vivacissimo combattimento, mise in fuga una grossa colonna nemica che a Eschida gli sbarrava il passo; alcune ore più tardi occupò Brak e il 15 ricevette la sottomissione dei capi dei Mugarha e degli Hassaùna.

Il 23 dicembre, lasciato a presidio di Brak il capitano ROSSI con una compagnia libica e una sezione mitragliatrici, il colonnello MIANI, alla testa di 775 armati con 12 pezzi e mitragliatrici, mosse su Agar, dove passò la notte e il giorno dopo marciò su Maharuga. Prima di giungere in questa località la colonna incontrò il nemico, forte di circa 3000 uomini, che comandati da MOHAMMED ben ABDALLAH, assalì gli italiani durante la marcia, cercando di trarre tutto il profitto che poteva dal terreno a lui favorevole.

Un aspro combattimento fu ingaggiato, che, iniziato alle 9.30, durò fino alle 13. La colonna Miani, fornendo prova di valore, di spirito aggressivo e di mobilità, mandò a vuoto due pericolosi tentativi di avvolgimento del nemico, resistette superbamente con alcune compagnie al soverchiante numero dei beduini, quindi con un vigorosissimo contrattacco sgominò e mise in fuga i nemici, che persero una bandiera verde, abbandonarono i carichi dei loro cammelli ed ebbero 300 uomini uccisi, tra cui numerosi capi e lo stesso Mohammed ben Abdallah, e moltissimi feriti.

Le perdite italiane furono: il capitano degli ascari eritrei DE DOMINICIS morto; il capitano SEVERINI e i tenenti TERUZZI, FRACCHIA, CARRARA e MINELLA feriti; un sottufficiale italiano ferito; 18 ascari eritrei e 3 libici morti; 63 ascari eritrei e 12 libici feriti. In totale 103 tra morti e feriti.

Si distinsero nella battaglia il maggiore SUAREZ che con un vigoroso contrattacco impedì che il nemico avvolgesse il battaglione eritreo; le batterie Locurcio e Mondini; le compagnie libiche e sopra tutti gli ascari eritrei.

Alle ore 17 la colonna Miani giungeva a Maharuga e la notte stessa cominciavano a giungere offerte di sottomissione da parte dei capi dello Sciati occidentale, offerte che continuarono nei giorni seguenti. Il 21 dicembre i capi sottomessi furono riuniti a Maharuga e il 1° gennaio del 1914 avvenne con grande solennità la cerimonia della sottomissione.

Nel corso del gennaio MIANI ricevette la sottomissione dei capi di Murzuk, degli "uidian" Scerghi e Garbi e dell'Hofra e il 16 febbraio, con una colonna di mezzo migliaio di armati, mosse da Brak su Sebha, dove giunse il giorno dopo e fu raggiunto dalla compagnia benadiriana del capitano CORTICELLI, distaccata fino allora a Bir Mogalte. Il 26 febbraio, lasciati a Sebha cento uomini, il colonnello Miani partì per Murzuk e vi giunse il 4 marzo fra l'accoglienza entusiastica della popolazione.
"Con quest'ultima pacifica operazione - scrive Corrado Zoli - l'occupazione del Fezzan era un fatto compiuto. Il colonnello commissario ne aveva curato da allora l'ordinamento e l'organizzazione nel nobile intento di consolidare quel dominio, che la sua energia e la meritata fortuna delle sue armi avevano conquistato al Governo d'Italia".

Ma proprio al governo d'Italia ora dobbiamo ritornare con molti avvenimenti sia politici che sociali.

LE SOLLEVAZIONI, LA "SETTIMANA ROSSA" >>>

SCIOPERI ED AGITAZIONI IN ITALIA - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA -
IL "PATTO GENTILONI" - ELEZIONI POLITICHE -
DIMISSIONI DEL MINISTERO -
IL GABINETTO SALANDRA -
ALTRI SCIOPERI

Da quando Giolitti iniziò la sua partita a scacchi con le grandi potenze, decidendo di invadere la Libia, prima che la Francia finisse per mettervi piede, all'inizio la sua politica ne uscì rafforzata, ma alla fine dell'"avventura", pur con una guerra vittoriosa e una pace redditizia, l'onda del suo successo fu di breve durata. Anzi finì per distruggere il "sistema giolittiano"

La mossa nell'estate del 1911, era stata abile, non solo perché forzata dalla crisi marocchina-francese, ma anche dettata da ragioni politiche interne: cioè per placare i nazionalisti e i clerico-moderati, e per andare incontro all'opinione pubblica dagli uni e dagli altri (e dal governo - ovvero i giornali giolittiani come La Stampa, Tribuna ecc.) ben orchestrata, fino al punto che si aggregarono pure alcuni socialisti come Bissolati e Bonomi, creando non pochi contrasti e scissioni nel loro partito.
I nazionalisti prima del 1908 erano poca cosa in Italia; il "nazionalismo italiano" era un movimento con alcuni nostalgici del "grande passato", e con molti insofferenti alle lotte sindacali, agli scioperi e al socialismo. Per questi ultimi motivi erano ben visti dalla classe media e piacevano particolarmente a molti industriali che guardavano all'ordine, al produttivismo, al profitto e alle colonie.

Quindi primo bersaglio dei nazionalisti era stato Giolitti, accusato di aver fatto troppe concessioni ai socialisti; ed erano, i nazionalisti in sintonia con i conservatori che accusavano lo statista piemontese di essere blando, sempre accomodante, e che agendo così stava consegnando lo Stato ai loro nemici


In effetti Giolitti negli ultimi anni e durante la guerra in Libia, fece il giocoliere, ed era abile, ma non poteva farlo contemporaneamente con tutti. Quando faceva concessioni ai socialisti scontentava i cattolici. Se si alleava con i cattolici, perdeva i radicali. Se faceva il colonialista in Libia tradiva i socialisti. Se voleva intervenire sulla crescita economica doveva prima fare i conti con le casse vuote. Se i denari voleva cercarli presso i ricchi, subito veniva tacciato di fare del socialismo. Corteggiava i socialisti e i sindacati, e faceva accordi per mantenere legittimità allo Stato e alle sue istituzioni.
Corse ai ripari allargando il suffragio universale il 25 maggio 1912, convinto di allargare il consenso, ma non avendo lui un partito di massa (di destra moderata), e un partito liberale bene organizzato in tal senso, a guadagnarci (con il 70% degli analfabeti degli aventi diritto al voto) furono proprio i socialisti e soprattutto i cattolici che iniziarono ad essere indipendenti e a non più dare quell'appoggio che Giolitti andava cercando in mezzo a loro.


Infine ai temi fino allora predicati dai nazionalisti più in una forma letteraria che non politica, e che quindi sembravano non preoccupare nè a indebolire Giolitti, all'improvviso si aggiunsero i nuovi temi, quelli del 1908, e iniziarono a potenziarsi, quando non reagendo il Governo alla politica imperialista e colonialista delle sue due alleate, i nazionalisti aumentarono le loro file facendosi interprete di un sentimento di frustrazione condiviso da molti italiani; che l'Italia era l'unica tra le potenze europee a non acquisire colonie; che era l'unica rimasta indietro nell'industrializzazione; che milioni d'italiani per vivere erano costretti ad emigrare; che l'Italia come potenza era oscurata dalle sue due alleate della Triplice; e infine dopo aver provato a voler cercare spazi vitali come le altre, era stata sconfitta ad Adua nientemeno che dagli abissini; insomma i nazionalisti insistevano sulle colpe e sulla redenzione futura; e dato che gli italiani già non erano più quelli di Crispi e di Adua, i nazionalisti iniziarono ad ascoltarli.

E costituirono la chiave di volta di tutto l'interventismo anche nella successiva guerra mondiale. Essi approdarono alla tesi dell'intervento a fianco dell'Intesa, dopo aver sostenuto in un primo tempo l'allineamento con gli Imperi centrali, palesando - come del resto altri settori dello schieramento politico - una chiara volontà di partecipare alla guerra non tanto per obbiettivi precisi, quanto per uscire dalla crisi nella quale la società italiana si dibatteva...Ecco perché nell'interventismo confluirono come in un crogiuolo uomini e tendenze politiche di provenienza così diversa, e perché in esso si realizzarono tante conversioni, altrimenti difficilmente spiegabili". (Ernesto Ragionieri "Storia d'Italia ", Einaudi editore)

Nei giorni roventi che precedettero l'intervento dell'Italia in guerra (in quella mondiale del 1915), l'attacco contro Giolitti e la maggioranza neutralista del Paese si fece sempre più serrato, più aggressivo, più protervo e violento, è una sobillazione alla rivolta, alla distruzione delle istituzioni della ancora giovane democrazia italiana. Nell'edizione del 15 maggio 1915

"L'Idea Nazionale" (un quotidiano romano portavoce degli interessi che puntavano al protezionismo industriale e al nazionalismo economico, contrapponendosi al sistema liberistico) spara un violento articolo di fondo, titolando "Il Parlamento contro l'Italia".
Eccone uno stralcio: "II Parlamento è Giolitti; Giolitti è il Parlamento: il binomio della nostra vergogna.
Questa è la vecchia Italia, la vecchia Italia che ignora la nuova, la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e nell'avvenire... L'ignora appunto perché è il Parlamento. Parlamento, cioè la falsificazione della nazione... L'urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani; e in faccia al mondo che aspetta proclamerà la volontà della sua vita, la moralità della sua vita, la bellezza augusta della sua vita immortale".

Prima della Guerra mondiale, gli scioperi in ogni parte d'Italia, l'annessione austriaca, quella francese in Marocco, l'accomodante politica estera e le astute manovre di Giolitti in quella interna con le controversie risolte male o non risolte affatto, furono i validi motivi per appoggiare i nazionalisti con tutti i mezzi l' "avventura" libica concepita da Giolitti. Dopo aver reso malleabile l'opinione pubblica a favore della guerra in Libia, energicamente appoggiandola (e si gloriarono di aver forzato Giolitti a fare questa guerra), quando arrivò il successo e l'ubriacatura della vittoria l'uno e l'altra fornirono forza ai nazionalisti che si presero così il merito della guerra vittoriosa, e li resero popolari. L'Italia aveva lavato l'onta di Adua e finalmente l'Italia aveva la sua colonia.

Non trascuriamo poi l'appoggio dato ai nazionalisti dai finanzieri e dai grandi industriali, che in Libia avevano già fatto importanti investimenti. E fra questi, il Banco di Roma, che oltre a finanziare alcuni giornali cattolici, tra cui il "Corriere d'Italia, che appoggiò la guerra, la stessa banca non dimentichiamo era vicina al Vaticano, la dirigeva il presidente ERNESTO PACELLI (zio del futuro papa Pio XII) e come vicepresidente c'era ROMOLO TITTONI (fratello di Tommaso Tittoni ministro degli esteri 1903-1909).

Quest'ultimo fatto cosa significava? Che nell'opinione dei cattolici (palese o no, con interessi o no, e con il pretesto di farne una guerra santa contro i turchi) nello spingere l'Italia all'avventura libica, c'era uno smaccato appoggio al movimento nazionalista. E se Giolitti fino il giorno dell'inizio della guerra per la sua politica cercava l'appoggio dei cattolici moderati, e quasi vi era riuscito, dopo, alla fine della guerra i cattolici moderati, avendo mostrato il loro patriottismo ed entrando così a far parte dell'unità nazionale (anche se questo connubio non ricevette mai la benedizione della Chiesa) diventarono i migliori alleati dei nazionalisti. E pur dissociandosi da loro (chiamandoli guerrafondai, imperialisti senza scrupoli, tracotanti) le affinità più di vedute che non ideologiche, alle elezioni successive (del 26 ottobre 1913) fece nascere un alleanza che procurò ad entrambi vantaggi; i nazionalisti per la prima volta entrarono in Parlamento conquistando sei seggi, e i cattolici iniziarono a creare un partito di massa entrando con autorevolezza e con una certa indipendenza nell'arena politica (ma il successo maggiore fu -come commentò l'Osservatore Romano -"di aver impedito l'elezione a oltre 100 candidati, che sarebbero andati ad ingrossare la schiera, già sensibilmente aumentata, dei partiti sovversivi" E fra questi i socialisti (che poco prima stavano invece per entrare nel governo a braccetto di un più morbido Giolitti).

La guerra libica aveva smorzato i bollori socialisti; loro si erano opposti alla guerra per principio, ma i tentativi fatti per mettersi contro la guerra, contro Giolitti, contro i nazionalisti, contro i cattolici, non solo li isolò agli occhi dell'opinione pubblica (diventata all'improvviso tutta nazionalista), ma isolò perfino alcuni suoi deputati che così fornirono spazio dentro il partito a quelli dell'ala "rivoluzionaria" che iniziarono a conquistare l'appoggio anche dei sindacati socialisti moderati.

Dopo la pace di Losanna, i socialisti tornarono a ridestarsi provocando agitazioni e scioperi. Scioperarono i marmisti del Carrarese nell'inverno e nell'estate del 1913; scioperarono nel maggio gli operai automobilisti di Milano e dall'aprile al giugno quelli di Torino; nel maggio e nel giugno scioperarono gli edili a Modena e a più riprese, nella primavera e nell'estate, e in varie città i metallurgici. Uno sciopero generale promosso dai sindacalisti, si ebbe nell'agosto a Milano; scioperi agrari tumultuosi si ebbero nell'Imolese e nel Ferrarese; di fattorini telegrafici a Milano, degli avvocati e procuratori in diverse città, e infine, per tacere altri meno importanti, uno sciopero dei lavoratori del mare.

Tutte queste agitazioni non causarono grande ripercussione nella vita parlamentare, dominata quasi completamente da Giolitti, il cui gabinetto non attraversò alcuna crisi. Subì solo qualche mutamento con il ritiro di LEONARDI-CATTOLICA che, nel luglio del 1913, fu sostituito da MILLO, e con la morte del CALISSANO, cui nel settembre successe il COLOSIMO.
Il 29 settembre fu sciolta la Camera e furono convocati i comizi per le elezioni del 26 ottobre - 2 novembre 1913.

IL PATTO GENTILONI
Queste elezioni (con la riforma elettorale che portava da 3.329.147 a 8.672.249 gli aventi diritto al voto; anche se votarono poi solo 5.100.615 elettori) furono precedute dal famoso "patto Gentiloni". Curia e Governo (Giolitti) si accordarono. La prima aveva interesse che la Camera non seguisse una politica anticlericale; il secondo desiderava assicurare ai candidati ministeriali l'appoggio dei cattolici.

"Un personaggio cattolico, il conte GENTILONI, - scrive il Gori - ricevette direttamente dal Pontefice, incarico discrezionale amplissimo di passare al vaglio i candidati e di far dare i voti cattolici a quanti di loro fornivano garanzie di non votare leggi antireligiose".

Era insomma un'iniziativa per contrastare un'avanzata delle sinistre alle elezioni, soprattutto dopo l'introduzione del suffragio universale maschile faceva presagire.
Dinanzi e quel plenipotenziario di nuova specie fu una sfilata interminabile, una ridda vorticosa di candidati (508), anche radicali, socialisti e massoni. Il gentiluomo plenipotenziario, compitissimo con tutti, addolcì, signorilmente benigno, anche i rifiuti, pochi, del resto e non definitivi. Egli infatti, regolandosi sulle informazioni dei vescovi, esortava i buoni a perseverare; e ai reprobi domandava soltanto una promessa scritta che non ricadrebbero; e la formula di quella promessa variava secondo la condizione e la malleabilità del peccatore. Ai riluttanti d'impegnarsi per iscritto, Gentiloni faceva vedere, per incoraggiarli, una cassetta piena di lettere, con autografi incredibili per chi li leggeva. E l'incoraggiamento valeva".

Il patto Gentiloni produsse i risultati che la Curia e Governo si ripromettevano: sostenere lo Stato liberale. Circa due terzi della Camera furono composti da deputati legati a Gentiloni (in modo poco opportuno) si vantò di averne fatti eleggere 228 -che voleva dire liberali eletti con i voti dei cattolici - il "Messaggero" ne pubblicò gli elenchi, provocando imbarazzanti smentite da parte di molti di loro).

I deputati cattolici salirono a 26, i radicali a 73; mentre i repubblicani e i riformisti non videro di molto mutato il loro numero.
Il 27 si riaprì il Parlamento e il giorno dopo fu eletto presidente della Camera l'on. MARCORA, segno evidente che la maggioranza della nuova assemblea era sì giolittiana (304) ma poco solida, e con tanti liberali delle varie tendenza.

Inoltre dalla maggioranza, il 7 marzo 1914, per il rifiuto di votare alcune spese di guerra, si staccò il gruppo radicale, il che portò alle dimissioni dei ministri e sottosegretari radicali SACCHI, CREDARO, PAVIA, e VICINI.
Giolitti non volle nemmeno un voto di fiducia. Tre giorni dopo si dimise e con lui tutto tutto il ministero.

Il 12 marzo, il re incaricò a costituire il nuovo governo a SONNINO, che però rifiutò, incapace com'era di formare un ministero con la più che sicura opposizione di tutti i giolittiani.
Giolitti dovette compiacersi di queste difficoltà; ancora una volta rimase in disparte, ma fu lui a suggerire al Re il nuovo premier: il conservatore di destra ANTONIO SALANDRA.

Il sovrano lo incaricò a formare il nuovo governo, e Salandra con l'aiuto di Giolitti, lo costituì il 21 marzo, prendendo per sé la presidenza del Consiglio e l'Interno, lasciando agli Esteri il Di SAN GIULIANO
I zanardelliani erano presenti con FERDINANDO MARTINI alle Colonie, AUGUSTO CIUFFELLI ai lavori pubblici, LUIGI RAVA alle finanze.
Del centro destra LUIGI DANI alla giustizia; GIULIO RUDINI' al tesoro; EDOARDO DANEO all'istruzione; VINCENZO RICCIO alle poste e telegrafi; GIANNETTO CAVASOLA all'agricoltura; alla marina resta ENRICO MILO, alla guerra il generale DOMENICO GRANDI dopo il rifiuto del generale PORRO, per aver messo come condizioni la richiesta di 600 milioni in quattro anni per rafforzare l'esercito e che Salandra negò ritenendo eccessiva la richiesta)

Il nuovo ministero fu accolto abbastanza bene alla Camera, che il 5 aprile con 303 voti favorevoli, 122 contrari e 9 astenuti, gli accordò la fiducia. Tuttavia erano tempi critici per un gabinetto pur abbastanza saldo come quello capitanato da Salandra; si trovò dentro nella bufera di due momenti molto difficili per l'Italia: prima gli scioperi e finiti questi, subito dopo una guerra da affrontare si o no.

Il paese nella prima metà dell'anno 1914 fu in preda alle agitazioni: il 20 marzo la Federazione degli armatori ordinava la serrata, disarmando tutti i piroscafi; il 23 scoppiava uno sciopero generale a Palermo; il 17 aprile a Cerignola aveva luogo uno scontro, con morti e feriti, tra contadini scioperanti e liberi lavoratori; il 18 iniziava in tutta Italia lo sciopero generale degli operai delle manifatture dei Tabacchi; nei primi di maggio avvenivano dimostrazioni studentesche in ogni città in seguito a incidenti accaduti a Trieste tra Slavi e Italiani malgrado le millantate cordialità italo-austriache affermate negli ultimi di marzo nell'incontro di Venezia tra VITTORIO EMANUELE III e GUGLIELMO II e il 14 aprile nel convegno di Abbazia tra Di SAN GIULIANO e il BERCHTOLD.

Né queste erano le sole agitazioni. I ferrovieri volevano miglioramenti e minacciavano lo sciopero, ad evitare il quale, nominata da regio decreto una Commissione di 26 membri, tra cui quattro ferrovieri, detta Parlamentino ferroviario, si metteva a studiare i provvedimenti presentati poi dal ministro CIUFFELLI; il 1° giugno scoppiava lo sciopero generale a Catania per solidarietà con gli zolfatori che chiedevano al Governo abbuoni sul trasporto degli zolfi, e contemporaneamente si scioperava a Porto Empedocle per protestare contro gli stessi abbuoni ritenuti dannosi al commercio di questa città, i cui scioperanti devastavano la stazione ferroviaria e gli uffici del Consorzio zolfifero e incendiavano una grande quantità di zolfo.

Il 7 giugno (Festa dello Statuto) ad Ancona ebbe luogo un violento conflitto tra la forza pubblica e una colonna di anarchici e repubblicani reduci da un comizio antimilitarista che in precedenza era stato vietato. Nei violenti scontri ci furono diciassette carabinieri feriti; ma furono i tre dimostranti morti che provocarono un'ondata di protesta su tutta Italia.
La Camera del Lavoro di Ancona proclamò lo sciopero generale, che, per ordine della Confederazione del Lavoro di Milano, fu esteso a tutta Italia. Il 9 giugno, il Sindacato ferrovieri di Ancona proclamò lo sciopero generale ferroviario e quel giorno stesso, i funerali dei morti del giorno 7 fornirono occasione a disordini molto più gravi, a saccheggi di negozi di armi e a conflitti con la forza pubblica.

Il 10 e l'11 la situazione si aggravò. Fu costituito ad Ancona una specie di Governo provvisorio composto di sindacalisti, repubblicani ed anarchici, che si mise in contatto con altri governi simili istituiti nel resto delle Marche e nelle Romagne, dove furono troncate le comunicazioni, cacciate le autorità governative, proclamata la repubblica con relativo innalzamento nelle piazze di alberi della libertà, la rivolta assume un carattere insurrezionale.
In Romagna, il movimento guidato da BENITO MUSSOLINI, dall'anarchico ENRICO MALATESTA, e dall'allora repubblicano PIETRO NENNI, assume carattere insurrezionale.

Uno sbarco di marinai delle regie navi ad Ancona non valse a ripristinare l'ordine per la fiacchezza delle stesse ciurme e le Marche e le Romagne rimasero in balìa dei rivoltosi, che sfogarono il loro furore contro gli edifici pubblici, i ponti, le stazioni, le chiese, le linee telegrafiche, le strade ferrate, e in balìa dei Governi provvisori che ordinarono requisizioni ed espropriazioni. Non mancarono sanguinose violenze, come quella di cui fu vittima il commissario di pubblica sicurezza Minigio, che fu catturato, straziato e ucciso a Ravenna.

Mentre questi fatti avvenivano, si svolgevano lungo la costa adriatica le manovre combinate di terra e di mare. L'11 giugno, uno dei generali che prendevano parte alle manovre, l' AGLIARDI, noto per il valore dimostrato nelle guerre d'Africa, mentre in carrozza, insieme con i suoi ufficiali, se ne veniva da Ravenna per Cesenatico, fu fermato dai rivoltosi e, non potendo difendersi perché le sciabole erano legate in fascio a cassetta, fu fatto prigioniero con i suoi e condotto in un caffè dove rimase sotto buona guardia per qualche tempo finché il Governo provvisorio, temendo le conseguenze di un tale arresto, non lo rimise in libertà.

Lo sciopero generale proclamato dalla Confederazione del Lavoro provocò, specie a Torino, a Firenze, a Napoli e a Roma, saccheggi, violenze, conflitti con barricate, morti e feriti, e reazioni da parte dei nazionalisti e liberali che a Bologna, a Brescia, a Milano, a Verona, a Firenze, a Roma e a Palermo guidarono cortei gridando contro lo sciopero. Questo avrebbe dovuto aver termine la notte del 10, ma durò tutto l'11 a Parma, a Milano, e a Firenze e tutto il 12, a Napoli. Lo sciopero ferroviario, sebbene parziale, durò a Piacenza e a Bologna oltre il 13, con saccheggi, incendi di stazioni, guasti ai binari e ai ponti.

LA "SETTIMANA ROSSA"

Finalmente, più per esaurimento che per repressione governativa (tuttavia furono impiegati 100.000 soldati per far fronte alle agitazioni) gli scioperi e le insurrezioni di quella, che poi prese il nome di "Settimana rossa", finirono, e gli stati d'assedio proclamati ad Ancona e a Ravenna furono revocati. Il Governo, che pur non aveva mostrato molta energia, ebbe fedele la Camera, o meglio la maggioranza che due mesi prima gli aveva accordato il voto di fiducia e che lo sostenne validamente nella discussione sui provvedimenti finanziari contro l'ostilità e l'ostruzionismo accanito dei socialisti e dei repubblicani.

"Settimana Rossa" "Sotto questo nome un po' troppo impegnativo - scrive Giuliano Procacci in "Storia degli italiani", Laterza editore - si è soliti designare un moto di piazza che, con tutti i caratteri dell'improvvisazione e della spontaneità, sconvolse per una settimana il Paese ed ebbe per epicentro la Romagna e le Marche, una zona in cui l'opposizione anarchica, socialista e repubblicana aveva profonde radici.

Fu una rivoluzione provinciale, guidata da duci provinciali - i romagnoli Benito Mussolini (allora ricoluzionario), Pietro Nenni (allora repubblicano) e l'anarchico Errico Malatesta - animata da passioni provinciali e municipali, quasi una versione proletaria e popolaresca dei moti che nel 1830-31 si erano avuti nelle stesse regioni contro il governo pontificio. I grossi centri industriali e operai del Paese, chiamati a scendere in sciopero generale per solidarietà con gli insorti di Ancona e delle Romagne, risposero solo in parte all'appello del partito socialista e della Confederazione generale del lavoro.

"Se la "settimana rossa" non era una rivoluzione, e per certi episodi essa era stata addirittura una caricatura della medesima, ciò non impedì che essa apparisse un minaccioso sintomo rivoluzionario a quei conservatori che della rivoluzione avevano una visione altrettanto approssimativa quanto quella di molti rivoluzionari del momento. Tale era SALANDRA, che fece inviare nelle Romagne 100.000 uomini e tale era anche il re, che rimase fortemente impressionato dai pronunciamenti repubblicani cui la "settimana rossa" aveva dato luogo". Deciso no ai guerrafondai dunque. La maggioranza del Paese si rende conto che gli ardori interventisti sono espressione esclusiva degli interessi della grande borghesia imprenditoriale nazionale e internazionale. Si cerca dunque di rimediare, di ragionare e il Paese sembrò tornare a un'apparente normalità".

 

Erano passati appena 14 giorni dai gravi fatti accaduti nelle piazze d'Italia,
quando in quelle di tutte le città d'Europa piombò quella notizia
che andò poi a sconvolge il vecchio continente per cinque anni,
in una infernale "Olimpiade della morte".

 

... una drammatica notizia giunge da Sarajevo >>>>>>>>>>>>>>

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