LE STRADE IN ITALIA:
DALLE ORIGINI ALL’AUTOSTRADA DEL SOLE


Di Anna Lamberti

CAPITOLO PRIMO
DALLE ORIGINI AGLI ANNI CINQUANTA

I.1 - La situazione preesistente
Le origini dell’approccio italiano all’infrastruttura viaria, che avrà il suo sbocco più visibile e notevole proprio nel grande progetto delle autostrade, va cercato nella situazione preesistente. Per comprendere le ragioni che portarono l’Italia a sviluppare un piano originale e grandioso di viabilità, con risultati ben presto ammirati in tutta Europa, è necessario perciò un inquadramento storico.
Non si può certo parlare di una grande tradizione italiana per quanto riguarda le strade in epoca sette-ottocentesca: se si vuole ritrovare l’origine dell’“amore per le grandi strade” in Italia bisogna risalire all’antica Roma con le sue strade consolari, che hanno tracciato la direttrice tuttora esistente di tutta la rete stradale italiana.
Tuttavia, per quanto riguarda la storia più recente, il dato di fatto è che l’Italia Unita si trovò di fronte a un panorama viario nel complesso abbastanza povero, e connotato da quegli squilibri fra Nord e Sud che ancor oggi continuano a far sentire il loro peso.

Quanti si sono occupati del problema hanno sottolineato, benché con accenti diversi, quanto problematica fosse l’eredità stradale che si trovarono in mano i primi governanti dell’Italia unita.
Toni piuttosto amari si trovano, per esempio, in una relazione del 1957 di Fedele Cova, il cui intento è quello di sottolineare la necessità, a un secolo di distanza, di investire molto di più sul sistema stradale, che in Italia è sempre stato penalizzato rispetto a quello ferroviario.
Cova perora la causa delle autostrade e, di conseguenza, delle automobili. Perciò, ripercorrendo dalle origini la storia dell’infrastruttura viaria, accentua subito l’inadeguatezza e la frammentarietà della situazione:

All’affacciarsi dell’unità, nel 1860, noi non ereditammo otto Stati, ma alcune migliaia di Comuni, reciprocamente forestieri: poche e maltenute strade, nessun fiume navigabile, e qualche migliaia di km di ferrovia, con tronchi isolati, creati più per vanità di Principi che per scopi economici. Dei 90.000 km di strade (ma quali strade!), più di due terzi erano nel Nord; di esse solo 12.269 km erano nazionali (e cioè praticabili); dei 3.000 km di ferrovie solo poco più di un decimo riguardavano zone dalla Toscana in giù”.

La lettura di Pier Luigi Beretta, pur essendo di tono meno pessimistico, non tralascia di dichiarare le disparità della situazione:

“Prima del 1860 esistevano nell’Italia settentrionale e centrale strade ben costruite e discretamente mantenute. Poche e trascurate invece quelle esistenti nell’Italia meridionale e nelle isole di Sicilia e Sardegna. In particolare la rete stradale era molto sviluppata nella Lombardia per opera dell’amministrazione austriaca e di quella francese, e nel Piemonte per l’attività svolta, sempre dall’amministrazione francese, durante il periodo che va dalla Rivoluzione alla Restaurazione del 1815”.

Il grande precedente storico della rete stradale italiana è, come accennato più sopra, la rete delle strade consolari romane, il cui tracciato costituisce la base di ogni successivo disegno e progetto viario della penisola.
Fu nel Medioevo che le strade italiane cominciarono a non essere più battute, a deteriorarsi, a sparire inghiottite dalla vegetazione.
Da notare che questo fenomeno non fu dovuto soltanto, come si potrebbe pensare, a un processo di decadenza generale, dovuto anche allo spopolamento dei territori, ma rispose anche a una logica difensiva razionale, benché distruttiva. Spiega Beretta:

“Nel Medio Evo il meraviglioso ed efficiente sistema stradale romano fu ridotto in pessime condizioni. La distruzione delle strade costituì a quell’epoca un valido mezzo di difesa contro le invasioni delle popolazioni barbare che calavano dalle Alpi”.

Nel periodo napoleonico e in quello della dominazione austriaca vi fu qualche iniziativa importante, limitata tuttavia ai territori amministrati da Austria e Francia.
La scarsa brillantezza della situazione generale nell’Italia preunitaria è resa evidente da alcuni dati. Per esempio, “nel 1838 la merce spedita da Milano impiegava due mesi per arrivare a Firenze, e i passeggeri impiegavano 36 ore di viaggio da Milano a Venezia, e 5 giorni da Milano a Vienna”.
Altri dati riguardano i metri lineari di strade per km2 in alcune regioni, alla data del 1863. Questi dati riguardano tutte le strade, quindi non solo le “grandi opere”, ma anche la rete di piccole strade che collegavano fra loro i vari paesi:

Sardegna 35
Lombardia 128
Parmense e Modenese 78
Romagna 117
Marche e Umbria 132
Toscana 154
Napoletano 65
Sicilia 90

I.2 - Gli anni dell’unificazione

Al neonato Regno d’Italia va riconosciuto il merito di avere affrontato una situazione molto carente in tempi brevi, soprattutto dal punto di vista normativo, e con un taglio abbastanza lungimirante.
L’azione ebbe tuttavia dei limiti. Infatti, dopo una partenza a livello conoscitivo e di sistemazione preliminare molto brillante, seguì una seconda fase in cui grandi aspirazioni e programmi ambiziosi - spesso anche sfruttati retoricamente a scopo elettorale - si scontrarono con possibilità economiche piuttosto scarse. Di conseguenza le realizzazioni spesso furono eseguite in modo confuso e rimasero incompiute.

Dal 1860 al 1864 fu promossa e realizzata un’importante serie di studi sul territorio, che rappresentò uno sforzo organico e inedito di documentare la situazione generale dell’Italia. Lo scopo era definire nei dettagli la situazione della viabilità nell’intera penisola, particolarmente per quanto riguardava il Sud, dove molte zone erano ancora del tutto isolate. Come dati significativi, basti citare che in Calabria i comuni senza allacciamenti stradali di sorta (ovvero completamente isolati) erano 371 su 412; in Abruzzo 256 su 323.

Con la legge del 20 marzo 1865 n. 2248 furono stabilite le norme di competenza nella costruzione, manutenzione e conservazione delle strade, nel carico delle spese e nel servizio di polizia stradale.
Le strade vennero suddivise in quattro grandi categorie: nazionali, di competenza dello Stato; provinciali; comunali; vicinali, di competenza dei consorzi formati dagli utenti privati, con o senza la partecipazione degli enti locali. Questa classificazione rimase immutata fino al 1923.

Un’idea importante per l’evolvere della situazione, sostenuta dai politici dei primi anni dell’unità, in particolare dal ministro dei Lavori Pubblici De Vincenzi, era che “la funzione progressiva delle ferrovie… non avrebbe potuto esplicarsi appieno nelle campagne – tenendo conto che in questi anni l’agricoltura si presentava come l’unica risorsa economica del paese – senza un supporto adeguato, che solo un sistema capillare di strade locali avrebbe potuto garantire”.
De Vincenzi fu il più autorevole e impegnato sostenitore degli investimenti nella costruzione di strade, in conseguenza delle sue idee precise e chiaramente espresse: “Niuna cosa ha maggiore influenza sulla produzione di un paese che la viabilità… le strade vivificano l’agricoltura, creano le industrie, danno origine ai commerci… la statistica delle strade è la statistica della ricchezza di un paese”.
Egli si richiamò costantemente alle esperienze già avviate di Francia e Inghilterra, che avevano dato buoni frutti sia nel senso stretto del miglioramento della viabilità nei rispettivi territori, sia per quanto riguarda il fattore della “modernizzazione”.
Infatti, è facile intuire che il problema dei collegamenti tra gli sperduti villaggi delle zone agricole più arretrate acquistava immediatamente una valenza sociopolitica, oltre che di efficienza nei trasporti.
Si trattava in un certo senso di “civilizzare” territori isolati, offrendo ai loro abitanti la possibilità di scambi culturali, di comunicazione nel senso più ampio, nonché di sviluppo dell’attività agricola tramite la possibilità di flusso dei prodotti e delle risorse e l’allargamento del mercato, e di lotta alla piaga sociale del brigantaggio.
Proprio grazie alla costruzione di strade, che offrivano ai viaggiatori la possibilità di controllare meglio il cammino e davano ai briganti meno opportunità di nascondersi, l’Inghilterra era già riuscita a eliminare il brigantaggio da numerose contee arretrate della Scozia e del Galles; anche in Italia la sfida al brigantaggio presto trovò nella politica stradale un importante strumento di controllo.

Nel 1865 furono proposti due programmi di massima per un piano stradale generale: il primo prevedeva la costruzione di 100.000 km di strade per 500 milioni di spesa, il secondo di 150.000 km per 750 milioni.
L’eccessiva ambizione di questi progetti, però, ne rese impossibile la realizzazione. Come già accennato, infatti, i termini del problema vennero analizzati e sistemati formalmente in modo molto chiaro, ma a questo non corrispose un’effettiva disponibilità di fondi.
Gli aspetti esecutivi e tecnici della realizzazione delle strade vennero affidati agli enti locali, che avevano possibilità economiche nettamente inferiori a quelle dello Stato.
Da parte sua lo Stato si assumeva l’onere di mantenere solo le strade nazionali; nello stesso tempo, soprattutto grazie alla norma che tra due centri urbani già uniti da ferrovia non si potevano mantenere strade di prima categoria, privilegiava i trasporti ferroviari.

Dopo gli entusiasmi iniziali, insomma, la politica stradale cominciò a decadere, aprendo a un sistematico declassamento della rete viaria ancora in costruzione o appena inaugurata. Commenta Mioni:
“I provvedimenti fondamentali non trattavano né di un piano urbanistico o territoriale generale per la formazione della rete stradale nazionale, né di un piano di investimenti articolato a seconda delle varie categorie di opere. Le richieste di De Vincenzi e i suoi richiami all’esperienza straniera erano quindi lasciati cadere, mentre si avviava una procedura di interventi e realizzazioni disordinate, discontinue e soggette soprattutto, in modo massiccio, alle vicende del clientelismo politico e del sottogoverno”.

Nonostante questi problemi, vi furono dei progressi: dal 1864 al 1904 la rete viaria italiana passò da 22.500 a 26.100 km, aumentando quindi di 4.400 km in quarant’anni. Vennero varati tre grandi programmi di costruzioni, rispettivamente nel 1869, nel 1875 e nel 1881.
L’effettiva resa delle nuove strade risultò buona anche in confronto alle strade straniere. Tecnicamente, le nuove strade rispettavano in genere i seguenti standard: larghezza media di 7 metri, mai inferiore ai 5 metri (in corrispondenza di ponti o strettoie); pendenza massima del 5%, in casi particolari del 7%, e del 15% in montagna; pavimentazione in macadam. La manutenzione era affidata a lavoratori specializzati dipendenti dallo Stato, chiamati “cantonieri” e alloggiati in apposite case dislocate a intervalli regolari lungo le strade stesse (la “case cantoniere” che ancor oggi sono un elemento caratteristico del paesaggio italiano).

 

I.3 - Il Novecento

Col nuovo secolo, il problema stradale cominciò a creare nuove esigenze anche dal punto di vista tecnico. Le crescenti esigenze socioeconomiche, le inedite caratteristiche dei mezzi di trasporto e la loro allargata diffusione rendevano necessario trasformare le sedi del traffico per renderle adeguate alle nuove realtà.
Pier Luigi Beretta descrive le esigenze che emersero agli occhi degli esperti già nei primi decenni del Novecento. C’era bisogno di un nuovo tipo di strade, da realizzare secondo canoni differenti dal passato:
“Queste esigenze di ordine tecnico comportano la creazione di collegamenti più diretti, secondo tracciati razionali e agevoli, con leggere pendenze e curve a largo raggio, senza attraversamenti di centri abitati o incroci a livello, con sezioni di ampiezza sufficiente e pavimentazioni solide e di poca resistenza al rotolamento”.

Un altro problema era l’obsolescenza del macadam, un metodo di pavimentazione che pure, solo pochi decenni prima, veniva considerato estremamente utile e d’avanguardia. Esso era costituito da una pavimentazione di pietrisco, costipato mediante rollatura e amalgamato col suo stesso detrito.
Il macadam, che pavimentava tutta le rete stradale italiana, fu posto in crisi dall’avvento del trasporto automobilistico. Il traffico di automobili creò infatti gravi ostacoli a tutto il sistema di manutenzione delle strade, le quali “accusarono un eccessivo logorio delle massicciate con la conseguente formazione di buche profonde e pericolose se non riparate in tempo. A ciò bisogna aggiungere il grave disagio provocato dal sollevamento della polvere originato dall’aumentata velocità di traslazione dei veicoli a motore”.
Si iniziò dunque una ripavimentazione delle strade con il catrame, che in Italia venne usato per la prima volta nel 1900, su due tratti di provinciale vicino a Lugo di Romagna.
Lo sviluppo della rete infrastrutturale italiana, che doveva sfociare nel progetto delle autostrade, risponde dunque prima di tutto a una logica di razionalizzazione dei trasporti e degli spostamenti.
Nel 1923 il Regio Decreto n. 2506 modificò la precedente classificazione delle strade, ripartendole in cinque classi.
1) Strade di prima classe, di competenza dello Stato (circa 20.000 km di strade importanti, molte delle quali, nel Mezzogiorno, finivano per costituire la sola risorsa viaria).
2) Strade di seconda classe, che collegavano tra loro i capoluoghi di provincia e questi con i capoluoghi di circondario e con le città portuali; queste strade erano cogestite dallo Stato e dalle province.
3) Strade di terza classe, che collegavano i capoluoghi comunali con i capoluoghi provinciali, di competenza delle province.
4) Strade di quarta classe, che collegavano i vari centri comunali, di competenza dei comuni.
5) Strade di quinta classe.
6) Strade militari, di competenza dello Stato.

L’attuazione di questo decreto, tuttavia, restò lettera morta fino al 1939, anno in cui la Cassazione risolse i vari conflitti di competenza amministrativa derivanti dal fatto che molti programmi già in corso all’epoca del decreto non potevano rientrare con precisione in nessuna delle nuove categorie. Subito dopo scoppiò la guerra e ancora una volta i piani stradali non poterono che essere affrontati in modo carente e parziale.

Con la legge 17 maggio 1928, frattanto, era stata creata l’A.A.S.S. (Azienda Autonoma delle Strade Statali), sul modello dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato. Nelle intenzioni il nuovo organo avrebbe dovuto essere funzionale, agile, con finanziamento assicurato e indipendente dalle possibili variazioni del bilancio statale.
Il compito dell’A.A.S.S. era quello di gestire le strade più importanti, ridenominate “statali” e numerate da 1 (la via Aurelia) a 137, per un totale di 20.622 km. In pratica, si trattava di provvedere alla manutenzione ordinaria, alle riparazioni straordinarie e alle sistemazioni generali.
(vedi poi in fondo a questo elaborato)



La situazione che si trovò in mano la neonata A.A.S.S. era, come risulta chiaro da quanto finora detto, alquanto complessa. Nel 1929 l’Azienda presentò un piano di riordinamento e ricostruzione per circa 6.000 km di strade, preventivato per sei anni e al costo di circa 180 milioni l’anno.

Nonostante le difficoltà, tuttavia, fino allo scoppio della guerra vi furono diverse realizzazioni importanti, al punto che, come afferma Mioni, “all’inizio degli anni ’30 la struttura della rete della viabilità principale e degli organi preposti a essa risulta completamente definita, più o meno com’è oggi (salvo alcune importanti strade recenti realizzate a partire dagli anni ’60 su nuovi tracciati)”.

I.4 - La prima generazione delle autostrade
I.4.1 - Aspetti tecnici

E’ all’ingegner Piero Puricelli, grande imprenditore di costruzioni stradali e industriali, che si deve l’introduzione del concetto di autostrada, ovvero l’idea, del tutto nuova, di creare delle grandi strade da riservare al solo traffico automobilistico: si sarebbe trattato di strade a pedaggio, in concessione cinquantennale, ideate e costruite per un traffico veloce.
Il pedaggio sarebbe servito a rimborsare l’ente costruttore delle spese di costruzione, esercizio e manutenzione. Questo criterio si contrapponeva a quello, fino ad allora dominante, della strada aperta al pubblico transito senza discriminazione dei vari tipi di veicoli.

Già nel 1921 Puricelli ottenne le autorizzazioni per riuscire a far dichiarare “di pubblica utilità” alcuni dei suoi progetti, e quindi per potere cominciare a realizzarli concretamente. Va ricordato che quando un’opera è dichiarata di pubblica utilità, allora viene consentito l’esproprio dei beni immobili e delle proprietà immobiliari sui terreni necessari alla costruzione.

Nel 1924 fu inaugurato il primo tratto di autostrada d’Italia, la Milano-Laghi, che conduceva da Milano ai laghi lombardi di Como, di Varese e Maggiore.


La tabella e le schede che seguono riportano le caratteristiche delle autostrade “della prima generazione”, costruite ed entrate in esercizio dal 1924 al 1935.

Data dell’entrata - Denominazione - Lunghezza - Costo in esercizio dell’autostrada

30.9.1924-3.9.1925 Milano-Laghi km 84,007 90 milioni
24.9.1927 Milano-Bergamo km 50,007 57 milioni
3.6.1929 Napoli-Pompei km 23,347 42 milioni
agosto 1931 Bergamo-Brescia km 47,647 40,5 milioni
ottobre 1932 Torino-Milano km 127,000 110 milioni
agosto 1923 – tronchi della
Milano-Laghi
agosto 1933 Firenze-Mare km 81,333
ottobre 1933 Padova-Mestre km 24,600 28 milioni

ottobre 1935 Genova-Serravalle km 50,040

Milano-Laghi

Seguendo le direttrici principali di una zona industriale già molto sviluppata, l'autostrada da Milano raggiunge Lainate, dove si dirama un braccio per Como. A Gallarate si biforca in altri due rami, per Varese e per Sesto Calende.
L’impegno finanziario a carico dello Stato ricevette diverse contestazioni, ma i lavori iniziarono regolarmente il 26 marzo 1923, con una durata totale di sedici mesi.
La società promotrice fu la Sa Autostrade di Milano.

Milano-Bergamo

Questa realizzazione fu molto apprezzata dai bergamaschi, che la sentirono come risarcimento dell’antico torto, risalente al 1878, quando con la scorciatoia Treviglio-Rovato la città di Bergamo era stata tagliata fuori dai collegamenti principali (con Milano e con Venezia). Probabilmente per l’entusiasmo personale di Mussolini, i lavori cominciarono ancor prima dell’approvazione ufficiale.
La società promotrice fu la Sa bergamasca esercizi costruzioni autovie, presieduta da Paolo Bonomi e in seguito da Puricelli.

Napoli-Pompei

La realizzazione dell’opera fu difficoltosa e andò per le lunghe, dalla convenzione iniziale del 29 luglio 1925 all’effettiva apertura il 22 giugno 1929.
La Sa Autostrade meridionali, società promotrice della Napoli-Pompei, poiché aveva ritenuto inadeguate le condizioni per la costruzione dell’autostrada e accusava una disparità di trattamento nei confronti della Milano-Bergamo, fece richiesta al Ministero dei lavori Pubblici di nuovi fondi e facilitazioni. Il risultato purtroppo mise in luce una tipicità del malcostume italiano, poiché i finanziatori privati non solo riuscirono a spendere per chilometro il doppio delle altre autostrade, ma anche ad ottenere un interesse fisso dallo Stato.

Bergamo-Brescia

Sponsorizzata da un personaggio autorevole, Augusto Turati, “ras” di Brescia e poi segretario del Partito nazionale fascista, l’opera venne realizzata in due anni dalla Sa Bresciana per la costruzione e l’esercizio autovie, presieduta da Giovanni Gorio.

Torino-Milano

Anche la più lunga delle autostrade fasciste, che congiungeva le due maggiori città industriali italiane, ebbe alcune vicissitudini.
Nonostante un comitato promotore formato da grandi personalità della finanza e dell’industria italiana, primo fra tutti il presidente conte Secondo Frola, a cui successe alla testa del comitato nel 1929 Antonio Stefano Benni, presidente di ben sedici società, che sottoscrisse fondi cospicui, i lavori si bloccarono per ragioni che attendono ancora di essere chiarite.
Passarono sei anni dall’iniziativa, partita attorno al 1926, all’apertura dell’autostrada, il 28 ottobre 1932. La società realizzatrice fu la Sa Autostrada Torino-Milano.

Firenze-Mare


Promossa dalla Sa Autostrade toscane e sponsorizzata dal Sottosegretario alle comunicazioni Alessandro Martelli e dal segretario federale di Lucca Carlo Scorza (quindi in stretta connivenza col regime), dopo varie vicende di malcostume fu inaugurata nel 1932-1933.

 

 

 

Padova-Mestre

Promossa dalla Sa Autostrada di Venezia e di Padova, fu inaugurata il 15 ottobre 1933 e fu sovvenzionata per un terzo dagli enti locali, per il resto da una società costituita dagli enti stessi, con la fruizione di un contributo statale.

Ad eccezione della Padova-Mestre e della “camionale” Genova Serravalle Scrivia, pavimentate con trattamenti bituminosi, le altre autostrade della prima generazione furono pavimentate con lastroni di cemento.
La pavimentazione in calcestruzzo prevalse perché si basava su un’esperienza già affermata (a differenza dei conglomerati bituminosi, ancora poco sperimentati) e perché il cemento era un prodotto nazionale e quindi, nell’ottica autarchica, da preferire.

Si impose subito anche la questione dell’arredo autostradale, ossia di quella serie di strutture disposte lungo l’autostrada e destinate a garantire conforto e assistenza ai viaggiatori.
La prima grande area di servizio fu costruita presso il casello di Genova, dove oltre ad ampie zone adibite alle operazioni di smistamento e trasbordo merci (molte delle quali dovevano passare dai camion alle navi del porto), e al rifornimento di carburante, venne realizzato un fabbricato destinato al ristoro dei viaggiatori ed alle attività direzionali. Questa struttura comprendeva ristorante, albergo diurno, ufficio di posta e telegrafo, rivendita di giornali, bar, stanze di riposo, uffici di controllo e alloggio dei dirigenti della stazione.
Vi era la tendenza a raggruppare tutte le funzioni: nelle prime autostrade anche la riscossione del pedaggio veniva effettuata presso le aree di servizio.
Per quanto riguarda la segnaletica, quella orizzontale si avvicinava già ai criteri odierni, con strisce di vernice per dividere le corsie. La segnaletica verticale non sempre era presente e spesso era abbinata a cartelloni pubblicitari.

Per garantire la sicurezza, all’inizio si utilizzarono i tradizionali paracarri, che dapprima erano costituiti da strutture in pietra poste a intervalli regolari, poi da strutture a telaio in cemento armato.
I paracarri sono strutture rigide, che si oppongono agli urti senza assorbire energia: in altre parole, bloccano l’urto del veicolo ma non lo attutiscono, garantendo quindi al minimo la sicurezza dei viaggiatori. Oggi i paracarri sono stati sostituiti dai sicurvia metallici e, ancora più di recente, dalle barriere in calcestruzzo tipo New Jersey, ad elevato potere di assorbimento degli urti.

I.4.2 - Aspetti storici

Lo sviluppo delle prime autostrade italiane è indissolubilmente legato al particolare clima politico nel quale l’impresa nacque, ovvero il fascismo.
Gli storici quindi, tenendo presente la tendenza fascista a gloriarsi delle imprese nazionali, hanno cercato di ridimensionare la retorica delle autostrade come “creazione italiana”, introducendo confronti che esulano dalla tradizione storicistica sulle autostrade. Quest’ultima infatti, sviluppatasi parallelamente alle realizzazioni di cui narrava, portò con sé per lungo tempo l’eco degli accenti trionfalistici e nazionalistici delle sue origini.
Per il regime fascista le autostrade furono un grande vanto, una grandiosa anticipazione italiana all’avanguardia nel mondo.
Una forte critica a questa impostazione viene da Bortolotti e De Luca, che trattano anche l’attribuzione dell’invenzione delle autostrade a Puricelli come un’amplificazione del regime:

Questa non è che una delle leggende del regime, alla quale ha contribuito non poco lo stesso Puricelli: nell’Enciclopedia italiana (1930) alla voce “Autostrada” si dice: ‘L’autostrada è una creazione assolutamente italiana, dovuta all’iniziativa dell’ingegnere Piero Puricelli’. Ma guarda caso, l’autore della voce sull'Enciclopedia è lo stesso Puricelli”.

Secondo questi autori, la maggior novità delle autostrade è l’idea del pedaggio, che tuttavia non era completamente originale, avendo dei precedenti nei canali e nelle strade a pagamento esistenti in Inghilterra già a partire dal secolo XVII.
Probabilmente il primo tratto autostradale a pedaggio è americano e risale al 1904: l’Holland Tunnel, che collegava a pagamento Long Island e il New Jersey, sottopassando l’estuario dello Hudson R.
Per quanto riguarda la paternità dell’idea, vi è anche un precedente nazionale: l’ingegner Giuseppe Spera che nel 1906 lanciò l’idea di una “autovia”, una “strada per uso esclusivo automobili”, da realizzare sul tratto Roma-Gaeta-Napoli, corredandola di un progetto tecnico abbastanza sostenibile.

La critica degli autori si rivolge comunque più alla strumentalizzazione che il regime fece delle autostrade come vanto e prodotto dell’”italico genio”, che a Puricelli stesso, riconosciuto come il primo a realizzare effettivamente, in epoca contemporanea, un’autostrada extraurbana a pagamento e come uomo di grandi vedute e di grandi capacità realizzatrici:
“E’ insomma un personaggio di tutto rispetto, meritevole di uno studio più approfondito e di una biografia che potrebbe mettere in luce alcuni punti nodali dell’alleanza – e forse anche dello scontro – fra la grande industria milanese e il fascismo”.

Già prima del regime fascista e parallelamente all’ingegno dei singoli uomini e alle iniziative governative del Regno d’Italia, operava un altro organismo che fu importante per lo sviluppo delle autostrade e va ricordato: il Touring Club Italiano.

Questa organizzazione, fondata nel 1884, fece della modernizzazione delle strade il suo cavallo di battaglia. Dal Touring proveniva anche Piero Puricelli.

L’idea dell’autostrada venne proposta da Puricelli dapprima al Touring Club, l’11 marzo 1922, in seguito direttamente a Mussolini, nel novembre 1922, pochi giorni dopo la Marcia su Roma.
Secondo l’interpretazione di Bortolotti e De Luca, il progetto aveva gravi pecche e venne approvato essenzialmente per motivi politici. Sta di fatto che, il 1° dicembre 1922, venne firmata la convenzione fra il Ministro dei Lavori Pubblici Carnazza e la società promotrice, approvata con decreto-legge il 17 dicembre.
Ancora sulla figura di Puricelli, emblematica del rapporto tra fascismo e grande industria - che poi proseguirà, dopo la guerra, nell’altrettanto complesso e articolato rapporto tra regime democratico e grande industria - scrivono Bortolotti e De Luca:

“Puricelli non ottiene, e probabilmente non chiede, posizioni di potere nell’apparato statale, e non diventa segretario di confederazioni e corporazioni, come altri grandi impresari. Il suo comportamento è quello di altri fra i maggiori industriali, che più che servire al fascismo se ne servirono”.

L’atteggiamento del fascismo nei confronti delle autostrade, tuttavia, cambiò dagli anni ’20 agli anni ’30. Come era già successo col Regno d’Italia, le difficoltà di realizzazione, la frantumazione degli interessi, gli appetiti economici dei singoli, dopo gli slanci entusiastici degli inizi portarono a maggior cautela.
Il parlamento prese a dimostrarsi chiaramente ostile alle imprese autostradali. Lo dimostra per esempio, nel 1930, la cronaca di una seduta di discussione sul bilancio preventivo dei lavori pubblici in cui il deputato Francesco Caggese, un ingegnere irpino, venne applaudito a più riprese mentre affermava che “le autostrade non sono assolutamente necessarie… salvo casi particolari sarebbe meglio che lo Stato devolvesse quei denari al miglioramento della rete stradale già esistente”.

In effetti, un’incongruenza delle autostrade dell’epoca si può individuare nello scompenso fra la portata dell’opera e l’effettivo numero di autoveicoli circolanti.
Nel 1923 circolavano complessivamente sulle strade italiane 84.687 autoveicoli, di cui 57.000 automobili, 25.000 autocarri e 2.687 autobus.


Come scrivono Gasparini e Marelli:
“L’evoluzione del traffico sulle prime autostrade è stata di gran lunga inferiore alle aspettative (anche a causa dei progressivi miglioramenti apportati alla viabilità ordinaria e per gli effetti della grande crisi)”.

Gli stessi autori fanno notare la presenza di bisogni collettivi più urgenti, come l’istruzione, la ricerca e gli investimenti in attività industriali. In sintesi:
“La costruzione delle prime autostrade italiane negli anni ’20 e ’30 può essere considerata come un’operazione positiva dal punto di vista della comunità nazionale, ma non strettamente necessaria per quei tempi”.

Il colpo di grazia prima della tragedia bellica sul quadro già precario del traffico automobilistico, e quindi delle autostrade, si ebbe nel 1935. In quell’anno infatti venne limitato il commercio della benzina, a causa delle sanzioni che sopraggiunsero in seguito all’aggressione dell’Etiopia; inoltre, vi fu un’ondata di nuove tasse sui rimorchi (1934), sui carburanti (1935), sul peso delle merci trasportate (1936).

CAPITOLO II
IL BOOM ECONOMICO


II.1 - Lo sviluppo delle autostrade nel contesto del boom economico

La scelta politica di privilegiare definitivamente lo sviluppo stradale (e, implicitamente, il trasporto privato) avvenne dopo la seconda guerra mondiale, con la presa d’atto dell’ “invecchiamento” delle ferrovie a fronte delle nuove esigenze e, anche, a causa degli interessi economici dell’industria automobilistica.
Le scelte relative allo sviluppo infrastrutturale del nostro Paese rispecchiarono la loro stretta interdipendenza con i fattori socioeconomici, ma anche geografici e culturali. Già nel 1952, con il cosiddetto Programma Aldisio (dal nome dell’allora ministro dei Lavori Pubblici), che prevedeva la costruzione di nuove autostrade e il raddoppio di quelle già esistenti, si prefigurava quella speciale attenzione al problema che pochi anni più avanti, come vedremo, sarebbe giunta al culmine con la legge Romita del 1955 e la contemporanea immissione sul mercato della 600.

Soprattutto negli anni del boom economico, lo sviluppo della rete autostradale in Italia ebbe un significato, un effetto e un’importanza del tutto particolari, che andavano al di là dell’economia e della politica dei trasporti: si trattò di una rivoluzione che andava di pari passo con il rifacimento di un’intera società e delle sue tradizioni. L’Italia negli anni Cinquanta era infatti un Paese ancora agricolo che si avviava all’industrializzazione, la quale arrivò in tempi rapidi causando sconvolgimenti a diversi livelli. La “modernizzazione” del Paese doveva passare attraverso piani di rinnovamento del mondo del lavoro, nuove egemonie economiche e industriali – in particolare da parte delle grandi fabbriche di automobili nel Nord Italia, principali artefici dell’impulso dato alla costruzione delle autostrade - e comunicava anche il desiderio di esportare un’immagine moderna e dinamica nel mondo.

L’esigenza della mobilità delle merci si sovrappose a una serie di fattori ideologici, la cui sintesi produrrà il fenomeno autostrade che ha caratterizzato, nel bene e nel male, gli ultimi quarant’anni della nostra storia.
Nelle dichiarazioni d’intenti dei fautori delle autostrade, queste avrebbero creato vantaggi economici fondamentali, a partire dall’influenza sui trasporti, i quali, a loro volta, hanno influenza sul prezzo dei prodotti finiti. In altre parole, diminuendo i costi del trasporto avrebbero non solo favorito la mobilità delle merci ma anche contribuito ad abbassare i costi di vendita. In sintesi, i vantaggi economici sarebbero derivati da: riduzione delle spese di trazione; minor consumo di carburanti; guadagno di tempo e riduzione del costo/km; miglioramento della sicurezza; aumento della capacità stradale. Inoltre, si sottolineava la creazione di nuovi posti di lavoro, sia per le attività connesse alla costruzione e al mantenimento delle automobili sia ai servizi correlati all’autostrada (distributori di benzina, bar ecc.).

In realtà, come mettono in rilievo gli studi critici, l’equazione “strade = sviluppo economico” venne imposta all’opinione pubblica sulla base di un’identificazione quanto meno interessata, cioè che l’elemento trascinante del progresso economico fosse la motorizzazione privata, appoggiata e favorita dallo Stato. Il piano autostradale e, insieme a esso, la complessiva politica dei trasporti in Italia fu dunque caratterizzata da un forte intervento pubblico che interagiva con gli interessi della grande industria automobilistica .

Alla fine degli anni ’60, nel periodo delle grandi lotte operaie e della massima contrapposizione fra classe lavoratrice e padronato, l’intreccio di interessi fra grandi fabbriche e Governo sulla questione dei trasporti e quindi, in primis, della costruzione delle autostrade, divenne bersaglio di un’analisi molto polemica da parte degli ideologi sindacali.
L’accusa è molto chiara e si appunta sulla stretta corrispondenza fra la politica dei trasporti e le esigenze dell’industria privata, in particolare del colosso automobilistico:
“Le iniziative operate in questo settore finiscono così per configurare una vera e propria scelta tendente a favorire lo sviluppo e la crescita dell’industria dell’automobile sommamente rappresentata dalla Fiat”.

La Fiat avrebbe sfruttato l’appoggio governativo e l’incentivo delle autostrade per allineare la propria produzione agli standard europei, con molte più automobili in circolazione e di cilindrata superiore, più adatte alle arterie di grande scorrimento, all’alta velocità e alle lunghe percorrenze. Il massiccio investimento nel settore dei trasporti e a favore dell’industria privata sottrasse risorse agli altri settori, e direttamente a quello del trasporto pubblico. La chiave di lettura critica che stiamo considerando condanna recisamente tale scelta e la interpreta come corrispondente a un’opzione politica ed economica ben precisa, che avrebbe poi condizionato – e in effetti di fatto determinò – tutto uno schema di sviluppo capitalistico:

“Lo schema ormai è chiaro e mai come in questo caso la connessione Stato-Capitale è apparsa così evidente, diretta e immediata. Quello che la grande industria automobilistica ha chiesto ed ottenuto è che lo Stato le fornisse le basi dell’espansione, che la politica degli investimenti autostradali permettesse di generare nuovo traffico capace di sostenere una domanda interna che fosse nello stesso tempo di tipo europeo. Lo Stato al servizio delle scelte produttive più minute. Se queste poi si rivelano altrettanti salassi per le FS tanto peggio per queste”.

In sintesi, si può affermare che la questione delle autostrade italiane è passibile di due tipi di lettura, uno scopertamente critico e l’altro più aperto a una valutazione differenziata delle problematiche.

E’ indubbio che lo sviluppo della rete autostradale abbia costituito un potente fattore di sviluppo e di organizzazione territoriale. Il primo rilievo che emerge è che la rete autostradale ha funzionato da fattore di unificazione, rompendo gli isolamenti che rendevano incomunicabili le tante realtà regionali e locali di cui è formato il nostro Paese, accorciando le distanze dal punto di vista sia economico sia culturale.
Giancarlo Elia Valori individua due motivi principali per cui le autostrade hanno avuto un ruolo così trasformatore. Il primo è che l’esistenza di una moderna rete viaria ha reso possibile anche da noi il processo di avvio e sviluppo industriale sulla base di quello che gli economisti definiscono “esternalità”: da questo punto di vista, “lo sviluppo è un processo che prende l’avvio e si rafforza solo se in un’area geografica esiste un sistema infrastrutturale adeguato a rendere gli investimenti produttivi”.
Senza un’infrastruttura viaria adeguata, il sistema produttivo dell’Italia postbellica non avrebbe potuto accrescersi, poiché sarebbero mancate condizioni di trasporti idonee a consentire alle imprese di approvvigionarsi e di collocare agevolmente le proprie merci sui mercati. L’infrastruttura che rese possibile la rinascita e l’espansione economica del dopoguerra fu proprio la rete autostradale.

In secondo luogo, “la realizzazione del sistema autostradale ha comportato investimenti così rilevanti da contribuire a determinare un’espansione della domanda globale, in un momento in cui il nostro sistema economico rischiava la stagnazione”.

Alle motivazioni di stampo politico ed economico fin qui presentate sull’esigenza di modernizzare l’infrastruttura viaria nell’Italia postbellica, bisogna aggiungere quell’insieme di esigenze “dal basso” in cui emergevano in ultima analisi il polso e il senso di un’intera nazione alla scoperta di un nuovo stile di vita. Il peso del progetto autostradale nell’Italia del boom, in altre parole, fu sentito e sostenuto non soltanto dai politici e dagli industriali ma ottenne da subito un largo consenso da parte dei cittadini, come spiega Edo Carini:
“In quegli anni… capitava spesso di trovarsi di fronte a paesi interi che chiedevano lo sbocco autostradale, che proponevano nuovi tracciati di strade, che rivendicavano svincoli ed uscite da autostrade che erano programmate per passare lì vicino”.

Dello stesso tenore, con l’aggiunta di una piccola nota ironica, è un commento di Francesco Aimone Jelmoni, il primo progettista dell’Autostrada del Sole:
“A misura che si andava delineando l’andamento generale del tracciato, sorgevano ognor nuove iniziative lungo la penisola, un po’ da per tutto, perché l’autostrada si conformasse a soddisfare questo o quell’interesse locale. In ogni luogo si voleva che essa passasse vicino: però, beninteso, sul terreno del vicino, senza che avesse ad invadere il proprio…”.

Anche a livello di massa cambiava l’immagine della finalità delle strade. Fino alla metà del secolo mancavano infatti alle strade i due compiti funzionali che a partire dagli anni ’50 sarebbero rapidamente cresciuti di importanza, fino ad acquisire il ruolo dominante che ricoprono a tutt’oggi: vale a dire il trasporto di individui verso i luoghi di svago e verso i luoghi di lavoro.

La vecchia funzione delle strade minori – cioè della maggioranza assoluta delle strade, che erano poi il tipo di strada sentita come “normale” a livello di percezione collettiva - e di conseguenza la loro conformazione strutturale, rispondeva a una concezione limitata: servivano a coagulare attorno ad esse gli agglomerati rurali e semi-rurali, a permettere sporadici contatti fra popolazioni vicine, a consentire lo scambio di merci su distanze ridotte.

Tutto cambia con le funzioni inedite dello svago e del lavoro a distanza: sono proprio queste a far nascere anche “dal basso”, a livello popolare, il desiderio di spostamenti individuali più veloci, ossia, concretamente, del possesso di automezzi propri e di una rete viaria studiata per favorire la loro circolazione. A proposito della dislocazione dei luoghi di lavoro, spiega Carini:
“Diversamente collocati i posti di lavoro, il pendolarismo esisteva ma a senso unico (dalla provincia alla città) e solo in quegli anni cominciava a svilupparsi il pendolarismo pluridirezionale, poiché gli spazi per la produzione e la creazione di posti di lavoro aumentavano un po’ ovunque e si installavano proprio là dove il collegamento stradale era migliore”.

E ancora, per quanto riguarda il desiderio di possesso della macchina propria - che l’industria automobilistica nello stesso tempo alimentava e soddisfaceva, con la massiccia immissione sul mercato delle utilitarie – il quale a sua volta faceva percepire come una novità esaltante il poter percorrere in breve tempo grandi distanze :
“Capitava spesso di conoscere persone che per recarsi, anche in posti lontani, per ragioni di lavoro, di svago o per altro, non potessero usare altro che la bicicletta o al massimo qualche motorino, impossibilitate ad avere mezzi di trasporto migliori, lontani addirittura da stazioni o da centri dove si potessero utilizzare trasporti pubblici, anche questi, fin da allora, molto scarsi. Questo e l’aumentato tenore di vita ha fatto nascere la voglia non solo di viaggiare per andare in qualche posto, ma di viaggiare per vedere, per conoscere. Le migliorate condizioni spingevano ad avere più possibilità di trasporto che, non venendo dal pubblico, si cercava di soddisfare col mezzo privato, come la macchina, che faceva poi richiedere altre e migliori strade”.

Alla metà degli anni ’50, terminata l’epoca della ricostruzione, si intendeva dare una svolta all’economia del Paese, in modo che un ritmo di sviluppo più serrato, reso possibile dall’ammodernamento del sistema produttivo e delle strutture, portasse all’eliminazione degli squilibri economici e culturali presenti fra le diverse regioni del Paese. Tale volontà si espresse nel piano decennale per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, firmato dall’allora ministro delle Finanze Ezio Vanoni. Il piano nelle sue linee principali andò a buon fine, grazie al fatto che l’Italia si era venuta a trovare protagonista di una serie di circostanze favorevoli, le quali permisero quella stagione fortunata da tanti punti di vista oggi ricordata come “boom economico”. La qualità media della vita si accrebbe, aumentarono i consumi ma anche le richieste e le esigenze dei cittadini; gli orizzonti mentali si ampliarono e un generale clima di ottimismo e di desiderio di evoluzione, completamente dimenticato con le tristi vicende del fascismo e della guerra, si impadronì dell’italiano medio. Com’è ovvio, anche la voglia di viaggiare e di disporre di un proprio mezzo di trasporto conquistarono un nuovo statuto, quotidiano e familiare, entrando definitivamente a fare parte del costume. Il simbolo di tutto ciò fu la gloriosa “600” della Fiat, modello storico dell’utilitaria, presentata al Salone dell’Automobile di Ginevra nel marzo 1955.


Elenchiamo sommariamente le condizioni economiche di base del boom economico:

- appoggio di importanti organismi internazionali alle opere di pubblica utilità;
- prestito accordato da Washington per il finanziamento delle importazioni dagli USA di materie prime e macchinari;
- sviluppo della CECA e conseguenti benefici per l’industria italiana;
- primi risultati positivi della conversione al ciclo integrale delle imprese siderurgiche dell’IRI;
- valorizzazione dei giacimenti di petrolio della Val Padana;
- creazione di nuove centrali termoelettriche e conseguente aumento del potenziale energetico;
- ripresa del settore chimico e metalmeccanico;
- crescita delle esportazioni tessili;
- incipiente meccanizzazione dell’agricoltura;
- afflusso di un crescente numero risparmi alle banche;
- impegno delle autorità a garantire la stabilità della lira e conseguente scoraggiamento dell’inflazione.

In tale situazione di eclatante sviluppo economico, era evidente che la situazione dell’infrastruttura viaria italiana non era rispondente alle esigenze di un traffico la cui prossima e rapida espansione era facilmente prevedibile, dato l’aumento dei redditi, l’ottimismo generalizzato e la sensazione di “abbattimento delle frontiere” interne al Paese, nonché del ruolo trainante dell’industria automobilistica nel boom, e di conseguenza del “premio” che le grandi fabbriche di automobili offrivano ai propri numerosi dipendenti e agli italiani tutti: il possesso di un veicolo proprio e l’incoraggiamento a usarlo per spostarsi da un capo all’altro della Penisola.

L’Italia tuttavia occupava uno degli ultimi posti tra i Paesi più industrializzati d’Europa per quanto riguardava la rete stradale, sia come densità stradale sia come larghezza e pavimentazione del manto. Questo svantaggio nel settore stradale, peraltro, non era compensato nemmeno da altre possibilità viarie:
“Lo squilibrio appariva inoltre aggravato tenendo conto degli altri tipi di comunicazione, quali la rete ferroviaria e i canali navigabili, che risultavano assai più estesi nel caso, ad esempio, della Germania e della Francia”.

Si poneva dunque, e con urgenza, il problema di rendere il Paese maggiormente percorribile, rispondendo alle esigenze di una nuova industrializzazione e di un nuovo benessere, e facendo sì nello stesso tempo che tale impulso potesse trasformarsi a sua volta in un concreto fattore di sviluppo. In sintesi, si trattava di trovare “una soluzione organica e a lungo termine, che costituisse anche un efficiente strumento di sviluppo equilibrato dell’economia italiana”.


L’immissione sul mercato della 600 diede avvio alla motorizzazione di massa, a cui doveva necessariamente corrispondere un nuovo slancio nelle progettazioni stradali. Gli interessi dell’industria automobilistica sulla costruzione delle autostrade risulta evidente considerando che il “progetto di massima” di quella che sarebbe diventata l’Autostrada del Sole Milano-Roma-Napoli fu stilato da una società costituita appositamente, la SISI, costituita da Pirelli, Fiat, Italcementi ed ENI.

Sempre nel 1955 fu varato un piano decennale di costruzioni autostradali la cui realizzazione diede vita alla seconda generazione delle autostrade italiane. Il Primo Piano nazionale delle autostrade veniva decretato con l’art. 3 della Legge 21.5.1955, n. 463, nota come Legge Romita: in esso si impegnava l’IRI sul fronte della progettazione, della costruzione e della gestione, nella prospettiva di utilizzare le autostrade, insieme alle altre grandi opere pubbliche, come elemento facilitatore di iniziative economiche e occupazionali, nonché dello sviluppo e del riequilibrio territoriale. La legge Romita concepì il finanziamento dell’opera in modo che il costo fosse a carico dello Stato per un massimo del 40%, mentre il rimanente sarebbe stato finanziato dal mercato, grazie all’inserimento della concessionaria nel gruppo IRI; nel frattempo, l’imposizione agli utenti del pagamento del pedaggio avrebbe portato col tempo all’ammortamento dei capitali investiti.

Castronovo individua una duplice direzione negli effetti della motorizzazione di massa e del nuovo piano di costruzione delle autostrade, con conseguenti ripercussioni sull’economia. L’interazione incrociata fra i due fenomeni nascenti, ossia il possesso sempre più diffuso e generalizzato di un automezzo proprio e la possibilità data ai veicoli di raggiungere agevolmente e velocemente quasi tutte le regioni d’Italia, è descritta dallo storico in questi termini:
“La diffusione delle quattro ruote avrebbe dovuto allineare i costumi e il tenore di vita degli italiani a quelli già invalsi nei principali paesi europei e produrre nello stesso tempo una catena di effetti indotti su vari settori collaterali al ciclo dell’auto. A sua volta, la realizzazione di una rete di nuove arterie di collegamento dall’uno all’altro capo della Penisola avrebbe dovuto concorrere tanto all’ampliamento del mercato interno quanto alla complementarità fra le diverse regioni dello Stivale”.

L’effetto più visibile di questa spinta generalizzata al “progresso” - con tutti i pro e contro destinati a emergere nel corso del tempo, ma negli anni ’50 ancora di là da immaginare – fa il graduale abbandono da parte della società italiana del modello contadino, statico e tradizionale, in favore di un dinamismo sociale più accentuato, caratterizzato da nuovi fermenti e aspirazioni e da una crescente mobilità.
L’Italia fu uno dei Paesi fondatori del Mercato Comune Europeo, nel 1957: al suo ingresso nella Comunità l’industria italiana si trovò in una posizione molto favorevole e infatti accrebbe produzione, fatturato ed esportazioni, che crebbero mediamente di più del 16% all’anno. Nel 1961 le persone occupate nell’industria avevano superato per numero quelle addette all’agricoltura, mentre l’indice di crescita nazionale superava l’8%.

Il benessere si rifletté anche a livello quotidiano, nelle condizioni di vita degli italiani che potevano ora disporre di un maggior numero di beni di consumo. I nuovi simboli del raggiunto benessere furono gli elettrodomestici, che si diffusero in ogni casa, a partire da frigorifero e lavatrice, fino al simbolo per eccellenza dei nuovi costumi: il televisore. Negli anni ’60 l’auto era ormai alla portata di tutti e l’incremento medio degli acquisti era salito del 20% all’anno.
Vi era tuttavia un rovescio della medaglia. Il “miracolo”, infatti, aveva un raggio di breve gittata, a causa di alcune importanti incongruenze nella ricetta di base. Scrive Castronovo, che in precedenza aveva indicato il segreto del rapido successo italiano nell’integrazione reciproca di risorse pubbliche e private:
“Questa sorta di ‘economia mista’ consisteva di fatto in un impasto di liberismo, senza le autentiche regole di un sistema concorrenziale di mercato, e di interventismo statale, senza un disegno generale di programmazione”.

Ancora più aspra è la critica di Bortolotti, il quale parla di: “Investimento calato dall’alto in un sistema ancora impreparato, donde l’inserimento artificioso e forzato nell’ambiente, quando non si tratti di clientelismo… invece delle riforme si ‘elargiscono’ opere pubbliche”.

Né il liberismo né l’interventismo statale, insomma, si dimostrarono in grado di agire in maniera regolata e lungimirante. Il risultato fu il persistere del divario tra Nord e Sud, il quale causò un esodo di massa delle popolazioni povere del Mezzogiorno verso le grandi città industriali del Nord. Sull’immigrazione prosperarono i fenomeni della speculazione edilizia; il volto del Paese cambiò anche a livello paesaggistico, in quanto il cemento cominciò a dilagare in modi leciti e illeciti e le periferie delle grandi città ampliarono i loro confini, assumendo l’aspetto inedito di squallidi quartieri-dormitorio. Tanto per le nuove masse di lavoratori dell’industria quanto per i contadini lasciati a se stessi si faceva sentire inoltre la carenza di servizi e di iniziative sociali di interesse collettivo: un’esigenza che non poteva essere soddisfatta dalla modernizzazione del sistema industriale in quanto tale, ma che avrebbe dovuto derivare da scelte politiche ben mirate, le quali invece non vi furono.

La debolezza delle scelte di intervento statale su alcuni problemi che parevano non compresi o che comunque tendevano a sfuggire di mano ai governanti e ai programmatori riguardò soprattutto le condizioni del Sud: il nuovo corso dell’economia italiana, che avrebbe dovuto portare a un livello di parità regioni distanti fra loro, stava disattendendo le aspettative e non mancarono critiche da parte degli osservatori più attenti.
La questione del Sud era certamente il problema maggiore da affrontare. Le regioni meridionali erano svantaggiate da due lati: il primo consisteva nella sottoindustrializzazione della zona, alla quale peraltro non faceva riscontro un’agricoltura moderna e razionalizzata; dall’altro vi era un indubbio svantaggio geografico, anche e soprattutto in vista di una nuova apertura al mercato europeo.
“Mentre la localizzazione delle zone del nord del Paese risultava baricentrica rispetto alla domanda proveniente dalle aree già industrializzate non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa – ove già si andava profilando, con la nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio, un’ampia area di libero scambio – il Mezzogiorno appariva assai distante dai mercati di sbocco più interessanti; il Sud appariva pertanto destinato, anche dal punto di vista della localizzazione, ad approfittare assai poco dei flussi, in prospettiva crescenti, della domanda delle regioni più avanzate, essendo penalizzato, nella competitività, dai costi e dai tempi di trasporto verso il Nord e verso l’Europa”.

Per questi motivi se da una parte il piano delle autostrade, intese come grandi opere pubbliche in cui venivano messe a frutto gran parte delle energie e dei capitali pubblici e privati italiani, si prestava ad accendere un legittimo entusiasmo ed orgoglio per la portata dell’opera e per il senso generale di progresso che essa ispirava, dall’altra le sue implicazioni, soprattutto riguardo alle regioni meno avvantaggiate, facilmente potevano diventare oggetto di discussioni critiche.
Un rilievo di segno positivo sottolinea che la costruzione delle autostrade fu una grande opera non solo in senso realizzativo, ma anche per le sue ripercussioni sull’occupazione e sul progresso tecnologico. Scrive a tal proposito Ernesto Robotti:
“La costruzione delle opere ha favorito l’occupazione della mano d’opera, la realizzazione dei macchinari necessari e la ricerca di nuove tecnologie apprezzate anche all’estero. L’analisi del parco circolante evidenziava, negli anni ’50, che lo sviluppo della rete delle strade statali era agli ultimi posti, per densità, in Europa e ben lontano dal soddisfare le necessità sociali in rapidissima crescita (…) sarebbe improprio ricondurre il boom economico e lo sviluppo della società italiana unicamente all’espansione della rete, ma ne ha rappresentato certamente un’importante concausa e non tanto per l’accorciamento delle distanze, ma per il supporto dato al turismo e all’apertura sociale e commerciale de certe aree che esso ha avuto”.

Per quanto riguarda invece il tentativo di ridurre, tramite la costruzione delle autostrade, il divario fra Nord e Sud, un problema ben presto rilevato fu la non proporzionalità delle quote di intervento statale nel piano autostradale. La legge n. 463, infatti, che aveva fissato la misura del contributo statale in un massimo del 40% indiscriminatamente per tutte le regioni sia del Nord che del Sud, fu vista come un errore di valutazione. Nel Mezzogiorno infatti questa percentuale di contributo non era sufficiente alla realizzazione delle autostrade: questo perché al calcolo dello Stato, condotto in modo “imparziale” su base teorica, faceva difetto la valutazione della concrete possibilità realizzative dell’iniziativa privata nel Sud.

La prima, più evidente difficoltà fu proprio quella di trovare società concessionarie disposte ad assumersi l’onere della costruzione e dell’esercizio delle autostrade. Questo perché i proventi dell’autostrada sarebbero stati differiti rispetto alle spese di costruzione. In teoria, infatti, i finanziamenti statali avrebbero dovuto sopperire alle prime necessità, ma in presenza di un necessario presupposto: che il traffico previsto una volte realizzate le autostrade avrebbe ammortizzato e remunerato il capitale impiegato. Tali presupposti tuttavia nel Sud mancavano, e qui si appunta la critica degli osservatori che già all’inizio degli anni ’60 avevano individuato in tali termini il problema:

“Mentre si pungola l’iniziativa provata ad intraprendere sempre maggiori investimenti produttivi di sua tradizionale competenza, è chiaro che la stessa iniziativa privata si guarderà bene dal concorrere alla realizzazione di opere pubbliche di dubbio reddito. E lo stesso discorso sulla improbabilità di ulteriori interventi nel campo stradale, oltre quelli già effettuati laddove la redditività lo giustificava dal punto di vista industriale, va esteso anche agli enti pubblici locali che vedrebbero distolti gran parte dei mezzi finanziari loro necessari per altri compiti istituzionali, non meno importanti delle strade, con la certezza di non potere coprire per molti anni gli oneri finanziari e di esercizio ammessa pure la possibilità di reperire i capitali necessari; per cui lo Stato, a distanza più o meno di tempo, dovrà intervenire a sostituire la concessionaria”.

Per i motivi elencati, dunque, la previsione che vi sarebbero stati investimenti privati di circa il 60% (essendo i contributi statali del 40%), condotta sulla base di una scommessa sul traffico basata sulla proiezione del traffico già in atto - quasi inesistente nel Mezzogiorno – non risultò valida. Se invece l’intenzionalità fondante dello Stato, o in altri termini la volontà politica, si fosse basata realmente (non solo nei discorsi autocelebrativi) su presupposti diversi, quali l’idea di dar vita a “un’arteria di rapida comunicazione capace di abbreviare tempi di percorrenza, ridurre costi di trasporto, valorizzare risorse, avvicinare mercati, integrare economie e quindi promuovere iniziative e sviluppare nuovi traffici”, probabilmente le scelte di investimento sarebbero state diversificate tenendo conto delle differenti caratteristiche e del differente punto di partenza delle regioni italiane.
Il risultato complessivo della situazione fu che nel Sud, in mancanza di un entusiasmo iniziale e motivato da parte delle imprese private, si avviò una serie di iniziative indipendenti l’una dall’altra e difficilmente coordinabili fra di loro; anche la proposta di creare una “Finanziaria stradale”, con lo scopo di provvedere all’attuazione di un programma organico col quale compensare gli squilibri tra i vari bilanci, alla quale avrebbero dovuto far capo le società concessionarie sia dei tratti di autostrada potenzialmente più redditizi, sia di quelli secondari, cadde nel vuoto.

II.2 - L’Autostrada del Sole

In seguito alla legge Romita, il 14 aprile 1956 venne stipulata la prima convenzione tra l’ANAS e la Società Autostrade, appositamente costituita dall’IRI, per la costruzione e l’esercizio dell’autostrada Milano-Roma-Napoli. La lunghezza totale prevista era di 755 km, il costo stimato 184,6 miliardi.
Il concetto informatore dell’Autostrada del Sole aveva un duplice fondamento. Da un lato si basava sulla conformazione fisica dell’Italia: l’A1 avrebbe dovuto infatti costituire una grande arteria longitudinale, una specie di spina dorsale per un paese geograficamente lungo e stretto come il nostro, con tante città importanti – Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli - dislocate sull’asse Nord-Sud. A livello di funzioni, invece, il progetto emulava idealmente il modello complesso di una rete elettrica, a sua volta plurifunzionale:

“Come in una rete di alimentazione di energia elettrica, occorreva distinguere e non confondere le funzioni proprie delle linee ‘di trasporto’ da quelle delle linee ‘di distribuzione’: le prime aventi andamento plano-altimetrico il più possibile diretto e veloce, oltre a capacità di traffico elevata; le seconde, invece, essendo destinate a raccogliere e distribuire il traffico nell’interno del territorio compreso tra le grandi arterie di trasporto, devono allacciare a queste i singoli centri che ne sono discosti”.

Il fine primario dell’A1 era quello di realizzare un collegamento facile, economico ed efficiente fra Nord e Sud, nell’ottica di recuperare lo svantaggio economico delle regioni meridionali (cfr. il paragrafo precedente) grazie alle nuove possibilità di comunicazione.
Mentre per quanto riguarda il piano tecnico dell’opera tutti i commentatori, senza esclusione, sottolineano la competenza dei progettatori, dei tecnici e delle maestranze, nonché l’effettualità e la rapidità delle realizzazioni, è riguardo al piano finanziario che vi sono voci contrastanti: è appunto a questo livello, infatti, che si poterono creare quegli squilibri di gestione rallentata o peggio “clientelare” dell’opera che soprattutto al Sud, come accennato nel paragrafo precedente, portarono a disguidi e successive critiche al piano di intervento.

Il concorso finanziario per le opere prevedeva due agenti: da una parte lo Stato, che avrebbe contribuito in contanti per il 36% circa del totale; dall’altra la società Autostrade, che avrebbe emesso obbligazioni trentennali garantite da ipoteca sui lavori eseguiti, con le quali sarebbe stato coperto il resto della spesa. E’ interessante notare che sta proprio qui – ovvero nel fatto che “la formula adottata attribuiva quindi, per la maggior parte, alla società concessionaria la funzione finanziaria che altrimenti avrebbe dovuto essere assolta dallo Stato” - il nocciolo di quel sistema di “intervento misto” del quale si è detto in precedenza, definito da Valerio Castronovo come “combinazione fra mano pubblica e mano privata”, che fece emergere i suoi limiti e le sue incongruenze latenti dopo diversi anni.

“Posto allo studio il piano tecnico-finanziario, fu deciso di dare immediato inizio ai lavori, affidando a un’altra società del gruppo IRI, l’Italstrade, che aveva già una più che trentennale esperienza nel settore stradale, l’incarico di eseguire la progettazione e di predisporre gli appalti dei primi lotti. Nel contempo, l’IRI provvedeva direttamente alla raccolta sul mercato delle risorse finanziarie necessarie”.

L’IRI svolgeva a pieno titolo un ruolo imprenditoriale: la Società Autostrade infatti seguiva direttamente lo studio dei progetti preliminari, la provvista dei mezzi finanziari, l’acquisizione dei terreni, la gestione delle autostrade, e utilizzava imprese esterne dando loro in appalto la progettazione esecutiva e la realizzazione dei lavori.
Il 19 maggio 1956, nel cantiere aperto a San Donato Milanese, fu posta la prima pietra della costruzione dell’Autostrada del Sole. La solennità e la soddisfazione generale per quel momento memorabile si colgono vividamente leggendo le cronache dell’epoca. Ecco come il “Corriere della Sera” ricostruisce la giornata dell’apertura dei cantieri, che si svolse sotto l’egida dei massimi riconoscimenti pubblici, sia istituzionali, sia ecclesiastici, sia militari:
“L’atto di nascita dell’Autostrada del Sole ha avuto ieri nelle campagne di San Donato Milanese una consacrazione solenne. Quella che in meno di otto anni sarà l’arteria modernissima di grande e celere comunicazione fra Nord e Sud, attraverso l’Appennino, non era ieri, sul terreno, rappresentata soltanto dal cippo d’origine nel quale Giovanni Gronchi avrebbe murato la pergamena commemorativa, benedetta dall’arcivescovo e firmata da uno stuolo di alte personalità di Governo. A un allestimento tra scenografico e simbolico era affidato l’ufficio di rendere quasi tangibile in sintesi sul luogo della cerimonia la futura strada, o almeno l’idea di essa, la sua fisionomia, il percorso persino. Lungo un centinaio di metri di una doppia pista che davanti al cippo appariva prendere avvio in direzione del Mezzogiorno, non costruita, solo raffigurata con sabbia, bordi bianchi e spartitraffico erbosi, erano dislocati gran cartelli con le insegne di Bologna, Firenze, Roma, Napoli: le tappe, cioè, dei 738 chilometri che da Milano porteranno alla meta. Alto più di due metri, bianco, il cippo inaugurale con la sua iscrizione latina si erge all’altezza del chilometro 6,136 da Milano, fra la via Emilia e la ferrovia. L’abitato più vicino è la cascina Bagnola, in comune di San Donato. Su una tribuna presso il cippo, in attesa del Capo dello Stato erano convenute le autorità con l’arcivescovo mons. Montini. Giovanni Gronchi è giunto col ministro dei Trasporti on. Angelini alle 17.20. Un reparto del 27° Artiglieria ha reso gli onori militari, mentre l’inno di Mameli squillava dagli ottoni della banda dei carabinieri”.

Nel 1960 l’A1 divenne completamente percorribile da Milano a Firenze, e nello stesso anno venne approvato il Piano organico di nuove costruzioni autostradali, elaborato dall’IRI, che nel 1961 passò a essere legge a tutti gli effetti.
Il 1960 rappresentò una data particolarmente importante nella storia della costruzione dell’A1 e delle costruzioni autostradali in generale, perché, con l’entrata in esercizio del tratto Bologna-Firenze, fu portata a termine la parte più impegnativa dell’autostrada dal punto di vista realizzativo. Si trattava infatti di superare gli Appennini, il che significava la realizzazione di un tipo di infrastruttura completamente nuova per l’Europa, che poneva ai progettatori e ai realizzatori problemi costruttivi molto complessi, date le caratteristiche geografiche e geologiche dei terreni attraversati. Fu in questa fase che l’ingegno dei progettatori impegnati nelle operazioni partorì soluzioni tecniche di avanguardia che ottennero larghi riconoscimenti in Italia e all’estero. Bastano, del resto, alcuni dati sintetici del progetto originario per rendere conto dell’imponenza dell’impresa: la nascente autostrada avrebbe contato 304 manufatti fra ponti e viadotti; 3795 opere d’arte minori; 63 gallerie per un totale di più di 11 km; 58 stazioni di accesso.

E’ doveroso a questo punto ricordare la figura del professor Francesco Aimone Jelmoni, il primo progettatore dell’Autostrada del Sole, vero pioniere di questa grande opera. Aimone Jelmoni era stato designato dalla SISI (la società costituita appositamente da Fiat, Pirelli, Italcementi ed ENI per studiare la realizzazione dell’A1) per redigere un progetto di massima che fungesse da “base abbastanza sicura per dare all’idea una veste di sufficientemente attendibile concretezza”. Nella sua rievocazione di quei tempi eroici, Aimone si sofferma sullo scetticismo dimostrato da molti all’epoca del progetto:
“La soluzione da me proposta, e fermamente sostenuta, della doppia carreggiata, veniva definita, anche da autorevoli tecnici ministeriali, ‘faraonica’, ‘da megalomani’, addirittura ‘surreale’, sia perché avrebbe comportato una spesa eccessiva, assolutamente ‘irragionevole’, sia perché ‘avrebbe sottratto troppo spazio all’agricoltura’”.

Si potrebbe commentare che, come spesso succede, un’incredulità conservatrice alla quale invece fa seguito l’effettiva realizzazione di un’opera importante è la miglior controprova del progressismo, dell’ampiezza di vedute e della spinta al futuro dell’idea sostenuta.
Il fatto che l’opinione pubblica nutrisse un certo scetticismo riguardo alle imprese autostradali appare con particolare evidenza se si osservano i giornali di quegli anni. Significativa, per esempio, è un’intervista a Romita del marzo 1956 in cui il ministro dei Lavori pubblici dichiarava che in maggio si sarebbe proceduto all’inizio dei lavori dell’A1. Il giornalista è abile a lasciar trasparire, fra le righe del commento alle parole di Romita, un tono ironico leggero ma molto percettibile, che sottintende appunto un forte dubbio sulla veridicità delle promesse del ministro:
“‘Possiamo considerare ormai imminente l’inizio delle prime fra le nuove costruzioni autostradali che assicureranno al nostro Paese comodi e rapidi collegamenti sia trasversali sia longitudinali, particolarmente destinati a soddisfare le esigenze dei traffici veloci e a lunga portata, ci ha detto stamane in tono rassicurante e con aria giuliva il ministro dei Lavori pubblici, on. Romita, il quale ha aggiunto: ‘Se l’emanazione dei decreti interministeriali che dovranno approvare le concessioni, già definite amministrativamente, potrà seguire con la sollecitudine che ci auguriamo, e che certo non mancherà da parte nostra, entro il prossimo mese di maggio al più tardi si potrà procedere all’appalto dei primi lotti di lavori’”.

Il commentatore, dopo avere individuato una nota di prudenza nelle dichiarazioni di Romita, prosegue spiegando quali sarebbero a suo parere i motivi degli eventuali ritardi, dei quali dà per sottintesa una certa probabilità:
“La riserva della seconda proposizione, che sembra attenuare l’ottimismo della prima, va spiegata così: le concessioni sono siglate, ma il Tesoro le deve convalidare, il Consiglio di Stato dare il suo parere; d’altra parte al Consiglio superiore dei Lavori pubblici spetta di approvare i singoli progetti. Sono due procedure, una di carattere amministrativo e una di carattere tecnico. Può darsi il caso, si pone per pura ipotesi, che non venga approvato nella misura proposta il contributo dello Stato a quella o questa concessione: di qui la necessità di un riesame, eventualmente di un nuovo conteggio. Un’altra causa di inciampo potrebbe essere il ricorso di una città i cui interessi si ritengano lesi dal fatto che l’autostrada passi, poniamo, a cinquanta chilometri dal suo centro anziché a cinque; l’accettazione del ricorso implica una modifica del progetto. In questo secondo caso la dilazione potrebbe essere più lunga”.

La realtà dei fatti doveva tuttavia smentire gli scettici: con perfetta puntualità, infatti, i lavori dell’Autostrada del Sole cominciarono proprio nel maggio 1956, come aveva assicurato Romita, in simultanea con la concessione dei primi appalti.
Nel 1962, anno del congiungimento fra Roma e Napoli, si stipulò una nuova convenzione tra Anas e Società Autostrade, con la quale venne concessa all’Autostrade S.p.A. la costruzione e la gestione delle nuove autostrade, oltre che la gestione e l’ammodernamento di quelle già esistenti.
L’A1, ormai da tutti chiamata Autostrada del Sole, fu ufficialmente inaugurata con la completa percorribilità da Milano a Roma a Napoli il 4 ottobre 1964.

Una singolare tabella mostra l’andamento di costruzione, traffico, finanziamenti dell’A1 dal 1956 al 1961.
Uno studio di Mario Del Viscovo ha analizzato la vicenda dell’A1 in termini di costi-benefici economici.
L’autore individua come determinante al fine del vantaggio economico rappresentato dall’A1 il traffico delle merci, ossia degli autocarri. Si tratta di una lettura particolarmente interessante, perché evidenzia lo slancio che l’Autosole diede in specifico al commercio, cosa che non era stata messa a fuoco nelle debite proporzioni nemmeno dagli stessi ideatori del progetto. Come si è visto, infatti, la grandezza della realizzazione dell’A1 era percepita più che altro in termini di sviluppo generale, di crescita della nazione anche dal punto di vista delle nuove esigenze individuali, di una “modernizzazione” che avrebbe portato la nazione a modificare il proprio stile di vita, ad appianare squilibri e differenze, ad avere più dinamismo e vitalità.

Il dato di fatto, rilevato dopo quindici anni dall’apertura dell’A1, che gli introiti netti dell’impresa, nel periodo 1965-1980, ammontano a 8.410 miliardi di lire, dei quali 5.295 accreditabili al trasporto merci, portano a riconsiderare la previsioni iniziali sulla fisionomia e sulla funzione che avrebbe avuto il traffico autostradale sulla spina dorsale del sistema, appunto l’A1.
Secondo le previsioni iniziali il traffico merci avrebbe dovuto corrispondere a circa il 43% nel tratto Milano-Bologna, 30% nel tratto Bologna-Firenze, 42% nel tratto Capua-Napoli. Il totale dell’introito del traffico merci nel primo quindicennio di vita dell’Autostrada del Sole corrispondeva invece a circa il 60% del totale, molto superiore, quindi, alle aspettative. Del Viscovo fa risalire questo cambiamento a una sorta di processo di metabolizzazione da parte degli autotrasportatori:

“D’altro canto quella previsione non era frutto di una valutazione superficiale, tanto è vero che gli autotrasportatori, nel periodo iniziale, fino al 1962, furono assai lenti a rendersi conto dei vantaggi resi dall’autostrada, al punto che si dovettero sostanzialmente dimezzare le tariffe originarie per incentivare l’uso dell’autostrada da parte di questa categoria di utenti”.

Si tratta di un dato interessante perché mette in luce un aspetto di imprevedibilità e, quindi, in un certo senso, di vivezza del progetto dell’A1, che dopo essere stata realizzata ha modellato la sua funzione in modo autonomo, discostandosi dalla predeterminazione e modificandosi sulla base delle esigenze reali del Paese, e anche delle titubanze e dell’assorbimento della novità a livello di abitudine degli utenti.
La tabella che segue riporta alcuni dati sommari sui benefici accumulati dall’A1 fino al 1980.

Valore monetario dei benefici accumulati dall’autostrada Milano-Napoli fino al 31.12.1980
(in miliardi di lire 1981)

Riduzione incidenti stradali (passeggeri + merci) 815
Risparmio di tempo passeggeri 2300
Riduzione consumi merci 341
Risparmio di tempo merci 4954
Totale 8410

Fonte: M. Del Viscovo, p. 20.


Cronologia della realizzazione dell’Autostrada del Sole

1956
14 aprile – stipulata la convenzione fra ANAS e Società Autostrade
per la costruzione e l’esercizio dell’A1 Milano-Roma-Napoli.
19 maggio – inaugurazione del cantiere di San Donato Milanese.
Vengono appaltati i primi lotti dell’opera. Cominciano i lavori di costruzione.

1957
Vengono appaltati i rimanenti lotti. Proseguono i lavori di costruzione.

1958
8 dicembre – apertura dei tratti Milano-Piacenza e Piacenza sud-Parma (102 km).

1959
16 febbraio - apertura del tratto Capua-Napoli (39,4 km).
15 giugno - apertura del tratto Piacenza nord-Piacenza sud-Parma-Modena sud (69 km).
15 luglio - apertura del tratto Modena sud-Bologna sud (24 km).
24 novembre - apertura del tratto Bologna sud-Sasso Marconi (12 km).
24 novembre – inaugurazione dell’intera tratta Milano-Bologna sud (195 km).

1960
3 dicembre - apertura del tratto sasso Marconi-Firenze (73 km).
Ora l’A1 è tutta percorribile da Milano a Firenze.

1961
Diventa legge il Piano organico di nuove costruzioni autostradali che,
elaborato dall’IRI, rielaborato e fatto proprio dal Ministero dei Lavori Pubblici,
era stato approvato dal Governo nel 1960.

1962
Apertura dei tratti Roma-Frosinone (67 km) e Frosinone-Capua (96 km).
Ora Roma è collegata direttamente a Napoli.

1963
19 settembre - apertura del tratto Roma-Magliano Sabina (52 km).
24 dicembre - apertura del tratto Magliano Sabina-Orte (10 km).
30 dicembre - apertura del tratto Firenze nord-Firenze Certosa (16 km).

1964
29 aprile - apertura del tratto Firenze Certosa-Valdarno (40 km).
29 luglio - apertura del tratto Orte-Orvieto (40 km).
28 agosto - apertura del tratto Valdarno-Chiusi-Chianciano (74 km).
4 ottobre - apertura del tratto Orvieto-Chiusi (41 km). L’Autostrada del Sole è completata.

L'Italia in 600

 

Anna Lamberti


IL "TARLO RODITORE"

Il proposito dell'azienda ( l’A.A.S.S. - Azienda Autonoma delle Strade Statali, sorta nel 1928) era quello di prendere in gestione alcune strade di grande comunicazione esistenti, di farne la manutenzione, crearne delle nuove. Alle Province ed ai Comuni dovevano rimanere affidate le strade d'interesse prevalentemente locale.
(qui ricordiamo che all'ultima statistica, quella del 1910, si attribuiva alle strade nazionali uno sviluppo di km 8.303, quelle provinciali km 44.671. quelle comunali km 95.406. (fonte: Le Vie d'Italia, sett. 1928)

Nell' ideale ordinamento del 1928 c'era però un "tarlo roditore" ch'era rimasto in vita, e proveniva dalla legge sui lavori pubblici del 20 marzo 1865: l'art. 11 dichiarava "non potervi essere strada nazionale fra due città che fossero o divenissero collegate da una ferrovia". Ed infatti, a misura che era poi proseguita la costruzione della rete ferroviaria (e come abbiamo visto, quasi interamente privata), venivano cancellate dall'elenco stesso le strade (nazionali) congiungenti quelle città, che via via si andavano collegando con linee ferroviarie.
Cosicchè la rete stradale nazionale, invece di aumentare d'importanza, ne perdeva d'anno in anno, a forza di declassificazione dovute a quell'articolo di legge, che abbiamo chiamato il "tarlo roditore" della rete.


In questo stato di cose comparve l'automobile e si sviluppò l'automobilismo, invadendo le strade irradianti dalle grandi città industriali e colleganti i primi centri del Regno, cioè strade quasi esclusivamente provinciali e comunali. Province e Comuni si trovarono così messe a dura prova per "tenere" le proprie strade; alcuni (quelli più ricchi) si fecero onore a prezzo di gravissimi oneri per i propri bilanci, altre si diedero per vinti e lasciarono andare i servizi stradali alla deriva. Ovviamente il pubblico, specialmente l'automobilista, si domandava: Ma che cosa fa lo Stato? Perchè non provvede, perchè non interviene per far mettere in sesto almeno le strade che con la motorizzazione stanno ora diventando importanti?.


Ma lo Stato restava sordo, in quanto la competenza di provvedere a quelle strade non gli spettava per legge, ed in quanto la legge stessa nemmeno gli dava modo di sostituirsi d'ufficio alle Amministrazioni negligenti od impotenti. In poche parole toccava alle Province e Comuni; provvedessero Province e Comuni.
Con il senso delle nuove realtà, era una situazione insostenibile, denunciata e deprecata in congressi, in memoriali, in discorsi in Parlamento, in innumerevoli articoli di giornali e riviste. Quella che doveva andare a sensibilizzare una "coscienza stradale" fu presa per un assedio alle casse statali.



La volontà di Mussolini non fu sufficiente. E nemmeno la sua legge del 17 maggio 1928 che istituitiva l'AASS. A questa lo Stato assegnava al servizio delle strade statali (dette di 1a Classe) appositi fondi, destinati ad una Cassa speciale, sottraendo così le sorti delle strade stesse alle vicende del bilancio generale dello Stato. Codesti fondi erano: un contributo dello Stato (180 milioni di cui 70 rimborsati allo Stato dalle Province, secondo un piano da stabilirsi); il gettito intero della tassa di circolazione valutato in circa 130 milioni annui; una sovratassa del 40% alla tassa predetta, pari ad altri 52 milioni; numerosi altri cespiti, quali ammende, tasse sulla pubblicità lungo le strade, e altri contributi da definire. Un totale di 400 milioni. Lontani dalle grandiose dotazioni che i Paesi ricchi assegnavano alle loro strade. Inoltre tutte queste modeste dotazioni andranno solo all'ordinaria manutenzione delle strade, dette appunto "Statali".


Quanto alle poche nascenti autostrade nel Ventennio, abbiamo già visto come nacquero.
E quelle del dopoguerra, con le varie pressioni capitalistiche, anche queste le abbiamo viste.
E se nella prima metà del Novecento la ferrovia agì da "tarlo" nella nascita di una efficiente rete stradale, nella seconda metà del Novecento, fu la rete "autostradale" che impedì l'efficienza della rete ferroviaria e delle stesse strade nazionali (ancora oggi se vi dovesse capitare di percorrere la Mestre-Venezia, munitevi prima di viveri di conforto. Spesso per fare i pochi chilometri occorrono perfino due ore. Se poi vi sono incidenti, può essere utile avere a bordo il sacco a pelo).

(vedi Ferrovie Italiane)

NELL'ANNO 2000
L'Italia possiede 172.000 km di rete stradale, 6.487 di Autostrade, 19.423 km di Ferrovie
La Francia 987.091 km di strade, 9632 km di Austostrade, 32.682 km di Ferrovie
La Germania 626.174 km di strade, 11.712 di Autostrade, 45.514 km di ferrovie
(questi ultimi dati, fonte: adnkronos. "Il libro dei fatti", anno 2004)

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