RIVOLUZIONE FRANCESE

1798

LA REPUBBLICA ROMANA  
L'ARRESTO DEL PAPA



Papa Pio VI dai Francesi è costretto a lasciare Roma - Notte del 20 febbraio 1798

I RAPPORTI TRA LA FRANCIA E LO STATO PONTIFICIO DOPO IL TRATTATO DI TOLENTINO - UCCISIONE DEL GENERALE DUPHOT - IL GENERALE UERTHIER A ROMA - PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA


L'albero della libertà e la proclamazione della Repubblica Romana in Campidoglio
- 15 febbraio 1798

NAPOLEONE il ....
9 FEBBRAIO dello scorso anno (1797) fece occupare Ancona per costringere il papa ad un negoziato sulla cessione di determinati territori dello Stato Pontificio; il...
12 FEBBRAIO aveva iniziato i negoziati con lo Stato Pontificio; il...
19 FEBBRAIO il papa aveva firmato la Pace di Tolentino.
Lo Stato Pontificio cedeva il Comtat Venaissin (Avignone) alla Francia e le Legazioni pontificie del nord iTALIA alla Repubblica Cispadana.


Ma nonostante la pace di Tolentino, non correvano buoni rapporti tra la Francia e lo Stato Pontificio. La repubblica non tralasciava mai l'occasione di mostrare la sua ostilità. Desiderosa com'era di abbattere il potere temporale, aveva lasciato organizzare ad Ancona la municipalità, aveva mandato a Roma emissari con l'incarico di stimolare i novatori, aveva per mezzo del suo ambasciatore GIUSEPPE BONAPARTE ottenuto che il medico ANGELUCCI, i due librai BOUCHARD, il marchese VIVALDI, il negoziante ASCARELLI e parecchi altri, arrestati per un tentativo di rivolta, fossero graziati, e il generale austriaco PROVERA, cui era stato affidato il comando dell'esercito pontificio, fosse licenziato e, non contenta di tutto ciò, con il pretesto che il Papa si era rifiutato di accogliere a Roma il rappresentante della Cisalpina, aveva mandato il generale DOMBROWSKI nel ducato d'Urbino ed ordinato a due colonne di Cisalpini di sollevare a ribellione le province di Pesaro e Senigallia, dove il 21 dicembre dello scorso anno (1797) si erano insediati autonomi governi democratici senza il loro consenso.

Erano queste le prime avvisaglie di un'azione francese contro Roma, per iniziar la quale non si aspettava che un'occasione propizia. L'occasione si presentò alcuni giorni dopo. I novatori romani, nella notte dal 27 al 28 dicembre, guidati dallo scultore CERACCHI e dal notaro AGRETTI, si radunarono sul Pincio col proposito di andare a piantare l'albero della libertà nelle principali piazze della città. Dispersi dalle truppe pontificie, tornarono a radunarsi il giorno dopo a Trastevere, presso il Palazzo Corsini, dove abitava GIUSEPPE BONAPARTE, il quale scese in strada per persuadere, insieme con EUGENIO BEAUHARNAIS e i generali ARRIGHI, CARNOT e DUPHOT, i tumultuanti ad allontanarsi.

Disgrazia volle che in quel momento giungesse un plotone di fanteria pontifici, che, con un assalto, stese il Duphot al suolo con una serie di colpi dei fucilieri.

Questo doloroso incidente non poteva non essere sfruttato dalla Francia. Sebbene il governo pontificio si fosse dichiarato pronto a dare qualsiasi soddisfazione alla Francia, Giuseppe Bonaparte chiese il passaporto e partì per Firenze. Una quindicina di giorni dopo, il generale BERTHIER riceveva dal Direttorio l'ordine di marciare rapidamente su Roma, di tentare di occuparla, di indurre il Pontefice alla fuga, infine di costituire un governo repubblicano.
Il Berthier, radunati ad Ancona circa diecimila soldati, nell'ultima decade del gennaio del 1778, si mosse verso Roma e il 10 febbraio si accampò a Monte Mario, da qui inviò nella metropoli un ufficiale e un messo ad ordinare che nel termine di tre ore gli consegnassero Castel Sant'Angelo, di togliere dalla Congregazione di Stato alcuni Cardinali, che gli fossero dati in ostaggio alcuni dignitari, liberati i carcerati politici, disarmati gli abitanti e licenziato l'esercito.
Inoltre entro un mese dovevano essergli pagati quattro milioni di scudi, entro dieci giorni gli si dovevano dare tremila cavalli e consegnare tutti quei libri, manoscritti ed oggetti d'arte che voleva; la Santa Sede doveva infine rinunziare ai diritti riservatigli dal trattato di Tolentino sui possessi della Mesola e di Santa Martina, sequestrare i beni dei nemici della repubblica, erigere due monumenti espiatori sui luoghi dove erano stati uccisi il Bassville e il Duphot e inviare a Parigi una deputazione ad esprimere a quel Direttorio il rammarico del governo papale per i fatti accaduti. Accettate queste condizioni e dati alcuni ostaggi, sarebbero stati dai Francesi rispettati il culto, le persone e le proprietà dei cittadini.

Pio VI accettò i patti che gli furono imposti: il 10 febbraio ordinò che Castel Sant'Angelo fosse consegnato al Berthier e che gli ostaggi si recassero al Quirinale; il 13 pagò duecentomila scudi; il 14 sequestrò i beni degli Inglesi, dei Russi e dei Portoghesi; quindi consegnò nelle mani dei Francesi quei suoi ministri che non erano fuggiti, il governatore monsignor CRIVELLI, l'assessore della Congregazione militare monsignor CONSALVI, il fiscale BARBERI e il GANDINI, i quali, dopo un breve periodo di detenzione, furono banditi dallo Stato.

Il generale Berthier aveva avuto ordine dal Direttorio di costituire in Roma un governo democratico, senza però mostrare di averci lui messo mano. Non era cosa facile, essendo pochi i patrioti nella città, tuttavia i suoi incaricati riuscirono il 15 febbraio a radunar circa trecento persone, le quali, alla presenza del generale CERVONI, protetti da un drappello francese comandato dal MURAT dichiararono con atto rogatorio di tre notai, che il popolo romano, stanco dell'oppressione, deplorava gli assassini commessi dal governo papale, "rivendicava i primitivi diritti della sua sovranità" e prendeva nelle sue mani il potere per esercitarlo secondo "i principi di verità, di giustizia, di libertà, d'uguaglianza".

Dichiararono inoltre di voler salva la religione e l'autorità spirituale del Pontefice ed affidarono in via provvisoria il governo a sette consoli, che furono gli avvocati RIGANTI, COSTANTINI, il duca BORSELLI, il matematico PESSUTI, il casuidico BASSI, il medico ANGELUCCI e un altro patriota.
Ad assistere i consoli furono nominati due ministri: CAMILLO CORONA per gli affari esteri ed ENNIO QUIRINO VISCONTI per gli interni. Inoltre, furono nominate otto commissari di tre membri e un segretario per l'amministrazione dei dipartimenti. Al Campidoglio fu infine piantato l'albero della libertà e inaugurato lo stendardo della nuova repubblica, bianco, rosso e nero.

Invitato dai consoli, il 16 febbraio il generale Berthier entrò A Roma, tra una folla di curiosi; presso la porta Flaminia, una deputazione gli offrì una corona d'alloro, che non accettò dichiarando che l'avrebbe mandata al Bonaparte; quindi si recò in Campidoglio e riconobbe la repubblica romana indipendente sotto la protezione della Francia, chiudendo una sua arringa al popolo con le seguenti parole: "I figli dei Galli con l'ulivo di pace in mano vengono in questo luogo augusto per restaurarvi l'ara che il primo dei Bruti vi eresse alla libertà. E voi, Romani, che pur dianzi recuperaste i vostri legittimi diritti, ricordate il sangue che vi scorre entro le vene; volgete gli occhi ai monumenti gloriosi che vi stanno intorno: ripigliate l'antica grandezza e le virtù dei padri vostri".

CACCIATA DEL PAPA DA ROMA - VIOLENZE FRANCESI
SOLLEVAZIONE MILITARE - SEDIZIONE DEI TRASTEVERINI
COSTITUZIONE DELLA NUOVA REPUBBLICA
FESTE PATRIOTTICHE E RELIGIOSE

Lo stesso giorno dell'entrata del Berthier a Roma, il generale CERVONI si recò in Vaticano ad annunziar al Papa che era stato proclamato il governo repubblicano e ad intimargli di riconoscerlo; ma PIO VI rispose che non poteva rinunciare ad una sovranità che gli veniva da Dio e non dagli uomini e che alla sua età di ottant'anni nulla aveva da temere ed era preparato a sopportare con fermezza qualsiasi sofferenza.

La dignitosa risposta del Pontefice non fece arrestare o mutare il corso degli avvenimenti né ebbe riscontro nel contegno del Sacro Collegio. Il Vaticano fu invaso, furono disarmate le guardie e i mobili e la maggior parte delle stanze furono suggellati. I principi della Chiesa, costernati, non levarono alcuna protesta, anzi il 18 febbraio quattordici di loro intervennero al solenne Te Deum con cui si volle consacrare il nuovo governo. Quel medesimo giorno, il commissario francese Haller intimò al Papa che entro quarantotto ore dovesse lasciare la metropoli, e la mattina del 20, dopo averlo fatto entrare in una carrozza con alcuni familiari, lo fece accompagnare fino ai confini della Toscana, dove il venerando vegliardo ricevette ospitalità in un convento d'Agostiniani di Siena.

Non contenti di avere cacciato il Capo della Chiesa, i Francesi, nei primi di Marzo, espulsero tutti gli ecclesiastici forestieri e, confiscati loro i beni, deportarono fuori dello Stato i membri del Sacro Collegio che erano rimasti, eccettuati due, l'Altieri e l'Antici che rinunciarono alla porpora.

A queste violenze dei Francesi, altre se n'aggiunsero. I liberatori, nel nome della libertà, sotto il pretesto di confiscare i beni ai nemici, commisero, com'erano soliti in ogni luogo da loro "liberato", numerose rapine; i commissari affiancati dai loro peggiori seguaci saccheggiarono le chiese, depredarono i Palazzi dei ricchi, rubarono mobili, cavalli e oggetti preziosi, posero taglie arbitrarie; mostrarono insomma tanta rapacità che gli stessi soldati francesi, rimasti senza paga, protestarono.
Il 23 febbraio, all'indomani delle esequie celebrate in memoria del generale Duphot, 242 ufficiali si riunirono nel Pantheon e firmarono un documento al Berthier protestando contro le scellerate spogliazioni commesse dai commissari, chiedendo la restituzione alle chiese e ai cittadini di tutto quello che era stato rubato, reclamando la punizione dei colpevoli e domandando in termini energici il pagamento loro dovuto degli arretrati e dell'aumento, per il quale dicevano sarebbero bastati tre soli dei molti milioni già estorti allo Stato Pontificio.

Questo documento ufficiale, vergato in francese e in italiano, fu inviato al Direttorio e presentato da una commissione al BERTHIER e al MASSENA, il quale da pochi giorni era venuto a Roma col titolo di generalissimo. Il Massena minacciò i delegati di applicar loro le pene prescritte dal codice militare; più debole fu invece il contegno del Berthier, e gli ammutinati ufficiali francesi, costituirono un comitato, invitarono i cittadini a denunciare le violenze patite e ordinarono la revisione dei registri del governo municipale e dell'amministrazione dell'Haller.

Le conseguenze di quest'ammutinamento non tardarono a manifestarsi. Due giorni dopo, il 25 febbraio, i Trasteverini brandirono le armi e si diedero a percorrere le strade gridando "Viva Maria ! Viva il Papa"; poi fu la volta degli abitanti d'Albano, di Marino, di Velletri e d'altri paesi vicini. Ma la rivolta era destinata ad esser facilmente domata. Difatti il DELLAMAGNE con due compagnie di granatieri ed altre truppe e il colonnello SANTACROCE con una schiera di guardie nazionali presto ebbero ragione dei ribelli: duecento caddero prigionieri e ventidue deferiti ad un consiglio di guerra, furono fucilati.
Il 28 febbraio il Marat con una colonna mobile sbaragliò alcune migliaia di contadini, occupò a viva forza Albano, saccheggiò Castelgandolfo e portò il terrore nelle campagne.

Ma più che nei popolani male armati e mal guidati, il pericolo stava negli stessi francesi ammutinati. Il Berthier partì lasciando il comando al Massena, ma, questi, impotente a farsi ubbidire, si ritirò prima a Ponte Molle, poi a Monterosi e a Ronciglione. Ritornò a Roma e vi soggiornò dal 13 al 18 marzo, ma gli ufficiali non vollero riconoscere la sua autorità e il Direttorio dovette sostituirlo prima col Gouvion Saint Cyr, quindi con il MACDONALD.

Due giorni dopo la definitiva partenza del Massena da Roma, e cioè il 20 marzo del 1798, fu promulgata, con una festa detta della "Federazione", la costituzione della nuova repubblica, redatta dai commissari francesi Daunon, Faypoult, Monge e Florent.
In quell'occasione la repubblica d'Ancona fu unita a quella Romana e furono annesse alla Cisalpina le città di Pesaro e di S. Leo.

La nuova costituzione, modellata sulla francese, determinava i modi delle elezioni a doppia preferenza dalle quali dovevano uscire il Senato e il Tribunato; il primo, di trentadue membri, doveva approvare o rigettare le leggi proposte dal secondo, che era composto di settantadue membri. L'una e l'altra assemblea dovevano scegliere cinque Consoli che avevano un assegno di seicentotrentanove rubbia di frumento e nelle cui mani risiedeva la potestà esecutiva. Lo stato era diviso in "cantoni" retti da edili e in otto "dipartimenti" (del Cimino, del Circeo, del Clitumno, del Metauro, del Musone, del Tevere, del Trasimeno e del Tronto) in ciascun dei quali s'istituivano un tribunale civile, uno criminale e due di censura. Un'alta "pretura" fungeva da corte di cassazione per tutta la repubblica. Le prime nomine dovevano esser fatte dal generalissimo francese, il quale aveva facoltà di fare quelle leggi che gli sembrassero più urgenti e che approvare o no quelle proposte dai consigli legislativi, che non potevano emanar leggi senza tale approvazione fin tanto che fosse ratificato il trattato d'alleanza tra la Repubblica francese e quella Romana. I consoli, designati dal Massena il 16 marzo e confermati quattro giorni dopo dal Dallemagne, furono il chirurgo ANGELUCCI, l'archeologo VISCONTI, Il De MATTHEIS, il BANAZZI, il REPPI.

Alla festa della "Federazione" seguirono, nel corso di pochi mesi, baldorie patriottiche stranamente intercalate da cerimonie religiose: il 7 giugno si celebrò in S. Pietro il "Corpus Domini" e il 14 in Piazza di Spagna si bruciarono molti processi trovati nell'archivio del S. Ufficio e il libro della nobiltà; il 20 giugno fu spogliata la chiesa di S. Bartolomeo che doveva esser convertita in caserma e il giorno dopo a S. Ignazio fu celebrata la festa di S. Luigi Gonzaga; il 29 giugno fu solennizzata la festa di S. Pietro, ma alla statua dell'Apostolo, che di solito era vestita con gli abiti pontificali e col triregno, fu messa soltanto la mitra vescovile; il 10 agosto si celebrò in piazza del Vaticano la presa di Malta da parte dei Francesi e si rappresentò all'Apollo il "Bruto"; il 22 settembre, primo giorno dell'anno VII repubblicano, ci fu corsa di barberi, l'illuminazione della cupola di S. Pietro, la girandola in Castel Sant'Angelo, il pranzo al Quirinale e la rappresentazione della "Mort de César".

Mentre con queste feste si cercava di suscitare lo spirito repubblicano e di dare soddisfazione alla religiosità dei Romani, i "liberatori" francesi, secondo la prassi, succhiavano quanto più sangue potevano alla povera repubblica. Il 27 marzo il ministro delle finanze stipulava con il commissario Haller una convenzione segreta con la quale la Repubblica Romana s'impegnava a pagare alla Francia, entro sei mesi, tre milioni di scudi d'oro e d'argento e, nello spazio di un trimestre, altri seicentomila scudi per abiti e suppellettili, cui erano da aggiungersi il mantenimento delle soldatesche francesi, un milione di beni nazionali, le miniere di zolfo e d'allume, le proprietà del Pontefice, di casa Albani e del cardinal Busca, assegnati alla repubblica madre.

" Con ciò - scrive il Franchelli - gli aggravi pubblici crescevano a dismisura: nuovo contributo straordinario del 9 per cento sul valore dei fondi privati, e del 5 su quelli degli istituti ecclesiastici, imposto dal Gouvion Saint-Cyr il 30 marzo; prestito forzato, decretato dal Consolato, di 250 mila scudi sopra ogni dipartimento, salvo quello del Tevere che doveva pagarne solo 50.000 insieme col mantenimento delle tasse consuete, il giorno 9 aprile; poi, ordine a ciascun cittadino, che avesse più di tre finestre sulle strade, di mantenere acceso tutta la notte un lampione sotto pena di una multa di tre scudi, poi, quando si vide che questo mezzo ingegnoso di fare denaro rendeva poco, si ricorse ad una requisizione da ogni cittadino di metà delle sue posate d'argento (maggio); poco dopo altro prestito assegnato a ciascuna famiglia per una somma rispondente ad un terzo, a due terzi o all'intera annualità delle loro entrate, secondo che queste ultime fossero dai tre ai seimila scudi, dai sei ai dieci, ovvero di dieci e più (luglio): cosicché oltre quarantasei tra quelle di terza categoria ebbero intimazione di pagare un milione e trecentoventun mila scudi; altro prestito di 6000 scudi su coloro che n'avevano trecento di rendita (ottobre); e tassa del 2 per cento sul valore dei feudi sostituita alle antiche tasse dirette (settembre).
Ai primi mutuanti si era fatta l'irrisoria promessa del rimborso (ristretto alla metà per fautori del passato governo) in equivalenti beni nazionali, dei quali si erano messi in vendita nove milioni e mezzo, insieme con le proprietà degli Albani, dei Braschi e degli altri fuggiti o banditi, e con molti più mobili, suppellettili, paramenti pontifici ed arredi sacri. Parte del prezzo si dovevano pagare in carta; ma i più avevano dubbi né si fidavano dell'insicuro acquisto, perché avevano poca fede nella legittimità e nella durata della repubblica galloromana, inoltre le rovinose disposizioni relative alla carta monetata erano la causa del dissesto economico e della miseria universale. Erano in corso, a quanto si calcola, quattordici milioni di scudi circa in cedole, le quali perdevano già il sessantasette per cento verso la metà del febbraio; il 18 di quel mese, il Berthier ordinò che se ne cessasse la fabbricazione, che fossero distrutte e fatte a pezzi e gettati pubblicamente nel Tevere le macchine che servivano per stamparle; poi mise in vendita 10 milioni di beni nazionali da pagarsi 1/5 in denaro e per 4/5 in cedole, che così potevano essere ritirate e bruciate.

"...Ma inaspettatamente il 25 di marzo (secondo quello che narrava al suo governo DOMIZIO FIGARI, rappresentante della Repubblica ligure), fu affisso un editto dei Consoli che riduceva il valore delle cedole ad un 1/4 del nominale e l'interesse dei banchi del monte dal 3 all'1 e 1/2 per cento; di più sospendeva i frutti dei debiti camerali. "In un paese dove le sostanze di ciascuno sono in carta potete immaginarvi .... la costernazione, l'universale agitazione d'animo, e i clamori di tutti portati al Generale francese e al Consolato .... l'Editto fu subito revocato. E ci racconta lo stesso testimone che "…un altro provvedimento fu sostituito al primo, più mite nei mezzi, ma quasi simile negli effetti. Infatti, il 25 marzo un manifesto del Generale Dallemagne annunciò di aver eliminato dal commercio le cedole superanti i 35 scudi (quelle del Monte di Pietà e della Banca furono solennemente bruciate in Campo dei fiori il 30 marzo) e le altre non potevano servire se non all'acquisto dei Beni Nazionali, i quali dovevano pagarsi per 3/5 in cedole "demonetate", per 1/5 in cedole rimaste in corso, e per l'altro quinto in moneta metallica…" ("Franchelli").

Questo provvedimento diverso dal primo per la forma, ma identico a quello per la sostanza, aggravò le condizioni economiche della Repubblica. Per rimediarvi il Gouvion Saint-Cyr rimise in corso le cedole demonetate per un terzo del valore nominale e frazionò le altre in "assegnati" di uno scudo e di cinquanta bajocchi. Si stabilì che uno scudo effettivo corrispondesse a dodici scudi di cedole, quindi dal Macdonald fu decretato che le cedole, per 1/8 del valore nominale, si potessero cambiare con le lettere di cambio pagabili dai contribuenti del prestito forzato e infine che tutte le cedole, con il 15 per cento del valore nominale, si mutassero in tanti assegnati garantiti da ipoteca sui beni nazionali, il cui prezzo doveva pagarsi per 10/12 con assegnati e per 2 /12 in moneta.

Conseguenza del dissesto economico fu il rincaro delle merci e poiché di queste c'era una grande mancanza, Roma ebbe a soffrire la fame, che non si riuscì a lenire con acquisti di grano sia perché difficili erano gli approdi di navi mercantili a causa delle navi dei nemici che infestavano le coste, sia perché i commissari francesi, quelle che in ogni caso arrivavano, carichi di frumento acquistati dal governo repubblicano, le requisivano per le mense dei loro eserciti.

Altra conseguenza delle tristi condizioni economiche furono le rivolte nella capitale e nelle province. L'11 aprile Orvieto si ribellò e verso la fine dello stesso mese insorsero i contadini che abitavano nelle vicinanze del lago Trasimeno, i quali, in numero di diecimila, sotto il comando di un certo BERNARDINI, minacciarono Perugia, presero d'assalto Città, di Castello, facendovi strage di Francesi e di patrioti, occuparono Sant'Angelo in Vado ed Urbania e misero in assedio Urbino.

Queste rivolte furono domate verso la metà di maggio da colonne francesi, che venute da Perugia, Ancona e Gubbio, sconfissero i ribelli alla Magione, alla Fratta e a Serbino; ma un'altra ne scoppiò nelle province di Campagna e di Marittima, che formavano il dipartimento del Circeo, e una terza divampò fra i popolani della stessa Roma, inaspriti dalle tariffe imposte sui viveri.
Quest'ultima fu di breve durata e facilmente repressa dall'intervento di truppe polacche. Più a lungo durò invece l'altra del Circeo.
Ferentino, Terracina, Frosinone ed altri paesi opposero accanita resistenza ai Francesi; ma alla fine furono espugnati e saccheggiati; i capi della ribellione condannati alla pena e l'intero dipartimento fu sottoposto allo stato d'assedio (agosto 1798).
Era la "libertà" tanto agognata da alcuni.


Bibliografia:
ADOLPH THIERS - Storia della Rivoluzione Francese - 10 Volumi
R.CIAMPINI, Napoleone, Utet, 1941
EMIL LUDWIG Napoleone, Mondadori, 1929
NAPOLEONE, Memoriale di Sant'Elena (prima edizione (originale) italiana 1844)
Storiologia ha realizzato un CD con l'intero MEMORIALE - vedi presentazione qui )
E un grazie al sig. Kolimo dalla Francia - http://www.alateus.it/rfind.html
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