GRECIA - STORIA

I SIGNORI DEL MARE TRA RITI E COMMERCIO (2)

UN DELFINO PER NUME TUTELARE

LA VITA MARINARA NEI CANTI DEL PERIODO IONICO


di Orazio Ferrara

" Subito da una nave dai bei fianchi, velocemente apparvero pirati sul mare di colore scuro: erano Tirreni. Li guidava un cattivo destino ..." così l' "Inno a Dioniso " attribuito dagli antichi ad Omero. La fama di pirati perseguiterà poi i Tirreni o Etruschi per tutto l'arco della loro storia. Fama certamente non usurpata, ma della cosa, d'altronde, non sono immuni tutte le altre marinerie dell'epoca, per le quali il mestiere di pirata non è considerato infamante. Anche se occorre aggiungere che, ad un più attento esame, scopriamo trattarsi il più delle volte, non di veri e propri atti di pirateria, ma di azioni di guerra da corsa. Quest'ultima riceverà una sua legittimità soltanto in tempi abbastanza recenti ( sec. XVI d.C.).

Nell' "Inno a Dioniso " l'espressione "una nave dai bei fianchi" ci rivela che, fin dagli albori della civiltà, avviene l'identificazione della nave con un essere vivente dal corpo umanizzato, in particolare femminile. L'innamoramento dei marinai di ogni tempo per la propria nave ha dunque radici assai antiche. Con la medesima espressione il poeta ha voluto anche implicitamente, magnificare dei carpentieri nel costruire una giusta curvatura al fasciame dello scafo per una sua migliore tenuta in mare.
Il citato inno continua poi a narrare come questi pirati tirreni catturassero il dio Dioniso. Figlio di Sèmele. Ma mal gliene incolse, perché il dio irato li tramutò immediatamente in guizzanti delfini. D'allora questo animale fu sempre sacro alle genti di mare etrusche, che, ogni volta qualvolta ne scorgevano qualcuno guizzare in eleganti piroette davanti alla prua della loro nave, consideravano ciò di buon auspicio in quanto in quel momento un antenato li guidava sulle insidiose strade del mare. E il simbolo del delfino guizzante appare in molte pitture parietali di tombe etrusche ad indicare che il proprietario aveva corso l'azzurra avventura sul mare.

Che la pirateria etrusca non fosse soltanto frutto delle malevoli insinuazioni dei greci, lo conferma lo storico tedesco, Mommsen, che fa risalire proprio ai marinai etruschi l'invenzione dell'uncino, che è poi l'arnese classico per arrembare una nave avversaria.
Alla marineria etrusca si deve poi, secondo Plinio, l'abbandono delle arcaiche ancore di pietra e l'adozione di nuove ancore, molto più funzionali, in piombo con robusto scheletro in ferro. L'attribuzione di Plinio agli Etruschi dell'invenzione dell'ancora con marre, contromarre e ceppo ha trovato conferma con il ritrovamento archeologico appunto di un ceppo d'ancora in piombo, il più antico che si conosca, tra i resti del relitto di una nave etrusca, datata al VI sec. A.C. ed affondata al largo di capo d'Antibes.

Nel bacino orientale del Mediterraneo dei tempi omerici dunque i Tirreni sono abili navigatori che imperversano in quel mare con agili navigli, come confermano altri storici greci, tra cui Ellanico di Lesbo. Essi comunque hanno già fatto la loro comparsa al tempo delle incursioni dei Popoli del Mare contro la terra dei Faraoni.
Nell'ultimo quarto del II millennio avanti Cristo l'Egitto deve fronteggiare ripetuti tentativi d'invasione da parte di popolazione, che provengono dal mare. In quel tempo la tecnica marinaresca ha già raggiunto un sufficiente grado di sviluppo, tale da permettere lo spostamento, per via mare, di interi gruppi etnici.
Sono i Faraoni Merenpthah (1224-1214 A.C.) e Ramses III (1918-1166 A.C.) a fermare prima e respingere poi quello strano ed esplosivo miscuglio di avventurieri e pirati di razze diverse, che passeranno alla storia con il nome di POPOLI DEL MARE.

Un dettagliato elenco di queste popolazioni lo forniscono gli scribi egiziani, che cantano le lodi dei due faraoni vittoriosi. Apprendiamo così trattarsi di Derden, Luka, Akawasha, Tursha, Sheklesh e Sherden. Dietro questa grafia si riconoscono, a giudizio concorde di molti autorevoli studiosi, nomi a noi familiari: Dardani, Lici, Achei, Tusci, o Tirreni, Siculi e Sardi.

Dunque i Tursha, citati dagli scribi egiziani, non sono altro che i Tirreni o Etruschi di nostra conoscenza.
Più tardi anche il bacino occidentale del Mediterraneo comincia a diventare oggetto di attente esplorazioni di alcuni gruppi più intraprendenti tra i Popoli del Mare. I Tirreni sono i primi a frequentare quel tratto di mare, che bagna le coste dell'Italia centro-settentrionale e che da loro prenderà il nome. Saranno seguiti successivamente dai Fenici e dai Greci. Probabilmente, in quel medesimo lasso di tempo, altre due etnie già citate, i Sheklesh (Siculi) e i Sherden (Sardi), raggiungono le loro sedi storiche e cioè le isole di Sicilia e Sardegna.

L'annosa querelle della patria originaria degli Etruschi, già posta con insistenza da Erodoto e da Dionigi di Alicarnasso, qui interessa relativamente. Un dato incontrovertibile é che dal IX al VIII sec. A.C. comincia a formarsi quella nazione etrusca sulle coste dell'odierna toscana, dove insistono notevoli giacimenti minerari. Ed è proprio l'esportazione di questi minerali il fulcro del primo commercio marittimo etrusco. Tale commercio avviene mediante delle caratteristiche navi, che presentano la prora e poppo arrotondate e simmetriche e vele fatte di larghe strisce di tessuto colorato. Il modello è forse più influenzato da uno più antico, già preesistente alla loro venuta nel mar Tirreno. Non sono da escludere però reminiscenze costruttive delle imbarcazioni dei popoli del Mare. Strabone ci informa che nel medesimo periodo gli Etruschi esplorano anche il mar Adriatico, il cui nome deriverà appunto da un loro emporio, Adria.
In particolare vengono esplorate le bocche del fiume Po, per una sua eventuale esplorazione come via commerciale dei prodotti provenienti dal nord, quali ambra ed oro. Cosa che avverrà puntualmente in seguito con grosse remunerazioni per chi vi si dedica.

Un'arcaica scultura di una tomba di Vulci, raffigurante un uomo a dorso di un cavallo marino, testimonia la persistenza in quel tempo di contatti anche con l'isola di Minosse, Creta.

LA VITA MARINARA NEI CANTI DEL PERIODO IONICO

Oltre al "divino" Omero, quasi tutti gli altri autori greci del periodo più antico hanno celebrato, chi più chi meno, "l'azzurra avventura" sul mare. E non poteva essere altrimenti per gli "aedi" di un popolo dimorante su una penisola frastagliatissima e su innumerevoli isole. Perfino Esiodo, vissuto intorno alla metà del secolo VIII A.C., uomo assai legato ai miti e ai riti della terra, si attarda nel suo " Le opere e i giorni" vv. 618-677 a parlare della navigazione, dei viaggi del padre marinaio e di un suo "memorabile" viaggio per mare a Calcide. L'occasione è fornita dai consigli da dare al fratello Perse, qualora lo cogliesse, al pari del proprio padre, il desiderio della navigazione, sempre "gravida di pericoli".
Esiodo, conscio che il desiderio si trasformerà ben presto in volontà di agire, comincia con lo sconsigliare all' "assai dissennato " fratello dall'intraprendere qualsiasi viaggio per mare all'inizio dell'inverno, quando "le Pleiadi , fuggendo l'impeto di Orione, cadono nel mare". Trapela qui, con immediata concretezza, l'importanza che il marinaio di ogni epoca deve sempre dare alla posizione delle stelle nel firmamento e al susseguirsi delle stagioni. Si passa poi ai consigli pratici: in quel tempo cioè in inverno è necessario tirare la nave in secco, lontano dalla risacca, e tenerla ben ferma, ponendo tutt'intorno allo scafo delle grosse pietre, sicuro ancoraggio contro l'infuriare dei venti.

Esiodo conferma, nei suoi versi, una pratica usuale, nella stagione inclemente, per tutto il periodo della marineria arcaica. Altra precauzione da non dimenticare assolutamente è quella di togliere il tappo in fondo alla sentina, affinché la pioggia, ristagnando, non faccia marcire il legno. Questo togliere il tappo alla sentina, gesto sicuramente visto fare al proprio padre chissà per quanti inverni, ci illumina su un curioso particolare tecnico, non citato da altri autori antichi. Infine tutta l'attrezzatura delle vele ("le ali della nave" per il poeta), ben ripiegata, deve essere riposta, all'asciutto, in casa; così come il grosso timone, da collocare vicino al camino. Successivi versi esiodei parlano di "navi dai molti cavicchi", dimostrano dunque per quel periodo, del tutto abbandonata la tecnica della cucitura dello scafo, ancora in uso nei tempi omerici.

Cinquanta giorni dopo il solstizio d'estate è, per Esiodo, il momento buono per mettersi in mare, perché in quell'epoca "i venti sono sicuri e il mare pacifico". La navigazione procederà tranquilla però solo se si è avuta l'accortezza di sistemare per bene nella stiva, equilibrandolo, il carico da commerciare. Questa raccomandazione la dice lunga sugli infortuni e sui naufragi delle fragili navi antiche per via di un carico mal sistemato, cioè non equilibrato; la cosa è d'altronde validissima ai nostri giorni, vedi gli ultimi affondamenti di potenti navi traghetto per l'improvviso spostamento del carico. L'ultimo consiglio per il fratello Perse è quello, una volta concluso il commercio, di affrettarsi sulla via del ritorno e "non attendere il vino nuovo e la pioggia autunnale e l'inverno incombente e le tremende burrasche di Noto", che rendono il mare infido. In un passo precedente Esiodo ha appena rassicurato il fratello che, seguendo fedelmente i suoi consigli, non gli accadrà alcunché di spiacevole "a meno che Poseidone il dio che scuote la terra a te non benevolo o Zeus re degli immortali non vogliano la tua rovina; in essi infatti sta ugualmente l'esito del bene come del male". Queste ultime parole squarciano in parte il velo, dietro cui si cela il fatalismo del poeta beotico, lontanissimo dalla concezione eroica dei marinai omerici, che osano sfidare proprio sul mare le ire degli dei.

La grandezza dello spirito odissiaco è ormai lontana, ha vinto la squallida realtà commerciale di Ascra, borgo natio di Esiodo, "malvagia in inverno, penosa d'estate, buona in nessun tempo".
Cantore del mare e della guerra è invece Archiloco, nato, qualche decennio antecedente il 650 A.C., nell'isola di Paro. Isola in cui prosperano fichi dolcissimi e la vita marinara. Di quest'isola porterà per sempre, negli occhi, l'azzurro. Archiloco diventa ben presto il cantore, umano e simpatico, di una scanzonata visione della vita, di chi, soldato di ventura, in attesa di incontrare "la bella morte", se la gode un mondo. Egli è l'ideale stesso, incarnatosi, dello spirito greco di quel periodo storico: soldato, marinaio e poeta ad un tempo. Scanzonato su tutto, anche sulle sue origini. Figlio dl nobile Telesicle, che ha dedotto una colonia sull'isola di Taso, a seguito di un vaticinio dell'oracolo di Delfi, e della bella sacerdotessa Enipò, che una tradizione posteriore, malevole, fa passare per una schiava. Il bello è, che questa diceria è messa in giro proprio da Archiloco, amante, come sempre, delle contraddizioni estreme: alla solare nobiltà paterna ama contrapporre l'invenzione di oscuri natali materni.

Le testimonianze epigrafiche, il Monumentum archilochi e l'epigrafe Kondoleor, fanno giustizia di questa maldicenza, ripresa dalla tradizione letteraria dei Comici del V secolo, esse rivelano altresì la recondita "pietas" del poeta-guerriero, il suo amor patrio e il suo sprezzo del pericolo. Certo, come risuonano i versi antichi, "Archiloco non fu buon testimone per se", forse anche per il voler essere pericolosamente, ogni giorno, un passo più avanti degli altri.
Questa concezione aristocratica trova conferma nelle parole rivolte ad Esimide: "... nessuno che si curi della maldicenza del popolo potrebbe, provare le moltissime desiderabili cose... ". È un esplicito invito al nobile amico a non essere corrivo al suggestivo richiamo di divenire "amico del popolo".
Figlio di Telesicle, che ha corso, in lungo e in largo, il mare greco, Archiloco è lui stesso buon marinaio e pertanto attento asservatore delle cose astronomiche. Infatti in un suo frammento allude ad un'eclissi di sole osservata nel mare Egeo, probabilmente in navigazione davanti alle coste di Taso. Per gli scienziati del nostro tempo quell'eclisse ha una data precisa: 6 aprile dell'anno 648 avanti Cristo. Archiloco ci ha consegnato la prima data certa della letteratura greca.

Nella lancia è il mio pane
nella lancia è il mio buon vino di Ismaro
appoggiato alla lancia io bevo

Così canta il poeta-guerriero, che ha affidato alla punta aguzza della sua lancia il suo destino di vita e forse, non ultimo, il suo destino di gloria, inorgogliendosi di essere di "Enialio (Ares) signore" e conoscitore dell'amabile dono delle Muse.
Altri versi immortali Archiloco riserva al mare e alla vita marina. Il mare delle infinite vie azzurre, che portano il solfato di ventura verso infinite altre nuove avventure. Sono i versi della "Veglia sul mare" che fissano, per l'eternità, l'attimo fuggente, nella notte fonda prima dell'aurora che precede forse lo scontro con il nemico, in qualche parte del Mediterraneo orientale, di una nave greca. L'equipaggio, formato tutto da uomini liberi, è teso all'unisono a far forza sui remi ( sono ancora lontani i tempi dell'infamia dei galeotti al remo). Mentre i suoi muscoli e quelli dei compagni sono spasmodicamente contratti nel duro sforzo fisico della voga accelerata, si aggiunge la tensione psichica dell'incombente incontro-scontro con l'avversario, per cui Archiloco sollecita con foga un compagno a togliere "i coperchi degli orci capaci" attingendo "il vino rosso fino alla feccia", e portare "in giro la coppa senza tregua, tra i banchi della nave veloce", perché, conclude il poeta, "non potremo essere sobri in questa veglia".

Quest'ultimi versi racchiudono la profonda ed umana verità che non si potrà mai essere sobri alla vigilia del probabile incontro con la propria morte.
Quella di avere sempre, nella stiva, dei capaci otri pieni di vino, per dar vigore agli uomini addetti al remeggio, è una tradizione che, come abbiamo visto, è già attestata per le navi omeriche, d'altronde gli equipaggi del tempo di Archiloco praticavano anch'essi l'arcaico rito, gentile e fascinoso, di libare con vino puro agli dei del mare, prima dell'inizio di ogni navigazione.
Altro momento di vita marinaresca, registrato da Archiloco, sono i versi che parlano dell'isola di Taso:
Questa come schiena d'asino
s'erge di foresta selvaggia coronata.


È senza dubbio la descrizione di un'isola vista dal ponte di una nave, così come i versi che li seguono sono frutto delle fantasie e dei desideri dei naviganti di quel tempo in cui si favoleggia delle mitiche terre d'Occidente, quelle che diventeranno in seguito gli opulenti territori della magna Grecia:
" Perché non è bella ...
come quella che il Siri bagna
con le sue correnti.


Di fronte alle forze naturali, come i marinai di ogni tempo e paese, è poi affascinato e timoroso ad un tempo, lo dimostrano i versi della "Tempesta": " ... il mare profondo spumeggia agitato ... un nembo ... s'addensa alle vette dei Girei. Nasce dall'inatteso il timore".
Costretto dagli eventi tumultuosi della vita a lasciare l'amata isola natia, ci lascia poi dei versi struggenti, che ci illuminano sulle cose che incantano gli occhi e il cuore di Archiloco: "lascia paro e quei fichi e la vita sul mare".
La persistenza della consuetudine marinara, diffusa nel Mediterraneo antico, di dipingere sulle murate di una nave animali, che sembrano slanciarsi verso la prua, quale simbolo beneaugurante di dominio sui flutti, già riscontrate nelle antiche pitture parietali dell'isola di Tera, ci è confermata da un frammento del poeta Ipponatte, nato da Efeso nella prima metà del sec. VI. Il frammento ci conferma ancora una volta che la superstizione dei marinai non è mai pura invenzione. Infatti Ipponatte si scaglia con parole durissime contro il pittore Minné, reo della grave colpa di aver dipinto sulle murate "sopra i fitti banchi della trireme una serpe che si slancia da prua verso il pilota".

Lo scrittore rivela anche la diffusione già in quel periodo della potente nave da guerra greca, la triere o trireme "dai fitti banchi", che sta rivoluzionando gli equilibri marittimi del Mediterraneo del tempo. L'invenzione originaria non è forse greca, essendo, con buona probabilità, il frutto della marineria fenicia, ma resta il fatto che l'intelligente rielaborazione greca del prototipo fenicio, con la sfalsatura sovrapposta dei banchi da remeggio senza allungare troppo lo scafo e quindi senza comprometterne la stabilità marina, ha creato una nuova formidabile macchina navale da guerra.

Tornando al motivo delle imprecazioni contro il pittore Minné, per Ipponatte già la scelta della figura del serpente "animale "infero" è infelice, ancora più infelice la posizione invertita che lo raffigura nell'atto di slanciarsi, invece che verso prua a dominio dei flutti, verso poppa dove sta il timoniere. "Per pilota è questo cattivo augurio. È iettatura certa" conclude il poeta. Anche la divina Saffo, che vive nell'isola di Lesbo tra la fine del sec. VIII e la prima metà del sec. VI A.C. e i cui versi sono consacrati totalmente all'amore, tiene in alta considerazione il fascino della vita marinara, che vede svolgersi pittorescamente nella sua amata isola, tanto da scrivere in un frammento famoso:
Quale la cosa più bella
sopra la terra bruna ? uno dice "una torma
di cavalieri", uno "di fanti", uno "di navi".


In questa celebre ode, in ricordo dell'amatissima Anattoria, Saffo elenca quello che giustamente è stato definito il questionario della cultura greca arcaica ("qual è la cosa più bella" o "più giusta" o "migliore" o "più grande"), cioè i sommi valori in cui si riconosce il mondo eroico dei primi greci. pur se alla domanda superlativa la poetessa risponde personalmente "ciò che si ama", nondimeno nei versi è implicito che "una forma di navi", che veleggia lontano lungo la sottile linea blu dell'orizzonte, è, per il mondo cantato di Saffo, qualcosa di così bello da emozionare i sensi di chi la osserva.

La poesia dei primi Greci del periodo ionico offre dunque pagine stupende nel cantare il mare, i suoi mutevoli, fascinosi e repentini cambiamenti, le sue favolose creature, i suoi miti e soprattutto gli uomini e le navi, che appunto sul mare, tendono a realizzare ogni giorno il mitico sogno di Ulisse, racchiuso ogni giorno il mitico sogno di Ulisse, racchiuso nel cuore di tutti i veri marinai di ogni tempo e paese: la conquista dell'ignoto e poi domani andare oltre. Sempre.


Orazio Ferrara

Bibliografia
Orazio Ferrara, I Signori del mare.
Appunti per una storia delle antiche marinerie, Sarno, Centro Studi I Dioscuri, 1998)

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