DAL DOPOGUERRA A WEIMAR  

WEIMAR
u
na repubblica senza  repubblicani

Alla fine della prima Guerra mondiale
comincia un esperimento democratico che segnerà il futuro dell’Europa

di ALESSANDRO FRIGERIO

"Merita la libertà soltanto colui che la conquista giorno dopo giorno", così ammoniva Wolfgang Goethe. E il motto potrebbe ben figurare come epigrafe sul palazzo della cittadina di Weimar – così ricca di ricordi del grande scrittore e del romanticismo tedesco – dove dal febbraio al luglio del 1919 si riunì l’Assemblea costituente che diede vita alla costituzione di quella che è passata alla storia come Repubblica di Weimar. Epigrafe ammonitrice, perché libertà e democrazia caddero in testa alla Germania guglielmina alla fine della prima guerra mondiale senza che quasi nessuno le avesse invocate. E sopravvissero tra l’indifferenza dei più fino al 1933, quando Hitler mise tutto nel cassetto senza suscitare il minimo rimpianto.

La storia della Repubblica di Weimar, quindi, come cronaca di un fallimento conseguito grazie alla scarsa legittimazione popolare, ma anche con il concorso delle migliori intenzioni. Come quelle enunciate nella carta costituzionale: elaborata da eminenti studiosi, all’epoca fu considerata un gioiello di liberalità, basata com’era su di un delicato mélange di parlamentarismo e presidenzialismo, e con un Reichstag che, eletto attraverso il democraticissimo sistema proporzionale, si rivelò scrupoloso garante della rappresentatività ma assai meno della governabilità. Con eguale sfoggio di democraticità, nel 1933 la costituzione di Weimar consentirà al nazismo di prendere il potere in modo assolutamente legale. Weimar però non fu solo un esperimento di astratta alchimia politica. La prima repubblica tedesca non è pensabile senza il trauma della sconfitta, senza le clausole del trattato di pace, senza il fervore rivoluzionario comunista e il feroce nazionalismo di quegli anni. La guerra, nella cui vittoria quasi tutti in Germania avevano creduto sino all’ottobre del 1918, aveva logorato fino allo stremo l’esercito, l’economia del Paese e la sua stessa struttura sociale.

LA CADUTA DELLA MONARCHIA

 L’armistizio che pose fine alle ostilità tra le forze dell’Intesa e gli Imperi centrali era basato sui Quattordici punti enunciati dal presidente americano Wilson (tra i punti fondamentali la riduzione degli armamenti, la libertà dei mari, la sistemazione pacifica delle questioni coloniali e la revisione delle frontiere in Europa centrale in base al principio dell’autodeterminazione), ma in extremis si aggiunse come precondizione una trasformazione istituzionale della Germania stessa: in poche parole il Kaiser Guglielmo II e il capo di stato maggiore dell’esercito Ludendorff, considerati responsabili della guerra, dovevano andarsene. Né l’esercito esausto, fino ad allora sacro depositario dei valori imperiali, ne la popolazione ormai alla fame si opposero alle richieste alleate. Come ebbe modo di dire Walther Rathenau, il patron della Aeg e futuro ministro degli esteri: «Quella che si chiama rivoluzione tedesca è lo sciopero generale di un esercito sconfitto».
Ad imitazione dell’esempio russo, all’inizio del novembre del 1918 si erano costituiti un po’ in tutto il Paese consigli di operai e soldati, alcuni reparti della Marina si erano ammutinati, a Berlino gli scioperi si susseguivano uno dopo l’altro e anche i soldati della riserva di stanza nella capitale erano ormai in rivolta.

A Monaco, le mai sopite istanze secessioniste della Baviera portarono alla costituzione di un governo socialisteggiante. In questo clima ormai assai prossimo alla rivoluzione totale, il 9 novembre 1918 la repubblica fu proclamata dai leader socialdemocratici Friedrich Ebert e Philipp Scheidemann da un balcone del Reichstag. Nessuno sapeva ancora come sarebbe stata, quel che appariva certo è che più che una conquista democratica della nazione la repubblica nasceva come un estremo rimedio per impedire torbidi peggiori. Del resto le tensioni sociali non svaporarono subito. Tra i socialdemocratici alla guida del governo legittimo e i rivoluzionari comunisti capeggiati da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg si svolse ancora, nelle strade e nelle piazze tedesche, una lotta per la conquista del potere che durerà fino all’anno successivo.

RIVOLUZIONE MANCATA  

Obiettivo dell’estrema sinistra era quello di riproporre una rivoluzione di tipo bolscevico, ma a differenza dell’ottobre 1917 russo qui la minoranza rivoluzionaria non era riuscita ad infiltrarsi nella struttura amministrativa statale e neanche ad ottenere il controllo nei vari soviet operai e militari formatisi spontaneamente nel Paese. Gli stessi Liebknecht e Luxemburg – contrariamente a Lenin, impadronitosi del potere con un abile colpo di mano di una minoranza spacciato poi per insurrezione popolare – confidavano ottimisticamente in una spontanea rivolta operaia che sarebbe scoccata, magicamente, da una serie ininterrotta di scioperi e manifestazioni.

Ma le divisioni interne, la spietata repressione del governo e il freddo inverno berlinese spensero gli ardori rivoluzionari. Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono arrestati e poi assassinati da un gruppo paramilitare nel gennaio 1919; altri scioperi e timidi tentativi insurrezionali a Brema e a Monaco furono stroncati nei mesi successivi. «I Tedeschi non assalterebbero una stazione ferroviaria senza aver prima acquistato il biglietto d’ingresso», così osservò malignamente Lenin dopo il fiasco di una rivoluzione che riteneva a portata di mano. La frattura lacerante tra socialdemocratici al governo e comunisti nelle piazze sarà così aspra da compromettere successivamente la possibilità di un fronte comune di forze progressiste anche di fronte all’avvento del nazismo.

Una ulteriore spada di Damocle sospesa sul futuro della neonata repubblica era rappresentata dalle clausole del trattato di pace. La Francia, in barba ai principi enunciati da Wilson, era ben determinata a salvaguardarsi definitivamente dal militarismo tedesco, e per fare ciò, al grido della parola d’ordine l’Allemagne paiera, chiedeva il controllo della riva occidentale del Reno sotto forma di annessioni territoriali o con la creazione di uno stato cuscinetto, il disarmo perpetuo della Germania e il pagamento di pesanti riparazioni. Tutto ciò in contrasto con Gran Bretagna e Stati Uniti, che ritenevano fosse più costruttivo per un futuro di pace una limitazione generale degli armamenti e un atteggiamento meno mortificante contro i vinti; oltretutto, per le potenze occidentali un’entità statale forte al centro dell’Europa sarebbe stata un ottimo baluardo contro il temuto dilagare del fenomeno bolscevico.


GLI SQUILIBRI SOCIALI

  Il trattato firmato a Versailles nel giugno del 1919 scontentava però sia le pretese della Francia sia le speranze tedesche di un atteggiamento magnanimo. L’Alsazia e la Lorena tornavano alla Francia; la Polonia riceveva la Posnania e l’Alta Slesia mentre Danzica era costituita in città libera; le colonie e i protettorati tedeschi venivano spartite tra le potenze vincitrici; la Renania rimaneva in mano alla Germania ma con l’impedimento di installarvi truppe o costruirvi fortificazioni; i bacini carboniferi della Saar erano concessi per quindici anni alla Francia, passati i quali un plebiscito avrebbe deciso il futuro della regione; l’esercito tedesco veniva ridotto a 100 000 effettivi, la marina a 16 000, l’aeronautica vietata; infine le riparazioni in denaro che, dopo complicati conteggi, furono fissate nel 1921 nell’enorme cifra di 269 miliardi di marchi-oro pagabili in quarant’anni, scontati poi in 132 miliardi per trent’anni.

Insomma, le clausole esclusivamente punitive del trattato di pace rappresentarono negli anni a venire un motivo di turbamento del delicato equilibrio su cui poggiava la nuova repubblica. Il trattato, accettato per necessità, fu definito, non solo dai partiti di destra ma anche da quelli di centro e dai socialdemocratici, come un vero e proprio diktat, ovvero come una imposizione di cui ottenere una futura revisione. Oltre a tutto ciò, a rendere instabile tutto il quadro contribuiva il sovrapporsi e l’intersecarsi di nuove e vecchie strutture sociali. Abbiamo già visto come la frattura tra socialdemocratici e comunisti, che si dividevano i voti del proletariato, fosse ormai incolmabile: i primi sostenevano la repubblica, i secondi la consideravano una creatura borghese. Ma anche la borghesia non era compattamente unita a difesa delle istituzioni: la ricca borghesia industriale sperava solo di veder riaffermato il proprio potere, mentre la piccola borghesia, composta da impiegati e funzionari pubblici e indifesa sotto il profilo sindacale, oscillava tra la destra e l’estrema sinistra.

TENTATIVO DI PUTSCH  

La vecchia nobiltà, priva ormai degli antichi privilegi, sognava la restaurazione dell’Impero. Infine tra i contadini – per tradizione vicini ai partiti conservatori – era molto forte l’influenza del centro cattolico. Un discorso a parte merita l’esercito, la Reichswer. Rimasto sotto il controllo degli ufficiali provenienti dallo stato maggiore imperiale e ridotto drasticamente, fornì con la massa degli ufficiali e dei sottufficiali smobilitati una base di reclutamento per l’estrema destra. In questo clima nacque la Repubblica di Weimar. E dopo la sua proclamazione le tensioni non si esaurirono, ma durarono anzi fino a tutto il 1923. Nel marzo 1920 si ebbe il fallito putsch guidato da Wolfgang Kapp, che, sostenuto da squadre armate (i Freikorps) reclutate fra soldati e ufficiali smobilitati, per quattro giorni tenne in scacco Berlino autoproclamandosi cancelliere. I numerosi gruppi nazionalistici estremisti scatenarono un’ondata di terrore contro i marxisti e anche contro importanti esponenti del governo.

Il ministro delle finanze Matthias Erzberger fu assassinato nell’agosto del 1921 e stessa sorte toccò al ministro degli esteri Walther Rathenau, assassinato nel giugno del 1922: il primo si era "macchiato" della colpa di aver firmato l’armistizio, il secondo pagò la sua disponibilità ad una intesa con le potenze alleate sulle riparazioni. Proprio in questo periodo iniziò a salire alla ribalta la città di Monaco come centrale del nazionalismo più esasperato. Qui aveva messo radici il generale LUDENDORFF, schieratosi con l’estrema destra, e qui ADOLF HITLER stava fondando il suo partito nazionalsocialista (NSDAP), lanciando strali contro i marxisti, gli ebrei e le potenze vincitrici, tutti insieme considerati responsabili della sconfitta e sabotatori della rinascita dello spirito nazionale tedesco. Benzina sul fuoco della propaganda nazista fu gettata dalla profonda crisi, legata al problema delle riparazioni, scoppiata nel 1923. La Francia, di fronte alle esitazioni del governo tedesco a pagare i danni di guerra stabiliti dalla commissione alleata, nel gennaio di quell’anno invase il territorio della Ruhr.

UN PERIODO DI STABILITA’ 

L’obiettivo era contemporaneamente economico e politico: far sentire alla Germania il peso della sconfitta e ottenere il controllo delle risorse minerarie e industriali della Ruhr per prendere direttamente quel che i Tedeschi non volevano consegnare. Il risultato fu un crollo del marco, la rovina economica per milioni di salariati, pensionati e piccoli risparmiatori e il riacutizzarsi dell’estremismo di destra e di sinistra. Salito al potere (agosto 1923) in questo delicato frangente, toccò al leader del partito popolare Gustav STRESEMANN risolvere la situazione.
Il suo operato politico si indirizzò subito verso due obbiettivi a breve termine: porre fine agli attriti con la Francia e mettere a tacere gli estremismi all’interno del Paese. Cessati gli scioperi e le agitazioni nelle zona occupate della Ruhr, il governo riallacciò i contatti con gli alleati in merito allo spinoso problema delle riparazioni. Sul piano della politica interna, invece, Stresemann procedette allo scioglimento dei governi a forte presenza comunista della Sassonia e della Turingia, soppresse un tentativo rivoluzionario marxista nell’ottobre del 1923 ad Amburgo e represse, in novembre, un altro putsch, questa volta a Monaco, organizzato da Ludendorff e Hitler.

La credibilità dell’opera avviata da Stresemann, nel frattempo passato al dicastero degli esteri dove rimarrà fino alla morte nel 1929, consentì infine di risolvere anche il difficile problema delle riparazioni contemporaneamente a quello vitale della ripresa economica e industriale tedesca. Nel 1924 con il piano del finanziere americano DAWES si giunse alla concessione di rilevanti prestiti americani e inglesi alla Germania: si comprese che se la macchina produttiva tedesca fosse stata messa in grado di lavorare a pieno ritmo, forse anche le riparazioni avrebbero potuto essere pagate e i prestiti sarebbero stati rimborsati.

Il piano Dawes, attenuando il contrasto tra la Germania e i vincitori, sembrò inaugurare una fase di distensione dei rapporti internazionali. La disponibilità alla trattativa di Stresemann, incontratasi con un analogo atteggiamento del ministro degli esteri francese Aristide BRIAND, sfociò nel Patto di Locarno (1925) che garantì le frontiere francesi e belghe con la Germania, il riconoscimento da parte tedesca del trattato di Versailles e il ritiro delle truppe francesi dalla Renania.

ORIZZONTI DI GLORIA  

La conciliazione tra le due grandi nemiche fu sancita anche dal premio Nobel per la pace assegnato quell’anno ai due ministri degli esteri artefici della distensione. «Dopo anni di esasperazione e di amarezza – scriveva in quel periodo il Berliner Tageblatt – un nuovo spirito soffia sull’Europa. Dal punto di vista politico ieri è morta l’Intesa. Essa ha cessato di esistere, e con essa l’accerchiamento psicologico e politico del popolo tedesco. La Germania è ora divenuta socia degli Alleati». Sul piano interno la fiducia nell’economia tedesca rinacque; la produzione industriale e agricola raggiunse e finanche superò i valori anteguerra; si inaugurarono ambiziosi programmi di edilizia popolare e di lavori pubblici; la disoccupazione diminuì e il marco si stabilizzò. 

Tra il 1925 e il 1927 Hitler, ancora semisconosciuto politicante di provincia, aveva dato alle stampe un prolisso e farraginoso libro dal titolo Mein Kampf (La mia battaglia) dove spiegava che: «La concezione nazionalpopolare del mondo deve prima o poi riuscire a dar vita a una più nobile epoca, un’era in cui gli uomini non si preoccuperanno più di migliorare le razze di cani, cavalli e gatti, bensì di tirar su in alto l’uomo stesso». L’editore, pur sconcertato dalla tediosità e dalla rigidezza logorroica del manoscritto, lo pubblicò lo stesso, incassando un più che prevedibile fiasco editoriale. 

ma  nella Repubblica di Weimar 

Mascherato da democratico
ADOLF HITLER
sale al potere

Responsabilità dei partiti: la rigidità ideologica
impedì loro di bloccare l'ascesa del nazismo


di ALESSANDRO FRIGERIO

Fino quasi alla fine degli anni Venti la stabilità interna e la credibilità internazionale della Repubblica di Weimar parevano un dato di fatto ormai definitivamente acquisito. In fondo, la neonata Germania repubblicana era riuscita a tener testa agli scioperi, ai putsch e ai tentativi rivoluzionari vissuti nei suoi primi turbinosi anni di vita. L'economia era in ripresa, l'inflazione e la disoccupazione erano rientrati entro valori più che accettabili. Il peggio sembrava passato. Una coalizione di partiti centristi guidava il Paese, pur con una maggioranza risicata e sempre a rischio. Ma in fondo stabilità e governo forte non hanno mai fatto parte del patrimonio genetico della democrazia.

L'inizio della fine: dall'elezione di Hindenburg alla grande crisi del 1929. 

La prima crepa nella appena stabilizzata struttura si aprì nel 1925 con la morte del presidente e padre della repubblica Friedrich Ebert. Il voto a suffragio universale premiò di misura il vecchio maresciallo Hindenburg, grazie al consenso dei monarchici, dei conservatori e di strati della borghesia. Socialdemocratici e comunisti, ormai storicamente divisi, presentarono candidati diversi (che assieme raccolsero più voti di Hindenburg) e si condannarono alla sconfitta. Nulla però era ancora compromesso. Certo, per i suoi elettori Hindenburg era il conservatore che più conservatore non si può, il militare che da ufficiale a comandante supremo dell'esercito aveva incarnato la storia del secondo Reich, insomma il monarchico nostalgico dell'impero che avrebbe restituito fasto e grandezza alla Germania. Tuttavia l'opposizione ne aveva apprezzato il giuramento di fedeltà alla Repubblica e forse più ancora l'età (aveva 78 anni), che oltre ad una garanzia contro eventuali colpi di testa lasciava sperare in un rapido ritorno alle urne.

ESTREMISMI SCATENATI 

La prima crepa nel sistema era altrove: con l'elezione di Hindenburg, socialdemocratici e comunisti, che unendo le forze avrebbero potuto eleggere un loro candidato, dimostrarono agli avversari la loro incapacità di coalizzarsi. Fu la crisi del 1929 che, colpendo con forza inaspettata l'economia tedesca, diede fiato alle trombe di tutti gli estremismi, rompendo il delicato equilibrio fino ad allora raggiunto. Il crollo della borsa di Wall Street spinse gli investitori americani a ritirare i loro investimenti. Paesi come la Germania, che facevano affidamento soprattutto su prestiti statunitensi, videro ridursi l'afflusso di capitale e furono costretti a sospendere i lavori pubblici, gli investimenti, e a procedere ai licenziamenti. Alcuni istituti bancari tedeschi e austriaci fallirono nel corso dei due anni successivi. I prezzi delle derrate agricole, già in calo dal 1928, crollarono vertiginosamente. Nel 1932 la produzione industriale era ormai diminuita del 50 per cento rispetto a quella del 1929, mentre la disoccupazione passò nello stesso periodo da un milione e mezzo a sei milioni.

Due partiti trassero da questi sconquassi dei vantaggi immediati: quello comunista e quello nazionalsocialista. I nazisti, in particolare, riuscirono a compiere un incredibile balzo in avanti: dal poco più di mezzo milione di voti ottenuti nelle consultazioni del 1928, raggiunsero i sei milioni e mezzo di voti in quelle del 1930, diventando il secondo partito tedesco. Sul piano squisitamente politico il governo socialdemocratico di Hermann Müller, alle redini dal 1928, fu spazzato dalla crisi. Incapace di portare a termine una politica deflazionistica di tagli alle spese (e di tagli ai sussidi di disoccupazione) fu sostituito nel 1930 da una maggioranza guidata da un austero cattolico di orientamento centrista, Heinrich Brüning. Al grande successo elettorale del 1930 HITLER non era arrivato seguendo un percorso rettilineo. Dalla sua costituzione, il partito nazista era infatti andato incontro sì a successi ma anche a disfatte, che avevano fatto temere al suo fondatore la scomparsa di tutto il movimento.

ALTI E BASSI DEL NAZISMO 

Nato nel 1920, il partito nazionalsocialista inizialmente non era più che uno sparuto movimento locale bavarese, violentemente nazionalista, anticomunista e antidemocratico. Il cosiddetto "putsch della birreria", tentato da Hitler a Monaco nel 1923 e conclusosi ingloriosamente con la sua carcerazione (dei cinque anni comminati ne scontò però uno solo), sembrò quindi porre fine all'avventura un po' sguaiata delle camice brune, che ancora non godevano di finanziamenti e appoggi altolocati. Nelle corso delle due tornate elettorali del 1924 i suffragi dei nazisti scivolarono dal 6,6 per cento fino a un modesto 3 per cento.
Furono proprio la pausa forzata in galera e lo smacco di queste elezioni a spingere Hitler all'elaborazione concreta della dottrina nazista e a individuare una nuova strategia per la conquista del potere. Le basi ideologiche del nazismo si basavano sull'individuazione precisa dei "nemici" della Germania. 

Se i nemici esterni erano le potenze vincitrici della prima guerra mondiale, quelli interni erano incarnati dal marxismo e dal liberalismo. 

La lotta di classe e l'internazionalismo marxista corrompevano, attraverso i partiti della sinistra, le masse lavoratrici fiaccandone il senso di appartenenza nazionale. Il liberalismo, come tipica espressione dell'ideologia borghese, era anch'esso responsabile della corruzione della nazione con i suoi appelli alla competizione - economica e partitica - e all'individualismo. Ma la sintesi estrema del "nemico" era l'ebraismo, da cui, secondo Hitler, discendevano in fin dei conti il liberalismo, la democrazia e il marxismo. Collegato con il capitalismo plutocratico delle nazioni responsabili del trattato di Versailles e con il bolscevismo sovietico, l'ebraismo era come un Giano bifronte - capitalista e comunista al tempo stesso - che complottava contro la Germania. E per assicurare un futuro alla nazione, l'unica chance era eliminare i nemici, e con essi l'istituzione parlamentare, per sostituirvi un nuovo Reich privo di conflitti interni, con una struttura rigorosamente gerarchica, razzialmente puro e capace di espandere la sua potenza a est:

HITLER ALL'ATTACCO

  "... mettiamo fine alle continue puntate dei germanici verso l'Europa meridionale e occidentale - scrisse Hitler nel "Mein Kampf" -, per rivolgere lo sguardo alle terre d'Oriente. Una volta per tutte liquidiamo la politica coloniale e mercantile del periodo prebellico, e facciamo nostra la politica territoriale del futuro". Non si può certo dire che, già a metà degli anni Venti, tutti gli obiettivi politici nazionalsocialisti non fossero stati enunciati con estrema chiarezza.
Nel dicembre del 1924 Hitler uscì quindi di prigione con in mente una nuova strategia per il partito. Fallita l'ipotesi di una insurrezione violenta e forte dell'esempio mussoliniano, che aveva conquistato il potere senza colpo ferire e anzi ottenendo direttamente il mandato dal re, decise che la via da seguire era quella della legalità. Pur non rinunciando alle formazioni paramilitari, Hitler, aiutato dal già allora fido Joseph Goebbels, (VEDI PAGINE DEDICATE) si mise all'opera per ottenere il più alto numero di consensi al suo partito. Riuscì così ad accattivarsi le simpatie della piccola borghesia e degli ex combattenti facendo leva sul nazionalismo, di alcuni capitalisti per le istanze autoritarie e dirigiste contenute nel programma, di lavoratori e disoccupati delusi da socialdemocratici e comunisti. Insomma, le sue possibilità di successo erano strettamente legate a una contemporanea perdita di fiducia del popolo tedesco nei confronti della democrazia. E la crisi del 1929, acuendo le tensioni latenti, giunse in soccorso al nazismo.

Hitler, da parte sua, riuscì a stringere alleanze con i partiti nazionalisti e conservatori riuscendo però a mantenere ampi margini di manovra. Come ha scritto lo storico Joachim Fest: "L'alleanza fu il primo successo di una serie di trionfi tattici, ai quali si deve in notevole misura se Hitler è riuscito a progredire e alla fine a raggiungere il proprio obiettivo. La sua straordinaria capacità di farsi un'idea precisa delle situazioni, di penetrare l'intrico degli interessi, di cogliere le debolezze, di dar vita a coalizioni momentanee, in una parola la sua sensibilità tattica, resa vieppiù efficace dalla capacità di persuasione, ne ha favorito l'ascesa in misura almeno pari al suo talento oratorio, agli aiuti fornitigli dalla piazza, dagli industriali e dall'apparato giudiziario dello stato, oltre che alle azioni terroristiche delle camice brune".

LA REPUBBLICA SI SGRETOLA 

Gli iscritti al NSDAP (partito nazionalsocialista), che nel 1928 erano poco meno di 100.000, nel 1930 balzarono repentinamente a 400.000, per raggiungere il milione e mezzo nel 1932. Nelle elezioni del 1928 il partito aveva raccolto il 2,6 per cento dei suffragi, ma nelle elezioni del 1930 ottenne addirittura il 18,3 per cento. Il governo Brüning non aveva una maggioranza parlamentare stabile e omogenea al punto da consentirgli di affrontare di petto la crisi economica e l'instabilità politica. Il suo programma di aumento delle imposte e di tagli rigorosi alla spesa pubblica, varato nel 1930, non fu accettato dal Reichstag; così per cercare di attuarlo fu costretto a ricorrere all'articolo 48 della costituzione, che permetteva di governare per decreto-legge anche senza l'appoggio delle camere.
In cerca di una nuova maggioranza, Brüning indisse le elezioni per il settembre del 1930: svoltesi in un clima di crisi economica e di furiosa propaganda di destra contro l'istituzione stessa della Repubblica, queste elezioni si risolsero, come abbiamo già visto, in un grande successo dei nazisti (18,3 %) ma anche dei comunisti (13,1 %), mentre i socialdemocratici si confermarono pur sempre il più forte partito con il 24,5 per cento dei suffragi. La compagine governativa non guadagnava però in stabilità e il governo Brüning si trovò costretto a vivacchiare come prima.
Oltre alla debolezza di Brüning, un ulteriore segno di disfacimento fu costituito dalle elezioni presidenziali dell'aprile 1932. L'ottantaquattrenne feldmaresciallo Hindenburg si lasciò convincere a ripresentare la candidatura. Dopo un testa a testa con Hitler, ne uscì vincitore con il 53 per cento dei voti contro il 37 per cento del leader nazista. L'indice della debolezza della Repubblica era però nel fatto che questo antico e ormai decrepito rappresentante della Germania imperiale ("Hindenburg appare terribilmente vecchio - scrisse Brüning in quel periodo -... Del suo modo di presentarsi mi hanno impressionato la stanchezza e la goffaggine"), già candidato dei conservatori nel 1925, fosse ormai l'unica speranza cui potessero aggrapparsi i partiti democratici. Nulla appariva più sicuro, tutto sembrava possibile.

UN GOVERNO TRABALLANTE 

Poco più di un mese dopo, nel maggio 1932, cadeva il governo Brüning. Ormai decisamente impopolare ai suoi stessi sostenitori, di fronte al dilagare della violenza delle SA - le camicie brune di Ernst Röhm che costituivano il braccio armato del partito nazista - uno dei suoi ultimi atti fu almeno quello di proibire le associazioni paramilitari nazionalsocialiste. 
Dal governo von PAPEN a quello Schleicher: l'agonia prima di Hitler. Franz von Papen, secondo l'ambasciatore francese a Berlino, aveva "la caratteristica di non essere preso sul serio né dagli amici né dagli avversari", tuttavia era un nobile cattolico nelle grazie di Hindenburg e delle alte sfere dell'esercito, e ciò bastava. von Papen giunse a un modus vivendi con l'opposizione parlamentare nazista in cambio della promessa di nuove elezioni e della cancellazione delle misure anti-SA varate in extremis dal governo precedente. All'atto del suo insediamento a cancelliere, nel giugno del 1932, sciolse quindi le camere e si produsse in un discorso che suonava come una concessione alle idee e al linguaggio dei nazisti. Nella stessa ottica, sciolse il governo socialdemocratico prussiano che chiedeva energiche misure contro le violenze naziste.

Le elezioni tenutesi un mese dopo, segnarono un ulteriore trionfo nazista, il cui partito ottenne più di 13 milioni di voti, passando dal 18,3 al 37,4 per cento e diventando il più forte partito tedesco. Sulla falsariga del già fallimentare esempio italiano, von Papen era convinto che affidando ai nazisti una funzione di governo, sarebbe stato possibile stemperarne la carica rivoluzionaria e controllarne meglio le azioni. Decise quindi di offrire a Hitler il posto di vicecancelliere, ma questi rifiutò sdegnosamente. Hitler puntava ormai alla posta completa. Nei mesi successivi fu tutto un susseguirsi di manovre e di intrighi di von Papen per cercare di rinsaldare la maggioranza facendo a meno dei voti del partito nazista.

SI GIOCA L'ULTIMA CARTA 

Come ultima carta sciolse nuovamente il Reichstag e indisse ancora nuove elezioni per il novembre di quello stesso anno. I nazisti subirono una sconfitta, perdendo circa due milioni di voti, ma a rafforzarsi non furono i partiti moderati bensì l'altra ala estrema - altrettanto ostile alla Repubblica -, cioè il partito comunista. Nazisti e comunisti assieme, con poco più della metà dei seggi, potevano rendere vana qualsiasi formula di coalizione. Il margine di manovra per creare un saldo governo nell'ambito degli schieramenti democratici era ormai praticamente nulla. Papen fu così costretto a dimettersi. A sostituirlo venne chiamato, il 2 dicembre 1932, il generale Kurt von Schleicher. Senza una vera maggioranza alla Camera, senza l'appoggio dell'opinione pubblica del paese e con un programma fumoso e poco incisivo, il suo cancellierato era destinato a vita breve. Intanto, però, Hitler aveva preso contatti privati con Papen, che covava sentimenti di astio e rivalità nei confronti di Schleicher. 
In seguito a pressioni di von Papen sul vecchio Hindenburg - il quale da parte sua nutriva ben poca simpatia per Hitler - si suggerì di affidare il mandato al leader nazista. La speranza dei conservatori era di riportare, attraverso questa via, i nazisti nella legalità. 

Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler, come capo del partito di maggioranza, venne legalmente nominato cancelliere di un governo di coalizione. Von Papen, improbabile cane da guardia della Repubblica di Weimar, fu nominato vice-cancelliere.
La politica "legalitaria" di Hitler aveva dato i suoi frutti. In fondo il nuovo governo poteva ancora essere presentato come un successo di Papen in quanto comprendeva solo tre ministri nazisti. Ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato. 

Con le elezioni successive, nel marzo 1933, - orchestrate dalla propaganda di GOEBBELS e funestate dall'incendio del Reichstag, che fornirà a Hitler il pretesto per introdurre leggi eccezionali e liberticide - seguite dal conferimento dei pieni poteri al cancelliere, la Repubblica di Weimar era storicamente finita. Gli studiosi e gli stessi personaggi politici che ne vissero l'esperienza, si sono in seguito più volte interrogati sui perché del fallimento della Repubblica di Weimar.

PERCHÉ WEIMAR CROLLÒ? 

Alcuni hanno addossato le colpe al clima di rancoroso nazionalismo creato dal trattato di Versailles, altri alla presenza di due grosse forze sinceramente antirepubblicane e antidemocratiche come il partito comunista di ispirazione bolscevica e il partito nazionalsocialista. Taluni hanno preferito vedervi il complotto di industriali, Junker e militari, oppure addossare tutto a una congenita tendenza antidemocratica dei Tedeschi. 
Tutte queste cause, assieme ad altre ancora, hanno in misura diversa contribuito all'eclissi del primo esperimento repubblicano in Germania. Tuttavia è difficile individuare in una sola di queste la causa fondamentale, cioè il vizio di origine che ha minato il sistema.
Tanto più che l'apparato dello stato è riuscito a resistere egregiamente ai tentativi rivoluzionari e golpisti tra il 1919 e il 1923 ma non ha poi saputo opporsi alla conquista legale del potere da parte del nazismo. Insomma, la Repubblica di Weimar si è dimostrata solida in situazioni d'emergenza, quando ha dovuto lottare corpo a corpo contro un nemico manifesto, ma si è dimostrata debole e vulnerabile nell'ordinaria amministrazione e di fronte all'insidia di avversari subdoli.

Possiamo quindi cercare di individuare sommariamente alcuni aspetti che più di altri hanno avuto un peso nel crepuscolo weimariano: i partiti, elemento fondamentale di una democrazia parlamentare, non riuscirono, per la loro esasperata ideologizzazione, ad applicare la logica democratica dell'accordo e del compromesso; il pagamento dei danni di guerra contribuì a rafforzare l'inflazione e la crisi economica nell'immediato dopoguerra e nel 1929; le mutilazioni territoriali stabilite a Versailles e l'attribuzione della colpa dello scatenamento della grande guerra posero le basi emotive per la nascita del nazismo, ma bisogna anche aggiungere che queste sedimentarono in una sorta di nazionalismo strisciante un po' in tutti i partiti politici.

OCCASIONE MANCATA 

Non va dimenticato inoltre che: la nascita della Repubblica dalla sconfitta consentì alla propaganda di estrema destra di stabilire l'uguaglianza: Repubblica=Tradimento del popolo e della nazione; il ceto medio e più in generale i lavoratori, cioè l'85 per cento della popolazione, non si sentivano attaccati all'istituzione repubblicana quanto invece ai propri partiti di appartenenza. Ne derivarono atteggiamenti intransigenti e impossibilità di creare maggioranze stabili. Per questo motivo la Repubblica di Weimar è stata definita "la repubblica senza repubblicani"; il sistema elettorale proporzionale, oltre a favorire la frammentazione dei partiti favorì gli estremismi. Un sistema maggioritario con ballottaggi avrebbe forse consentito una maggiore convergenza verso il centro; gli apparati burocratico, giudiziario e militare, cioè gli strumenti fondamentali dello stato, non avevano fatto in tempo a democratizzarsi.
La Repubblica di Weimar è ancora oggi per i tedeschi, forse più ancora del nazismo, una eredità con cui fare i conti. Soprattutto perché è stata una grande occasione sprecata, un appuntamento mancato con la storia, rivelatosi gravido delle peggiori conseguenze. E per tutti noi la sua parabola rimane come un ammonimento esemplare: una repubblica priva di consenso, o comunque accettata da tutti con riserva, è giocoforza destinata a seppellire sé stessa.

 

ALESSANDRO FRIGERIO

Storiologia ringrazia per l'articolo 
FRANCO GIANOLA, 
direttore di Storia in Network

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