ANNO 1967
( riepilogo storico )

LE GUERRE IN MEDIO ORIENTE
(quella degli Israeliani: "LAMPO", dei "SEI GIORNI")

"DISTRUGGERE ISRAELE"
Nel giugno del 1967 il dittatore egiziano Nasser si prepara a realizzare il suo sogno.

Ma il piccolo Paese Israeliano reagisce fulmineamente prevenendo l'attacco dell'avversario con…

QUELLA GENIALE GUERRA
DEI "SEI GIORNI"

di FERRUCCIO GATTUSO

"Quello israeliano è un esercito, oserei dire, western, che eccelle proprio nella specialità degli eroi western: quella di battere sul tempo l'avversario nell'estrarre la pistola dalla fondina". Con la solita grande efficacia, ricorreva a queste parole Indro Montanelli, nel giugno 1967, per descrivere l'impressionante vittoria riportata da Israele nella Guerra dei Sei Giorni. E proprio come i pistoleri dell'epopea del West, in quelle sfide letali nella polvere, Israele non poteva certo permettersi la "seconda" mossa.
Dietro l'attacco aereo dei caccia con la stella di David sulle postazioni egiziane, il 5 giugno 1967 alle ore 7.45, c'erano decenni di tensioni politiche e terroristiche, di boicottaggi commerciali, e quando, nell'ultima settimana di maggio di quell'anno fatidico, il leader egiziano Nasser ordinò la chiusura dello stretto di Tiran - per Israele strategico sbocco al Mar Rosso a sud della penisola del Sinai - fu immediatamente chiaro che lo stato israeliano avrebbe reagito. Questo atto da Tel Aviv era sempre stato considerato alla stregua di una dichiarazione di guerra.

Ciò che sarebbe nato fu un conflitto inedito, una blitz krieg capolavoro che avrebbe mutato la stessa percezione dello stato di Israele nel mondo. La "piccola isola in un mare di ostilità", nella definizione di Robert E. Hunter, ora si imponeva come una potenza efficiente, determinata a resistere contro i milioni di arabi ostili ai confini (confini senza difese naturali). "Fu una guerra - scrive Lorenzo Cremonesi in
Sei giorni che cambiarono il Medio Oriente - che trasformò la tradizionale percezione israeliana da essere un minuscolo Paese accerchiato, sempre sull'orlo di subire un secondo Olocausto, a forte potenza regionale in grado di occupare un piccolo impero".

Purtroppo, da quella entusiasmante vittoria sarebbe fiorito anche il virus di un nazionalismo acceso, intransigente quanto quello arabo che si riprometteva di "ributtare gli ebrei a mare".
Già da quel primo attacco su 19 basi aeree egiziane diffuse tra il delta del Nilo, il Sinai e i territori vicino alla capitale, il Cairo - impressionante per efficienza militare, progettato nei minimi particolari (gli aerei israeliani al momento dell'attacco, con il sole alle spalle che disturbava la vista di chi doveva difendersi da terra, conoscevano le più piccole abitudini dei piloti nemici: lo scambio delle ronde aeree, il momento della colazione, etc…) - si comprese come Israele avrebbe combattuto, fino all'ultimo, la propria lotta per l'esistenza.
In meno di tre ore quasi tutti gli aerei da combattimento dell'Egitto vengono distrutti, dopodiché comincia la campagna di terra. Tre giorni dopo, l'8 giugno, le brigate meccanizzate guidate dal generale Tal sono nei pressi del canale di Suez, e da qui cominciano a bombardare porto Said ed Ismaila. Alla fine di quella guerra unica nel suo genere, e che sarebbe stata studiata con attenzione nelle accademie militari di tutto il mondo, gli israeliani lasciavano 300 soldati sul campo, a fronte di 15.000 nemici uccisi, 5000 prigionieri e la cattura di 10.000 mezzi arabi.

Israele, piccola isola in un mare di ostilità: la nascita Il Medio Oriente, per sua collocazione e conformazione geografica, è sempre stata un angolo di mondo caldo: strategico ponte tra continenti - Asia, Europa ed Africa - e tra mari (Mediterraneo e Mar Rosso), il controllo del Medio Oriente garantisce eccezionali potenzialità offensive. Quasi tutto deserto, esso permette veloci manovre militari che non incontrano alcuna barriera naturale.
Per ironia della sorte, in questa zona calda del mondo, dove si sono mossi guerra i più svariati popoli, dai romani, agli ottomani, ai guerrieri crociati e turchi, arabi ed ebrei hanno saputo vivere in pace e reciproca tolleranza per secoli. La terra di Palestina, poi, è la culla di entrambe le civiltà: nei rispettivi testi sacri c'è la convinzione di avere in questo posto il proprio destino. Dal patriarca Abramo discendono i due figli padri dei due popoli, Isacco per gli ebrei, Ismaele per gli arabi. Se nella Bibbia il Signore promette questa terra al popolo di Israele, nel Corano Allah la promette ai discendenti di Ismaele.

La Palestina, dopo le ripetute diaspore degli ebrei (ad esempio quella, colossale, del 70 d.C. ordinata dall'imperatore Tito, e che portò alla distruzione del Tempio di Gerusalemme) divenne ai loro occhi un luogo del mito: dispersi per tutto il mondo, nei secoli gli ebrei non hanno mai smesso di pensare ad un ritorno ad Eretz Israel (Terra di Israele), evocandola nelle preghiere e nelle canzoni popolari.
Questa utopia comincia ad assumere i contorni della realtà più o meno alla metà del XIX secolo, quando prende forma il movimento di pensiero del sionismo: nato durante gli ultimi anni della dominazione ottomana della regione, questo ideale promosse dapprincipio il ritorno in Palestina e successivamente la nascita di un vero e proprio stato ebraico in questa terra. Il nome del movimento veniva dal monte Sion di Gerusalemme, città santa deputata ovviamente ad essere la capitale del futuro stato. Fiorito in Europa orientale e centrale, dove gli ebrei vivevano una difficile vita di ghettizzazione, il sionismo prometteva agli ebrei la fine del nomadismo e il ritorno a casa.
Il sionismo convinse molti ebrei a tornare in Palestina, soprattutto coloro che, sotto il pugno dello Zar russo, si trovavano periodicamente oggetto di pogrom. Ovviamente, dietro l'attività sionistica c'erano importanti sovvenzioni dei ricchissimi e potenti ebrei europei e americani.

All'inizio del Novecento, la presenza ebraica in Palestina cominciò a creare problemi non solo agli arabi ma alle stesse potenze occidentali che qui esercitavano una forte influenza. Il governo britannico, ad esempio, cercò di trovare, come dire, un'altra sistemazione agli ebrei! Nel 1902 il Ministro delle colonie Joseph Chamberlain arriva infatti a proporre agli ebrei una patria in frica, più precisamente in Uganda, Africa centrale: benché alcuni sionisti avessero clamorosamente accettato, fu chiaro sin dall'inizio che questa proposta non poteva vedere la luce.

È sul finire della prima guerra mondiale che nasce il germe del conflitto tra arabi ed ebrei. Nel dicembre 1917, infatti, i britannici sconfiggono gli ottomani e conquistano Gerusalemme. Da questo momento cominciano eccezionali pressioni da parte di alcuni influenti personaggi ebrei per ottenere la terra. Su tutti, il dottor Heim Weizmann che fa formale richiesta al Ministro degli esteri britannico Balfour. Polacco divenuto cittadino britannico, Weizmann aveva messo denaro e influenza al servizio del Regno Unito nell'ultimo conflitto e ora, come si dice, batteva cassa. D'altronde Londra, attraverso le parole dello stesso Balfour, almeno ufficialmente, vedeva "con favore l'instaurazione in Palestina di una patria nazionale per il popolo ebraico". Questa dichiarazione, passata alla storia come Dichiarazione Balfour, è considerata dagli ebrei uno dei mattoni fondamentali della nascita dello stato di Israele. Fu la Dichiarazione Balfour, infine, la scintilla che diede il via all'annoso e sanguinoso conflitto tra arabi ed ebrei. Dalla fine degli anni dieci, quindi, la parola fine calava sui buoni rapporti tradizionali tra i due popoli, che avevano visto addirittura una perfetta intensa tra il 500 e il 1300 d.C.

La Dichiarazione, sostenuta e approvata dalla Società delle Nazioni, metteva gli arabi in un angolo: disordini nacquero nella primavera del 1920 e nella successiva del 1921: dimostrazioni arabe antisioniste portarono all'uccisione di una cinquantina di ebrei. Nell'estate del 1919 uno scontro religioso nelle vicinanze del Muro del Pianto (l'unica parte del Tempio rimasta in piedi dopo la devastazione dei romani, ndr) aveva causato la morte di 133 ebrei e di 116 arabi. Fu subito evidente che la soluzione sarebbe apparsa solo dopo la costituzione di due stati indipendenti, e cioè che la Palestina avrebbe dovuto essere divisa in due. Frattanto, l'immigrazione in Palestina aumentava anche in seguito alle persecuzioni antisemite in Europa ad opera dei nazisti.

La Seconda guerra mondiale portò ulteriori divisioni tra gli ebrei (vittime predestinate del nazismo e quindi naturaliter alleate delle potenze occidentali opposte ad Hitler) e gli arabi, generalmente schierate coi nazisti.

Negli anni della guerra si formò in Palestina una sorta di esercito ebraico clandestino, l'Haganah: formazione temibile ed efficiente, lcollaborò con gli inglesi in chiave antinazista, per tornare in clandestinità una volta che le sorti del conflitto apparivano favorevoli agli Alleati. La sconfitta del folle antisemita Hitler portò nuova fiducia e forza alle organizzazioni sioniste, che cominciarono, nonostante i divieti dei governi occidentali, a far approdare in Israele migliaia di profughi europei. Gli arabi non potevano certo stare a guardare. Nel marzo 1945 sette stati arabi si alleano nella Lega Araba, il cui scopo è riuscire a promuovere il panarabismo e il riottenimento di tutta la Palestina. La Lega Araba avviò una politica antisionista e di boicottaggio commerciale degli ebrei.

Ovviamente, le potenze occidentali si vedevano nell'occhio del ciclone: soprattutto la Gran Bretagna, pressata dalla Lega Araba e dagli influenti personaggi filosionisti delle più varie nazionalità, pensò che la soluzione potesse essere affidata all'ONU. La quale propose la fine del mandato britannico sulla Palestina e la divisione di questa in stati separati arabo ed ebraico, con Gerusalemme sotto statuto internazionale. La spartizione, però, non poteva soddisfare gli arabi, che vedevano andare il 55% della terra a 678.000 ebrei (ma non si può non mettere in evidenza che in questa terra c'era il deserto incolto del Negev) e il restante 45% a 1.269.000 arabi. Scontri armati si susseguirono a Gerusalemme e a Jaffa.

Nella prima gli ebrei vivevano letteralmente assediati: in questo scenario una spettacolare azione (l'Operazione Nachson, dal nome del primo ebreo che si era gettato nel Mar Rosso inseguito dagli egiziani) dello Hagannah, comandato da David Ben Gurion attirò l'attenzione del mondo: 1500 uomini perfettamente addestrati riuscirono a rompere l'assedio, riuscendo a rifornire gli ebrei a Gerusalemme di armi. A Tel Aviv era nato un governo provvisorio, ai confini della Palestina si ammassavano forze giordane, egiziane, irachene, siriane e libanesi. In questa situazione drammatica di emergenza il governo di Tel Aviv affermava, il 14 maggio 1948 (il giorno prima del termine ufficiale del mandato britannico sulla Palestina), la Dichiarazione d'Indipendenza: nasceva lo stato di Israele, con Ben Gurion come Primo ministro. Quasi immediatamente, il governo americano (presieduto da Harry S. Truman) riconosceva ufficialmente il nuovo stato, un cuneo "occidentale", fermamente alleato degli Stati Uniti, nel Medio Oriente dominato da stati autoritari arabi. Il 16 maggio Israele chiedeva l'ammissione all'ONU e quasi subito dopo anche l'Urss, obtorto collo, accettava il nuovo stato.

Nulla di tutto ciò poteva essere minimamente accettato dagli arabi, che attraverso la Lega annunciarono la guerra: le forze arabe entravano facilmente in Gerusalemme occupando il quartiere ebraico entro la città vecchia. A questo punto l'ONU, di fronte al fallimento totale dei suoi progetti, non poté che rifugiarsi nella mediazione diplomatica. Il breve armistizio che si realizzò tra l'11 giugno e il 9 luglio lo si deve all'attività di mediazione del diplomatico svedese Folke Bernadotte, incaricato dalle Nazioni Unite. Alla ripresa dei combattimenti, Israele aveva potuto rifornirsi di armi e riportò diverse vittorie, conquistando l'aeroporto di Lydda e Nazareth.

Nuovi tentativi di Bernadotte portarono ad una successiva breve tregua, interrotta dall'assassinio del diplomatico svedese. La travolgente avanzata delle forze israeliane in territorio nemico (l'Operazione Dieci Piaghe cominciata il 14 ottobre), fece sì che le bandiere con la stella di David sventolassero fino ai confini della Striscia di Gaza e nel cuore della penisola del Sinai, e che l'intero deserto del Negev finisse in mano agli israeliani. Questa avanzata terminò solo per volere di Israele, per ordine di Ben Gurion che venne convinto ad interrompere l'azione da Truman in persona. Gli egiziani prima, e il resto degli arabi successivamente, con eccezione dell'Iraq, si affrettarono a chiedere un armistizio: quando lo firmarono, Israele aveva conquistato quasi cinquemila chilometri quadrati di territorio, estendendo di un terzo il proprio territorio. L'amministrazione della Città Vecchia finiva in mani giordane, mentre a Israele sarebbero spettati i quartieri occidentali e meridionali.
Benché la cessazione del conflitto fosse cosa fatta, i paesi arabi non smisero di promuovere una politica violentemente anti-israeliana, progettando boicottaggi economici verso il paese intruso e verso qualsiasi organizzazione che commerciasse con esso. L'Egitto sarebbe passato ad un vero e proprio embargo e alla chiusura del canale di Suez alle merci israeliane.

"A fare le spese della sconfitta araba - spiega Robert J Donovan Nel suo Israele - Sei giorni per sopravvivere - furono soprattutto gli 800.000 profughi musulmani che, in seguito alla guerra del 948, avevano abbandonato la Palestina; mentre questi infelici continuavano a marcire per mesi, per anni, nei campi di raccolta sotto il patrocinio dell'ONU, i capi arabi si rifiutavano di permettere il ritorno in Israele di queste viventi testimonianze della sconfitta".
Alla fine di maggio, Israele si dava un sistema democratico: le prime lezioni decretano la formazione del Knesset (il parlamento monocamerale israeliano) e l'elezione del Presidente (Weizzmann) e del Primo ministro, nell'occasione anche Ministro della Difesa, Ben Gurion.
Gli arabi, che si erano rifiutati ufficialmente di firmare un vero e proprio trattato di pace, attendevano nell'ombra la rivincita. "Nel frattempo - scrive sempre Donova - la distruzione di Israele era divenuta articolo di fede del credo arabo: non c'era capo arabo che potesse sperare di mantenersi al potere senza tener conto della pretesa delle masse, che gli israeliani fossero buttati a mare. Le forze armate del nuovo stato dovevano così rimanere con l'arma al piede: Israele era circondato da tutti i lati da vicini ostili, apparentemente ben decisi a cancellare il nuovo stato dalle carte geografiche".

Il Medio Oriente, pedina della Guerra Fredda Ovviamente un teatro caldo e ricco di interessi strategici come il Medio Oriente non poteva restare fuori dalle sfide della Guerra Fredda. Con la fine della Seconda guerra mondiale le potenze occidentali (soprattutto la Gran Bretagna) videro smontare pezzo per pezzo i propri possedimenti coloniali nella regione. Nuovi stati e nuove istituzioni nascevano e, come scrive Donovan, "fecero la loro apparizione sulla scena politica nuovi capi, portatori di concezioni inedite e di nuovi, ambiziosi piani; nell'odio per Israele, costoro vedevano l'elemento fondamentale per la costruzione di un'unità araba, per quanto deleterie potessero essere le conseguenze; forse si sarebbe potuto giungere a una nuova moderna confederazione, una riedizione del sogno del trionfo islamico, che aveva cessato di essere di attualità da quando, nel 1193 d.C., il Saladino era morto".
Un nuovo Saladino sembrò apparire all'orizzonte con l'approdo al potere, in Egitto, di Gamal Abdel Nasser. Nasser fu, per molto tempo, una delle figure attorno alla quale si raccolse la colorita e multiforme galassia del panarabismo, tenuta insieme dall'odio per Israele. Nasser fu anche una pedina importante nella Guerra Fredda, vedendo nell'alleanza con l'Unione Sovietica un'arma per poter mettere nell'angolo le potenze occidentali e puntare alla distruzione di Israele.
Tra i maggiori responsabili dell'escalation che portò alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 (come vedremo nella seconda puntata, ndr), Nasser fu anche un leader utile al suo paese: durante il suo dominio assoluto l'Egitto aveva guadagnato un certo peso sulla scena internazionale e aveva imboccato la strada della modernità. Nato a Beni Mor il 15 gennaio 1918, Gamal Abdel Nasser crebbe in una famiglia della classe media, figlio di un funzionario delle poste. In giovane età, Nasser frequenta l'Accademia Militare di Stato e a 19 anni, dopo gli studi e l'addestramento, entra nell'esercito. Qui ha modo di mettere subito in evidenza le proprie innati doti di leader, capace di prendere decisioni e di imporle ai suoi uomini. Negli anni Quaranta, ancora giovanissimo, Nasser ha già creato una cricca di giovani ufficiali pervasi come lui dall'utopia di un rilancio imperiale dell'Egitto.

Il conflitto con Israele del 1948 convinse Nasser e i suoi della necessità di esautorare Faruk e prendere le redini del paese. Il 23 luglio del 1952 un colpo di stato organizzato da Nasser depone Faruk e mette ai massimi vertici Mohamed Neguib, in realtà un fantoccio nelle mani del "Rais", come lo chiamavano i suoi. E difatti due soli anni dopo Nasser fa arrestare Neguib e prende il potere in prima persona. Da questo momento l'Egitto volta pagina: Nasser cerca di edificare nel proprio paese un sistema di stampo socialista, marcato da un'attenta nazionalizzazione dei mezzi di produzione e una altrettanto decisa industrializzazione che trasformasse la società prettamente agricola egiziana. La sua Filosofia della rivoluzione ha come punto cardine la distruzione di Israele e promette un fulgido futuro per le masse arabe. "Ho dato la dignità al popolo egiziano", scriveva Nasser; e in effetti l'Egitto prima di lui era diviso tra un'oligarchia possidente e latifondista e sterminate masse di poveri analfabeti.

La politica di Nasser, di fronte alle difficoltà economiche del paese, si volge contro le potenze occidentali che in passato, a suo dire, avevano sfruttato i paesi arabi. La scelta di campo avviene quindi a favore del rivale degli occidentali, l'Unione Sovietica. Non solo: Nasser userà il proprio prestigio per influenzare le masse arabe di altri paesi del Medio Oriente, condizionando l'azione di quei regimi (come ad esempio quello giordano).
Uno dei punti di forza del suo programma era la costruzione di una imponente diga sul Nilo, presso Assuan. Essa avrebbe dovuto fornire elettricità e irrigazione utili alla messa a coltura di parte del deserto. Per la realizzazione di quest'opera si offrirono sia USA che URSS, ma l'anti-occidentalismo acceso di Nasser fece in modo che gli americani si ritirassero dal progetto. Il ritiro di un prestito di 56 milioni di dollari da parte dell'America scatenò Nasser, che nazionalizzò il canale di Suez, minacciando il libero transito dei commerci. Le entrate del canale sarebbe servite a finanziare la diga di Assuan.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, i tre principali azionisti del canale di Suez, non potevano stare a guardare. Tra la fine di ottobre e i primi di novembre 1956 Israele attaccava ( vedi qui la guerra cosiddetta "Di Suez") in seguito a continui scontri di frontiera, il Sinai arrivando fino a Sharm el Sheik, sul golfo di Aqaba, e truppe inglesi e francesi raggiungevano Suez via mare e via cielo. A questo punto gli Stati Uniti, facendo pressioni in sede ONU, riuscirono a far ritirare sia le forze israeliane che anglo-francesi, convinti che la diatriba potesse essere risolta pacificamente.

"Gli arabi . scrive Donovan - è vero erano stati nuovamente sconfitti, ma ciononostante Nasser ne usciva con l'aureola di eroe: egli apparve la vittima dell'aggressione delle grandi potenze, e come tale fu visto sia dagli egiziani sia, in generale, dagli arabi del Medio Oriente. Indubbiamente, l'esercito egiziano si era rivelato non meno inetto che sotto Faruk; gli israeliani l'avevano completamente sgominato, ma Nasser poteva proclamare che a far tracollare la bilancia dalla loro parte erano state Gran Bretagna e Francia, poteva esigere che gli si offrisse l'occasione di riaprire la partita con Israele".
L'avvicinamento all'URSS si fa intenso giorno dopo giorno: i sovietici erano di conseguenza ben felici di possedere un alleato che facesse cuneo nel mondo arabo, e cominciarono a rifornire l'Egitto di armi, addestrando i suoi ufficiali. I rivali di Nasser - re Hussein di Giordania e re Feisal dell'Arabia Saudita - non potevano prendere chiaramente posizione contro Nasser, troppo popolare anche trai propri sudditi, blanditi con il sogno di un Comando Arabo Unito, la riunione sotto un'unica divisa e un unico comando di tutte le forze arabe, per pervenire alla guerra contro Israele entro il 1970. Dal canto suo, Nasser aveva un grande bisogno di dare una spolverata al proprio prestigio, dopo l'umiliazione nel Sinai da parte degli israeliani e dopo le figuracce in Yemen, dove i soldati egiziani (sessantamila) non riuscirono a sconfiggere le bande irregolari che difendevano il trono di quel paese dalle interferenze egiziane.

L'amicizia sempre più stretta tra Egitto e Unione Sovietica indusse gli americani a creare un blocco rivale, chiamato bastione settentrionale e del quale facevano parte Turchia, Iraq, Iran e Pakistan, volto a contenere gli interessi sovietici. Il bastione venne quasi immediatamente indebolito dal colpo di stato, il 14 luglio 1958, in Iraq: il generale Abdul Karim Kassim, infatti, rovesciava e ordinava l'assassinio di re Feisal, portando il paese su posizioni socialiste filo-sovietiche. La tensione saliva in Medio Oriente, ma di questo Nasser non poteva che rallegrarsi: il colosso sovietico era un fedele alleato, che aveva nel frattempo rotto ogni rapporto con Israele, e le forze arabe andavano organizzandosi per lo scontro. Intanto, negli anni Sessanta, si sviluppava l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), fondata dall'avvocato palestinese di estrema sinistra Ahmed Shukairi.
Formata dagli stessi profughi palestinesi e addestrata militarmente, l'OLP avrebbe condotto una guerra "fino alla cancellazione di Israele dalla faccia della terra", riportando i profughi nelle loro case. Nasser stava perdendo, lentamente ma inesorabilmente, le redini del panarabismo. Negli scontri continui tra guerriglieri giordani e israeliani, il leader egiziano si manteneva in disparte, facendosi scudo dietro le forze di emergenza delle Nazioni Unite, che pattugliavano dal 1958 il confine egiziano con Israele, la striscia di Gaza e l'accesso allo stretto di Tiran. Scrive Robert E. Hunter che "improvvisamente Nasser fu attaccato dagli altri capi arabi: perché non era accorso in aiuto dei giordani? Perché si riparava dietro lo scudo delle Nazioni Unite? La sua pretesa, già molto contestata, di essere il leader degli arabi doveva adesso tradursi in una opposizione attiva ad Israele". Una vera e propria guerra contro Israele avrebbe potuto rimettere le cose a posto.
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Ma la piccola Nazione gioca d'anticipo e lancia centinaia di aviogetti contro gli aeroporti del nemico

NASSER PERDE LE ALI.
ED E' LA FINE
I due fronti contrapposti.
Quando i caccia israeliani si levarono in volo il 5 giugno 1967 a spingerli nel cielo non vi era solo il carburante, ma la determinazione alla sopravvivenza. Le ali d'acciaio che si dirigevano verso le basi aeree egiziane per distruggerle in una manciata di ore planavano su mesi di tensioni, di incomprensioni non solo con gli arabi. Gli appelli di Israele al segretario generale dell'ONU, U Thant - affinché venisse compilato un elenco dei numerosissimi incidenti lungo la frontiera - erano rimasti clamorosamente inascoltati. Quelle violazioni, quegli incidenti erano stati, dal 1949, più di diecimila. Certo, non erano rimasti invendicati: le incursioni dei coloni israeliani erano altrettanto dure.

Dal mese di gennaio del 1967 lungo i confini israeliani si combatteva ricorrendo persino ai mezzi blindati: scaramucce, ma che davano indubbiamente l'impressione di una escalation drammatica. Soprattutto con la Siria, Israele si misurava in accesi scontri a fuoco: nel mese di aprile gli aerei con la stella di David abbatterono sei Mig-21 siriani. Era un'aperta dimostrazione di determinazione: da almeno due mesi Israele andava ammonendo ufficialmente la Siria di interrompere le incursioni di confine e ciò non era avvenuto neppure per un attimo. Nelle ore che seguirono l'abbattimento dei Mig siriani, chiare furono le parole del generale più prestigioso dell'esercito di Israele, Itzhak Rabin, che con Moshe Dayan sarebbe divenuto l'eroe della Guerra dei Sei Giorni: "Oggi i siriani si sono accorti di aver commesso un piccolo errore". Quell'eufemismo, quel "piccolo errore", era un assaggio di come Israele avrebbe difeso strenuamente la propria esistenza.

Le cose, dopo quella reazione israeliana, non cambiarono di molto, perché la Siria continuò nelle sue provocazioni di confine, lanciandosi attraverso i suoi maggiori esponenti politici e militari in filippiche sull'unità degli arabi e su quello che doveva essere il principale obbiettivo di questi: la distruzione dello stato di Israele. Nel mese di maggio i contatti tra i maggiori generali arabi appartenenti allo stato maggiore della RAU (la Repubblica Araba Unita, un'istituzione formale, ma dall'alto valore simbolico) si fecero più intensi: la "Guerra Santa" si avvicinava, nelle parole di quei militari, nella mobilitazione dei loro soldati, nelle dimostrazioni belliche degli eserciti arabi, come la parata di carri armati che attraversò il Cairo in quei giorni. Gli arabi mostravano i muscoli, questo era indubbio. E Israele non poteva certo aspettare il primo colpo in viso.
Il momento fondamentale che portò alla guerra fu il ritiro dei reparti ONU che presidiavano i confini di Israele, alla fine di maggio, sotto pressione dell'Egitto: i fronti opposti si mobilitavano, ed a quel punto una sola verità statistica, e quindi oggettiva, appariva agli occhi di tutto il mondo: l'inferiorità numerica (in uomini e mezzi) dell'esercito israeliano. La superiorità araba, da questo punto di vista, era letteralmente schiacciante. Eppure, la Storia, come spesso ha dimostrato, non si fa condurre esclusivamente dai numeri: dietro a quelle cifre c'erano uomini in carne ed ossa, speranze, illusioni, dolori. C'erano, in definitiva, individui e storie personali, e anche sistemi sociali differenti che si sarebbero rivelati determinanti per l'esito del conflitto.

"In questo confronto Israele - come spiega con dovizia di particolari Robert J. Donovan nel suo "Israele sei giorni per sopravvivere" - dominava sotto tre aspetti: la determinazione, generata dall'istinto di sopravvivenza (era in gioco la stessa esistenza della terra d'Israele), il grado di istruzione dei combattenti e la conseguente capacità di manutenzione dei mezzi di combattimento".

Nei paesi arabi l'analfabetismo si aggirava intorno a cifre impressionanti, dal 70% dell'Egitto in su, mentre in Israele i pochi analfabeti ebbero, nelle file dell'esercito, quell'educazione che altrimenti non avrebbero potuto ottenere. Il livello di istruzione medio dei soldati israeliani era quindi elevato, e ciò comportava una considerevole velocità nell'apprendimento delle tecniche di combattimento, nell'addestramento, e soprattutto dava ai soldati israeliani una capacità maggiore di risolvere situazioni critiche che si fossero venute a creare sul fronte di combattimento. Donovan ricorre ad un esempio illuminante: se un camion subiva un guasto al motore, il soldato israeliano poteva facilmente accedere al libretto di istruzioni; il soldato egiziano di quel libretto, essendo analfabeta, non sapeva che farsene, e in una situazione critica di questo tipo aveva due vie d'uscita: o ricordarsi la spiegazione a voce avuta dagli ufficiali durante l'addestramento, o aspettare rinforzi.

La stessa capacità di mobilitazione di Israele aveva a dell'incredibile: "Israele - scrive Donovan alla fine degli anni Sessanta - destina alla propria difesa il 10% del prodotto nazionale lordo, ammontante a circa 2500 miliardi di lire, cioè una percentuale leggermente superiore a quella parte del proprio reddito che gli Stati Uniti destinano ai loro armamenti. Perché questi investimenti rendano, Israele deve basare la propria difesa sui cittadini-soldati, i quali ricevono una paga soltanto quando si addestrano o combattono. Pochi sono i militari che vivono a spese del governo, passando il loro tempo a lustrare scarpe in una caserma, in attesa che scoppi la guerra. […] Tutti i cittadini-soldati devono essere in grado, nel giro di poche ore dalla loro chiamata alle armi, di mirare carri armati nemici attraverso il periscopio sulla torretta del proprio. […] Strano a dirsi, il sistema usato per la mobilitazione ricalca, in parte almeno, i metodi di re Salomone, vecchi di tremila anni".

Tutti in Israele compiono il servizio militare (il 10% della popolazione è in uniforme, nel 1948 era il 25%!): la leva è obbligatoria per le donne dai 17 anni e per gli uomini dai 18 anni in su: tutti sono chiamati a combattere ad eccezione della popolazione araba che vive entro i confini, della madri, delle donne in gravidanza e dei malati di mente.I riservisti compiono ogni anno giorni e giorni di addestramento. I militari professionisti sono distaccati nei punti chiave, come i magazzini di armi, medicinali, mezzi di locomozione e di vettovaglie, dove svolgono il compito di manutenzione; i riservisti devono a loro volta, nel giro di poche ore, indossare la divisa e recarsi al proprio posto di combattimento con il proprio mezzo di locomozione: ci si reca al fronte quindi con l'auto solitamente usata per andare in ufficio o in fabbrica, o con l'autobus di linea che si guida nelle strade cittadine. Velivoli e barche private sono requisite dall'esercito, così come gru, generatori, etc… "Durante la campagna del Sinai del 1956 - scrive Donovan - si sono visti camion addetti al trasporto dei gelati a Tel Aviv, mimetizzati con uno strato di fango, portare il rancio alle truppe che combattevano nel deserto".

L'esercito egiziano era tutt'altra cosa, in quei giorni del 1967: i vertici militari venivano periodicamente "depredati" dal mondo della politica, dal momento che si era in un regime militare e agli uomini con le stellette toccava anche guidare le redini del paese. Gli ufficiali, cioè, ricorrevano all'esercito semplicemente come trampolino di lancio per la piazza politica nazionale. "L'ufficiale arabo in realtà non è assetato di gloria - scrive sempre Donovan - assai di più lo attraggono i vantaggi dei consigli di amministrazione o della magistratura. Sopravvivere è per lui più importante che non combattere valorosamente". E "il soldato arabo - continua lo storico - ha in media 25 anni, è con ogni probabilità analfabeta e deluso dal mondo in cui è stato gettato, dopo essere stato strappato alla sua casa, solo per essere brutalizzato dai sottufficiali e ignorato dagli ufficiali. Una propaganda martellante gli ha ficcato in testa che deve odiare un intero popolo a causa della religione di questo, anche se probabilmente non ha mai avuto a che fare con un suo seguace. […] Addestrato all'impiego di armi di provenienza straniera [sovietica soprattutto, ndr], il soldato egiziano viene spedito nel deserto - e non va dimenticato che gli egiziani non sono genti del deserto: per secoli la loro vita ha avuto come proprio centro il Nilo, non già la sabbia e il sole delle distese aride. […] Il soldato egiziano combatte per soddisfare l'orgoglio di altri, agli ordini di terzi. Il cittadino-soldato di Israele, al contrario, non ha bisogno di propaganda, di indottrinamenti in caserma e di una particolare istruzione politica per sapere perché combatte: Israele lotta per la sopravvivenza. Al soldato israeliano assai spesso basta, letteralmente, sbirciare da sopra la spalla per scorgere la casa da difendere". E parlando della guerra del 1956, Donovan non manca di far notare che "ben pochi cadaveri di ufficiali arabi furono rinvenuti tra i corpi bruciati dal sole nelle distese del Sinai: per lo più, gli ufficiali di Nasser hanno preferito fuggire per tornare al Cairo a riprendervi la carriera. Da parte israeliana, un terzo dei caduti erano ufficiali e comandanti di unità, uccisi alla testa dei loro uomini: una situazione che si è ripetuta nel 1967".

Sopravvivere, distruzione: due parole, queste, che - per un popolo nella cui storia si agita lo spettro di Auschwitz - non sono solo ipotesi, ma assumono un orribile significato.
Date le condizioni geografiche di Israele - a sud il deserto del Negev, quindi nessuna difesa naturale, a nord le alture del Golan da dove la Siria faceva calare i propri razzi letali di fabbricazione sovietica, i famigerati Katiuscha - al popolo di David restavano due soli vantaggi, in caso di guerra: colpire per primi e scegliere le prime armi.
Rumori di guerra: l'escalation militare e diplomatica La situazione che portò alla Guerra dei Sei Giorni è caratterizzata dai giochi diplomatici di USA e URSS: ovviamente il Medio oriente era uno scacchiere fondamentale. Da parte araba si vedeva come una minaccia lo stretto rapporto tra Israele e gli Stati Uniti (temendo addirittura un partecipazione al conflitto imminente di soldati angloamericani, e di appoggio logistico per un fantascientifico rovesciamento del regime di Damasco), dalla parte opposta provocavano seria inquietudine i rapporti sempre più stretti tra l'egiziano Nasser e l'URSS (il Ministro degli Esteri Gromiko si era recato a fine marzo di quell'anno al Cairo, dove aveva avuto tre giorni di segretissimi colloqui col rais egiziano). A questo va aggiunto, però, che l'America era seriamente concentrata su un altro fronte, nel quale era coinvolta direttamente (il Vietnam), mentre l'URSS, sempre in Asia, era in pieno confronto con il "rivale rosso" cinese.

A metà maggio il fronte arabo si convince dell'imminenza di un attacco israeliano, anche per quello che si rivelerà un concorso fondamentale dei sovietici: questi avevano cioè convinto Nasser di essere in possesso di informazioni segrete che lasciavano intendere un'azione imminente d'Israele. Il 14 maggio Nasser ordinava l'invio di truppe nel Sinai. Il 16 maggio ecco la scintilla: il capo di stato maggiore della RAU, Muhammod Rawzi, chiedeva in una lettera drammatica al generale indiano Indar Jit Rikhye, comandante in capo delle forze militari dell'ONU, l'UNEF, a Gaza di ritirare i propri uomini dislocati lungo le frontiere di Israele, perché le forze della RAU stavano raggiungendo quelle postazioni. L'alto ufficiale indiano non poteva prendere alcuna decisione senza il placet del segretario dell'ONU U Thant.

A questo punto molta responsabilità cadde su quest'ultimo che reagì in modo ben poco diplomatico: U Thant infatti rispondeva a sua volta con un
ultimatum, affermando che o le forze dell'Onu rimanevano in loco o si sarebbero completamente ritirate dalla regione. Intanto le ore scorrono, e gli uomini dell'UNEF sono in pericolo: il giorno 17 maggio la tensione era altissima, ma il 18 fu chiaro che la sostituzione ai confini sarebbe avvenuta pacificamente. I soldati dell'UNEF si ritiravano completamente dalla zona.
L'errore di U Thatn fu sicuramente quello di pensare che questa piccola vittoria avrebbe placato Nasser e la RAU. In ogni caso il segretario dell'ONU partì per un viaggio al Cairo il giorno 22. Secondo molti osservatori, U Thant avrebbe dovuto muoversi prima di quel giorno: "Il segretario generale - avrebbe commentato con parole durissime l'americano Henry M. Jackson - è venuto meno a tutte le norme di coraggio, buon senso e responsabilità per aver perduta l'occasione di sentire il parere dell'Assemblea Generale, che aveva autorizzato la creazione dell'UNEF, e il parere del Consiglio di Sicurezza, onde avere il modo di pesare le opinioni degli esperti e di esplorare i vari mezzi per mantenere sul posto la presenza pacificatrice dell'ONU".

Il 23 maggio Nasser bloccava l'accesso al golfo di Aqaba nei confronti delle navi israeliane, il 24 maggio il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si riunì per la prima volta (avrebbe ripetuto quel rito inutile ,in quelle ore drammatiche, per altre cinque volte, senza trovare uno straccio di compromesso).
In Israele, intanto, la situazione politica era in febbrile movimento: il premier moderato Levi Eshkol, che aveva ricevuto la staffetta dal carismatico Ben Gurion, non appariva al popolo israeliano come la guida attorno cui raccogliersi in ore così decisive. Fautore di una politica assolutamente attendista nei confronti degli arabi, Eshkol non dava adeguate sicurezze psicologiche al paese, in quelle ore minacciose. Tutto cambiò quando, sull'onda di una vera e propria richiesta popolare, divenne Ministro della Difesa l'eroe della guerra del 1956 Moshe Dayan. "Eshkol non mi voleva vicino a sé - avrebbe commentato il carismatico guerriero dalla benda sull'occhio - Era il popolo che mi voleva ed Eshkol ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco".

Nelle ore che precedettero lo scoppio dei combattimenti il generale passò per un giro d'ispezione tra i soldati nelle linee di difesa israeliane: voleva vedere negli occhi i ragazzi che avrebbero difeso il paese, e forse proprio in quegli occhi colse la promessa della vittoria se, in quelle stesse ore, dichiarava al mondo che Israele avrebbe combattuto da solo contro tutti gli arabi, non desiderava che uomini di altri paesi "vengano qui a farsi ammazzare per difendere la nostra integrità".

Guerra! Non sono molto le occasioni in cui è possibile fare alzare dal proprio letto il Presidente degli Stati uniti alle 4.30 del mattino, ma questo accadde quando scoppiò la Guerra dei Sei giorni. A svolgere l'antipatica incombenza, l'assistente speciale del Presidente Johnson, Walt Whtiman Rostow. La storia dice che Johnson non sfoggiò particolare preoccupazione: evidentemente i referti della CIA, una volta tanto, erano stati accurati: alla casa Bianca si era convinti che, a dispetto dell'inferiorità numerica, Israele avrebbe vinto la guerra. Questo atteggiamento, però, alienò qualche simpatia al presidente democratico: per buona parte della crisi, Johnson mantenne un basso profilo, mentre l'opinione pubblica americana, e la maggioranza del Congresso, parteggiavano emotivamente per Israele. Nessuno voleva l'intervento americano (si era nei giorni della guerra in Vietnam…) ma un supporto psicologico, questo sì. La comunità ebraica negli Stati Uniti (sei milioni di cittadini) aveva il suo peso, comunque, e molti di loro erano finanziatori ed elettori del partito democratico. Priorità del governo americano era, ovviamente, non entrare in collisione con il rivale sovietico. Per intuire le mosse di mosca fu scelto un eccellente diplomatico ebreo, ambasciatore degli USA all'ONU, Arthur J. Goldberg. Costui doveva negoziare il cessate il fuoco, e ben conosceva i meccanismi mentali dei comunisti, vantando un passato di consulente sindacale.

Sul teatro delle operazioni, però, si combatteva e si moriva. All'alba del 5 giugno 1967, prima che il cielo venisse illuminato dal sole sorgente, i caccia con la stella di David decollarono diretti verso le postazioni nemiche egiziane a sud di Israele . "Non è chiaro - scrive Donovan - chi abbia sparato il primo colpo. Ognuna delle due parti accusa l'altra, ma la cosa ha scarsa importanza, dal momento che entrambe da un pezzo tendevano chiaramente allo scontro, ognuna pronta a reagire alla minima provocazione. […] Alle 8.15, Israele lanciò tre distinti attacchi contro le linee egiziane".
A nostro modesto avviso, sempre considerando l'indispensabilità del "primo colpo" fu Israele ad attaccare per primo- Il primo attacco terrestre fu nella striscia di Gaza, ma avvenne solo dopo l'operazione dai cieli. "[Ma] le prime ore della guerra arabo-israeliana non furono tanto notevoli per i combattimenti terrestri - spiega Donovan - quanto per l'azione, decisiva per le sorti del conflitto, che aveva avuto luogo nei cieli. Le forze aeree arabe furono infatti, in quelle prime ore, completamente umiliate e distrutte. Quale fosse la capacità degli arabi di condurre una guerra terrestre, la sorte delle loro armi fu segnata dall'inizio dalla distruzione del loro potenziale aereo".

All'alba del 5 giungo i caccia israeliani erano nei cieli: i Mirage e i Mystère assordarono la capitale Tel Aviv diretti verso il Mediterraneo. Come frecce letali, indistinguibili all'occhio dell'assalito per il fatto che il sole sorgeva alle spalle in quell'esatto momento, i caccia israeliani piombarono da nord e da ovest ad una quota che non si poteva immaginare così bassa. "Alla grande base aerea di Abu Sumeir - scrive Donovan - nei pressi di Ismailia sulla riva occidentale del Canale di Suez, i piloti dei Mig egiziani erano intenti a bere il caffè quando i reattori israeliani saettarono sulle loro teste, mandando a pezzi gli intercettatori allineati sulla pista". I caccia seguitarono ad attaccare tutte le basi egiziane, soprattutto le sei basi nella penisola del Sinai. In pochi minuti, quell'attacco chirurgico e preciso aveva cancellato la possibilità degli arabi di ricorrere alla guerra aerea. I piloti israeliani che avevano colpito con incredibile esattezza l'obbiettivo nemico avevano 23 anni di media. L'attacco alle basi, effettuato come detto a bassissima quota, garantiva la precisione, ma aumentava anche i rischi, per la vicinanza al nemico il quale, con armi anche leggere poteva diventare pericoloso. Per colpire il bersaglio i caccia dovevano anche rallentare la velocità, esponendosi ad ulteriori rischi.

Dopo che il caos si placò, molti furono a scrivere, sulle pagine dei giornali, sostenuti anche dalla grancassa mediatica degli arabi attoniti, che Israele era ricorso ad una supposta "arma segreta". Si parlò di "un missile aria-terra di fabbricazione americana", di una "bomba teleguidata". Eppure, non vi era nessuna arma segreta, se non l'inaudita precisione dei piloti israeliani, che in quelle ore si stavano guadagnando un prestigio mai più messo in discussione. 19 caccia israeliani vennero abbattuti, un pilota israeliano atterrò col paracadute in una cittadina di nome Zagazig, era stato raggiunto dalla folla e linciato prima di poter usare la propria pistola d'ordinanza.

Il successo israeliano fu talmente clamoroso che, forse anche in buona fede, Egitto e Giordania accusarono americani e inglesi di aver contribuito all'operazione. Tutto ciò era falso ma, come scrive Donovan, "agli occhi degli arabi appariva incredibile che la piccola aviazione israeliana nel giro di poche ore avesse spazzato dai cieli i reattori russi, assicurandosi una superiorità aerea assoluta e in pratica non minacciata da nulla". Alla sera, Israele comunicò di aver abbattuto 410 velivoli del nemico in un solo giorno. Quell'impresa, una volta appurata non essere parto della propaganda militare israeliana, entrava a far parte degli studi di tutte le accademie militari del mondo come un autentico capolavoro.
Come detto, le operazioni di terra cominciarono per prime nella zona di Gaza: reparti di fanteria e carri armati sfondarono le linee nemiche con relativa facilità, dopodiché le avanguardie israeliane si divisero in due parti: la prima a sinistra seguì la costa del mediterraneo verso El Arish, per poi raggiungere El Quantara e Ismaila sopra il canale di Suez; la seconda avanguardia tornò indietro dirigendosi verso Gaza per conquistare questo territorio dove, oltre ai profughi palestinesi, rimasero imbottigliati in una vana resistenza ben 10.000 soldati egiziani. Martedì, un solo giorno dopo l'inizio dei combattimenti, su Gaza sventolava la bandiera con la stella di David.

A sud, nella penisola del Sinai, gli errori degli egiziani favorirono gli israeliani. Scrive Donovan: "Qui il terreno era tale da favorire la creazione di una linea di difesa attraverso la penisola. Ma gli egiziani, anziché attestarsi su queste posizioni, preferirono spingersi più a est, a breve distanza dal confine di israele. Fu un errore fatale: bastò che carri armati e fanteria motorizzata israeliana sfondassero la prima linea, perché si trovassero nelle retrovie degli egiziani, i quali si videro preclusa la ritirata. L'Egitto perdette in tal modo 700 carri armati T.54 D (noti anche come t-55) nuovi di zecca, catturati per lo più in perfette condizioni di impiego]".
Le truppe israeliane arrivarono a questo punto con facilità allo stretto di Suez, da dove potevano prendere di mia la capitale del Cairo. Per tutto quel percorso gli israeliani si erano limitati a d impossessarsi di pezzi di artiglieria e mezzi di locomozione nemici, inclusi moltissimi carri armati.
Contemporaneamente, gli israeliani assediavano e conquistavano la città vecchia di Gerusalemme, in una ferocissima guerra urbana, durata fino a mercoledì. I giordani non erano riusciti ad impensierire più di tanto gli israeliani, e per la prima volta ebrei in divisa raggiungevano il Muro del Pianto, in un tripudio memorabile. La vittoria sembrava simbolicamente già ottenuta quando due soldati israeliani, salendo sulla cupola dorata della moschea di Omar, issavano la bandiera bianca e azzurra di Israele. Nelle ore seguenti, mentre le forze israeliane sconfiggevano le truppe giordane a Betlemme e nelle altre località della zona, altre forze assediavano Sharm El Sheik, sul Mar Rosso.

Alle ore 10 di mercoledì i paracadutisti erano pronti a lanciarsi per la conquista della città, ma si accorsero che non vi era la minima resistenza: il nemico era fuggito a nord, verso il deserto. A notte della terza giornata di combattimento Israele dominava tutta la penisola del Sinai, mentre migliaia di soldati egiziani vagavano disperati tra le sabbie del deserto.
Nella giornata di giovedì vi fu un tentativo di contrattacco egiziano nel Sinai e nella zona di Suez, con scarsi risultati, il venerdì Giordania ed Egitto accettavano il cessate il fuoco proposto dall'ONU. Le cifre erano impressionati: in cinque giorni Israele aveva catturato tremila prigionieri, i soldati egiziani morti erano dai 7.000 ai 10.000. Il piccolo stato ebraico aveva perso, da parte sua, 275 soldati, aveva avuto 800 feriti e 61 carri armati danneggiati.
L'ultimo giorno di guerra Israele, sicura sul lato orientale e meridionale poteva concentrarsi sulla Siria. Al cadere della notte di venerdì la fanteria e i carri armati israeliani erano in pieno territorio siriano e si dirigevano verso Damasco. Le forze israeliane correvano verso la capitale decise a colpire il più duramente possibile la Siria, il nemico più insidioso, prima che all'ONU si decidesse per il definitivo cessate il fuoco. Le alture del Golan, le minacciose alture da cui i siriani facevano piovere i razzi sugli insediamenti ebraici, ora erano in mano ai soldati israeliani.
"A lotta finita - scrive Donovan - gli israeliani avrebbero detto che i siriani si erano battuti meglio degli egiziani".

Con Damasco nel mirino, domenica 11 giugno a El Quneitra, gli alti ufficiali siriani firmarono alla presenza di quelli israeliana il cessate il fuoco. Era finita: in meno di una settimana le forze israeliane avevano cancellato il potenziale aereo di tutto il mondo arabo, e sconfitto tre eserciti nemici, guadagnandosi un territorio vasto quattro volte Israele. Uno degli effetti più dolorosi della guerra fu che più di centomila profughi palestinesi erano fuggiti dai territori occupati a occidente, nei pressi del Giordano, dai soldati israeliani. Il grave problema dei profughi palestinesi si acuiva.
Il prezzo della vittoria Dopo la Guerra dei Sei Giorni Israele aveva a sud-ovest truppe fino al canale di Suez, a nord lambiva Damasco e finalmente neutralizzava le alture del Golan, a sud aveva in mano Sharm El Sheik sullo stretto di Tiran (per il quale era scoppiata la guerra), sul Mediterraneo aveva Gaza, a est le sue truppe occupavano il settore giordano di Gerusalemme. Con queste conquiste Israele si garantiva una sicurezza praticamente inattaccabile, e poteva usare la penisola del Sinai come moneta di scambio.

La vittoria era totale. Imponeva il prestigio militare degli israeliani in tutto il mondo, dava fiato alle forze più violentemente nazionaliste che, in futuro, avrebbero contribuito al pari del terrorismo arabo a rendere la ferita arabo-israeliana ancora oggi sanguinante. In quella vittoria, quindi, vi erano anche i germi di nuove tragedie. Non c'è dubbio che ogni persona di buon senso e amante della pace si augura una giusta soluzione dei rapporti tra arabi e israeliani, ben sapendo che essa comporterà compromessi e rinunce da entrambe le parti. Ma è difficile chiedere ad ogni israeliano di non volgere con orgoglio la mente a quella guerra che fu, senza mezzi termini, una lotta per la sopravvivenza.
Di più: fu la conquista del diritto all'esistenza.

FERRUCCIO GATTUSO

Bibliografia
* Israele - Sei giorni per sopravvivere, di Robert J. Donovan, pp.235 - Rizzoli Editore, 1967
* La guerra dei sei giorni, di Robert E. Hunter, pp. 330-337. Articolo in XX secolo, vol. VI - Mondadori Editore
* Medio Oriente: la guerra dei sei giorni, Aa. Vv., da inserto del Corriere della sera n. 26 Un secolo in prima pagina - Rizzoli editore


Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net