IL "MAESTRO" DI HITLER
DI RAZZISMO E ANTISEMITISMO

ERA UN FRANCESE, UN INGLESE E
RICHARD WAGNER

In molti è opinione diffusa che la  superiorità della razza ariana sia una tesi sostenuta da Hitler.
Invece un "classico" della letteratura razzista in Europa  è il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane ("Essai sur l'inegalitè des races humaines" Paris, Firmin-Didot) del 1853-55 del conte francese GOBINEAU  JOSEPH ARTHUR. Il primo esempio di una visione storica d'ispirazione razzista. Nel saggio ci sono tutti i temi del razzismo contemporaneo: l'ossessione per la purezza del sangue considerata fattore essenziale dell'ascesa e della decadenza delle civiltà; l'idea che la cultura sia espressione delle qualità razziali innate del popolo che la esprime; la pretesa dimostrazione della superiorità assoluta degli Arii di ceppo germanico; la diffidenza e il disprezzo per l'elemento semitico.

Il termine "Antisemitismo" fu invece poi coniato nel 1879 da un agitatore tedesco di nome Wilhelm Marr, ebbe fra i razzisti subito successo per quell’aria da parola "scientifica" che le dava l’etimologia greca, mutuata dagli studi dell’epoca in campo linguistico

Di proseliti in Germania Gobineau ne fece molti. Uno in particolare: WAGNER! Musicista investito di un preteso dominio mondiale musicale, culturale, e persino politico con due estremi ideologici, enunciati in due movimentate fasi della sua singolare vita.

Prima anarchico, con attacchi violenti sull'organizzazione sociale, Wagner si trova a fianco e conosce BAKUNIN; diventa con lui un vero protagonista della fallita rivoluzione; contro di lui viene persino spiccato un mandato di cattura e una condanna a morte per tradimento; infatti per non finire in galera o sul patibolo decise di fuggire in Svizzera, a Zurigo. Imputazione: di Wagner  è infatti il discorso sociorivoluzionario (fatto a Dresda) alle sommosse europee del 1848,  e suo è il polemico opuscolo politico L'arte e la rivoluzione  del 1849 (dove invocava persino l'abolizione del denaro - ovviamente quello degli altri; del resto in tasca lui non ne aveva mai. Per alleviarne le difficoltà finanziarie  (paradossalmente) gli passava qualche soldo l'editore ebreo, Moritz Schlesinger, pubblicandogli sulla  Gazette Musicale alcuni articoli, anche se di scarso valore letterario).
 
Poi, l'ex rivoluzionario,  improvvisamente si converte agli ideali dell'aristocrazia reazionaria, e di soldi qui finalmente ne trova! Ed anche il successo. A Monaco il 21 giugno 1868, rappresentando il patriottico Maestri cantori, non solo  fu promosso "compositore nazionale", ma sempre in un modo più manifesto divenne il preminente rappresentante della politica culturale del nuovo Impero Tedesco a partire dalla sua fondazione (1871).

 Nietzsche (prima apologeta, poi detrattore fino alla repulsione)  quando la musica di Wagner era ormai  assurta nella coscienza pubblica a un rango spirituale, con disprezzo  accusò Wagner di essere uno "stregone", di trattare la musica come un allucinogeno sonoro" . Impietoso anche  K. Marx, che iniziò a beffeggiare Wagner denominandolo "il musicante di stato". Del resto, prima il musicista  disprezzava apertamente Bismarck, poi quando il politico vinse i francesi, iniziò con abile opportunismo a glorificare l'uomo.

Ovviamente protetto e sotto i suoi auspici, il grande musicista (di cui è nota l'esaltazione del mito germanico nella tetralogia nibelungica) dopo la sua conversione (agli agi e non più alle rivoluzioni e alle barricate dei morti di fame) nella sua residenza di Bayreuth (in soli tre anni era diventato ricco) nel 1874 oltre a incontri di musicisti, diede vita a un "Circolo" per diffondere l'opera del teorico del razzismo GOBINEAU che abbiamo citato sopra.

Morto Wagner nel 1883, nel 1894 venne fondato nel Circolo Bayreuth, la Gobineau Vereneinigung. Compito principale di questo cenacolo: introdurre in Germania l'opera e le teorie del francese ed indottrinare alcuni apostoli per diffondere il suo verbo, "razzismo" che ora si chiama per merito di Marr "antisemitismo".

Ma un appassionato ed instancabile discepolo,  poi autorevole ed eminente divulgatore, non fu nè un francese e nemmeno un tedesco, ma l' inglese Houston Stewart
CHAMBERLAIN
Chamberlain aveva sposato Eva la figlia di Wagner e di Cosima Lizt; amava così tanto la Germania che si era perfino naturalizzato tedesco ed era andato ad abitare con loro nella bella villa degli eredi del musicista. Sei anni dopo la fondazione del "Circolo Gobineau", nel 1900, Chamberlain da' alle stampe il suo monumentale saggio: "I fondamenti del XIX secolo" (Die Grundlagen des XIX Jahrhunderts). 1200 pagine fitte fitte con una sola teoria logorroica dominante dall'inizio alla fine: quella della "superiorità della razza germanica cui Dio aveva affidato la missione di civilizzare il mondo e di dare origine a una nuova, forte, pura, civiltà occidentale"; sono 1200 pagine di dichiarato antisemitismo non inferiore a quello del famoso suocero.

Oltre un discreto successo letterario, l'opera segnò l' approdo del razzismo all'antisemitismo militante; non solo, ma questo razzismo e antisemitismo si apprestò a diventare un fattore importante della vita politica tedesca, conquistando un larghissimo consenso tra le masse piccolo-borghesi.
In verità non ne fu immune neppure la Francia -vedi caso Dreyfus; poi l'Inghilterra con Galton (fondatore dell'eugenetica) e Pearson che teorizzava che era un dovere nazional-patriottico dei popoli espellere le razze inferiori;  infine anche gli Stati Uniti non ne furono immuni; le teorie razzistiche europee si svilupparono con  Madison Grant ("Passaggio della grande razza", 1917),  con C.B. Stoddart ("L'eredità razziale dell'America", 1922), e con la Casa della Bibbia ("Il negro: è una bestia"),  divennero parte integrante della discriminazione razziale sul nuovo continente pari a quella che si sviluppò in Germania.

Ma anche in Italia, ancora nel 1936, avevamo un giovane giornalista, INDRO MONTANELLI, che da Asmara così scriveva "Ci sono due razzismi: uno europeo - e questo lo lasciamo in monopolio ai capi biondi d'oltralpe; e uno africano - e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve. Almeno finchè non si sia data loro una civiltà..... non cediamo a sentimentalismi...niente indulgenze, niente amorazzi. Si pensi che qui debbon venire famiglie, famiglie e famiglie nostre. Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al di fuori".
(Indro Montanelli. dicembre 1935. Da "Civiltà fascista" N.1, gennaio 1936 -
che abbiamo in originale
qui >>>>>>> )

Ma ritorniamo a  Bayreuth. Wagner -lo abbiamo letto sopra- non era  solo un compositore, ma anche un sanguigno autore di molti scritti politici (quelli successivi dopo il '49) impastati di fanatico pangermanesimo e antisemitismo. Sul suo personale organo di stampa, il Bayereuther Blatter, scriveva e invocava con violenza di linguaggio e durezza di argomentazioni "la distruzione totale degli ebrei" che riteneva "demoni della rovina dell'uomo". Ovviamente il suo futuro genero Chamberlain condivideva lo stesso irrefrenabile odio. I due si erano incontrati, s' intendevano benissimo, s'imparentarono perfino, vissero insieme . Morto poi Wagner  il genero continuò la "missione"; e si stabilì in casa di Wagner; fondò il Circolo citato sopra, scrisse l'opera già accennata, ed infine ebbe il grande incontro con "l'uomo" che mise poi in pratica tutta la sua teoria.

Infatti, otto giorni prima del Putsch di Monaco (dell' 8 nov. 1923) Adolf Hitler, in un'ora molto critica (con il suo triunvirato a un vicolo cieco), per placare il suo nervosismo, lui che era un accanito estimatore della musica e degli (ultimi) scritti di Wagner e di Chamberlain, lo troviamo a fare un devoto pellegrinaggio a Bayreuth. Nel giardino della villa, davanti alla tomba dell'autore del Parsifal (opera emblematica) Hitler non trattenne l'emozione (quand'era barbone a Vienna andò 30 volte di seguito a sentire il Parsifal).
 Cosima Lizst  ormai ottantaseienne  vedova di Wagner,  Siegfred suo figlio sposato con la figlia di un famoso giornalista anche lui inglese, ed infine Chamberlain con Eva Wagner, lo accolsero calorosamente e anche con orgoglioso compiacimento nel vedere questo fanatico estimatore.  Quest'uomo di cui già si parlava in giro, stava ponendo a base della sua ideologia politica i miti glorificati dal loro congiunto. Particolarmente intenso fu però il colloquio con Chamberlain. Non gli parve vero che qualcuno mettesse finalmente in pratica quello che lui aveva scritto; e anche quello che non aveva ancora scritto.

Era stato proprio Chamberlain a mettere in luce nella sua opera come "in Germania risiede il più forte nucleo germanico continuatore degli ariani". Era proprio di Chamberlain la teoria "dell'aspirazione ebraica al dominio mondiale, impedire il quale e contrapporvi la restaurazione di una gerarchia razziale universale è il compito degli ariano-germanici".

Sappiamo che dopo questo incontro, Chamberlain scrisse a Hitler una solenne lettera; lo definiva "un dono di Dio", un essere che il Signore aveva inviato sulla terra a testimoniare la grande vitalità della nazione; e se la Germania nella sua ora più critica  ha prodotto un Hitler, io adesso posso addormentarmi in pace. Dio protegga la Germania".

Il Putsch di Monaco del suo "seguace" poi -come sappiamo- finì miseramente.


Hitler venne arrestato e processato per alto tradimento. Ma il suo processo divenne l' occasione per far parlare di sé tutta la Germania, attirare l'attenzione della pubblica opinione sul suo partito e le sue idee. Lui sapeva che nel processo sarebbe diventato un martire solo perché voleva un governo forte e una Germania rispettata.
Lo condannarono dopo 24 giorni di processo. Nel difendersi in tribunale davanti alla corte, ostentò sicurezza, dialettica, argomentazioni patriottiche inscenando veri e propri comizi che strappavano gli applausi ai presenti, trasformando l'aula del tribunale in un teatro. 24 giorni di appassionante difesa che tenne banco sui giornali, nei quali una buona parte iniziò a scrivere che "voleva" libero il "patriota". Ma lo condannarono a cinque anni assieme a un famoso generale, che però nonostante una sua precedente fama fu del tutto ignorato, la platea era concentrata tutta sulla vera "vittima".  Quando Hitler lasciò il tribunale per raggiungere il carcere, sapeva di aver raggiunto lo scopo. Il processo era stato un vero trionfo. In Germania ormai tutti parlavano di lui. E anche chi non ne parlava e non si esponeva, intimamente approvava quello che andava dicendo quell'uomo.
In carcere Hitler ci rimase sei mesi: sufficienti per scrivere 
Mein Kampf (La mia Battaglia).

L'opera, come programma ideologico (per Hitler definitivo) mostra,  rispetto a quella di Chamberlain, ben poca originalità; punto veramente centrale è l'antisemitismo e la superiorità della razza germanica, che partorì poi il nazionalismo più estremo: il naz-ionalsocial-ismo, l'intero progetto politico e statuale del naz-ismo hitleriano. Teoria elitaria e discriminatoria che nella razza scorge il fondamento della nazione e della lotta per la supremazia. Termina proprio Mein Kampf con queste due righe: "la nazione, nell'era della soppressione delle razze, deve pensare ai migliori elementi della propria stirpe, per essere un domani padrona del mondo"

Hitler si attenne rigidamente sempre a questo progetto, anche quando si rivelò il suo programma nelle varie tappe, dannoso per la sua stessa azione politica. Paradossalmente "adottò mezzi e strumenti di avanzata modernità, ma per il conseguimento dei suoi fini sul piano politico e sociale, fece l'errore più grande: si servì di quelli più arcaici; sterminio di ebrei, sfruttamento delle popolazioni "inferiori", proprio quando queste misure contrastavano con la precisa necessità militare di una politica di pacificazione nei territori occupati dai tedeschi)" ( Klaus Schwabe)

 Una lunga serie di errori, vere e proprie cecità di fronte alla realtà. Nel '33 quando Hitler costituì i comitati d'azione per boicottare (senza fare i conti) merci, negozi e attività professionali ebree; nel '35 quando emanò le cosiddette leggi di Norimberga (privazioni di tutti i diritti civili e politici); nel '38 la famosa "notte dei cristalli" (Goring si infuriò "Bravi, proprio bravi -disse ai vandali- e adesso dopo che avete distrutto 7500 attività io le tasse da chi le prendo'); infine nel '41 quando l'ossessivo pensiero partorisce la "soluzione finale". Ma anche la sua fine, perchè si privò (qui il grande errore) di alcuni
importantissimi appoggi economici (ebrei) .

Eppure lui stesso negli infelici anni di Vienna, non ignorava (ci campava pure vendendo i suoi cartelloni pubblicitari ai negozi ebrei) e si era reso ben conto "della grande importanza economica della minoranza ebraica", nelle banche, nell' industria, nei commerci e nei quadri dello Stato.

Fatale fu quel titolo del Daily Espress ("Guerra alla Germania") che incitò il suo odio verso gli ebrei, e via via lo estese, proiettando su di loro ogni negatività,  economica, politica, perfino la responsabilità della disfatta militare della Germania, accusandoli anche di essere stati i segreti animatori del bolscevismo nell'intera Russia. 
La sua "missione" era il salvataggio della Germania e dell'intera Europa dal "pericolo giudaico" che voleva la fine della Germania. Addirittura la castrazione di tutti i tedeschi. Mentre Hitler la Germania la voleva nuovamente grande; e voleva eliminare ogni negativa influenza ebraica per conquistare i nuovi "spazi vitali". Insomma diventò una sua  ossessione il razzismo ebraico.

Le politiche di discriminazione e persecuzioni che fecero poi gli altri Stati, anche se furono attuate  più tardi, furono fatte non per una ideologia ma sotto l'influenza dell'alleato tedesco. (ormai da tutti temuto e anche capace di vendicarsi chi non appoggiava le sue trame. (e poco ci mancò di vednicarsi dopo la guerra in Francia, con Mussolini che aveva con la sua "neutralità" non rispettato il "Patto d'Acciaio". Hitler non lo volle nemmeno alla conferenza di pace a Parigi).

Lui Mussolini anche se aveva il culto della romanità e del nazionalismo esasperato, a dire il vero, nella sua ideologia (Mussolini, Dottrina Fascista, Enciclopedia  Italiana, I, ed. Treves-Treccani, 1932 ( < !!!!! ) , pp, 5-6)  non appare mai un accenno di razzismo, tanto meno di antisemitismo e nemmeno sanno  i suoi gerarchi cos'è  l' antisionismo (di tutta l'erba spesso fanno un fascio)

E' in ogni caso la questione razziale ebraica - intesa come problema della nazione italiana verso e contro gli ebrei - era  inesistente, del tutto estranea poi al sentimento popolare. Il 99% della popolazione italiana non aveva mai conosciuto in vita sua un ebreo.
Del resto in Italia la comunità israelitica contava appena 47.252 ebrei. Lo 0,1% (1 su 1000) della popolazione italiana. Concentrata per lo più in tre grandi città e in altri 23 centri. Nell'Almanacco Bemporad del 1936, sono riportate infatti gli indirizzi  e il nome del rabbino delle 26 comunità israelitiche riconosciute con il R.D. (fascista !!) del 24 settembre 1931, n. 1279).
 
Questo significa che di ebrei gli italiani ne sapevano qualcosa solo per sentito dire - male - solo dal proprio parroco di paese, fondamentalista e antigiudaico, legato al quelle grossolane  interpretazioni  diffuse a suo tempo dall'inquisizione (ghetti ecc.), quindi antigiudaismo di origine religiosa, non razziale, legato all'antica accusa di deicidio mossa agli ebrei dalla Chiesa, ovvero secoli e secoli di "insegnamento del disprezzo" verso gli ebrei da parte cristiana. Al termine della Messa, vi era sempre "la maledizione al decida ebroe".

Ma dopo, molti zelanti gerarchi italiani filo-nazisti, per far piacere a Hitler, spulciarono alcuni discorsi di Mussolini del  1919, con qualche frase che si poteva interpretare razzista (Popolo d'Italia, 4 giugno 1919, dove c'era questo passo: "Sulla Rivoluzione Russa mi domando se non è stata la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo, visto che l'80 per cento dei dirigenti dei soviet sono ebrei.... La finanza dei popoli è in mano agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica" e concludeva che il bolscevismo era "difeso dalla plutocrazia internazionale, e che la borghesia russa era guidata dagli ebrei; quindi proletari non illudetevi".

 Ma erano solo battute (le potremmo rintracciare nei testi di mille anni)  una delle tante battute di Mussolini, come quelle colorite contro i preti, il cattolicesimo e la stessa Madonna. Ma non rientravano nella ideologia e nella pratica del fascismo un attacco come quello della destra tedesca, che già aveva sulla bocca il vocabolo "antisemitismo" coniato nel 1879 come abbiamo letto sopra da  Wilhelm Marr. Ed ebbe subito molto successo per quell’aria da parola "scientifica" che le dava l’etimologia greca, mutuata dagli studi dell’epoca in campo linguistico. Ma di scientifico non ha nulla, a parte il suono, e il suo stesso uso può indurre in errori e confusioni. Infatti ci sono "4 tipi di antisemitismo"; due hanno a che fare con il credo religioso, uno con quello razziale (e questo parte già dal 31 marzo 1492, in Spagna con re Ferdinando il Cattolico, e troverà poi fertile  terreno pseudo-scientifico nel clima positivista del XIX sec.); poi l'ultimo (il sionismo) ha carattere politico (i cosiddetti falsi dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion; lo stesso che attribuisce agli ebrei la responsabilità, di volta in volta, per l’avvento del capitalismo e del comunismo; lo stesso che alligna nelle pagine di Marx (di origine ebrea) e di Proudhon e che fecero capolino nelle campagne "anti-mondialiste" della moderna destra politica).


Che ci fosse questa assenza di antisemitismo nella ideologia fascista ci viene da questi singolari episodi. Nella famosa riunione dei fasci di San Sepolcro (23 -3-1919), c'erano anche 5 ebrei, e fu uno di loro (Goldman) a procurare la sala all'associazione industriali dove Mussolini tenne a battesimo i fasci. 
A Fiume con d'Annunzio c'erano ebrei, fra cui Aldo Finzi che divenne poi sottosegretario agli interni di Mussolini, mentre Dante Almansi ricoprì addirittura sotto Mussolini la carica di vice capo della polizia.
Un episodio antisemitico ci fu, l'11 marzo 1934; quando l'Ovra fermò alla frontiera due giovani ebrei, Sion Segrè e Mario Levi, mentre tentavano di introdurre manifestini e propaganda antifascista. Nella rete caddero anche Leone Gizburg, Carlo Mussa Ivaldi, Barbara Allaso, Augusto Monti.

Ma Ebrei parteciparono ancora nel 1936 alla guerra d'Etiopia. Uno di loro (Alberto Liuzzi) fu perfino decorato personalmente da Mussolini di medaglia d'oro.
C'era solo Farinacci (un caso singolo ma del tutto personale) che nel suo giornale Cremona Nuova, ospitava qualche confuso scritto antiebraico. Solo in seguito quando trasformò il quotidiano in Regime Fascista (e Tevere)  con tanto zelo e servilismo verso l'alleato tedesco, iniziò a fare una feroce campagna antisemitica e quindi anche razziale. Altrettanto servili gli scienziati italiani (studiosi sic!) che appoggiarono questa azione con pretese teorie pseudo-scientifiche, dando vita alla rivista Difesa della razza di Interlenghi, e firmarono poi il famoso Manifesto.

Ma anche uomini di cultura non è che si tennero in disparte, pubblicando qui e là, articoli di "appoggio".
(vedi QUI  alcuni nomi)

In quanto a razzismo etnico Mussolini non era di certo un fanatico; non dimentichiamo la famosa scenografia del 18 marzo 1937 a Tripoli, l'"apparizione" di Mussolini su un cavallo bianco che spunta dalla cima di una duna del deserto seguito da duemilaseicento cavalieri arabi, mentre snuda la fiammeggiante "spada dell'Islam" d'oro massiccio ricevuta dai capi arabi, ergendosi così a "difensore degli interessi dei popoli musulmani nel mondo".
Si era impegnato a compiere la "missione" di Alessandro Magno: la riunione di popoli di varie razze, colore, lingue e religione. Vagheggiando "l'unificazione mondiale". Si disse e si scrisse (e i film Luce diffusero) che Mussolini compiva il suo secondo "miracolo" religioso ed etnico. I secolari "infedeli saraceni" alla Mecca, davanti alla Kaaba, (era l'assurdo degli assurdi) invocarono Allah di proteggerlo e da lui farsi proteggere; lui "cristiano" (opportunista dei Patti Lateranensi) il "protettore dell'Islam!". Hitler nel leggere quelle cronache andò in bestia!
 
 
Ma già nel 1933 (6 settembre) in un discorso a Bari  Mussolini era stato perfino sprezzante nei confronti di Hitler razzista anche se non lo nominò "Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d'oltr'Alpe, fatte da gente che ignorava la scrittura quando Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto". Un orgoglio di latinità.

Una disposizione di tipo razzista (ma non antisemitica) fu fatta nelle colonie nel 1937, ma erano provvedimenti per evitare il molto diffuso concubinaggio degli "allegri" italiani con le "belle (appestate) abissine". Una disposizione sanitaria insomma.
Mentre tutto il resto che venne dopo fu solo  in certi casi una pagliacciata, in altri casi una vero e proprio sciacallaggio di corrotti funzionari per estorcere somme o sequestrare beni alle vittime. Lo stesso Starace (proprio lui, capo della fazione razzista, il divulgatore del "manifesto degli scienziati") non voleva rinunciare a una sua brava segretaria ebrea. Invitato a liberarsene (perchè gli si fece notare che era in contraddizione con i proclami che lui stesso emanava) rispose che lo avrebbe fatto purchè si cominciasse  da quegli ebrei  "protetti" da altri suoi colleghi e dal fascismo. E per parlare così significa quindi che non era il solo.

Purtroppo in queste meschine "pagliacciate", alcuni fanatici -il fior fiore degli intellettuali- (vedi i
manifesto razzista degli scienziati con i relativi nomi) al solo scopo di compiacere  gli alleati nazisti (o per dar sfogo a invidie, rancori, inimicizie personali) causarono un allucinante dramma; non rendendosi conto che presto il dramma sarebbe diventato una tragedia non soltanto per gli ebrei, ma per lo stesso fascismo, per loro stessi, e per tutto il popolo italiano.

La Chiesa con Pio XI aveva preso (evangelicamente) posizione sull'antisemistismo nazista; sua nel '37 l'enciclica Mit brennender Sorge, (con la famosa frase "spiritualmente, noi siamo semiti" - ma fu fatta cancellare dall'allora segretario di Stato Pacelli, sull'Osservatore Romano) che misero a rischio i rapporti Mussolini-Hitler (nonostante i due concordati che entrambi avevano fatto con il Vaticano - fra l'altro quello tedesco con il nunzio Pacelli -il futuro papa- e quello italiano con suo fratello).
Dalla Germania venne la minaccia al Vaticano di scristianizzare i tedeschi. Con questo ricatto, quando salì subito dopo al soglio lo stesso Pacelli, Pio XII cercò di non deteriorare i rapporti tra i due Stati,  nè di mettersi apertamente contro Hitler e Mussolini. Atteggiamento questo che gli fu poi più tardi rimproverato.

(vedi i
SILENZI DI PIO XII - documento).

A suo favore dobbiamo pèrò registrare anche questi due suoi interventi. Il 
20 febbraio 1941 Pio XII così scriveva: "Là dove il papa vorrebbe gridare alto e forte, è sfortunatamente l'attesa e il silenzio che gli sono sovente imposti; là dove egli vorrebbe agire ed aiutare, ecco la pazienza e l'aspettativa (che si impongono)".

E più tardi -il 3 marzo 1944- affiderà allo scritto, un'altra volta, il suo dramma: "Con frequenza è doloroso e difficile decidere ciò che la situazione comanda: una riserva e un silenzio prudenti, o al contrario una parola franca e un'azione vigorosa".
Anche R. M. W. Kempner, antico delegato degli U.S.A. al Consiglio del Tribunale del processo di Norimberga, così si espresse: "Ogni tentativo di propaganda della Chiesa cattolica contro il Reich di Hitler non sarebbe stato soltanto un suicidio provocato, come l'ha dichiarato attualmente Rosenberg, ma avrebbe affrettato l'esecuzione dì ancor più Giudei e preti cattolici".

Hitler con la sua ideologia paganeggiante, dal popolo voleva non solo il corpo ma anche l'anima, e se apertamente -come aveva minacciato- si fosse veramente messo a fare in Germania e in Austria concorrenza spirituale al cattolicesimo, la Chiesa in Germania sarebbe stata perseguitata; e i suoi fedeli eliminati al pari degli ebrei.
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Una pagina di
IGOR PRINCIPE

WAGNER:
LA CADUTA
NELLA FORESTA DELLA POLITICA

"Era domenica, e dopo essersi fatto maltrattare per parecchi giorni di seguito dal signor Brecht, come ricompensa aveva potuto accompagnare sua madre al Teatro Civico a sentire il Lohengrin. La gioiosa attesa per quella serata gli aveva riempito tutta la settimana. Peccato solo che prima di simili feste si accumulino tante cose spiacevoli, rovinando fino all'ultimo istante la libera e lieta prospettiva (...). Non si crede al lunedì, quando la domenica sera si deve andare ad ascoltare il Lohengrin... (...) Poi la felicità era diventata realtà. Era scesa su di lui, consacrazione e delizia, con i suoi brividi segreti, i palpiti, i singhiozzi improvvisi dell'anima, esuberante e insaziabile ebbrezza... (...) la dolce, trasfigurata magnificenza dei suoni che udiva, lo sollevò al di sopra di tutto... Poi venne la fine. La gioia canora, sfolgorante, era ammutolita e spenta; con la testa in fiamme si era trovato a casa, nella sua camera, e si era reso conto che solo qualche ora di sonno là nel suo letto lo separava dalla triste realtà quotidiana (...) Aveva sentito quanto male ci possa fare la bellezza, come possa gettarci nella vergogna e nella struggente disperazione, e possa consumare anche il coraggio e la capacità di vivere la vita comune".

E', questa, una memorabile pagina de I Buddenbrook, nella quale Thomas Mann disegna magistralmente l'effetto prodotto dalla musica di Richard Wagner nell'animo del piccolo Hanno, ultimo esponente della decadente dinastia anseatica. Una musica totalizzante, oltre la quale sembra non esserci più nulla; e una musica molto amata dal grande scrittore tedesco, che proprio a Richard Wagner si ispirò nel creare la figura di Gustav von Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia. Tuttavia, una musica pericolosa, espressione di una superiorità tedesca che nel XX secolo tentò di affermarsi dando vita all'immane tragedia che tutti conoscono.

Molto è stato scritto, a riguardo, da critici divisi: da una parte chi ha indovinato negli ufficiali nazisti - che si inebriavano di potenza ascoltando Wagner - dei biechi strumentalizzatori di insuperabili pagine musicali; dall'altra chi, invece, pur riconoscendone l'immenso valore artistico, non ha esitato nell'evidenziare presenze inquietanti tra le righe dei pentagrammi. Robert W. Gutman, autore di una bella biografia del musicista, è categorico: "Purtroppo un protonazismo, che si esprime soprattutto attraverso un'inestinguibile ripugnanza per gli ebrei, fu uno dei principali Leitmotive di Wagner, e i velenosi viticci dell'antisemitismo avvolgono la sua vita e la sua opera. Negli ultimi anni il suo odio si spinse più in là, sino a comprendere i popoli con la pelle nera e gialla".

Non si può prendere alla leggera questo atteggiamento, quasi fosse un capriccio inopportuno o un trascurabile difetto di un protagonista della musica. Coloro i quali lamentano che, collegando il nome di Wagner con quello di Hitler, si reca offesa al genio creatore del nobile Hans Sachs (protagonista de I maestri cantori di Norimberga, ndr) e del cristiano Parsifal non hanno mai aperto, oppure hanno richiuso in fretta, i volumi delle lettere e dei saggi in cui Wagner espone in modo inequivocabile il suo programma politico". Ma prima di dedicarci all'esame di quegli scritti e di quelle opere che più esprimono il Wagner politico, soffermiamoci su un fatto di indubbia rilevanza psicologica.

Richard Wagner nacque nel 1813 a Lipsia, in Sassonia, da Carl Friedrich e da frau Johanna. Questo secondo gli atti ufficiali; in realtà, l'opinione corrente riconosceva in Ludwig Geyer, attore e cantante, il vero padre di Richard. E in effetti, fino all'età di quattordici anni, il futuro musicista fu da tutti conosciuto come Richard Geyer, cognome che abbandonò per tornare a quello del padre ufficiale. La situazione non era però così scandalosa: infatti, pochi mesi dopo la nascita del piccolo, Carl Friedrich morì di tifo, e Geyer poté diventare ufficialmente il secondo marito di Johanna. Un marito che il piccolo Richard amava molto, ma che in seguito rinnegò a causa delle sue presunte discendenze ebraiche. Va detto, però, che l'ebraismo di Geyer si basava su illazioni: quel cognome, che significa "avvoltoio", veniva associato a quello ebreo Adler, cioè "aquila"; inoltre, il fisico magro, il naso adunco, la testa di grosse dimensioni - tutti elementi che ignoranza e pregiudizio leggevano come tipicamente ebraici - completavano l'opera di "diffamazione". Ma ricerche condotte nell'albero genealogico di Geyer dimostrano che nessuno dei suoi antenati discendeva da David. "Richard, però - scrive Gutman -, non poteva saperlo".

L'isterico antisemitismo che lo accompagnò inesausto per tutta la vita potrebbe essere nato dai tentativi di dimostrare una purezza ariana. Nondimeno, a dispetto dei suoi sforzi, parte dell'Europa intellettuale continuò a considerarlo ebreo, e questa convinzione persiste". Eppure, malgrado tutto, quando nel 1870 Nietzsche si occuperà della pubblicazione di Mein Leben, l'autobiografia di Wagner, questi gli chiederà imprimere sulla copertina, come emblema decorativo, un avvoltoio: un atteggiamento che dice molto sulla stabilità caratteriale e psichica del musicista.

Ma non solo l'antisemitismo - sul quale torneremo oltre - fu l'espressione delle idee politiche di Richard Wagner. Un'altra idea fu in lui dominante: quella di rivoluzione. E infatti, così come intese rivoluzionare - peraltro riuscendoci - i canoni musicali della sua epoca, Wagner sognò anche una rivoluzione politico sociale, strettamente legata al compito personale che si era affidato da sé: riformare il teatro e rivitalizzare la cultura tedesca del tempo. Credeva, in pratica, che questa sua missione avrebbe infuso nel popolo di Germania lo stesso sentimento di dedizione che le opere dei drammaturghi ateniesi infusero negli antichi Greci. L'occasione gli si presentò nel 1848 a Dresda, dove era musicista di corte (kappelmeister). L'Europa intera - già scossa ai primi del secolo da moti rivoluzionari di marca liberale, che in più occasioni obbligarono i sovrani a concedere la Costituzione - era sottoposta al fuoco delle rivoluzioni socialiste, alimentato dalla diffusione delle teorie di Marx ed Engels.

Era insomma in atto un cambiamento epocale, che si rifletteva anche sull'assetto istituzionale dei vari Stati. In Germania, in particolare a Francoforte, fu convocata nella primavera di quell'anno un'Assemblea nazionale, con il compito di gettare le basi della Costituzione di uno Stato unificato. Wagner, rapito da un desiderio di grandiosità, pensava che se fossero state adottate le sue idee, il popolo sarebbe stato libero. Ma quali idee? Queste: egli credeva nella virtù innata e negli istinti del popolo, e considerava cause di tutti i mali i cortigiani - cioè coloro che più esprimevano dubbi e scetticismo sulla sua figura e sul suo comportamento - e, manco a dirlo, gli ebrei. Costoro, avendo fuorviato popolo e re, dovevano essere eliminati. Solo così si sarebbe raggiunta la libertà "...e il mondo tedesco - scrive Gutman - purificato dei suoi nemici e redento dai suoi teatri, sarebbe stato un paese felice, in cui la monarchia sarebbe stata sradicata e allo stesso tempo la regalità emancipata".

Nel'48, quindi, Wagner pensava comunque da conservatore: non voleva l'annientamento della monarchia; gli sarebbero bastate riforme del personale di corte, attuate però con il pugno di ferro. Queste idee non furono intaccate nemmeno dai frequenti contatti con l'anarchico russo Michail Bakunin, che certo non poté apprezzare l'intenzione del musicista di rimanere legato all'istituzione monarchica. Ma la sua disapprovazione non ne fermò l'impeto: Wagner pubblicò scritti rivoluzionari e pronunciò un incendiario discorso, nel giugno dello stesso anno, di fronte a migliaia di membri di un'organizzazione politica che perseguiva il progetto di armare il popolo (Vatersverein). Ovviamente, sostenne che il re era il primo democratico del paese, e che i veri reazionari erano i cortigiani. L'arringa gli valse l'ostilità della corte presso la quale lavorava, che nutriva ormai forti dubbi sulla sua fedeltà al trono.

Additato definitivamente come rivoluzionario, ne subì le conseguenze. Il governo della Sassonia respinse il progetto di Costituzione elaborato dall'Assemblea Nazionale di Francoforte, e il popolo insorse. Ma la rivolta fu stroncata dall'arrivo delle truppe prussiane, inviate da quel Federico Guglielmo IV che - per colmo di ironia - era un ammiratore del Rienzi e del Tannhauser di Wagner. Il quale, invece, fu al centro dell'attività dei rivoluzionari, tanto da salire in prima persona sulle barricate.

Ma quando le cose precipitarono, Wagner fuggì a Weimar, evitando la cattura e una possibile condanna a morte per tradimento. Una volta chiusa la parentesi rivoluzionaria, Wagner ebbe la possibilità di mettere su carta parte del suo sterminato pensiero, il cui nucleo è contenuto in quattro opuscoli scritti durante il suo soggiorno in Svizzera: Arte e Rivoluzione, L'opera d'arte del futuro (1849), Il giudaismo nella musica (1850), Opera e dramma (1851). I primi due non fanno che ribadire il legame tra l'opera d'arte come creatrice di uno spirito popolare unitario e la rivoluzione come strumento per raggiungere questo alto fine; l'ultimo è un saggio di natura musicale. Il Giudaismo nella musica è invece il testo che conferma lo spirito invincibilmente antisemita del musicista, che però, lungi dal dimostrare il coraggio che infondeva a piene mani nei protagonisti delle sue opere, pubblicò lo scritto con lo pseudonimo di K. Freigedank (cioè "libero pensiero").

L'ebreo viene visto come un materialista, quindi come ostacolo del libero sprigionarsi degli istinti del popolo tedesco, dal quale non riesce ad emergere un eroe che realizzi l'opera d'arte del futuro. Per questo motivo, gli ebrei devono essere eliminati. Emblema di tanto farneticare è la critica che egli rivolge alla musica di uno dei più grandi, Johann Sebastian Bach, solo perché Felix Mendelsshon, musicista ebreo, riscuoteva successi ispirando la sua musica a quella del primo : "Proprio come la Sfinge cerca di sprigionare la testa umana da un corpo animale, così la nobile espressione di Bach si sforza di venire fuori da sotto la sua parrucca". Quindi continua, sostenendo che l'unica considerazione possibile nei confronti di questo maestro è di natura tecnica, poiché questa è facilmente imitabile; e infatti Mendelsshon - secondo Wagner - non fa che imitare Bach, poiché tutti gli ebrei, incapaci di germanica passione, sono abili imitatori. Insomma, una paranoia in piena regola, aggravata dai vili atteggiamenti del musicista nella vita pratica. Dieci anni prima che questi desse alla stampe il Giudaismo, fu proprio un editore ebreo, Moritz Schlesinger, ad alleviarne le difficoltà finanziarie - che furono una costante del modus vivendi wagneriano - pubblicando sulla rivista francese Gazette Musicale alcuni articoli, anche se di scarso valore letterario.

Nulla, però, poté mai alleviare il suo odio per la razza ebraica, poi sublimato nel XX secolo dal regime di Adolf Hitler. E' difficile - se non impossibile - affermare che l'opera e gli scritti di Wagner siano stati la remota scintilla dalla quale si è sprigionata la Shoah, anche se le affermazioni categoriche contenute nel Giudaismo depongono a favore di questa tesi. Ciònondimeno, le teorie wagneriane causarono certamente discriminazioni di natura culturale. E' quel che accadde, negli anni trenta di questo secolo, all'opera del grande critico musicale Eduard Hanslick, contemporaneo di Wagner; un ebreo che, pur riconoscendone la grandezza dello sforzo artistico, fu implacabile contestatore delle sue idee e del suo stile musicale. Inutile dire che il musicista, congenitamente intollerante di qualsiasi cosa lo criticasse, prese in odio Hanslick. Arbitri di questa guerra personale furono proprio i nazisti, che misero al bando i libri del critico e adottarono la musica de I maestri cantori di Norimberga - proprio una delle opere, fortemente criticata da Hanslick, in cui emerge tutto lo spirito della purezza tedesca - per celebrare i loro annuali congressi di partito nella città bavarese.

Ma fecero di più: proprio da quella città, che Wagner vedeva come culla del germanismo, Hitler promulgò le leggi razziali. Infine, a coronamento dell'opera, le SS distrussero la sinagoga eretta, molti anni prima, davanti al monumento di Hans Sachs, protagonista de I maestri cantori. Ma torniamo a noi. Durante la sua tribolata esistenza Wagner si vide offrire la possibilità di mettere in atto le sue idee, che riunivano in un unico insieme elementi artistici, estetici, sociali e politici.

Dal 1864, infatti, visse alla corte del giovane re Luigi II di Baviera, grande ammiratore della sua musica. Cominciò così il periodo monegasco di Wagner, durante il quale esercitò sul sovrano un'influenza tale da poter permettersi di tutto. Ne divenne, insomma, l'amico più intimo - tanto da alimentare le malignità dei cortigiani sulle presunte inclinazioni sessuali dei due -, e da questa posizione poté raggiungere quella tranquillità, anche economica, necessaria per comporre. Ma non si fermò a tanto: egli indovinò in Luigi II il monarca descritto nel '48 nella sua arringa al Vatersverein, e dalla sua posizione di privilegiato amico ed educatore del sovrano dedusse che gli era stato affidato il destino della Germania. E così - su invito del sovrano, che sapeva dei suoi trascorsi rivoluzionari e della "disistima" che nutriva verso i cortigiani - Wagner scrisse Sullo Stato e sulla Religione, nel quale elevò il re una sorta di superuomo gravato di pesanti doveri, dai quali si sarebbe risollevato grazie al dramma musicale wagneriano.

In questo modo si attribuì il ruolo di cui abbiamo detto, suggellato dalla convinzione - riportata nei suoi diari - di essere "...il più tedesco tra gli uomini (...) pensate all'incomparabile magia delle mie creazioni". Queste intemperanze gli valsero l'allontanamento da Monaco, cui il re fu costretto da una corte sempre più contraria alla presenza del maestro. Tuttavia, Wagner non perse mai l'occasione di intervenire in politica e di saltare sul carro del vincitore senza vergogna. In occasione della guerra del 1866, quando la Prussia del Bismarck sconfisse Austria e Baviera, il musicista rimase fedele a Luigi II, sostenendo che il vero spirito tedesco, racchiuso nell'arte, restava appannaggio della Baviera, poiché la Prussia produceva un'arte spuria, contaminata da elementi stranieri.
Nel 1870 però, quando le truppe di Bismarck e di von Molte sconfissero le truppe francesi, Wagner non esitò a glorificare il cancelliere di ferro e a ridicolizzare, con lo scritto Una capitolazione, la Francia, verso la quale serbava un rancore dovuto agli insuccessi personali dei primi anni, trascorsi a Parigi.

Tra i mille risvolti di una personalità umorale, violenta e dominatrice - che dapprima affascinò, poi allontanò definitivamente il filosofo Nietzsche - Wagner manteneva comunque saldo un obbiettivo: quello della creazione di un teatro tutto suo, strumento necessario per la rappresentazione dei suoi lavori e la divulgazione del suo pensiero. Riuscì a farlo a Bayreuth, dove eresse - grazie a cospicui apporti economici provenienti da parte di sostenitori, tra i quali spiccava Luigi II - il Festspielhaus, teatro nel quale, dal 1876, poté inaugurare i Festival dedicate alle sue opere. L'obbiettivo, quindi, era raggiunto, e da quel momento il musicista assunse un ruolo da sovrano, conforme alla sua personalità, circondandosi di uno stuolo di ammiratori che parteciparono alacremente all'organizzazione, destinata al fallimento, di una scuola diretta da Wagner. Questa corte fu chiamata "cancelleria nibelungica", e si dedicò soprattutto alla redazione del giornale Bayreuther Blatter, diretto dallo stesso maestro, che costituì la tribuna dalla quale questi dissertò - alla sua maniera - di tutto. Soprattutto di antisemitismo: come scrive Gutman, "...egli scese a un livello di volgarità tale da imprimere ai Bayreuther Blatter il marchio di antesignani del Volkischer Beobachter (il giornale di Dietrich Eckhart, considerato il padre spirituale del nazionalsocialismo, ndr)". Wagner viveva gli ultimi anni della sua vita, che si sarebbe conclusa nel 1883.

Lo assorbiva totalmente la scrittura di quell'opera che egli considerava la summa delle sue conoscenze e delle sue idee: il Parsifal. Ma dovendo per ragioni di spazio tralasciare l'analisi dell'opera, soffermiamoci invece su due degli ultimi scritti del musicista, Religione e Arte (1880) e Eroismo e cristianesimo (1881). Dominati dall'ultimo attacco alla stirpe ebraica, questi scritti testimoniano a quale grado di perversione era giunto il musicista.

Nel primo, ossessionato dalla idea di trovare una soluzione ai mali del mondo, arriva addirittura a escogitare una soluzione vegetariana, secondo la quale bisognava favorire la migrazione di popoli del nord, abituati alla carne, verso il sud, dove questa non rientrava nei costumi alimentari. Il tutto perché, a giudizio del musicista, molti prigionieri di carceri americane si sarebbero redenti a seguito di dieta vegetariana. Il secondo, infine, è un vero manifesto del protonazismo: la sola razza ariana è la più nobile del globo, ma è stata infettata dalla commistione con altre, tra tutte quella ebraica.
In più - ribadendo elementi presenti anche nel Parsifal -, contesta l'affermazione secondo la quale Cristo è ebreo, ritenendola un falso storico. Insomma, tutta una serie di tesi di cui, anni più tardi, si appropriarono i nazionalsocialisti tedeschi. Le idee politiche di Wagner testimoniano di un uomo violento e instabile. Se l'ascolto della sua musica inevitabilmente dà brividi di emozione, è anche vero che altrettanti brividi si avvertono leggendo affermazioni come quelle di Adolf Hitler, che ebbe a dire: "Chiunque voglia comprendere la Germania nazionalsocialista deve conoscere Wagner". Dopo parole come queste, la felicità di Hanno Buddenbrook, con cui abbiamo aperto l'articolo, assume un sapore tragico.

IGOR PRINCIPE

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Wagner, Robert W. Gutman, Rusconi.
L'estetica musicale dal settecento a oggi, Enrico Fubini, Einaudi.
Breve storia della musica, Massimo Mila, Einaudi.
Storia della musica, Franco Abbiati, Garzanti.
I Buddenbrook - Decadenza di una famiglia, Thomas Mann, TEN

Ringraziamo per l'articolo sopra
il direttore di


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