L' ultima voce di questo
secolo è Franco Sacchetti, l'uomo "discolo e grosso".
Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di là del comune, ma di un
raro buon senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta
semplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera
eco del tempo.
Gli facea cerchio la turba de' rimatori, ripetizione stanca del passato,
il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara,
e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio
da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco,
e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni
da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de' Benedetti,
che lo chiama "eroe gentile", e parecchi altri.
E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con
lodi. Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara
annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti
morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente
tutt'i giorni. Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè
gli altri fanno, pensa così, perchè gli altri così
pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo.
Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva, quella
a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce
la sua personalità. Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio
è così vivace espressione.
Franco è il "vero uomo della tranquillità".
Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare
azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è,
ed è contento di esser così. È uomo stampato all'antica,
in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e mal
disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno
dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza fiele, modesto
estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti
di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada,
il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo?
Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo
del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra
le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando.
Ci è in lui dell'idillico e del comico. Ama la villa, perchè
in città mal vi si dice,
e di ben far vi è caro; e
nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell'aura
campestre, come è quella così briosa delle "donne
che givano cogliendo fiori per un boschetto", e l'altra delle
"montanine", di una grazia così ingenua. In città
è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli,
e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e
con un'aria di bonomia che ne accresce l'effetto. I suoi sonetti e le
canzoni sono molto al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo,
di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili:
dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta
già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno
cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del "pruno"
e il madrigale del "falcone".
Le novelle del Sacchetti
hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più
borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti,
pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni
le pregiano più che il "Decamerone", per lo stile
semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina.
Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse
sono avare de' loro doni. Non è artista, e neppure d'intenzione.
Gli manca ogni sorta d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato
nel "Decamerone" è qui un materiale grezzo, appena digrossato.
Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto:
nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una
nota malinconica, che all'ultimo manda più lugubre suono. Non piace
al brav'uomo un mondo, in cui chi ha più danari vale più,
e grida che "vertù con pecunia non si acquista",
e che "gentilezza e virtù son nella mota". Dipinge
al vivo gli avvocati de' suoi tempi:
Legge civile e ragion
canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s'incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la piglia con le
vecchie. Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate
a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de' rimatori e de' cantori:
Pieno è il mondo
di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio,
"copioso fonte di eleganza", esclama:
Ora è mancata
ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c'era rimaso
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
... Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi si diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso? ...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l'alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s'apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
... già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe' scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non soggiorni...
E s'egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di
cui abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento,
pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo
trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone getta uno sguardo
malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'"Africa"
col suo "alto poeta", e Giovan Boccacci non col suo festevole
"Decamerone", ma co' dotti e magni volumi latini,
"De' viri illustri", "Delle donne chiare", e "il
terzo":
"Buccolica";
il quarto: "Monti e fiumi;"
il quinto: "Degl'iddii e lor costumi".
Oimè! Dante è
morto. Morto è Boccaccio. Petrarca muore. Chi rimane? E l'ultimo
trecentista guarda intorno e risponde: - Nessuno. - Ricorda le
infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli
pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi
e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è
perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della
medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è
dato all'abaco e alle arti meccaniche: "nuda è l'adorna scuola"
da tutte sue parti:
non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è
tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno, e non cura virtù,
e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi
sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata
e cieca,
senza conforto e fuor d'ogni speranza,
se alcun giorno t'avanza,
come tu puoi, ne va' peregrinando,
e di' al cielo: - Io mi ti raccomando. -
Con questi tristi presentimenti
si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante
già adulti e chiari, finisce come un'aurora entro cui si vede già
brillare la vita nuova, una nuova èra. Il Trecento finisce come
un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa:
- Chi sa se tornerà il sole? -
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca,
intuona anche lui un poetico "Lamento". Piangono intorno
al grand'uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano
al sepolcro di Parnaso,
Virgilio, Ovidio, Giovenale
e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.
E Pallas Minerva, venuta
dall'angelico regno, conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione
spunta l'autore col suo nome, cognome e soprannome:
È Anton de'
Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.
È anche un brav'uomo
costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è
concordia e pace,
per l'universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l'amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe' vada mancando.
Sono lamenti senili di
uomini superficiali e mediocri, dove non trovi alcuna profondità
di vista e non forza di mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorchè
in forma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della
sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla
Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca,
e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le
ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena. Perchè quella
forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l'intelletto,
e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà
talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
"La fede va mancando", grida il ferrarese, e gli studi
"si convertono in forni", nota il fiorentino. Non si
potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che
comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle
altre parti d'Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una
classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per
coltura.
E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta.
La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde,
e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale
indifferenza. Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che
le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono
cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spensierata, condita
dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere,
ma per sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a spese
delle classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono più
il privilegio delle castella e delle corti. L'allegria feudale si spande
anche nelle case de' ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti
condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica.
La licenza del linguaggio era il solletico dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana
e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L'allegra vita
della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti,
strambotti, frottole, ballate e madrigali. L'allegra vita de' campi avea
pur le sue forme, le "cacce" e gl'idilli. L'anima di
questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un'ironia
maliziosa, ma non maligna. La forma idillica è la descrizione della
bella natura, penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta
questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come
di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro
della natura. Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso
religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e
dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica
e l'allegria comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro
allegorico-scolastico, così la nuova non può trovare se
stessa se non attraverso l'involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio
è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrà
sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto
mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista, è
un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo
e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel mondo è come un
denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata.
Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon
Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione de' contemporanei.
E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive
per sollazzo, abbandonato alla genialità dell'umore. Dove cerca
il piacere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie,
ne' suoi ideali,
è la storia della nuova letteratura.
"LE
STANZE" - VERSO LA GESTAZIONE DEL "RINASCIMENTO"
Siamo al secolo decimoquinto.
Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di
Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi
antenati, e i Boccaccio si moltiplicano, l'impulso dato da lui
e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale
corrente elettrica che incerti momenti investe tutta una società
e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attività che gettava
l'Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola verso le
Indie le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire
il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della
barbarie.
Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani
pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi,
essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il
"Rinascimento". (in certi passaggi viene anche
chiamato "Risorgimento" Ndr) Nè questo
era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era
capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre
gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino,
e la lingua parlata era chiamata il "latino volgare",
un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato in Dante con le sue
opinioni ghibelline, ispirava più tardi l'"Africa"
e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene il sentimento
di tutti e dà la sua impronta al secolo.
La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i
Bracciolini, che furono i Colombo di questo mondo nuovo. Gli scopritori
sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in
oriente e in occidente, vengono le letture, i commenti, le traduzioni.
Il latino è già così diffuso, che i classici greci
si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti
volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione
invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il
guadagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono
intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri
letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più
tardi a Ferrara intorno agli Estensi. E quei centri si organizzano e diventano
accademie Sorge la pontaniana a Napoli, l'Accademia platonica a Firenze,
quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli,
traggono a Firenze. Gemistio spiega Platone a' mercatanti fiorentini.
Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito,
come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce
l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in
Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce
la sua universalità. Il centro del movimento non è più
solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il mezzodì
dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita
fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma
è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità
di Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale,
diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato
alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria
italiana.
Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle
corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo
e non cala nel popolo. O, per dir meglio, il popolo non c'è. Cadute
sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione
politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è
coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati, esalata in versi
latini. A' letterati fama, onori e quattrini; a' principi incensi, tra
il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo,
Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e
Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani
di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa
il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una
profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli
albori fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che
è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che
oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere
dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione
della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una
letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è
cosa s'ha a dire, ma come s'ha a dire. I più sono secretari di
principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità
della vita, come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto
e dell'atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle
opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita. Il pensiero è per
lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli
la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze,
di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme
vuote e staccate da ogni contenuto. Così nacque il letterato e
la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi
la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli
antichi la forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche;
il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi
in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano, pigliano posto.
Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più
durevole di questa coltura. Spiccano fra tutti le "Eleganze"
di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà già la fisonomia
del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari centri
in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del
pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo
e la natura guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza,
il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina
o sente, perchè non è l'immagine che gli sta innanzi, ma
la frase di Orazio o di Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata,
ma come si trova rappresentato da' classici, a quel modo che Dante vedea
Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.
Ma non ci è guscio
che tenga incontro all'arte. Dante potè spesso rompere quel guscio,
perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi seri
di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che
vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono
pur tra queste forme latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di
una società, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si
dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto. E se il medio
evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore
della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici
che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che
i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo, il mondo di Omero
e di Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo fiacco e
frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che l'esterno meccanismo,
e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il
vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha.
Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più
artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che viva e
si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle
prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa.
Questo studio dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi
della villa e i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio
tutta la vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e
da disputazioni sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo
idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico,
il latino è idillico, dico il latino artistico e vivo. La grande
orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile
elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere
è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso
della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso
de' sensi. Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli "Amori"
e i "Bagni di Baia", ora tutto vezzeggiativi e languori,
ora motteggevole e faceto. Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole,
le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose,
e allegrano le nozze della sua "Lepidina".
La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione
e i deliziosi profumi dell'eleganza. La sua musa, come la sua colomba,
""fugit insulsos et parum venustos"" ""odit
sorditiem"", nega i suoi doni a quelli che sono ""illepidi
atque inelegantes"", e ""gaudet nitore"",
e rassomiglia alla sua ""puella"", di cui nessuna
""vivit mundior elegant'orve"". Spirito ed
eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta,
che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio,
e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia
e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la "Lepidina"
tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il "Rusticus"
tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è
la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con
più sentimento nel Poliziano. Piace la "cerula"
ninfa Posillipo e la "candida" Mergellina, e quel voler
essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante,
una sensualità dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo,
tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice,
più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:
" Hic resonat blando
tibi pinus amata susurro; "
" hic vaga coniferis insibilat aura cupressis: "
" hic scatebris salit et bullantibus incita venis "
" pura coloratos interstrepit unda lapillos. "
Questo latino, maneggiato
con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come
lingua morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione
e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la "lingua nostra";
nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e
metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire
il dialetto. Dante stesso era detto "poeta da calzolai e da
fornai". Non pareva impossibile continuare il latino, come
i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua
della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare
avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer
vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe
colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano
ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima l'ammirazione
de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino, del Crisoloro, del
Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si
disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite, senza conclusione
e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la
bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, ""purus
apollinei sideris nitor"", come fossero gli occhi di Laura.
Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo
spiegava Dante, e il Landino esponeva il Petrarca, e Leonardo
Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era
parlato a Roma, e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti
latini, chiamava "unico" Dante, celebrava la facondia
e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea
le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori,
i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante,
""rerum ommum ignarum"" e che scrivea così
male in latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino
nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a
esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto
della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole
di grammatica e di rettorica.
Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti
vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa
del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione
divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, così
come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo.
Nè l'uso fu mai intermesso; e Leonardo scrivea in volgare
la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea
le vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti,
gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica
popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati,
le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi,
le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata
così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva
la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile della società
nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti. Onde se gli uomini colti, trasportati
dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso
vario della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior
grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente. Un
gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il
mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto più
risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed
era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto
abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario
era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la "gaia
scienza", e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano
intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca
delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella ricorda in molte parti
le avventure della bella sventurata Zinevra, "sei anni andata
tapinando per lo mondo". Spesso c'entra il comico e il buffonesco,
e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano. La
lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è un racconto meraviglioso animato da uno spirito mistico
e ascetico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è
al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de'
sensi, anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione.
Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile come
fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda
verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo quelle
verità incontrastate pel narratore e pe' lettori. Questa impressione
ti fanno le leggende del Passavanti e le "Vite"
del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni
o misteri di questo secolo. Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo,
intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico più colto. Santo Abraam,
Alessio, Abramo, Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i romiti del
Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche
la semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico.
Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una macchina
del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del
Boccaccio. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori
certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi, morale
o materiale: perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i
contorni sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale,
e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche
di gioia, di dolore, di maraviglia. Ci è quella lirica superficiale
e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio.
La lirica è sacra
di nome, e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore,
che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n'è
il sentimento. L'azione è pedestre e borghese, di una prosaica
chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall'immaginazione.
E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono
elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del
terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva:
se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni,
apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza
ed eco di un mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite,
che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non
erano più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli
spettatori. Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche,
per sollazzarsi. E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica,
co' piaceri dello spirito e dell'immaginazione. Il mistero era per essi
un piacevole esercizio dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito.
Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale,
il dramma era così poco possibile come la tragedia o l'eloquenza
sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle rappresentazioni
fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non poterono mai acquistare
la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu
perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano
alcuni, quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici,
e venuto espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè
il latino attirò a sè gli uomini colti, e il mistero fu
trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de' misteri non fossero
gli uomini più colti di quel tempo, o il latino, che non potè
uccidere il volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione, quando un'anima
ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè
uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna serietà di sentimento
religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire
il dramma.
Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il
comico; e in tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione
artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo
di pura immaginazione. Il mistero è un aborto, è una materia
sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna
serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un puro giuoco
d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così
poca serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e
solennità della materia era in flagrante contraddizione con quella
forma tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensierato e allegro
della pura immaginazione, idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu,
quale poteva realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito,
e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora l'ingegno italiano. Quel
mistero fu l'"Orfeo", e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è
la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo.
Ci è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni
partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o
politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna
le ore tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore, un
amico, e divenne la sua ombra, il suo compagno ne' sollazzi pubblici e
secreti. Cominciò la vita, voltando l'"Iliade"
in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la
facilità di un improvvisatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo
spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo
di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue
impressioni e i suoi carmi. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole
sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza
di ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì
d'immagini e di armonie. Il mondo antico s'impossessò subito di
un'anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio
senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co' canoni e
le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono
in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano tutto
è concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia,
scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto,
di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è
un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è
per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non
ve lo trova. Il sentimento della bella forma, già così grande
nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della
bella forma, appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e
il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo suo, e ci vive come
fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto.
Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di
una società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio
l'avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello
ideale. Perchè questa generazione, caduta così basso, fiacca
di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il
suo divino, ed era l'orgoglio della coltura, il sentimento della forma.
Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta
parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti dello
spirito e da' piaceri dell'immaginazione. E se il cardinale Gonzaga, rientrando
nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento
e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni "l'Orfeo."
E che cosa è l'"Orfeo"? Come gli venne in mente
Orfeo?
Giovanni Boccaccio nel "Ninfale" e nell'"Ameto"
canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell'umanità.
Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse, apre l'animo alla
bellezza e all'amore, e di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma
il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v'introduce
costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno
della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi
di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono
della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli
uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno. È il trionfo
dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura, consacrato dal
martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balìa
all'ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte della seconda
barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando
il regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo. Questo
è il mistero del secolo, è l'ideale del Risorgimento. Le
sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura
nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora
polverose nelle biblioteche.
L'"Orfeo" è un mondo di pura immaginazione. I
misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale
e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori.
Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e
il suo inferno sono creature dell'immaginazione. A quel modo che nelle
giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco,
i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare
innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che entusiasmo
fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano,
scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale!
""Redeunt saturnia regna"." Sembravano ritornati
i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo,
nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà.
Nel medio evo si dicea "vivere in ispirito", ed era il
ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore. Ciò
che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento
dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione.
I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l'arte
i loro piaceri.
E che decorazione è quest'"Orfeo"! Dove sotto
forme antiche vive e si move quella società, idealizzata nell'anima
armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale, a celeri
apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola
è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è
appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia;
l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato
di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza,
insino a che questo bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia,
e ti svegli violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi. Il canto
di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le
tre tappe di questo mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata
di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura
non basta a darne un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le
decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di una
società che ci vedea una così viva immagine di se stessa.
Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante
tra' più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà
come Euridice. È un mondo che non ha altra serietà, se non
quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni, gli
avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e
canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra
nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un'orchestra
di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario
rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava;
le rime si annodano ne' più voluttuosi intrecci. Ora è il
dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestà;
qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti arresta
e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi
con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così
divenne il nunzio del Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò
dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la "Istoria
e favola d'Orfeo"; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge
la melodia di "Orfeo dalla dolce lira", una storia in ottava
rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo
moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'"Orfeo" nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste
di Firenze nacquero le "Stanze". Quel mondo borghese
della cortesia, così ben dipinto nel "Decamerone",
riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle,
la cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba "le gloriose
pompe e i fieri ludi" di questi mercanti improvvisati cavalieri
e vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era
l'immaginazione. Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale,
e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de' romanzi,
spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso, che gli
attori sono i cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste
de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose
de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise,
gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola. Anche Giuliano
de' Medici fece la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto che
i posteri hanno chiamato le "Stanze".
Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:
sì che i gran
nomi e ' fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran
nomi sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le "Stanze":
forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè.
Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: c'è Stazio
e Claudiano con le loro "Selve", ci è Teocrito
ed Euripide, ci è Ovidio con le sue "Metamorfosi",
ci è Virgilio con la sua "Georgica", ci è
il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti,
sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del
pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale
e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè
la giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice
occasione. La sua unità non è in un'azione frivola e incompiuta,
debole trama. La sua unità è in se stesso, nello spirito
che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza
che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere,
il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono questo
mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio. Sono
l'apoteosi di Venere e d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti tiene
in una dolce malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre,
nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione. Venere
è nuda, Iside ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi
di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di
Giotto, hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel
suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione. Ci è
quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e
di cui senti la fragranza nella "Lepidila" e nel "Rusticus":
l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando
parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i
suoi piaceri. E non è la descrizione minuta, anatomica, spesso
ottusa, del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta
come un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti,
note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo. La
sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo
la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa
civettuola del Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre
la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel Boccaccio
è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione
è come un crogiuolo, dove l'oro si affina. La sensuale e volgare
Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la
gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico dantesco
e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:
nell'atto regalmente
è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo
non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito,
Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori.
Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della forma così
squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova
creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il
volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere
del suo mondo il più bel fiore. L'insignificante, il rozzo, il
plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì
dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l'abbia
reso con l'ultima finitezza e perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche
e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi
Venere, Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo
spirito va al di là della frase, attinge le cose nella loro vita,
e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro connubio, l'eleganza
in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza,
perchè ha delle cose una impressione propria e schietta. La mammola,
la rosa, l'ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette,
l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più
vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica.
Ciò che prova non è sensualità, è voluttà,
sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire
la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicità
de' mezzi, spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora
distinguendo, e tutto animando, come persone vive. Tale è la mammoletta
verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che va carpone
co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca,
cilestre, pallida e vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù
di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella
tua contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il
mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia
della sua varietà. Perchè il motivo dell'ispirazione non
è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si
mostra in Dante, ma il corpo, e non come un bel velo, una bella apparenza,
ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e
nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute
la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre,
insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è
un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione,
ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze.
Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista
emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare
avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa
bella natura tutto è interessante, e non ci è principale
ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non
ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora.
Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come
ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi.
La stanza non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti dà la
profondità, ma la superficie, quello che si vede. Pure le parti
sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione
così intelligente, che all'ultimo te ne viene l'insieme, prodotto
non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera
e ti dà una serie di fenomeni:
Zefiro già di
be' fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all'òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così
bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati
con suoni così freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo
motivo, e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed è
quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà
della natura. In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza: così
è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma
sensualità. La voluttà è la musa della nuova letteratura,
è l'ideale della carne o del senso, è il senso trasportato
nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Qui è una
voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz'altro fine
che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime
e fresche aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il
cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito
e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della
natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della
bellezza, sviluppato ed educato da' classici, è uscito il nuovo
ideale della letteratura, l'ideale delle "Stanze", una
tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza
nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo
chiamare in due parole: "voluttà idillica". Il
contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre,
con tutto il corteggio della mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri,
driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più
puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma
è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali,
quale apparisce nell'"Orfeo "e nelle "Stanze",
i due modelli di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio, andrà
fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto,
ma è lo spirito stesso della società, come si andava atteggiando,
còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento
è Lorenzo de' Medici, col suo coro di dotti e di letterati, il
Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni,
e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e
conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l'idealità del Poliziano. Avea molto
spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia
italiana. Era il più fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia
stampa, s'intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà
epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da'
motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra'
piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo
laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche,
corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato
in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con
quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare da chi
sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze.
Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo. Portò a grande
perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società,
divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza
succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise
un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo;
o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato,
compreso e realizzato, l'uno degno dell'altro. Tal popolo, tal principe.
Quella corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava
"civiltà", ed era vestita con tutte le grazie e le veneri
della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino,
dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche,
entra nella folla de' rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale
de' sonetti e delle canzoni. Ce n'erano a dozzina, e in tutte le parti
d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto, uso giunto fino a' tempi
nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se
oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca
dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idillico,
elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento
nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri
poetici dall'anima vuota e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere:
immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria,
senza base. Non c'è più un mondo organico, ma un accozzamento
fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l'immaginazione
e la malinconia e l'estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano
le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza
con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del
Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo. Lorenzo
comincia lui pure con qualche cosa come la "Vita nuova", e narra
il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de' suoi sonetti,
in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca.
Anche nel suo "Canzoniere" appariscono forme e idee convenzionali;
anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia. Ma c'è
lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità
d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con
pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione;
ma c'è versi assai belli e qua e là paragoni, immagini,
concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove
nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili,
senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava
rima o la stanza. Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del
tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici
giri dell'ottava; non più concetti e sottili rapporti; hai narrazioni
vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove il concetto è dantesco,
come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e
corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è
lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna.
Modello di questo genere è la "Selva d'Amore" di Lorenzo,
composizione a stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto sazievole,
il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtà
minuta, osservata e riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni,
non fatta dall'arte mobile e leggiera, non idealizzata. Tra le sue più
ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro, dove è
patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa, che tutto osserva, e anima
con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è
l'osservatore, manca l'artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che
gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza
nuoce all'illusione e addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:
Siccome il cacciator
ch'i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che
in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno
stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza,
ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore
e l'armonia. Veggasi ora l'artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla
pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
e mentre di tal vista s'innamora
la sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive
le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò che in Lorenzo
è naturalismo, è idealità nel Poliziano. Nell'uno
è il di fuori abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori
ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:
Eranvi rose candide
e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta
esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli. Vedete
ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la
fragranza, la grazia, la freschezza:
questa di verdi gemme
s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo
e descrittivo, di cui il Boccaccio nel "Ninfale" dava
l'esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare
intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui,
e in luogo di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle
più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità
degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce
sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come
son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova
il suo amore!
Qui l'aspettai, e quinci
pria lo scòrsi,
quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d'ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: - Addio.
L'"Ambra",
il "Corinto", "Venere e Marte", la "Nencia"
sono poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza
di rappresentazione l'"Ambra", graziosa invenzione ispirata
da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la "Nencia",
che pare una pagina del "Decamerone". Qui Lorenzo lascia la
mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della
società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini,
con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre
il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena
della "Nencia"; era la città che metteva in caricatura
il contado. L'idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente
nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialità
di Lorenzo: basta ricordare i "Beoni". Chi ama i paragoni
ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine.
Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura
è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai
l'idealità comica: una caricatura fatta con brio e con grazia,
con un'aria perfetta di bonomia e di sincerità. Nella Brunettina
del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione
comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben
fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno.
Notabile è soprattutto la verità del colorito e la perfetta
realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le
vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati. Il poeta
della "Nencia" qui è nel suo vero terreno, divenuto
la voce di quella società licenziosa e burlevole. La trasformazione
è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I
"Beoni" o il "Simposio" è una
parodia della "Divina Commedia "e dei Trionfi non pur
nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini dell'Alighieri sono torte
a significare le sconcezze e turpitudini dell'ebbrezza. Tra questi passatempi
poetici è da porre la "Caccia col falcone", fatti
frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze
sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto. Così si
passava allegramente il tempo:
E così passo,
compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e
insieme il significato di questa pittura di costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi:
una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor comico. Il
mondo convenzionale de' trovatori è ito via, e insieme il suo vocabolario.
Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto
il freno e si dà balìa. Un'allegria spensierata e licenziosa
è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto, ma
un divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la
brevità della vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier
la rosa mentre è fiorita, quel tale: ""Edamus et bibamus:
post mortem nulla voluptas"". Aggiungi la caricatura de'
predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione
di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo,
rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra
le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi
e di sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:
Io non so qual maggior
dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i
gelosi:
Non mi dolgo di te,
nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere
della donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù
tutta di un fiato, così rapida e piena di cose:
Ei convien ti dica
il vero
una volta, dama mia.
Questo
carnevale perpetuo si manifesta ne' "Canti e Trionfi carnascialeschi"
in tutta la sua licenza. Uscivano di carnovale, come si costuma anche
oggi, carri magnificamente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche,
com'è il "Trionfo di Bàcco e Arianna" co'
suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com'è
il canto de' "cialdonai", o de' "calzolai",
o delle "filatrici", o de' "bericuocolai",
ora pitture sociali, come il canto delle "fanciulle",
o delle "giovani donne", o de' "romiti",
o de' "poveri". Il motivo generale è l'amor licenzioso,
stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l'immaginazione.
È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo.
La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni sociali
e l'allegra caricatura, che sono l'anima di questo genere di letteratura,
com'è nel "carnevale" di Goethe, si perdono ne'
bassi fondi della oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue
"Laude", se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature
e freddure.
In questa pozzanghera finirono
le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli
strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a
mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi
vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e suoi
pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati. Ne' suoi canti non trovavi
certo l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure
gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo
Poliziano. Rado capita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanità
e decenza, come ne' suoi consigli alle donne:
Io vi vo', donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
e nel "ritratto
della vecchia", e in quella ballata graziosissima:
Donne mie, voi non
sapete
che io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti
la gentilezza e la grazia delle "montanine" di Franco
Sacchetti, massime quando il fondo è idillico, come nella ballata
dell'"augelletto", e nell'altra:
Io mi trovai, fanciulle,
un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette,
nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi
novità d'idee o d'immagini o di situazioni, e neppure un'impronta
personale e subbiettiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del
popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari
dall'un capo all'altro d'Italia. Perciò non hai qui la freschezza
e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta
e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare
le stesse idee con lievi mutamenti, com'è il fuggire del tempo
e il coglier la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è
piccolo volume, e non s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche
idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono
la bellezza del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l'attendere,
lo sperare, l'incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni
e le disdette. Sono l'espressione di un essere collettivo, non del tale
e tale individuo. E così sono nel Poliziano. I nomi mutano, secondo
l'argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo,
come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse.
Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, come nelle
ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove
domina il settenario o l'ottonario. Spesso non hai che un solo motivo
variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o
un gorgheggio:
E crederrei, s'io fossi
entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell'inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è
il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo, fra onde
musicali, e come viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si ferma e
la trattiene deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia
data tutta la sua armonia. Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta
già come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio
della poesia popolare, povera d'idee, ricca d'immagini e di suoni. La
parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che
si diceva allora: "cantare a aria", qual si fosse il
contenuto, o come dice un poeta, "siccome ti frulla". Così
cantavasi "Crocifisso a capo chino", una lauda, con la
stess'aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la "canzone di maggio",
il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle,
che venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli.
Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca,
congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle
classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto
e sensuale, con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur
disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue più frivole
apparenze le gitta addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile
e grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto
solo il "Trionfo di Bacco e Arianna".
Lorenzo e il Poliziano
sono il centro letterario de' canti popolari, sparsi in tutta Italia non
solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi
versi, come: "O crudel donna, che lasciato m'hai"; "Giù
per la villa lunga / la bella se ne va"; "Chi vuol l'anima salvare
/ faccia bene a' pellegrini", ecc. Vi si mescolavano laude, racconti
e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne' più
piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra
o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano
"cantastorie", quando i loro canti erano romanzette o
romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti
licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio,
come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte
ed eleganti. Erano alla moda "romanzi franceschi" con
le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo
secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi. Della
cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti, e alcuna lontana
reminiscenza ne davano le compagnie di ventura. Cavaliere e cavallo era
ancora il tipo della storia, l'ideale eroico celebrato nelle giostre e
riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare. Tra gli
altri che venner fuori, sono degni di nota l'"Aspromonte",
l'"Innamoramento di Carlo", l'"Innamoramento
di Orlando", "Rinaldo", la "Trebisonda",
i "Fioretti de' paladini", il "Persiano", la "Tavola
rotonda", il "Troiano", la "Vita di Enea", la
"Vita di Alessandro di Macedonia", il "Teseo", il
"Pompeo romano", il "Ciriffo Calvaneo". Il maggiore
attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte
di fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse,
era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò anche
ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare. Le rappresentazioni
presero una tinta romanzesca: l'effetto, non potendosi più trarre
da un sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà
e nel maraviglioso degli accidenti, com'è il "San Giovanni
e Paolo" di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società,
e dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là
risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva
i suoi novellatori. E non si contentavano di riferire i fatti come erano
trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro
non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio
recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate, come immagino fossero
recitate le sue novelle. Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono
poco durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e guasti
dall'erudizione e dalla mitologia. Ma l'impulso da lui dato fu grande;
e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi letteratura
profana, divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo
de' Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi
della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In antico la "Tavola
rotonda" avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero
per qualche tempo il primato. Il Boccaccio nell'"Amorosa visione"
cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne, come nomi già
noti e volgari. Ma la Francia era più nota, e i "romanzi
franceschi più diffusi", e Carlomagno avea un certo legame
con l'Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e vincitore
de' saracini e precursore delle crociate. Era già comparso l'"Innamoramento
di Orlando". E Matteo Boiardo ci diede l'"Orlando
innamorato", una vasta tela in sessantanove canti, interrotta
dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un
centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la
letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il
Boiardo, uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di
Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio
alla letteratura toscana. Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è
facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto
negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una serietà
di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo.
Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma
i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare
i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà d'Omero,
e fu salutato allora l'"Omero italiano". Certo, non crede
alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità
scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della
coltura a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio
fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria
nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e
le cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano così vuote,
come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso,
anzi negato e parodiato. Invano si studia il Boiardo di togliere alla
plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un'epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri,
costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il
mondo cavalleresco, mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui
sotto forme epiche il mondo plebeo dell'immaginazione, un maraviglioso
sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di
scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada. Come Elena
nell'"Iliade", qui è Angelica che move intorno
a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente,
rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa
macchina, è il maraviglioso in permanenza, la maga. Il miracolo
continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo
non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a se stesso.
Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo
serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e ne' primitivi
poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo
altra serietà che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli
uditori con la straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle
azioni non sono a cercare nella serietà di un mondo religioso,
morale, eroico, divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano,
ma nel libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di
potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità,
dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da leggi e da autorità
superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti
così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti. Orlando e Rinaldo
ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica.
Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco
serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo della
cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno,
e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il ferrarese ha creduto renderlo
cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e
da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza
di serietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi plebei
il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori;
ma i colti "signori e cavalieri", alla cui presenza recitava
il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici racconti
che un puro giuoco d'immaginazione, disposti a spassarsi della plebe,
che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dunque non poteva
divenire borghese se non trasportato nell'immaginazione e accompagnato
da un sogghigno. E tutte e due queste condizioni mancano nell'"Orlando
innamorato". Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti
e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo, non è tutto cosa
sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso
materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo,
combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanità,
è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà
de' suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure.
Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell'artista, e soprattutto
quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo,
l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un
tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia. Gli
manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione artistica
che si chiama fantasia. Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo
storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane
pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni,
non ti tira per forza in una regione incantata.
A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più
desiderabile, la magia dello stile. Le più originali concezioni,
le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello:
sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma
in una donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione
comica, unicamente per la soverchia crudezza de' colori, a cui mancano
le gradazioni e le mezze tinte. Così quel mondo, che nella sua
intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce spesso nella
rappresentazione prosaico e volgare. Non una sola situazione, non una
figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare
a festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome di
Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E non è
Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi, Luigi Pulci
rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo
"Morgante". Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del
tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello "sgangherato e senza
remi", come lo chiama Battista Alberti, sino a Lorenzo
de' Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti,
e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano
e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come
lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco
e di serio. E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più
gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto borghese:
gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e
ti camminano innanzi semplici mortali. Niente è più volgare
che Carlo o Gano. Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante
destituito di ogni grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo
è un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne
e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di caratteri
e passioni non fa parola: è un mondo superficiale e mobilissimo,
e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de'
paladini, Forisena si getta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è
scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena
abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica,
rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con
la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena.
È la cavalleria com'era concepita e trasformata dalla plebe. Il
cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo,
che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori, e invocati gravemente
Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi, e ti fa sbellicar
dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio nei racconti e nelle commedie,
è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del
racconto. La parte più seria del romanzo è certo la morte
di Orlando; e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande
battaglia:
Chi vuol lesso Macon,
chi l'altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch'io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch'io muova presto le lance e la penna.
Nell'inferno si fa gran
festa, che attendono i pagani; Lucifero "trangugiava a ciocche
le anime che piovean de' seracini"; e san Pietro attende le anime
de' cristiani:
E perchè Pietro
a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s'affanna;
e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: - "Osanna"! -
ch'eran portate dagli angeli in cielo:
sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.
I campi di battaglia svegliano
immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di
spada sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa
diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati
che perdono ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato
in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con
tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo
il grottesco, com'è ne' romanzi primitivi. Ma qui il buffone è
un uomo colto, che parla a un colto uditorio, e non è il buffone,
ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede.
Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò
la "Belcolore" e la "Nencia": è
il borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla
finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama
in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce
e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi
personaggi. La parodia è ancora più comica, perchè
dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente
nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è
Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino,
o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno,
nota l'angiolo Gabriello, trasformato l'individuo in tipo. La rappresentazione
è anch'essa conforme a questa parodia plebea. La plebe non analizza
e non descrive; ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva, e coglie
ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si
ferma e passa oltre.
La forma qui è tutta
esteriore e rapida; si movono insieme "le lance e la penna";
l'autore, mentre move la penna, vede le lance moversi, vede quello che
scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide,
e tu le cogli in una sola girata d'occhio. L'ottava non ha periodo e le
rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi,
poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è
un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto
per la proprietà de' vocaboli. Tutto è plebeo: azioni, passioni
e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di
Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio. - "E io voglio
fare il boia" -, dice l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti
che illuminano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio,
che vuol farsi cristiano all'ultima ora, è quale potrebbe suonare
in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore
si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non c'è
il sentimento. Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico
vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione
volgare e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo
e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono plebe e la
guardano alcun poco dall'alto. Ma il Pulci, ancorchè uomo colto,
per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare
la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò
gli mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia,
la finezza, la profondità dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano,
superficiale, inculto e negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanità,
ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi
personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietà di movenze,
di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo un piccolo mondo. Rinaldo,
Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono
tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro che della forza.
Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio,
Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutti i pagani sono esseri
superficiali, e spesso puri nomi. I più accarezzati dall'autore
sono i due personaggi del suo cuore, Morgante e Margutte. Morgante è
lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del
racconto. Non è il cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa
storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche
dopo la sua morte.
Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto,
millantatore, ignorante, di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso.
Il suo battaglio è l'emulo di Durindana. Margutte è la plebe
nella sua degenerazione e corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento,
assai vicino all'animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono
e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e
i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia,
come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra
ancora fra' cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il
tutto, l'alto modello a cui più o meno è informata la storia,
intitolata a buona ragione Il "Morgante".
Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto
di Dante, che già riceve una prima trasformazione nel suo nero
cherubino, il bravo loico che ha tutta l'aria di un dottore di Bologna,
qui prende aria paesana, ed è un buon compagnone. Come il nero
cherubino arieggia agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito
del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo
e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio
e Gregorio; chè
ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è
stato un serafino e de' principali, sa molte cose, che non sanno "i
poeti, i filosofi e i morali", e dice la verità, e non
fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l'aria e ingannano gli
uomini, "facendo parere quel che non è":
chi si diletta ir gli
uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa
a fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come
un diavolo d'onore:
Chè gentilezza
è bene anche in inferno.
E sa la verità non
per ragione, ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole
anche con l'autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come
nella quistione della prescienza, la quale "l'umana gente avvolge
di tanti errori", dice: - "Nol so: però non ti
rispondo" -. Ma quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro. E afferma
che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano
la loro religione, come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta
grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro
emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella
gente è parte della famiglia di Adamo, anch'essa redenta, altrimenti
Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di
Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran numero di
animali poco noti. Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi
pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia
indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè il
dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore
del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura
e delle meglio disegnate e sviluppate del "Morgante".
Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben
chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni
ascetiche, e diffida de' ragionamenti astratti, e si gitta avido nella
esplorazione della natura e dell'uomo.
Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della
storia e rifanno Atene e Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia
e astrologia e fatture e altre "opinioni sciocche", mostre
ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt'i versi
e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano. Il
secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la
fisica, la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli
enti e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano
le menti più che i ragionamenti sottili. Aggiungi l'ironia, quel
prender le cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena, quell'aria
già scettica e miscredente, ancorachè non ci sia ancora
negazione e scetticismo, e avrai l'immagine del secolo, il ritratto di
Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione,
e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la coscienza seria e intelligente
delle nuove vie, nelle quali entra il secolo; gli manca quell'elevatezza
d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi
orizzonti. L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è
insignificante. E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo
ancora inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi
e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo
letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
C'è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse
abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto,
poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia,
educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze
accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco
signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato
da' contemporanei come "uomo dottissimo e di miracoloso ingegno",
""vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque
doctrinae"", dice il Poliziano. Destrissimo nelle arti cavalleresche,
compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi
poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Devasi a lui la facciata
di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai,
la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini.
Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento
per misurare la profondità del mare, detto "bolide albertiana".
Nelle sue "Piacevolezze matematiche" trovi non pochi
problemi di molto interesse, e nei suoi libri "Dell'architettura",
che gli procacciarono il nome di "Vitruvio moderno",
ai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi "Rudimenti"
e i suoi "Elementi di pittura" e la sua "Statua"
contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a
venti anni e intitolato "Philodoxeos", venne da tutti
gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb
a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della
repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso,
addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici
e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne' suoi "Intercenali"
o "intrattenimenti della cena", ne' suoi "Apologhi",
nel suo "Momo" scritto a Roma il 1451, dove rappresenta
se stesso, piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti
e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio
riuscirono le sue "Egloghe" e le sue "Elegie",
amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche
Platone, e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così
lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che
facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come
artista ne' suoi dialoghi della "Tranquillità dell'animo"
e della "Famiglia", il cui terzo libro fu lungo tempo
attribuito al Pandolfini, e del "Teogenio o della vita civile
e rusticana". Tali sono pure "l'Ecatomfilea",
la "Deifira", la "Cena di famiglia",
la "Sofrona", la "Deiciarchia". Il dialogo
è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare
e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi
anche dove parla uno solo come nelle sue "Efebie", nella
sua epistola "sull'Amore", nella sua "Amiria".
Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà
delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto
a quel tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine
più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già
tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia.
La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile
e familiare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia delle
sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze,
cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza,
il nuovo regno della scienza. È un artista, perchè non solo
studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura. Anima
idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella
pace e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in
villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto
di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme,
di cui è base l'""aurea mediocritas"",
una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione.
Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito,
che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente
con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca
di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima. E non è
la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' "quadretti
di genere" del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il
paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi
la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità, dov'è
posto l'ideale della felicità.
Il vero protagonista è perciò l'uomo, com'era concepito
allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e
riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto alle sue faccende e
a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano,
che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno,
porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale arte
si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane
da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola
e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metà epicureo,
è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista
ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi
moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la "voluttà".
Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità
in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma
il cielo e si occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia
con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente
alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei,
a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il
filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si porgeva.
I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle
sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto
dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un'astrazione,
un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella
vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive
più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o
rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli
occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde riesce pittore
di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile.
E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è
in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice,
che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa
spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato.
È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o
cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli
l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è
lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle
ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della
vita: ""protervorum impetum patientia frangebat"",
dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza
o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura,
impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano
e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate,
il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia.
Questo amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma
come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di
Battista.
Quest'uomo, che alla vista
della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a contemplare
l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina
l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le
belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così
profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e
anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli,
dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di
principi e di pontefici, e i moti delle città. Indi è che
nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito
e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che
mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel "Governo
della famiglia" la pittura della vita villica, e la descrizione
del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo
la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: "Tristo a me! E
ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella
in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino. - Ella
m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime
e il liscio". Dello stesso genere è la pittura de' giocatori
nella "Cena di famiglia" e nella "Deiciarchia",
e il ritratto nel "Teogenio" della vita quieta e felice
di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
"Truovomi
ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco;
odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano,
seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto
ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual
certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi
dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai,
poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè qui
ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando
queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa
vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E parmi abitare
fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de'
cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi senza cura alcuna
di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da
tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe
in solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco
disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime
e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti
beni."
Par di udire Cicerone a
discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo
felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza
sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza
plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia,
ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è
la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime
pagine della "Tranquillità dell'animo", ove Battista
pinge maravigliosamente se stesso. Nell'"Ecatomfilea"
ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è
la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli
uomini "che fioriscono in età ferma e matura":
pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo
dice:
"Parmi
poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende
fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli,
ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi
per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però
che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì,
non seguendo voi, ma fuggendo tedio."
La storia dell'amore e
della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico
perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto
innanzi alla "Fiammetta" del Boccaccio, la cui imitazione
è visibile nella "Ecatomfilea", e più nella
"Deifira" e nella "Epistola di un fervente amante":
pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura,
come il Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande scrittore
devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola sopra
l'amore, reminiscenza del "Corbaccio", e la pittura delle
donne e l'altra dell'amante, pari alle più belle del "Corbaccio".
E, per finirla, vedi nella "Tranquillità dell'animo"
la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima
precisione degli accessorii:
"...
questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ... mi diletta
ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una
sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto
ad amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è
fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in queste voci il
sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità
maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello
a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra
perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami
lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì
bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere
e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine?
Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare
da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi."
Come son vere queste impressioni!
E con quanta felicità rese! "Gracilità vezzosa",
"lentezza d'animo", sono forme nuove, pregne d'idealità.
Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento
artistico, e move l'animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona,
o quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi,
e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua
novella di "Lionora de' Bardi", vivace, rapida, rimane
una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere
nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella
poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal
plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile
ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così
Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente
è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera
del Boccaccio. Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine,
come ""bene est"", ""etiam"",
""idest"", ""praesertim"";
e parole e costruzioni e giri latini, come "proibire"
e "vietare", e participii presenti e infiniti con costruzione
latina, e "affirmare", "asseguire",
"conditore di leggi", "duttore", "valitudine",
e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole
e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro, che
ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante,
che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di
gentiluomo, se non con latina maestà, certo con gravità
elegante ed urbana. E come è un toscano, anzi un fiorentino, la
latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se
guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e
de' passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più
intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura
ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato,
fatto maturo dalla educazione classica. Pure, se per queste qualità
Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane
molto al di qua dalla perfezione.
La prosa non è nata ancora: c'è una prosa d'arte, dove lo
scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira
principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come
arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà
di più compìto in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti
quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così
perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il "Decamerone",
fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti, quadri staccati.
Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo
riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se si ha a dir "secolo"
un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni,
come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento,
il cui libro fondamentale è la "Commedia", e il
secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua
sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dall'uno
all'altro.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È
il passaggio dall'età eroica all'età borghese, dalla società
cavalleresca alla società civile, dalla fede e dall'autorità
al libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto della
natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica. Hai
un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si
rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di
concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi.
Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella
sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione
è ne' classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde
lo studio dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto.
Perciò il grande uomo del secolo per confessione de' contemporanei
fu Angiolo Poliziano, che nelle "Stanze" si accostò
più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento,
che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa,
fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con
l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo, e il
suo ideale è l'idillio, sono le "Stanze". L'eleganza
e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de' costumi
ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe fanno le spese.
Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già
aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva
sotto le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i baccanali
sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola, e parve l'ombra
scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra
frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano,
Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e Arianna,
e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce nunzia
di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto
de' morti:
Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: - Penitenza. -
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e
scettica chiamò quella gente i "piagnoni", e quella
gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo
non fu potuto fare, si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio
quale stacco era fra una borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante
e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate.
Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri,
a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa e non l'effetto
del male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci si può
metter niente per forza. Ci vogliono secoli, prima che si formi una coscienza
collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi
ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa
coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso
fosse nell'impresa del frate. Nella storia c'è l'impossibile, come
nella natura. E il frate, che voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla,
era alle prese con l'impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione. L'Italia ripigliò il
suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua
civiltà. Quaranta anni di pace, la lega medicea tra Napoli, Firenze
e Milano, l'invenzione della stampa, la digestione già fatta del
mondo latino, l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza
del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle scoperte,
e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a Firenze, a Urbino,
a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della
vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano
ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del
secolo, e creato un movimento così efficace di civiltà,
che non potè essere impedito o trattenuto dalle più grandi
catastrofi.
Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo, al
Pulci, a Lorenzo, al Poliziano.
E i giovani si chiamavano
Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo
da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una falange
predestinata a compiere l'opera de' padri. L'un secolo s'intreccia talmente
nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro
cominci. Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo
stesso ideale.
Fonti, testi e citazioni
FRANCESCO
DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA
e D'ITALIA
IGNAZIO CAZZANIGA , STORIA DELLA LETTERATURA LATINA,
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
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