LETTERATURA
LA LETTERATURA DEI POPOLI MODERNI

( Letteratura e Politica nel Risorgimento )
Da MASSIMO D'AZEGLIO a MAZZINI

* MASSIMO D'AZEGLIO UOMO DI TRANSIZIONE
* SI RIVELA MAZZINI


 

* MASSIMO D'AZEGLIO - IL ROMANZIERE E IL POLITICO
* LO STILE DEI "MIEI RICORDI "
* D'AZEGLIO UOMO DI TRANSIZIONE
* CARATTERI DELLA SCUOLA MODERATA...
* ... POI SPUNTA NEL FIRMAMENTO MAZZINI

 

Nel 1815, quando s'instaurava dappertutto l'Europa feudale e dispotica sotto le baionette della Santa Alleanza e le benedizioni di Pio VII, i principi, ritornando alle loro regge, rimettendo tutto a vecchio, inviarono ambasciatori al venerabile Pio per rallegrarsi del suo ritorno. Partiva da Torino con i figliuoli e con pomposo seguito pure CESARE d'Azeglio, appartenente ai primi gradi dell'aristocrazia e della milizia, e andava a inchinarsi ai piedi del Sommo Pontefice prestandogli omaggio, e rallegrandosi con lui che oramai la porta delle rivoluzioni era chiusa e l'ordine regnava in Europa.

La scena dovette essere commovente; il buon Pio dopo i dolori dell'esilio dovette accogliere con tenera espansione le regie felicitazioni; e il gentiluomo piemontese dovette con perfetta buona fede fargli il quadro della nuova Era che si apriva in Europa, era d'ordine e di pace, che si chiamava la restaurazione. La voce severa dell'avvenire non entrò a turbare quei momenti di credulo oblio nei quali Pontefice e Ambasciatore dovettero sentirsi felici; altrimenti quella voce avrebbe potuto sussurrare all'orecchio del gentiluomo piemontese: -Bada, Cesare d'Azeglio; mentre tu parli di restaurazione, la rivoluzione ti entra in casa; dove hai lasciato tuo figlio?
Infatti, mentre il padre s'intratteneva con il Papa, MASSIMO, suo figlio, di poco più che quindici anni, andava per le vie di Roma contemplando i monumenti e riceveveva le prime impressioni della grandezza italiana. Invano il padre aveva fatto di lui una guardia urbana della restaurazione; il giovinetto, sotto quella divisa, segno di tempi andati, già sentiva svegliarsi nell'animo l'uomo nuovo alla vista di quei monumenti che dicevano patria, libertà, gloria, grandezza nazionale, Roma, Italia.
Il buon CESARE d'Azeglio non teneva conto della nuova generazione, e prometteva troppo al Pontefice della sua Torino; non sapeva che in mezzo ai cattolici sarebbe sorto Cesare Balbo, in mezzo all'aristocrazia sarebbe sorto Cavour, e a lui gli sarebbe sorto in casa MASSIMO D'AZEGLIO.

Questo grande italiano ha vissuto abbastanza per veder quasi compiuto il lavoro della nuova generazione, della quale è stato sì gran parte. Egli ha fatto il suo dovere, e noi oggi adempiamo il nostro, onorando con pubblico lutto la sua memoria e commemorando la sua vita.
Nella storia di Massimo d'Azeglio c'è un po' la storia di tutti; ogni uomo di qualche valore ha dovuto, come lui, prima subire una cattiva istruzione, poi ristudiare, rifarsi una educazione, aprirsi lui la propria via; e quando giunse l'ora dell'opera ha dovuto gettarsi dietro gli studi e divenire soldato d'Italia.
Massimo d'Azeglio ha dovuto lottare sino a venti anni contro i maestri, contro la famiglia, contro la sua classe, contro quello spirito redivivo del Medioevo che si chiamava la restaurazione. Il suo maestro, un ecclesiastico, lo tribolava col suo latino, e con la storia antica, con i medi, gli assiri, i persiani, gli egiziani. Al padre doveva parere un capriccioso. E il suo capriccio era che voleva andare a Roma, e farsi artista. "Roma gli ha guastato il capo", diceva il padre.

Come cadetto di nobile famiglia, Massimo non poteva essere un artista; doveva essere o prete o soldato. A sedici anni fu dunque fatto ufficiale di cavalleria. Era un bello ufficiale, di alta statura, svelto nella persona, destro nel maneggio del cavallo, e testa scarica, da cui erano fuggiti, medi, assiri, persiani, egiziani e il latino.
Il cadetto era salvato, ma l'uomo era perduto. Tutto quell'ardore giovanile, quel soverchio di vita egli lo riversò ne' piaceri, ai quali si diede abbondantemente, e dove, se qualche cosa dava ancor segno della sua non volgare natura, era il brio, la grazia che ci metteva, un certo amabile folleggiare pieno di spirito e di buon umore che rivelava l'ingegno. Così alcuni nobili giovani furono educati, e così furono perduti; scosso appena il giogo del maestro, acquistato il diritto di non studiare, logori dai piaceri e dall'ozio, stranieri alla storia del loro paese, oggi non sono neppur capaci di comprender l'Italia e maledicono quello che non comprendono.

In questa folla ignota sarebbe rimasto confuso Massimo d'Azeglio, se non gli fosse stato accanto un uomo di cuore e di buon senso, il professore Bidone, non suo maestro, ma suo amico, che parte motteggiando, parte ammonendo, dell'ignobile vita gli fece vergogna.
Tornò allora a Massimo in mente il capriccio di andare a Roma e farsi artista; il capriccio del fanciullo divenne la volontà di un uomo. Invano i suoi compagni di piacere lo chiamarono un matto; egli sentì che allora appunto cominciava a divenire un uomo savio. Il padre volle far prova della sua fermezza, e gli tolse ogni sussidio, lasciatogli appena il bisognevole. Ma Massimo si ostinò, partì per Roma, come un antico pellegrino, e vinse; vinse in questa lunga lotta contro la sua educazione e i pregiudizi della classe. Partiva ufficiale di cavalleria; tornava artista, scrittore e cittadino.
Sentiamo lui stesso, come si dipinge a quel tempo:

"
Avevo, egli dice, dai venti ai venticinque anni, buona fibra, pochi pensieri e meno quattrini. Nessuno sapeva che fossi al mondo, ed io volevo farlo sapere. Diventerò pittore, dissi, e farò parlare di me".

Dal maggio all'ottobre nei paesi circostanti della campagna romana si vedeva passare un giovane, dalla fronte spaziosa, dallo sguardo velato, dalla fisionomia dolce e benevola, a cui faceva strano contrasto la veste di contadino, con quella camiciuola di velluto bleu in sulla spalla, con quello schioppo ad armacollo, con quel coltello nella tasca dritta dei calzoni.
Quel giovine era Massimo d'Azeglio, e visse così dieci anni, correndo in tutti i paesi intorno a studiar la natura, ad imparar l'arte, e ritirandosi la sera in casa di un contadino, dove pagava poco e viveva con la famiglia. Certo quella vita doveva parergli dura, lui nato gentiluomo ed agiato; pure era così contento, e lavorava con tanto buono umore; sentiva di esser libero, di esser divenuto un uomo, e diceva fra sé : - Un giorno saprà il mondo che io ci sono.
Questa vita conduceva d'Azeglio dal maggio all'ottobre. L'inverno si levava col lume e rifaceva i suoi studi. Si diede ad imparare l'italiano e le lingue moderne, la storia d'Italia, la nostra letteratura e la nostra vita. Allora era molto in voga lo studio del Medioevo. Era una specie di reazione a quella storia greca e romana alla quale si attribuivano quelle ubbie rivoluzionarie che avevano guastato i cervelli. E per racconciarli si raccomandava il Medioevo, che rappresentava la grandezza del papato ed il diritto divino, e ne era venuto fuori non so qual sistema fra il mistico e il feudale, che doveva essere il catechismo della nuova generazione: il Medioevo della restaurazione.

Ma non c'è sistema, né storia che possa fermare il sole, voglio dire il corso fatale delle cose. L'Italia viveva oramai in tutte le intelligenze, e l'intelligenza è quella che fa la storia. D'Azeglio studiò il Medioevo a modo suo e s'incontrò con altri scrittori italiani. Costoro avevano forgiato un Medioevo della rivoluzione italiana, dove scrittori, prìncipi e guerrieri, parlano il nostro linguaggio ed operano e vogliono secondo i nostri desidèri. Così lo cercò e lo scoperse Massimo d'Azeglio; così lo rappresentò ne' suoi quadri e ne' suoi romanzi.
E che cosa erano i suoi quadri? Erano una storia del Medioevo ad uso degl'italiani del suo tempo. Erano la disfida di Barletta. Erano la battaglia di Legnano. Erano i brindisi del Ferruccio innanzi alla battaglia di Gavinana (1834). Era la battaglia di Gavinana. Più tardi furono le più amene fantasie dell'Ariosto, l'Ombra dell'Argalia, il Duello tra Ferraù e Orlando (1837), Astolfo che insegue le Arpie, Sacripante ed Angelica, Bradamante (1838). Più tardi la difesa di Nizza contro Barbarossa e contro i Francesi (1840), la battaglia di Torino, la battaglia dell'Assietta (1841). Milano accorreva ogni anno all'Esposizione di Brera, e vi trovava sempre un nuovo quadro del d'Azeglio, e vi trovava sotto - gli occhi dell'Austria - un nuovo frammento della grandezza nazionale, una nuova protesta contro la dominazione straniera.

Un giorno l'artista disegnava la Disfida di Barletta, e giunto al gruppo di mezzo si arrestò pensoso, come non contento: E se io vi scrivessi su un romanzo ? - disse a se stesso. Questa domanda era una rivelazione; l'artista si sentiva incompleto; e dietro al pittore inappagato.... apparve il romanziere.
Era il 1833. Le speranze nella Monarchia di Luglio erano svanite; lo straniero aveva soffocato nel sangue i moti di pochi generosi; ogni via pareva chiusa di migliore avvenire. Eppure non si era mai parlato tanto d'Italia, mai le speranze non erano salite così alte. Gli è che spesso ci veniva una buona novella, un pezzo di questo Medioevo ad uso nostro.
Oggi era la poesia dello
Stivale, domane le Fantasie sulla Lega Lombarda. Ora ci giungeva l'Arnaldo da Brescia; ora il Coro dell'Adelchi; ora l'Assedio di Firenze. E noi ci comunicavamo furtivamente la buona novella, e ci sussurravamo all'orecchio i colpevoli versi e divoravamo il libro vietato. Un giorno correva di mano in mano l'Ettore Fieramosca. E bevevamo a larghi tratti l'orgoglio di quello che fummo e accompagnavamo palpitando alla pugna Ettore e Fanfulla.
Ricordo con quanta indignazione seguivamo i passi di colui, che italiano combatteva contro italiani accanto allo straniero. Ricordo con quale accento dell'anima accompagnavamo le parole di Brancaleone, quando, gettatolo giù dal cavallo, gli diceva : - Sii maledetto, o nemico del tuo paese! - E noi aggiungevamo : - Siate maledetti, voi che pregate per la vittoria dello straniero, voi che desiderate lo straniero a casa nostra.
Nei nostri animi c'era già il '48, c'era già l'Italia, e noi ne dobbiamo esser grati a quella eletta schiera di cittadini che cospiravano alla luce del sole col pennello e colla penna.

All'
Ettore Fieramosca succedette Niccolò de' Lapi (1841), la tragedia dell'Italia, che moriva intorno alle mura di Firenze. Moriva, ma lasciando di sé tale memoria, che preannunciava il risorgimento; moriva, ma raccogliendo nell'ora della morte intorno a Michelangelo i Ferruccio quanto di più eroico si possa ricordare in tutta la sua vita.
Quel libro è il codice dell'eroismo italiano: là abbondano i grandi fatti e i grandi motti. Quando Niccolò vede partire per il campo i suoi figli, dice: - "O Firenze! o patria! Null'altro mi rimane, fuorché coteste vite! io te le dono!"-
Questo è il motto che pronuncia anche una madre, la madre di Cairoli. Caduto Ferruccio, ogni speranza era perduta; quale fu la risoluzione di Firenze? Difendersi e sempre difendersi, dice d'Azeglio.
Questo motto pronuncia il
difendersi ad ogni costo di Venezia 'nel '48, la martire.
La visita di Niccolò alla tomba del Ferruccio, la sua venerazione per Savonarola, di cui serbava devotamente le ceneri, il suo processo, il suo supplizio, sono come l'accompagnamento funebre dell'epoca dello scrittore, di quell'epoca di persecuzioni o di processi, nella quale la grandezza del martirio pronunciava la grandezza delle opere.

Questo fu il "Medioevo" creato da Massimo d'Azeglio. Raccomandato, favorito dalla restaurazione, lo studio del Medioevo si volse contro di lei, o divenne uno dei più efficaci fattori della nostra redenzione. Noi vi cercammo non diritti storici, non pergamene, non codici, non istituzioni, non pretese di papi e imperatori, ma le tradizioni e la carta della nostra nazionalità, una più chiara coscienza di noi stessi, le testimonianze e i documenti del nostro valore o della nostra grandezza.
E i nostri scrittori ne fecero un olimpo della rivoluzione italiana, i cui Dei maggiori si chiamavano Dante e Machiavelli, e in questo olimpo incontriamo le vestigie che hanno lasciato il pennello e la penna di Massimo d'Azeglio.

Italiani, non dimenticate che è l'ingegno che ha creato l'Italia, che le ha dato una coscienza ed una fede, che l'ha tratta dal sepolcro, e le ha detto: -
Sorgi e cammina !
Il giorno che voi potreste essere ingrati verso l'ingegno, voi perdereste il diritto di avere una patria, e l'Italia sarebbe oscurata nel vostro cuore.

Nel 1841 finì la vita artistica e letteraria di Massimo d'Azeglio, e, in quel periodo, di tutti gli scrittori italiani. Ciò che era maturo negli animi, doveva prorompere nei fatti. Quegli scrittori diventano cospiratori, tribuni, oratori, soldati: comincia la vita politica. D'Azeglio abbandona Milano, e prende il suo domicilio sulla strada maestra, com'egli dice: "dappertutto dov'era a prender concerti, a preparare, ad ordire, a fare".
C'era confusione nelle menti. Si tentavano moti così a caso, dove ira o impazienza tirava; si voleva troppo e perciò non si voleva nulla. I popoli forti non vogliono se non quello che possono. Quelli che vogliono assai più che non possono, hanno velleità, non hanno volontà, e rassomigliano quei fanciulli, che conquistano in immaginazione regni o imperi.
D'Azeglio con parecchi altri ebbe questo concetto, che per riuscire la rivoluzione doveva limitare se stessa, voler una cosa alla volta, voler quello solo, ivi appuntare le forze. Negli animi c'era libertà, indipendenza, unità. Separiamo, disse d'Azeglio, quello che negli animi è uno. L'indipendenza è la condizione di tutto il resto. Siamo indipendenti, cacciamo via lo straniero; dopo avremo libertà o unità. E d'Azeglio pensava che a voler questo solo avremmo avuti compagni papi e principi; ai quali doveva pesare non meno che a noi l'essere essi divenuti Prefetti dell'Austria.
D'Azeglio dovette ricordare le parole del cardinale Bernetti, a lui ancor giovinetto, in Roma : - "L'Austria ci obbliga, il Duca di Modena ci fa delle note; che fare? sono più forti di noi !" - Riunire dunque principi e popoli nella guerra d'indipendenza era il concetto di d'Azeglio, fu il concetto che poi diede vita al '48.

Il concetto fu buono per darne facile inizio al moto; non fu invece buono a regolarlo, né quindi a compierlo. Non si può impunemente separare quello che nell'animo è uno. Invano si gridava: - Viva l'indipendenza! - Nello paure dei principi e nelle speranze dei popoli si affacciava un'altra idea: libertà e unità. Il concetto ruppe a due scogli : alle paure dei principi ed alle audacie dei popoli. E infatti il '48 finì, con una catastrofe. A Milano come poi a Venezia.

Uno degli atti che più conferì ad accelerare il moto italiano, fu uno scritto che comparve nel '45, col titolo "Gli ultimi casi di Romagna". Sotto a quello scritto si leggeva il nome di Massimo d'Azeglio. È un atto d'accusa indirizzato all'Europa civile contro un governo debole, e nella sua debolezza feroce, che sotto nome di repressione aveva preso vendetta dei tumulti di Rimini. C'è lì dentro un'aria di moderazione che cresce peso e credito all'accusa; un buon segno che guadagna gli animi non prevenuti; una cotal bonomia e, schiettezza che ti dice che lo scrittore è un galantuomo e non ti può ingannare.

Questo libro fu il primo delitto di Massimo d'Azeglio. Cacciato da Roma, bandito da Firenze, riparato in Genova, stimola con le lodi Pio IX, e, decretata l'amnistia, va a Roma. Voi sapete il resto. Dall'amnistia si andò alle riforme, dalle riforme alle franchigie, dalle franchigie allo statuto, dallo statuto alla guerra d'indipendenza; i fatti si succedevano com'erano già scritti nella coscienza, come le parti fatali di un ragionamento. D'Azeglio gridava - Una cosa alla volta! -; ma da cosa usciva cosa, e si andava col vapore.

D'Azeglio si sentì oltrepassato. Temeva che questo rapido correre verso la libertà dovesse insospettire i principi e raffreddarli nell'impresa dell'indipendenza. Ma quando sentì Ferrara occupata dagli Austriaci, e il popolo sciabolato a Milano, fu tutto lieto che l'Austria rompesse lei gl'indugi e provocasse la guerra, e colse a volo l'occasione.
Scrisse il Lutto di Lombardia, pagine concitate, tutte collera, che furono il primo squillo a stormo delle cinque giornate di Milano. Si ricordò allora di essere stato ufficiale di cavalleria; l'artista si rifece soldato e meritò l'invidiato onore di una palla austriaca a Vicenza.
Sul suo letto di dolore gli giunsero le triste nuove. Il buon d'Azeglio se la prese con tutti, con le persone, con i partiti, con i principi, con i popoli; il suo umore s'inasprì, si fece giornalista e prese in mano il flagello. Spettacolo triste che diede l'Italia di sé in quei giorni con le sue querule recriminazioni. Non seppe nella sventura serbare la dignità di vinta, e con le discordie, quando più importava essere uniti, giunse a Novara.

L'impresa alla quale d'Azeglio aveva sacralizzata la vita, era dunque mancata. In quell'impresa c'erano i primi sogni della giovinezza, le ispirazioni dell'artista, i palpiti dello scrittore, il suo pensiero, il suo cuore, il suo sangue, ed era mancata, o bisognava cominciare da capo !
D'Azeglio non disperò e si rifece da capo. Pensò che, se la reazione fosse stata arrestata e vinta in Piemonte, se lo Statuto poteva rimanere intatto sulle onde del comune naufragio, nel Piemonte sarebbe rimasta la leva dell'avvenire. Ebbe fede nel suo paese e nel suo Re, e il suo Re e il suo paese ebbero fede in lui. Ventura fu che incontrò allora un Re galantuomo, ed un Ministro galantuomo.

I tempi volgevano al peggio. Sopravveniva il colpo di Stato. La reazione infuriava in Italia. I nostri sguardi erano tesi con angoscia verso il Piemonte: parve impossibile vi potesse durar lo Statuto. D'Azeglio pensò che per vivere bisognava fare il morto. Abbassò la sua voce e abbassò quelli che l'alzavano troppo. - Zitto, che non ci sentano, - par che volesse dire. Questa politica rimessa, se è utile in qualche tempo, uccide sempre il suo autore. Non si dice impunemente a un popolo concitato: arrestati, fatti savio e modesto.
D'Azeglio lo sapeva, ed immolò la sua popolarità alla salvezza pubblica. Egli perdette se stesso, ma salvò lo Statuto e la Patria.

Forse coloro che lo accusavano di politica troppo timida, e l'incalzavano con le calunnie e le contumelie, sarebbero stati più indulgenti verso Massimo d'Azeglio, se avessero potuto spinger lo sguardo dietro le cortine e vedere quanto quel Ministro, che parca timido, in pubblico, fosse coraggioso in segreto.
Forse, se avessero potuto sapere con quanta tenacità teneva fermo contro la irrompente reazione e ne guastasse i maneggi e gl'intrighi, avrebbero essi compreso, qual sublime sacrificio di sé faceva quell'uomo, che nell'interesse dello Stato doveva in pubblico minacciare quella libertà che difendeva in segreto. E forse allora avrebbero sentito quanta grandezza è nel suo ultimo motto, quando presso a cadere e interpellato vivamente in Senato, cosa egli aveva fatto, si contentò di rispondere: - Ho vissuto.

E perchè il Piemonte seppe vivere, potè poi operare. In quel riposo potè rifarsi d'animo e di forze, e domandare qualcos'altro più che non fosse il vivere. D'Azeglio aveva detto : - Per vivere bisogna fare il morto. -- E Cavour disse: - No, per vivere bisogna farsi vivo. - La missione d'Azeglio era compiuta; il paese fu con Cavour.
D'Azeglio disparve dalla vita politica, in silenzio, senza recriminazioni, conscio di aver perduto per sempre il favor popolare, conscio di averlo voluto perdere lui, e di avere ben fatto. Ministri volgari, quando scendono dal potere, vanno nelle file dell' opposizione a suscitare difficoltà ai loro successori, e a creare partiti personali e artificiali. D'Azeglio si diede una più nobile missione. Quando non potè più essere utile in Torino, andò a Londra a propagarvi le simpatie per l'Italia e a spianare la via a Cavour.
Accettò gli uffizi commessigli, non domandando se erano eguali al suo merito, ma se poteva farvi alcun bene. Quando gli parve utile dare un consiglio al paese lo fece con semplicità pari al coraggio, senza domandarsi dove spirava il vento, dove piegava l'aura popolare. Un giorno, quando tutti gridavano Roma capitale, egli disse : - Firenze! - e subì in silenzio i sarcasmi di Cavour e lo sfavore popolare.
Un altro giorno, tra l'incessante grido: - Roma e Venezia! - egli fece sentire questa voce severa al paese - Consolidiamo lo acquistato: a Roma e a Venezia si penserà poi. - In questi tempi di mezzi caratteri e di mezze passioni, quando l'uomo politico pone la sua abilità a rimanere in una luce equivoca, e serbarsi per molti programmi, d'Azeglio osò dire ad alta voce quello che è nell'animo di molti, e raccogliere sul suo capo tutta l'impopolarità di una politica che giudicava utile al suo paese.

Negli ultimi tempi lo vedevi andare per le vie di Torino, coi segni già visibili di uomo stanco; curvo il capo, cascante la persona, lente e abbandonate le mosse; quell'uomo viveva già nel suo passato, pensava alle sue Memorie. Moriva scrivendo; le ultime pagine erano consacrate all'amicizia, furono un affettuoso ricordo di Tommaso Grossi.
Già si era fatto dimentico con la seconda vita, e scrisse alcune pagine sull'immortalità dello spirito. Presso il letto dell'infermità stavano uomini di tutte le parti d'Italia, alle cui lacrime si mescolavano lacrime regie. Tra le ultime parole furono udite queste - "Non posso fare più niente per l'Italia". Tutta la sua vita fu data all'Italia; l'Italia fu l'ultimo pensiero della sua vita.
LO STILE DEI "MIEI RICORDI "
D'AZEGLIO UOMO DI TRANSIZIONE
Come i vecchi che vivono nel passato, in questo libro il d'Azeglio cerca richiamare le vicende e le impressioni della vita trascorsa, specialmente di quella esistenza d'artista che gliene aveva lasciate più vive. Mise un velo su una parte della sua vita, e mi duole che l'abbiano profanato pubblicando le sue lettere, dove c'è la parte prosaica, la vita dissipata.
Mise un velo sulla sua famiglia e soprattutto su una donna avente cognome illustre, la quale non gli aveva fatto buona compagnia. Non aveva più la forza di ricordare le impressioni fuggevoli, eppure più preziose, dell'artista che dipinge, dello scrittore che fantastica.
Leggendo, si vuol trovare traccia dell'ispirazione dell'Ettore Fieramosca, del Niccolò de' Lapi, dei suoi dipinti: qui il libro é monco. È una parte sola delle sue memorie, forse la più interessante per lui, ma non per noi. Narra i suoi viaggi nella campagna romana, piccole avventure che gli danno occasione di parlare dei costumi di quella popolazione.
È come un vecchio che narra e narra con calma, e dice ai giovani: imparate da questo. Egli spesso interrompe il racconto per fare di questi discorsi : - badate, l'Italia è fatta, non gl'Italiani, bisogna rifare l'educazione, rifarla così e così; e frammette i consigli al racconto con amabilità, trattando il lettore da eguale. Ma le ammonizioni sono non molto profonde, generiche, i quadri sbiaditi, perché rare volte gli riesce di ritrovare l'impressione prodotta in lui da quelle scene come quando descrive il viaggio per mare a Sorrento; dove più fa sforzi, meno riesce.

Massimo d'Azeglio, dunque, non è il più grande della scuola cui appartenne, ma è il più simpatico e più popolare. Non ne avrei parlato così a lungo, se non volessi chiamare la vostra attenzione su un carattere speciale di lui, che non è stato bene avvertito. Appartiene, certo, alla scuola lombardo-piemontese; ma ha tale spontaneità, tale indipendenza, e le corde del suo cuore vibrano così forte per il bene della patria, per l'indipendenza di lei, che non potete proprio collocarlo lì in mezzo. Ha molti punti di contatto con la scuola opposta, è come anello di transizione da Manzoni e Gioberti, a Mazzini, Guerrazzi, Niccolini.
CARATTERI DELLA SCUOLA MODERATA
Il liberalismo, nella sua base filosofica, non riveste un carattere originale in Italia; la sua originalità è nell'applicazione. La filosofia del liberalismo è filosofia europea. Gioberti, Rosmini, Mamiani, non sono riusciti a passare le Alpi, e l'originalità appartiene più ai tedeschi, e nei nostri scrittori non si sente altro che il riflesso di idee già divenute volgari nel resto d'Europa. Ma ogni scienza ha la sua applicazione, l'applicazione di quelle leggi storiche è la politica. Proprio d'una scienza d'applicazione è, non il lavoro in astratto sulle idee, ma il lavoro su dati di fatto, su materiali non creati dallo spirito ma trovati da esso innanzi a sé. La scienza politica, della quale Machiavelli dette primo la chiave nel mondo moderno, esce dai princìpi astratti. I pedanti, i dottrinari pigliano quelle leggi e vogliono applicarle nude e crude come sono, come avvenne in Francia e altrove nei primi ardori della rivoluzione. Dato un materiale, una nazione fatta così e così, trovare il modo più acconcio perché possa meglio andare nel suo sviluppo, - ecco il problema della politica.

Qui è l'originalità dell'Italia, la quale rimaneva in seconda linea quanto a lavori astratti, in mezzo al pensiero europeo; ma aveva innanzi una questione ardente, speciale, da risolvere senza indugio, la questione della indipendenza e della libertà interna. Il movimento era proprio non teologico o filosofico, ma politico....
Gioberti diceva :
- Morte ai preti ! Ma i preti ci sono e non potete ucciderli, e se anche lo potreste, poiché l'opinione pubblica non si uccide, risorgeranno.
Morte ai nobili
! Ma non si distruggono i privilegi e le distinzioni di classi con la morte, bensì con l'istruzione con l'educazione. In Italia sono diverse classi. Volendo fare una politica di combattimento - frase di oggi, - attaccare violentemente gli avversari, ci divideremo e non potremo ottenere l'indipendenza.
Così fondamento della politica degli uomini di Stato italiani fu promuovere la tregua nelle lotte interne, per unire le forze di tutti e rivolgerle agl'intenti comuni a tutti. Politica che ha dato grandi risultati, i quali se volete estimare, non dovete badare a quel che dicono i partiti; guardate a quel che dice tutto il popolo, fuori le ire partigiane. Trovate questo buon senso in Italia, come esempio, mentre a Napoli si laceravano
cavourriani e garibaldini, il paese univa nella sua adorazione Cavour e Garibaldi; ed anche oggi, per le case degli operai e de' borghesi, trovate l'uno a fronte dell'altro i ritratti dei due avversari.
Il popolo pone insieme Manzoni e Cattaneo, Manzoni e Mazzini. Comprende col suo istinto che è stato utile quel sistema politico, per il quale, nel 1848, furon visti frati morire per la patria, nobili spargere il sangue per essa, principi alzare la bandiera nazionale. Se il successo non corrispose, fu certo nobile concetto di unire tutte le forze italiane ribattezzare classi e partiti scissi da tanto tempo, nel sangue versato combattendo contro lo straniero.

Tutto questo parve troppo fuori delle regioni serene della letteratura. Eppure è evidente che queste idee ebbero non solo grande influenza sul contenuto letterario della scuola lombardo-piemontese; ma grande anche sulla forma come noi la intendiamo. Ricordate ch'è merito di essa scuola, non tanto aver recato un contenuto nuovo, riflesso in gran parte del movimento europeo, quanto aver creato una forma letteraria, non destinata a sparire come il contenuto, perché porta lo stampo dello spirito moderno.

Poiché il mondo non è retto da princìpi astratti, gli ideali astratti del secolo XVIII si dileguano a poco a poco, succedono altri pieni di vita, concreti, impregnati delle condizioni speciali in cui un popolo si trova : si spande un senso del reale, che oggi domina sotto il nome di scuola positiva. Questa fine delle astrazioni e degli ideali classici, questo più vivo senso della realtà è primo carattere di questa scuola.
Inoltre, si lascia l'andazzo di combattere l'avversario, non come opinione opposta ad opinione, ma come passione opposta a passione, interesse contro interesse, dando colpi senza comprendere. L'uomo pieno d'ira non comprende il suo avversario. Rammento un fatto caratteristico. Nel 1848 gli odii si cumulavano sul maresciallo Radetzky, elevato ad ideale di perfidia e di malvagità.
Dopo Novara, quando il sangue cominciò a calmarsi e ne' giudizii vi fu una certa reazione, un giovane, che mi aveva annoiato con le sue ingiurie continue contro il Radetzky, uscì a dire: finalmente, Radetzky è un buon patriota, serve l'Austria, com'è suo dovere.

Quando si comprende l'avversario, il fuoco della passione si calma. Ed altro effetto di quelle idee nella scuola è, come dicevo, comprendere tutte le opinioni e così giungere alla tolleranza. Perciò alla forma letteraria piena di sarcasmi, d'ingiurie, d'invettive, d'ironia, scritta col pugnale (come fu detto delle tragedie di Alfieri), succede un'altra ispirata alla tolleranza. In luogo di attaccare l'avversario, si cerca comprenderlo, si riconosce la legittimità di tutte le opinioni, e nella lotta in nome della verità, si allontana dall'animo l'ira e l'amarezza. Era di moda gettare sarcasmi ed ingiurie alle opinioni che parevano contrarie alle proprie; oggi tutto ciò è divenuto di cattivo gusto, non si tollera più un libello scritto al modo di quarant'anni fa contro i preti, il papa, i nobili, o contro i rossi, i democratici, i socialisti.
Né solo la tolleranza ha cambiato il carattere morale della forma letteraria; ma ancora una qualità ignota al secolo XVIII, prodotta anch'essa dal movimento della cultura europea e diffusa in Italia. È la forza ch'io chiamo della mansuetudine, la forza dei partiti vinti. Mentre i vincitori trionfano, i vinti hanno quella grande forza per la resistenza. Nei seguaci degeneri della scuola essa diventa un non so che di femminile, diventa debolezza; ma guardatevi dal credere che mansuetudine sia debolezza. È una forza più rara, più difficile dell'energia e dell'indignazione, qualità istintive, anelli che ci legano all'animalità.
Ma quella di cui parlo é il saper contenere quel primo istinto naturale violento, il sapersi possedere, il far prevalere l'elemento razionale, scostandosi dall'animale, avvicinandosi a quel che si chiama tipo umano, ch'è appunto il possesso tranquillo di sè, il predominio della parte razionale sugl'istinti e sui sensi.
Quanti grandi italiani hanno avuto la forza di esporre la vita per la patria, di sopportare sacrifizii per essa! Ebbene, c'è qualcosa di più difficile, a cui pochi giungono. Quando vedevo Garibaldi non sapersi temperare contro Cavour, mentre bisognava fare l'Italia, e altri patrioti fremere contro quelle intemperanze, dicevo ecco uomini che mancano della forza di contenersi, di quella forza di mansuetudine di cui é sì nobile modello Alessandro Manzoni.

Codesta mansuetudine allora veramente è forza quando non è prodotto di temperamenti linfatici e femminei, ma di animi forti che giungono a frenare anche le loro tendenze legittime innanzi al pensiero di poter fare danno al paese, ed uscire dai limiti razionali in cui l'uomo deve rimanere.
Chi legge Manzoni, Pellico, Rosmini, vede la scuola lombarda sostituire agli sdegni ed alle vendette del secolo XVIII la mansuetudine di cui vi parlo, la quale nei mediocri e nei pedanti è debolezza.
Passiamo ora ad una parte più grossolana della forma letteraria, allo stile. Avevamo lo stile tragico, a grandi linee, a grandi contrasti, con parole aristocratiche, elevate, accademiche, classiche. Succede poi lo stile popolare, lontano dalla grandezza tragica che rivelava un ideale astratto, impregnato de realtà e dotato di due qualità essenzialmente moderne e che rimangono inerenti alla forma letteraria: la fine analisi sostituita alla sintesi dogmatica di altri tempi, e la vivace rappresentazione plastica de' particolari, la quale, se non dà le grandi linee dantesche, fa gustare le parte. L'analisi penetra nelle pieghe della realtà, la rappresentazione de' particolari dà di essa il colore.

Fin qui abbiamo di che salutare questa scuola come benemerita e come scuola ancor viva, perché e carattere di essa, specialmente come forma letteraria, se sono svolte e se svolgono ancora. Il torto è stato aver confuso una questione di metodo con una questione di princìpi. Quelle idee sono semplice metodo, sono il cammino della storia in generale e dell'Italia messa in quelle condizioni. Mutare il metodo in princìpi é però un'illusione che tutte troveranno naturale. Parve a quella scuola non solo dover inaugurare la lotta pacifica fra le diverse opinioni; ma dover andare innanzi, togliere la lotta, trovare un
medium quid, una dottrina media che potesse essere accettata da tutti: si volle non la tregua dei partiti, non la lotta pacifica, ma l'accordo compiuto.
Certo, qui dentro c'era la reazione europea; ma, ve lo dissi, essi non erano reazionari, non avevan nulla de comune col padre Bresciani e con altri di quella risma erano la continuazione in Italia della scuola liberale. Parve ad essi che la base della conciliazione dovesse essere la tradizione italiana, un complesso d'istituzioni legate intorno al cattolicesimo ; parve necessario lavorare a rinsanguare il cattolicesimo stesso.
Come procedette la scuola nel tentativo, nel quale è pur chiara la nobiltà dell'intenzione, su de un fondo di verità, essendo la ricostituzione del sentimento religioso necessaria ad una nazione? Quale metodo tenne?

Si comprende la Germania e tutte e popoli che hanno voluto ricostituire la religione purificandola, avvicinandola ai princìpi moderni. Si comprende un popolo che alza la bandiera contro istituzioni degeneri, impugna le armi e combatte per acquistare la sua libertà di coscienza. Ciò hanno fatto la Germania, l'Inghilterra, la Svizzera, ed hanno avuto la fortuna di acquistare una storia continuata, senza violente interruzioni. Dagl'italiani era lontana l'idea d'uno scisma nella Chiesa. Parlatene a Manzoni e risponde con la Morale cattolica, a Gioberti e vi dice: gesuiti no, ma cattolici. C'era un'altra via,
reformatio intra ecclesiam, riformare ma restare nella Chiesa, a dispetto delle scomuniche. Ciò fanno i vecchi cattolici della Germania protestando contro l'infallibilità, ma senza uscire dal cattolicesimo; ciò si fa a Ginevra da' cattolici liberali, capo il padre Giacinto. Non si scrivono trattati filosofici, si va subito all'azione, si fonda una chiesa, si fa una propaganda, e si afferma di rimanere nel cattolicesimo.

Gl'italiani non presero nessuna di queste vie; scrissero libri, romanzi, proposero piani di riforme. Quando si trattò di tradurre in fatto tutto questo, qualche tentativo iniziato riuscì ridicolo. Non ricorderò il padre Passaglia, perché si può parlare di dubbia fede. Rammento il padre Giacinto, il quale tenne in Roma delle conferenze: gli si batterono le mani e tutto rimase come prima; mentre a Ginevra egli è riuscito a fondare una chiesa e ad avere seguaci.

Il tentativo in Italia non attecchì. Ed il pensiero dominante della scuola era questo : la monarchia, per l'istinto della sua conservazione, s'è fatta moderna, il papato per lo stesso istinto deve far pace col mondo moderno, accettare la libertà ed il progresso.
Tutto questo finì in un grande insuccesso; invece di avvicinarci a questo bell'ideale, abbiamo il sillabo, l'infallibilità, un titolo nuovo e sinistro, che prende il cattolicesimo ed è
clericalismo, un cattolicesimo politico. Il movimento politico riusciva bene, non il religioso. E perché ?
Lo dirò con profonda convinzione: fu non solo difetto di sentimento religioso nel popolo, ma negli stessi uomini che presero parte a quel tentativo, fatto non in nome della religione veramente, ma in nome della politica mascherata da religione. Di qui un fatto altamente deplorevole per il carattere italiano: uomini evidentemente scettici che vanno in chiesa e si picchiano il petto e insegnano il catechismo. È l'antica piaga italiana che ci dà il marchio dell'ipocrisia al cospetto degli stranieri, la quale si riapre e inciprignisce.
Di qui una conseguenza nella letteratura iniziata così splendidamente da Alessandro Manzoni in opposizione alla letteratura rettorica ed accademica che regnava prima. La forma popolare immediatamente degenera in forma rettorica ed accademica, peggiore di quella di prima.

Non sentite più nei periodi eloquenti di Gioberti, in quelli lisciati, eleganti, accademici del Mamiani quella forma fresca e vivace del Manzoni. L'arte degenera nell'idillio e nell'elegia, come vi ho mostrato: risorge l'Accademia e l'Arcadia in tutte quelle confessioni di metafisici, in tutti quei discorsi astratti come quelli di Cesare Balbo, che non rivelano uomini animati da vero sentimento religioso, bensì lo sforzo di parere tali, perché ciò può essere utile politicamente.
In politica potete ammettere questioni di condotta, non deviazione di princìpi. Che un partito debba condursi con temperanza, con spirito di conciliazione e di mansuetudine, sta benissimo, e qui trovate bello esempio Massimo d'Azeglio, specialmente quando scrive sui Casi di Romagna.

Ma non è lecito da questo passare a princìpi, e, non sentendosi animati da vero sentimento religioso, dalla convinzione della necessità di conciliare la religione colle idee moderne, simulare quel sentimento e quella convinzione. Preferisco Machiavelli, il quale dice voglio che la religione sia utile alla società, - con un sorriso che vuol significare: per me, ci penso io, - all'uomo che professa dottrine di cui non è convinto. Tutto quel calore nella difesa, la facondia, lo spirito, la sottigliezza elegante, come si vede in Mamiani, mostrano appunto che non c'é il sentimento che nasce quando c'é la fede nei cuori.
Molto male derivò da questa confusione che deploriamo anche oggi. E, innanzi tutto, essa servì a ricostituire l'ipocrisia nei caratteri, la rettorica e un falso modo di scrivere nell'enunciare quelle dottrine.

C'è un'altra grave considerazione da fare. Badate che colui il quale parla di purificare il cattolicesimo e ricondurlo ai tempi evangelici, di avvicinare le idee cristiane al mondo moderno, accenna ad opera santa, ma fa cosa assai imprudente finché non si entra nel campo dell'azione, finché quelle idee non sono diffuse dappertutto.
Per conoscere il presente, richiamerò per poco il passato. Tutte le reazioni hanno avuto a precursori di questi uomini che han cercato riabilitare alcune idee, purificarle, senz'aver la forza di alzare una bandiera, fare un programma e spanderlo dappertutto.
Ebbe di questi precursori anche la reazione del 1815, e furono la Staél, Chàteaubriand, Lamartine, quelli che per fare opposizione a Napoleone cominciarono a riverniciare le idee vecchie. Venne poi la Santa Alleanza, la reazione fatta in nome di queste idee. Credete che essi volessero il trionfo della reazione? Credete che non fossero liberali? che volessero che il cattolicesimo pesasse come mantello di piombo sullo spirito moderno? - Avviene che le moltitudini pigliano le idee non quali sono nelle loro origini, e le prendono come le trovano. Parlate al popolo male del cattolicesimo, ed il popolo a dispetto vostro lo piglierà com'è, non certo come dovrebb'essere.

Ecco perché se i tempi volgessero al peggio, nessuno potrebbe augurarsi che un movimento il quale dura appena da vent'anni, debba continuare non interrotto. I nemici del paese troverebbero lastricata la via da questa scuola, solo perché essa, ripeto, una questione di metodo ha voluto cambiare in questione di princìpi.
Oramai avete potuto vedere che tutte le idee di cui ho parlato hanno avuto grande influenza sulla letteratura, e così il metodo, così i principi. E capirete il motivo principale che ha guidato i miei giudizi. Severo dove ho trovato la rettorica, il liscio, lo spirito reazionario sotto apparenze liberali, quando dietro la mansuetudine ho trovato collera e parzialità; - severo per Cesare Cantù, per il Tommaseo, perché costoro predicano in ogni pagina carità cristiana e sono i meno caritatevoli nei giudizi; - severo verso Gioberti ed anche verso Mamiani, perché in essi non ho trovato l'ingenuo sentimento della fede, ma il calore della immaginazione; verso Balbo stesso, pesante ed astratto.

I miei prediletti sono tre in questa schiera ch'è passata innanzi ai nostri occhi. Il più simpatico è Massimo d'Azeglio, il quale di quelle idee s'è servito soltanto come metodo, senza farsene propugnatore irremovibile, senza rimanervi pedantescamente attaccato, mostrando secondo le occasioni la forza della mansuetudine e dell'energia; - lasciando stare l'onestà e la lealtà del suo carattere che lo rendono caro a tutti.
Il secondo è il santo e il martire di questa scuola, Silvio Pellico, che nelle immortali Mie Prigioni con semplicità sublime espresse i suoi sentimenti, ed invece di predicare in astratto le virtù cristiane, le ha sentite e praticate nella vita.
E finalmente, quasi non è necessario che ve lo dica, è il più grande, Alessandro Manzoni, non solo per la sua genialità che lo mette al di sopra di tutti, - specialmente aiutata dal vivo senso del reale che tempera quel che di troppo assoluto può essere ne' suoi ideali, dalla fine ironia, dall'analisi profonda, dalla vivacità plastica della rappresentazione, - ma anche perché quell'anima armonica comprendeva tutte le opinioni, tutte le virtù, tutte le grandezze.
Accanto alla sua mansuetudine c'era l'energia; Dio era con la patria; il suo cristianesimo era accordo di divino e di umano, forza che si contiene. E ciò spiega perché la sua memoria è così venerata universalmente, e perchè, nonostante le discordie, avete visto tanta unanimità nel chinarsi innanzi a lui. Anche quelli che non credono in Dio e nel Vangelo, sono indotti a sentire simpatia verso quest'uomo; ed è naturale, perché se essi sono liberi di credere o di non credere, non sono liberi di non credere ciò che Manzoni attribuisce al suo ideale, alle idee, alle conseguenze che trae da un libro che molti possono non credere divino, ma che trattato a quel modo da Manzoni diventa consacrazione del mondo moderno.
Sono costretti a credere alla voce che Manzoni fa emanare da Dio, nella quale è l'eco della loro coscienza. DAL LIBERALISMO ALLA DEMOCRAZIA Alla formula della scuola liberale, rispetto all'ideale, fu opposta dai democratici l'altra: unità, indipendenza, libertà. E poiché i democratici scrivono anche trattati filosofici e quindi credono doversi servire di formule, ne hanno un'altra che comprende i mezzi da essi prescelti : - pensiero ed azione.
Il pensiero, in sé, inattivo, è vuota astrazione, - sostenevano essi; - gl'italiani finora sono stati letterati, non pensatori: il pensatore vero deve essere uomo d'azione, il pensiero, che non voglia rimanere vuoto ed astratto, deve essere azione.
C'è un altro carattere per il quale la nuova democrazia differisce dall'antica. Questa fu materialista ed atea per effetto della dottrina del sensismo da cui nasceva, e perché, non ammettendosi l'essere collettivo, tutto cominciava e finiva all'individuo. La nuova ha quasi una faccia apostolica e profetica e piglia come punto di partenza la ricostituzione del sentimento religioso.
Se la religione, come vedemmo, è la forza di uscire da sé e sentirsi in un tutto, se la nuova democrazia mette a base della sua dottrina non l'individuo ma l'associazione, l'essere collettivo, - da ciò era facile passare al concetto dell'armonia universale. Quindi, per i democratici, sopra la natura e la storia c'è un ordine di cose divino, ideale, di cui appunto la natura e la storia sono lenta attuazione, attraverso ostacoli e difficoltà, sino all'umanità, o, come dicono, al popolo eguale e libero.
Quali sono le conseguenze letterarie delle idee esposte? Sentite già che una letteratura fondata su di esse ha caratteri, non solo diversi, ma opposti a quelli della scuola liberale. I liberali vogliono procedere per ordine didattico, e chiamano ideologi gli avversari. I democratici posano il loro sistema sull'ordine dell'idee, su quell'armonia universale, e chiamano dottrinarii gli avversarli. Là si parte dallo stato attuale della società, qui si parte dall'ordine ideale su cui deve fondarsi la società: - da un lato avete ciò ch'è, dall'altro ciò che dev'essere.

La storia nella scuola liberale è guardata con imparzialità, dal punto di vista delle investigazioni esatte, perché si cercano soltanto i fatti, come fatti. Per l'altra scuola la storia è mezzo ad attuare e propagare le idee, perciò si fa appassionata e parziale, come si vede nell'
Assedio di Firenze del Guerrazzi, e fino in alcuni romanzi di quelli che formarono il legame fra le due scuole, - fin nei romanzi di Massimo d'Azeglio.
Altra differenza è rispetto all'ideale. La scuola liberale, come letteratura, parte dal vero e rigetta l'ideale ch'essa considera astrazione metafisica, oppure lo accoglie collocandolo nella realtà e nella storia. I democratici non concepiscono una letteratura che abbia fondamento nel vero considerato a quel modo, nell'ideale misurato e limitato, anzi fanno dell'ideale il piedistallo della letteratura.

Guardando le cose in astratto, la scuola democratica è la ragione come dottrina. Cosa è quel vero dei liberali che cangia continuamente, secondo gli ostacoli, le occasioni, i tempi? Cos'é quel vero di oggi che sarà falso domani? Non vedete - essi dicono agli avversari, - che, mettendovi in questa verità relativa, scambiate i principi con l'opportunità, saltate da un principio all'altro, e riuscite allo scetticismo ed all'indifferenza, i quali hanno ucciso la religione ed uccideranno la patria? Al contrario, ciò che importa di più è riservare alla politica le questioni di opportunità ed inoculare nel popolo almeno la fede nella nostra idea.
Da ciò vedete perché nascano lavori in cui l'ideale è avvolto nelle circostanze di fatto, e lavori in cui esso somiglia ad un credo; - vedete perché Mazzini, SaintSimon ecc. sono non solo fondatori di nuove società, ma anche di nuove leggi e di nuove credenze

Per conseguenza, lo stile nella scuola liberale è analitico, storico, direi scientifico, - perché, concependosi l'ideale attorniato dalle circostanze storiche, si ha continuo bisogno di analizzare queste circostanze, maestro Manzoni; - ed il linguaggio acquista precisione talvolta quasi scientifica. Nei democratici lo stile è sintetico e poetico. Sintetico, perché, partendo da un ordine ideale già ammesso senza discussione, essi non hanno bisogno di analizzare i fatti, che per loro sono secondari ed accidentali, e perciò pronunziano quasi
ex tripode, da oracoli, per mezzo di massime in cui credono ed in cui, grazie a un certo affetto e calore, cercano di far che gli altri credano.
Ed è poetico; perché, quando uno non solo crede all'ideale, ma lo ama fino al punto da offrire la vita per esso, fino al martirio, questo calore di sentimento penetra nello stile e vi rende impossibile la precisione storica e scientifica: la passione lo impregna, e vi traboccano tutte le agitazioni di questo povero cuore umano, l'ironia, l'umorismo, il sarcasmo, l'indignazione, ecc. Lo stile si fa colorito, si fa simile ad un'orchestra in cui ogni corda corrisponda ad un moto del cuore. Infatti, leggendo Lamennais ed altri di questa scuola, vi trovate un fare biblico, espressione del secondo carattere del quale vi parlo.

La scuola liberale ha pure le sue corde, principalmente l'ironia, di cui fa tanto uso Manzoni. Però l'ironia manzoniana è il sorriso d'un uomo superiore che critica la società e ne mette in rilievo le debolezze, le compatisce e le tollera perché le comprende; tale ironia non è soltanto colorito, ma ancora lo spirito della forma.
L'ironia democratica non è sorriso, non è coperta da amabilità, è scoperta come pugnale acuto e brillante sottoposta alle vicende della passione, quest'ironia dura poco e si muta in furore, in entusiasmo ecc. ; è appena una punta che, fatta la ferita, non è più quella; è un sentimento, mentre nella scuola opposta è sistema.
Negli scrittori liberali la lingua sì accosta al popolo, alle classi inferiori, alla lingua viva e corrente, perché loro fine prossimo è usare i mezzi morali, propagare le loro dottrine. Ne' democratici è solenne, letteraria, e talvolta anche convenzionale, perché essi non mirano ad istruire, ma a scuotere e ad infiammare. Là somiglia ad un discorso, qui ad un proclama di generale d'armata, fatto sul campo di battaglia per animare i soldati.
Per riassumere, una scuola ha per principio un ordine storico, il vero, - l'altra un ordine d'idee, l'ideale; una ha stile analitico, l'altra sintetico, - la prima ha lingua prossima alla parlata, la seconda lingua solenne, quasi apostolica, talvolta degenerante nel rettorico, perché non sempre si ha calore schietto, onde si casca nel fittizio.
Ecco perché molti libri della scuola liberale sono divenuti popolari, e quasi nessun libro della scuola democratica si può dir tale davvero.

SEGUE

IL VALORE APOSTOLICO DI UN UOMO:
GIUSEPPE MAZZINI > > >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>

 

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -(5 vol. Nerbini)
VISCADI - Storia Letteratura (i 50 vol.) Nuova Accademia
DE SANCTIS - Storia della Letteratura Italiana, Einaudi
Dizionario Letteratura Italiana, (3 vol) - Einaudi 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DALLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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