LETTERATURA
IL QUATTROCENTO
( dell' Umanesimo e altro ) 

Prima parte
L'UMANESIMO - SCRITTORI IN LATINO: IL POLIZIANO E IL PONTANO. - IL LATINO E IL VOLGARE - I TRATTATI - LEON BATTISTA ALBERTI - NOVELLIERI E ROMANZIERI - CRONISTI E BIOGRAFI - LA POESIA EROICA E ALLEGORICA - LA LIRICA AMOROSA - I PRECURSORI DEL SEICENTISMO
 
NELLA SECONDA PARTE
LA LIRICA POPOLAREGGIANTE - LIONARDO GIUSTINIANI - LORENZO IL MAGNIFICO - LA POESIA RELIGIOSA - LE SACRE RAPPRESENTAZIONI - L' < ORFEO > E IL DRAMMA PROFANO - LA POESIA DEL POLIZIANO - JACOPO SANNAZZARO E L'ARCADIA - II POEMA CAVALLERESCO - LUIGI PULCI E MATTEO MARIA BOIARDO

L'UMANESIMO
IL POLIZIANO E IL PONTANO

Il secolo XIV è caratterizzato da un movimento letterario che prese il nome di umanesimo dallo studio delle umane lettere. L'età in cui questo movimento sorse e si esplicò fu detta con parola impropria Rinascimento o Risorgimento. Rinascimento dell'antichità romana che non era mai morta, attraverso il Medioevo, nel pensiero degli Italiani, come non era morta la lingua latina; ma era morto o, meglio, si era trasformato il mondo pagano e si era intiepidito lo studio della letteratura latina. 
Fin dalla seconda metà del Duecento però si era sentito il bisogno di conoscere un po' di più le letterature classiche e di  imitarne le forme. Erano stati tentativi e doveva passare ancora un secolo, da quando ALBERTINO MUSSATO (1261-1329) scriveva la sua storia di Enrico VII e l' Ecerinis, prima che l'amore per lo studio degli antichi divenisse, per opera del Petrarca e del Boccaccio, passione e desse l' impulso ad un lavoro serio, proficuo e febbrile di ricerche.

Nella prima metà del Quattrocento c' è un gran fervore di ricerche; si frugano le biblioteche, i conventi, si scoprono codici tarlati e polverosi, che vengono copiati, studiati, corretti, commentati; ogni scoperta, per i dotti, acquista l' importanza di un avvenimento memorabile. COLUCCIO SALUTATI commenta e pubblica l'Africa del Petrarca, scopre e divulga le lettere Ad familiares di Cicerone, riprende e confronta con codici testi conosciuti; LUIGI MARSILI fa stupire con la sua profonda conoscenza della letteratura latina; NICCOLÒ NICCOLI sciupa le sue sostanze comprando rarissimi codici; POGGIO BRACCIOLINI scopre la Institutio Oratoria di Quintiliano, alcuni libri degli Argonautica di Valerio Flacco, il De rerum natura, di Lucrezio, le Puniche di Silio Italico, le Selve di Stazio, dieci orazioni di Cicerone ed alcune commedie di Plauto. Si fondano scuole; alla conoscenza del greco danno impulso grammatici venuti dalla Grecia, fra cui EMANUELE CRISOLORA, GIOVANNI ARGIROPULO, GIORGIO GEMISTO, il BESSARIONE, il LASCARIS. 

Eruditi si recano in Oriente per imparare il greco e ricercare volumi: GUARINO VERONESE soggiorna cinque anni a Costantinopoli, GIOVANNI AURISPA torna dalla capitale bizantina con trecento codici, GIOVANNI FILELFO dalla Grecia con molti manoscritti. L'opera dei traduttori divulga in Italia la letteratura greca e si distinguono fra questi il BRUNI, il TRAVERSARI, il VALLA, FRANCESCO ARETINO e il FILELFO. 
L'amore per lo studio delle letterature classiche diventa una mania. Né gli umanisti si contentano di far rivivere gli scrittori antichi: cercano anche di emularli scrivendo essi stessi opere originali nella lingua di Roma che maneggiano con grande padronanza. II SALUTATI detta opere politiche, filosofiche e mitologiche, ecloghe, epistole e persino un poema sulle guerre contro Pirro; il FILELFO epigrammi, satire ed orazioni; il BRUNI opere storiche; il BRACCIOLINI una storia di Firenze, epistole, dialoghi e un volume di novelle; il VALLA scrive di filosofia e di rettorica; FLAVIO BIONDO di storia, archeologia e geografia; il PICCOLOMINI opere storico-geografiche; il PANORMITA epigrammi; il PONTANO trattati, dialoghi, ecloghe, poemi e numerose liriche; il POLIZIANO epistole, selve ed epigrammi. 

Ma se nelle opere di erudizione l'umanesimo è proficuo, nella sua produzione artistica in veste latina è ben limitato. I poeti si provano nella poesia epica e cercano di gareggiare con Omero e Virgilio, producendo poemi indigesti e noiosi, privi di movimento e di colore, quali quelli di MAFFEO VEZIO, del BASINI e del FILELFO. Miglior fortuna ha la lirica, non certo per merito dei numerosi poeti che imitano con mediocrità i latini, senza che una passione li riscaldi, un soffio d'ispirazione li animi, ma quasi solo per opera del Poliziano e del Pontano. 
Gode di molta fama il PANORMITA, ma nel suo Hermaphroditus e nelle sue elegie è freddo, povero d'estro, sovente sgraziato e rare volte si commuove; né più in alto si sollevano il BASINI nelle epistole e nell' Isottaeus, il Porcello, il Filelfo e il Campano che pure è agile, semplice, vario e qualche volta sincero e riboccante di affetto.

Per trovare fra la pleiade dei rimatori il vero poeta dobbiamo andare al Poliziano e al Pontano. II POLIZIANO (Montepulciano 1454- Firenze 1494) scrive epigrammi arguti e piacevolissimi che talvolta hanno il veleno dell'aculeo di Marziale, tal'altra tutta la leggiadria del rispetto toscano; in versi fa la prolusione alla lettura dei poemi di Omero, alle Bucoliche e alle Georgiche virgiliane: quattro componimenti che, dietro l'esempio di Stazio, intitola Silvae. Sono elaborazioni gravi di erudizione, la quale nei Nutricia corrompe la vena e sciupa la sonora eleganza dell'esametro; ma nell' Ambra, ehe é l'introduzione ai poemi omerici, fra la narrazione non tutta felice della vita del poeta greco e l'esposizione concisa e sostenuta del contenuto dell' Iliade e dell' Odissea, si riscontrano squarci di vera poesia come il lamento di Teti e le descrizioni del concilio degli dèi e della villa medicea di Poggio a Caiano. Più ricca d'ispirazione è la Manto, dove il poeta rappresenta l'indovina tebana mentre canta presso la culla di Virgilio e ne predice la gloria; più artifizioso e meno spontaneo, ma smagliante di colori, è il Rusticus. Il capolavoro latino del Poliziano è l'elegia per Albina degli Albizzi, dove il poeta, in distici di squisita fattura, riboccanti di malinconia e fioriti di bellissime immagini, canta con accenti che ci fanno pensare a Tibullo, la morte della divina fanciulla.
Più grande di tutti è GIOVANNI PONTANO (Cerreto 1429- Napoli 1503). Natura esuberante di meridionale, dei meridionali ha l' immaginazione vivissima, la vena inesauribile, l'amore per la natura, la parola calda ed appassionata. Il temperamento del Pontano è lirico per eccellenza; tenta, è vero, il poema didattico col libro Meteorum col De hortis Hesperidum e 1' Urania; ma in questi non è la materia che interessa, bensì la poesia che vi è profusa a piene mani. Nell' Urania specialmente la materia si anima e vive stupendamente: i pianeti non sono per il Pontano corpi morti, sottoposti allo studio dell'astronomo, ma personificazioni di divinità pagane, mondi meravigliosi di cui il poeta ci narra le origini, le trasformazioni con una vivezza rappresentativa degna di Lucrezio, con mirabile dovizia di bellissime favole. Venere ha nel suo pianeta il suo regno meraviglioso, un giardino dove tutto spira venustà, dolcezza, incanto; ed è di una bellezza affascinante l'episodio della vergine Anadiomene raggiante sulla conchiglia coronata di spuma e inneggiante all'amore. Proteo che in forma di gambero insegue le Ninfe, Chirone che saetta lo Scorpione, Perseo e Andromeda, Ercole ed Illa, la lira d' Orfeo danno il destro al Pontano di narrarci episodi dove non si sa se ammirare di più l'originalità dell' invenzione o la magnificenza della forma. In Urania c' è il poeta che adora nelle divinità pagane la natura in quanto essa è fonte inesauribile di bellezza e di godimento. E veramente il Pontano si può considerare il cantore della bellezza e della voluttà. La natura per lui è un giardino di delizie: è Partenope adagiata tra i colli e il mare, è l'arco stupendo del golfo, è la spiaggia incantevole di Baia, è Posillipo, è Mergellina, è la fragrante campagna napoletana, è il Vesuvio. Per lui la vita è tutta nel piacere e nell'amore. Non preoccupazioni, non paure dell'oltretomba che turbano la dolce serenità pontaniana, non passioni fosche; ma canti e suoni, azzurro e verde, sole e profumi, murmorii di fronde e riso d'acque e danze di ninfe e armoniose voci di sirene e gioie d' imenei ed ebbrezze d'amori. La vita è giocondità e serenità. La stessa morte nell'orizzonte poetico del Pontano prende l'aspetto di una idillica pace e la tomba rassomiglia ad un'aiuola. Tutta la vita del poeta è nei suoi canti.
Nei due libri Degli Amori, c' è una nota malinconia che prende il cuore; il ricordo dell' Umbria natia che gli mette nell'anima un senso d'acuta nostalgia; ma è tristezza di breve durata, dal momento che il Pontano ritrova presto la sua gioia e canta folli ebbrezze e vagheggia immagini sensuali che gli riscaldano il sangue o scioglie il freno alla sua fantasia intrecciando favole mitologiche fra cui leggiadrissime quelle che narrano gli amori di Pane e di Nera e la trasformazione di Sebeto in fiume. Quest'ultima favola dà origine alla Lepìdina, che è forse il più bel componimento del Pontano, in cui con esametri perfettissimi si cantano gli sponsali di Sebeto con la ninfa Partenope e le lodi della ninfa Antiniana, personificazione della villetta del poeta. In Lepìdina la vita della campagna e della città, attraverso la finzione mitologica, è rappresentata in tutti i suoi aspetti; l'elemento fantastico è perfettamente fuso col reale, la favola con la vita, il divino con l'umano, l'antico col moderno. Felicissimo ed originalissimo connubio della mitologia classica con la moderna realtà, in cui la prima non perde nessuna delle sue qualità e la seconda nulla della sua verità. A tanto non era giunto nessun poeta classico. Il Pontano è un pittore insuperabile della natura, un rappresentatore mirabile della vita. Nei due libri Degli endecasillabi in cui descrive la vita ai bagni di Baia, i versi si animano come corpi assetati di ebbrezza, si snodano molli come danze di ninfe, scoppiettano quasi baci di labbra convulse, spirano dall'andatura ora lenta ora vivace, dalle parole studiatamente carezzevoli con alito caldo di voluttà.
Sembra quasi impossibile che un poeta così sensuale possa cantare gli affetti domestici; eppure la migliore raccolta delle sue liriche è consacrata ai dolci affetti familiari. I libri De amore coniugali sono il poema del suo focolare. Anche qui spira quell'aura di sensualità che caratterizza l'opera del Pontano, ma non c' è l' intenzione lasciva. Il libro canta tutta la storia dell'amore del Pontano per la moglie Ariadna. C' è tutto il romanzo di una vita espressa liricamente. Il poeta comincia invocando la ninfa umbra Elegia e questa compare e consiglia la fanciulla. È il prologo, cui fanno seguito gli epitalami. La casa del poeta è il nido della felicità; ma ben presto nel terso cielo si addensano le nubi. Il poeta deve partire, ma da lontano il suo amore diventa più forte ed ogni elegia è piena del desiderio del ritorno, del ricordo dell'amata, delle preghiere di fedeltà, delle visioni di pace domestica e di casalingo affetto che nella triste lontananza fanno compagnia al poeta. Poi c' è l'esultanza del ritorno, la quiete fra le pareti di Antignano e il verde dei suoi orti, la gioia per la nascita di Lucio. L'elegia si trasforma in naenia e i distici pargoleggiano nel latino semplice, carezzevole, pieno di vezzeggiativi, e cantano la ninna-nanna. Una vivissima simpatia ci spinge verso questo poeta che canta con arte incomparabile il suo amore coniugale, il suo nido di felicità, e segue la moglie fedele nelle occupazioni casalinghe ed addormenta il figlio col monotono dondolìo dei suoi versi e scioglie il canto augurale per le nozze delle figliuole e invecchia fra le muse e la famiglia. E noi soffriamo con lui quando la Parca entra nella sua casa, e gli rapisce la moglie, il figlio, un genero, i nipoti. Altri affetti consolano il suo dolore; il suo amore sensuale per Stella gli fa ritrovare le pompe degli Amores nelle elegie degli Eridani; ma è una breve parentesi. Il Pontano è ora il poeta del dolore, di un dolore sereno, che non impreca, ma si rassegna, si addolcisce nei ricordi, si risolve in una tristezza infinita, come nell'accorata ecloga Melisaeus, dove rievoca l' immagine della moglie estinta e rivede Ariadna intenta alle domestiche occupazioni; come nelle elegie dei Versus jambioi in cui piange Lucio ; come quando, alla fine degli Eridani, vede riuniti nill' Eliso la moglie e il figlio che lui un giorno raggiungerà. Dinanzi alla morte egli non perde la sua serenità; la morte per lui non è il trapasso pauroso dal noto all' ignoto, non è la soglia del mistero; 1' Oltretomba è pagano, è l' Eliso, è l' Elicona, è un mondo pieno di eterna bellezza e di eterna felicità. Non tenebre, non grida e singhiozzi intorno ai sepolcri. Il regno terreno dei morti è sempre la bella, serena natura: boschetti d'allori e di mirti e aiuole fiorite ed ombre di cipressi, e ghirlande sui marmi e luce e profumi nell'aria e corolle di ninfe e lamenti dolci di Pieridi attorno alle tombe. Questo è il mondo poetico dei suoi Tumuli.
Col Poliziano e col Portano la lingua latina rivive miracolosamente. L'Umanesimo comincia con la ricerca dei codici e produce l'opera d'arte, inizia il suo movimento togliendo dalla polvere e dall'oblio le produzioni degli avi e finisce col dar vita al mondo classico. Parrebbe che, dopo le meravigliose, perfettissime prove di questi due grandi, la lingua latina dovesse esser consacrata idioma letterario d'Italia. E invece il volgare, che Dante ha posto in tanta altezza, è vivo più di prima e anziché dichiararsi vinto di fronte al rinascere o, meglio, al ringiovanire della favella materna, per opera di essa si arricchisce, si perfeziona e definitivamente si afferma.

IL LATINO E IL VOLGARE - I TRATTATI - 
LEON BATTISTA ALBERTI - NOVELLIERI E ROMANZIERI - 
CRONISTI E BIOGRAFI

In tanto rifiorire d'amore per l'antichità era naturale che si dimenticassero le glorie del recente passato, che anzi, poiché di questo c'erano ancora estimatori, sopra di esso si cercasse, esagerando, di gettare il discredito. Il movimento umanistico aveva chiuso un mondo e ne apriva un altro, aveva sepolto il Medioevo e iniziava l'età moderna. Tutto ciò ch'era stato la norma della coltura medievale veniva posto non in porto o aspramente osteggiato; Aristotele era messo da parte e in sua vece veniva studiato e seguito Platone; l'allegoria che incontrastata aveva regnato nel Trecento cedeva il posto all'epica; Dante veniva chiamato dai dotti poeta da calzolai, il Petrarca era censurato per suo latino barbaro, il volgare veniva giudicato buono soltanto per la poesia amorosa, ma gli si negava capacità e dignità d'idioma letterario. Tuttavia malgrado l' Umanesimo, il culto dei grandi trecentisti non venne mai meno nel quattrocento; tra gli amanti del vecchio e i fautori del nuovo si accesero polemiche, e il triumvirato toscano continuò ad esercitare la sua influenza nella letteratura. 

CINO RINUCCINI e DOMENICO da PRATO polemizzano aspramente in difesa di Dante; parecchi degli stessi umanisti, pur ammettendo la superiorità dei classici, riconoscono apertamente o velatamente i meriti dei grandi poeti del Trecento. Il Niccoli rimangia le ingiurie rivolte a Dante, al Petrarca e al Boccaccio e ne fa poi  l'apologia; il BRUNI chiama nobile la poesia dell'Alighieri e del divino cantore tesse la biografia; GUINIFORTE BARSIZZA commenta l' Inferno; il LANDINO l'intera Commedia; il FICINO traduce il De Monarchia, il POGGIO, il SALUTATI e l'ACCORTI proclamano il poema dantesco non inferiore alle opere dei poeti greci e latini; il FILELFO legge ed interpreta ai suoi scolari le tre cantiche di Dante e postilla il Canzoniere petrarchesco; il LASCHI, il BRUNI, il BEROALDI ed altri traducono in latino alcune novelle del Boccaccio, e GIOVANNI da PRATO legge in Santa Maria del Fiore il poema sacro.

Gli umanisti continuano ad usare il Latino, dichiarando di scrivere per l'umanità e non per l' Italia soltanto e negando al volgare la capacità di trattare argomenti gravi. Ma il Latino è pur sempre una lingua morta, il cui vocabolario non è più sufficiente. D'altra parte esso è noto solo agli studiosi; alle stesse corti l'uso del Latino non è molto diffuso e il duca Filippo Maria Visconti esorta i letterati a scrivere in volgare. Ma è poi proprio vero che il volgare non sia capace di trattare argomenti gravi? DOMENICO da PRATO lo crede superiore alle lingue classiche; LEON BATTISTA ALBERTI afferma che esso non la cederebbe al Greco e al Latino se scrittori di polso lo purificassero e nobilitassero, e quasi a voler questo promuove, con l'aiuto di PIERO de' MEDICI e dei Provveditori dell' Università, una gara poetica, che ha luogo nel Duomo di Firenze il 22 ottobre del 1441 e passerà alla storia col nome di certame coronario, al quale prendono parte, svolgendo il tema La vera amicizia, l'Alberti medesimo, Leonardo Dati, Mariotto Davanzati, Antonio degli Agli, Anselmo Calderoni, Francesco Alberti, Benedetto Accolti, Ciriaco de' Pizzicolli e Francesco Malecarni. 

I risultati non sono quelli che si aspettava l'Alberti, tuttavia il Volgare prosegue la sua via. Si scrive in Latino e si scrive in Volgare. Le due lingue svolgono contemporaneamente la loro azione e vivono la loro vita; l'una, pur non rinunziando alla sua grave venustà, cerca di apparir giovane, l'altra segue gli impulsi della sua giovinezza, ma si sforza talvolta di imitar la madre. I principi e le repubbliche non si servono esclusivamente degli umanisti per la loro politica; i cancellieri e gli ambasciatori non si esprimono sempre in Latino; Firenze comunica con i suoi commissari in Volgare e in questa lingua sono dettate le lettere di cui si compongono le Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, che gareggiano con le stupende lettere che dal 1447 al 1470 scrive ai suoi figli Alessandra Macinghi Strozzi.

Anche trattati, in mezzo all'infinito numero di quelli prodotti in Latino, si scrivono in Volgare. Fra GIOVANNI DOMINICI scrive Dell'amore di carità e Del governo di cura familiare; GERARDO  da PRATO detta il suo Trattato d'una angelica cosa mostrata per una devotissima visione; MATTEO PALMIERI scrive della Vita civile; Leon Battista Alberti scrive Della tranquillità dell'animo, il Teogenio, la Cena di famiglia, il trattato Della famiglia, rivelandosi il primo prosatore del Quattrocento. 
I trattati dell'Alberti non sono aride e severe disquisizioni scientifiche, ma vere opere d'arte. L'Alberti è un pittore impareggiabile della vita e della natura. Ha il senso estetico sviluppatissimo. Della natura non vede e non coglie che l'aspetto bello, e nella bella natura preferiscE tutto ciò che è serenità, pace, riposo, grazia. Della vita ama ed ammira la bontà che è la bellezza interiore; la vita non è per lui che dentro le pareti domestiche, nella pace dei campi. Così egli rivolge tutto se stesso alle manifestazioni di bellezza della natura e alle manifestazioni di bontà della vita, e questa bellezza e questa bontà sono il suo ideale, la norma della sua esistenza, l' ispirazione dell'arte sua. Nei suoi trattati ammiriamo l'artista per la rappresentazione che ci dà della natura e della vita considerate nella loro bellezza e bontà, qualità inscindibili da cui risulta un'armonia perfetta; ma questa rappresentazione, in lui, non forma un tutto organico, perfetto e completo; abbiamo il quadro, il ritratto, un cantuccio di mondo visto e rappresentato nella sua realtà. Nell'Alberti c' è qualcosa di più del Sacchetti, ma non c'è il Boccaccio. Pittore vivace, preciso, l'Alberti è un debole narratore. Nella novella Lionora de' Bardi - se pure è sua- l' interesse è suscitato più dai casi commoventi dei due amanti che dalla rappresentazione artistica; la Deifira manca d'azione e imita, nella materia e nella forma ampollosa, la Fiammetta del Boccaccio.

Questi del resto è l'autore a cui guardano i novellieri del Quattrocento, che nonsono molti. Di quaranta novelle è autore il Senese GENTILE SERMINI. Egli si compiace di descriverci minutamente le scene più turpi, di farci sfilare davanti una processione di gente senza dignità, senza amore e senza onore, dominata da istinti volgari; ma questo turpe mondo, sebbene studiato nella sua cruda realtà, non vive nelle pagine del Sermini, perché, privo di finezza, di freno e di misura, riesce grossolano, sguaiato, prolisso. Non un carattere ben nitido viene fuori dalla penna del novelliere; il comico si impantana nello sguaiato e la narrazione procede monotona, incolore, fiacca, in uno stile senza nerbo e in una lingua ricca di locuzioni dialettali.
Migliore non è il bolognese GIOVANNI SABBADINO degli Arienti, del quale abbiamo una raccolta di settanta novelle intitolata Le Porretane, dove immagina che un'allegra brigata, per sfuggire la peste del 1475, si ritira ai bagni della Porretta e qui passa il tempo in piacevole novellare. Non c' è nulla che riveli nelle Porretane il novellatore di razza. Sono lunghe e complicate storie d'amore, narrazioni scolorite e fredde, aneddoti poverissimi diluiti in una prosa greve e monotona, artificiosa e zeppa di latinismi e provincialismi.

Il migliore dei novellieri del Quattrocento è MASUCCIO SALERNITANO, autore di una raccolta di cinquanta novelle intitolata Novellino. In questa raccolta c' è la materia cara ai novellatori del Tre e del Quattrocento, di origine letteraria e di origine popolare; vi troviamo dei soggetti che, dal Boccaccio in poi, hanno trattato un po' tutti o che non formano certo la parte più interessante del volume. Ma molte altre sono il prodotto dell'osservazione della società in mezzo alla quale il novelliere vive, ed in queste Masuccio riesce abbastanza originale. Il mondo corrotto degli ecclesiastici è da lui ritratto con cruda vivezza di colori; certe storie d'amore, come quella di Martina e Loisi, in cui spira un soffio impetuoso di passione e si trovano scene immediatamente colte dalla realtà, turbano profondamente.
 Masuccio non è un creatore di tipi, di caratteri completi, di figure veramente vive; ma possiede una forza non indifferente di rappresentazione. Non è un grande artista; imita troppo il Boccaccio e non sa come questi cogliere il tratto caratteristico di una figura o di una scena da riuscire a farceli vivere davanti con poche linee; non ha un gusto molto fine e spesso riesce grossolano; ha una tavolozza molto ricca, ma sovente carica le tinte, riuscendo goffo ed esagerato; ha del brio, ma non sa usarlo con parsimonia e qua e là invece del tipo comico ti dà la caricatura; ma racconta quasi sempre con ordine, con chiarezza; è conciso, rapido, nervoso, agile e naturale nel dialogo, sobrio ed efficace. nelle descrizioni. La sua lingua è piena di latinismi e di dialettismi, ma lo stile, se si tolgano certe pompe retoriche, è spigliato, piano ed ha un certo che di popolaresco che piace.

Dell' imitazione del Boccaccio risente molto uno strano romanzo, giunto a noi incompleto, che si attribuisce a GIOVANNI GHERARDI da Prato ed ha per titolo Il Paradiso degli Alberti. Esso non è un vero e proprio romanzo, ma si può considerare un insieme incomposto di novelle e di trattatelli cui fanno da cornice un supposto viaggio a Creta, a Cipro e sugli Appennini e dei convegni in casa Alberti. È privo di organicità, zeppo di reminiscenze classiche, dantesche e boccaccesche e si muove pesantemente attraverso lungaggini stucchevoli, con uno stile goffo e una lingua sovente incomprensibile.
Vero e proprio romanzo è invece il Pellegrino di IACOPO CAVICEO, che narra le avventure e gli amori di Peregrino e di Ginevra; ma non ha nessun valore artistico. I protagonisti, specie l'eroina, sono figure fredde e scialbe, simboli quasi di un'allegoria, e non ci destano alcun interesse ed alcuna simpatia. Solo i viaggi e le avventure dell'eroe, che in parte ritraggono l'avventurosa vita dell'autore, potrebbero riuscirci interessanti, ma non sono cose nuove per noi che abbiamo letto il Filocolo del Boccaccio e conosciamo le fortunose vicende di Fiorio e Biancofore, cui tanto somigliano quelle di Peregrino e Ginevra. Né alcuna novità presenta la figurazione dell'oltretomba che ricorda troppo l' Eneide  e la Divina Commedia.  La lingua è il volgare antico con un'abbondanza criticabile di dialettismi e latinismi, ma stentato, involuto, sciatto ed insipido.

È la prosa di tutti gli scrittori del tempo, nati fuori dalla Toscana, novellieri e romanzieri, favolisti, e storici. Dentro e fuori della Toscana la lingua volgare combatte la sua grande battaglia. Il latino è compenetrato di Volgare e il Volgare di Latino; si va a poco a poco formando la lingua nazionale il cui fondo è costituito dai dialetti che cercano di nobilitarsi modellandosi sulla lingua latina e seguendo le orme dei Toscani specie del Boccaccio. 
FRANCESCO COLONNA narra un fantastico viaggio Hypnerotomachia Poliphili in un idioma strano sorto da un ibrido connubio di Latino e di Volgare; in un Volgare più o meno irto di latinismo e dialettismi scrivono PARRUCCIO ZAMBOLINI (Annali de Spuliti), LEONE COBELLI (Cronaca di Forlì), GALEAZZO MARESCOTTI (Cronaca di Bologna), NICCOLÒ della TUCCIA (Cronaca d'Italia), STEFANO INFESSURA (Diario della Città di Roma), MARIN SANUDO (Le Vite dei Dogi, i Dieci e il De adventu Baroli) e BERNARDINO CORIO (Storia di Milano)
In Toscana però il Volgare serba la sua freschezza e schiettezza nelle modeste cronache di Bartolomeo del CORAZZA, di Domenico BNINSEGNI, di Benedetto DEI e di Alamanno RINUCCINI, nelle memorie familiari di Luca da PANZANO, di Giovanni RUCELLAI, di Buonaccorso PITTI e di Giovanni MORELLI, nella Vita di Filippo Brunelleschi di ANTONIO di TUCCIO MANETTI, nelle Vite d'uomini illustri di VESPASIANO da BISTICCI e nella biografia di Dante di LIONARDO BRUNI, mentre nelle altre regioni il latino e il dialetto hanno il sopravvento e noi dobbiamo aspettare che il secolo sia al suo tramonto perchè con l'Arcadia del Sannazzaro, per la prima volta oltre i confini della Toscana, il Volgare letterario acquisti dignità di lingua.

LA POESIA EROICA ED ALLEGORICA
LA LIRICA AMOROSA
I PRECURSORI DEL SECENTISMO

Magra e meschina è - come abbiamo visto sopra - la prosa del Quattrocento. Erudizione o dilettantismo o retorica, ma - eccettuati pochi casi - niente arte. I prosatori non scrivono per intimo bisogno; sono dotti che esercitano la loro professione di scrittori, sono cortigiani che mettono la loro penna al servizio di principi o di governi, ma non hanno nulla di serio da dire, sono indifferenti e perciò riescono freddi o frivoli o pretensiosi. Allo stesso modo i poeti - salvo pochi - sono privi di quella fede e di quella passione che danno l'anima all'opera artistica. Il Quattrocento non è un secolo eroico, ma i rimatori danno fiato alla tromba epica e viene fuori la Sforzeide, dove ANTONIO CORNAZZANo canta fiaccamente il suo duca, e nasce L'altro Marte di LORENZO SPIRITO, in cui si narrano con versi disadorni le gesta dei Piccinini, e nascono numerosi poemetti e poemi che non conviene neppure citare. 
I classici o i grandi trecentisti sono i modelli costanti. Dante è largamente imitato, ma della Commedia si imita la forma, non si intende o si rinnova lo spirito. Imitatori pedestri dell'Alighieri sono MATTEO PALMIERI autore della Città di Vita, in cui il poeta svolge la teoria di Origene sulle anime, MARINO JONATA che nel Giardeno discorre della morte, delle pene dei dannati e delle gerarchie celesti, TOMMASO SARDI che nell'Anima peregrina narra un suo viaggio per i cieli, P. I. De GENNARO, autore delle Sei etadi della vita umana, NICOLÒ BERLINGHIERI che tratta del sistema tolemaico e BASTIANO FORESI, che nel Trionfo della virtù canta le lodi di Cosimo de' Medici.

Come per la prosa così anche per la poesia il Boccaccio fa scuola. Parecchie novelle del Decameron sono ridotte in versi. FRANCESCO MALECARNI parafrasa la novella di Nastagio degli Onesti, Francesco ACCOLTI e Girolamo BENIVIENI quella di Ghismon in rima viene tradotta la novella di Gerbino. Ma le opere boccaccesche che più delle altre esercitano il loro influsso sulla poesia narrativa del secolo sono l'Ameto e l'Amorosa visione. Del primo risentono molto il poema Definizioni di JACOPO SERMINOCCI Serminocci e la Philomena di Giovanni Gherardi, della seconda, fra gli altri, un poema di Piero del Giocolo. 
Al Filostrato invece ci richiamano un poema in ottava rima del PESTELLINO e un'anonima Istoria di Patroclo e Insidoria ; alla Caccia di Diana il Pome del bel Fioretto di Domenico da Prato.

Nelle ottave e nelle terzine di questi poemi c' è tutto fuor che poesia. Sono parafrasi, riduzioni, imitazioni e nient'altro. I maestri restano insuperati, troppo lontani dalla turba dei rimatori che si affannano dietro le loro tracce. Il Trecento offre al secolo XV tutta la sua parte caduca. Lo spirito del Trecento è finito, la grand'arte è tramontata con la scomparsa della fede religiosa e degli ideali politici. Del secolo precedente il Quattrocento non ha ereditato lo spirito, ma le forme; la sua caratteristica è l'indifferenza che cerca di mascherare con la rievocazione della grandezza romana; non è cristiano e non è pagano; si moraleggia in prosa e in versi, ma il costume non conosce più la severa austerità dei tempi andati. MALATESTA di Pesaro par che aspiri all'unità d' Italia sotto lo scettro di Sigismondo, ma i suoi versi non destano echi; la poesia politica è cortigiana; ogni rimatore esalta il suo signore e sferza il suo nemico: Galeazzo Maria Sforza è portato alle stelle da TOMMASO MORONI e vilipeso da ANTONIO di MEGLIO, Niccolò CIECO profonde elogi sperticati ai Papi e a principi; ma nessun estro muove questi poeti e dà vita alle loro rime. Solo qualche spirito bizzarro ha accenti sinceri.

Per mezzo del Burchiello il Quattrocento dà la mano al Due e al Trecento, a FOLGORE di San Gimignano, a CECCO ANGIOLIERI, ad ANTONIO PUCCI; ma la satira è divetata sboccata, si  è fatta sconcia, quasi triviale, e non ha un rappresentante di qualche valore perchè lo stesso Burchiello è un modesto verseggiatore pur facendo scuola con la sua « maniera ».
Nella lirica amorosa il Quattrocento segue, svolge ed esagera le forme del secolo precedente, ma la musa dei poeti non è Beatrice, bensì Laura. Il Canzoniere petrarchesco è per i cantori del sec. XV ciò che era stato pei teologi l'opera di S. Tommaso d'Aquino, l'opera perfetta sull'amore, il modello della poesia erotica. Esso è una miniera inesauribile per chi cerchi rime, frasi, concetti, immagini, atteggiamenti, motivi; e i poeti vi pescano abbondantemente. Il canto d'amore non è più una libera e sincera espressione di stati dell'animo, ma un'esercitazione letteraria che segue i dettami di una moda, attingendo copiosamente ad un formulario convenzionale. Molti dei poeti del sec. XV sono ecclesiastici e scrivono con molta indifferenza sonetti erotici e laude religiose; molti altri compongono poesie per mandato, come ANTONIO di MEGLIO. I canzonieri si assomigliano quasi tutti; in tutti troviamo, sotto altri nomi una Laura che fa struggere di desiderio il poeta, che lo fa sognare, delirare, piangere, sospirare; in tutti troviamo un Petrarca che confida all'aure, alle onde, ai prati, ai monti il suo amore e il suo dolore. Sarebbe inutile far nomi, parlare sia pur brevemente di Bernardo BELLINCIONI, di Girolamo BENIVIENI, di Domizio BROCCARDI, di Mariotto DAVANZATI, di Domenico DA PRATO, di Simone SERDINI, che pur compose bei lamenti e canzoni disperate; di FELICIANO da Verona, altrettanto disperate; invano cercheremmo nelle donne cantate da loro un tratto che non sia stato delineato dal Petrarca. Esse si chiamano Andreola, Camilla, Fenice, Oretta, ma sono sorelle pallide e fredde della bella avignonese.

Qualche nota originale e gentili movenze ha BUONACCORSO da MONTEMAGNO; garbato, ma freddo e scialbo è il canonico Rosello ROSELLI; non prive di vivezza e sincerità sono le poesie di FRANCESCO ACCOLTI, dove non dispiace qualche motivo sensuale; immagini graziose hanno qua e là i pochi versi di LIONELLO d' Este e quelli di GASPARE VISCONTI e Antonio FORTEGUERRI e di elegantissima fattura è il canzoniere La bella mano di GIUSTO de' CONTI; ma questi scarsi pregi non sono sufficienti a trarre dall'oblio tante rime. In tanta mediocrità di petrarchisti chi, pur imitando, sa esser personale e veramente poeta è il BOIARDO, di cui parleremo a suo tempo.

Questi poeti sono per la maggior parte toscani o dell' Italia centrale e settentrionale. Ogni corte è un centro letterario in cui si petrarcheggia: a Firenze presso i Medici, a Milano presso i Visconti o gli Sforza, a Ferrara presso gli Estensi, a Mantova, a Rimini, ad Urbino; ma ve ne sono anche nel Mezzogiorno, specie a Napoli, alla corte di Ferdinando I d'Aragona: il De GENNARO, che spasima per madonna Bianca, Francesco GALEOTA, la cui ammirazione per il Petrarca è tale da fargli visitare la Provenza, Giuliano PERLEONI che canta Diana Lazia e Beatrice Cassia.

Al Petrarca era accaduto sovente di rimediare all'estro con espressioni esagerate, ricercate, artificiose, con immagini ardite e qualche volta grottesche, con antitesi di cattivo gusto e vieti artifizi rettorici. I petrarchisti imitano il maestro anche in questo. Alcuni di essi anzi - che sono da considerarsi come i precursori del Marinismo - con l' intento di riuscire più eleganti ed originali abusano degli artifizi del modello: si dilettano di scherzare con i nomi delle loro belle, si compiacciono di bisticci, costringono i versi nelle tiranniche leggi dell'acrostico, giungono perfino nei così detti centoni petrarcheschi a formare sonetti con versi del Petrarca pazientemente ricercati nel Canzoniere, costruiscono antitesi che per la loro audacia riescono buffe e strane.

Il primo per ordine di data, di questi marinisti del sec. XV è il CARITEO, autore di un canzoniere intitolato Eudimone. Nessuna ispirazione, nessun calore di sentimento nella sua poesia; la sua povertà di fantasia e d'affetto il Cariteo cerca di mascherare con una forma piena d'artifizi di pessimo gusto. Al pari del suo modello scherza col nome della sua donna, che è detta Luna perché una e sola è al mondo; ed è capace di raffreddare il fuoco di Vulcano; è Luna, ma è un sole di bellezza e, se morisse, il cielo avrebbe due lune e due soli, e il vero sole e la vera luna si offuscherebbero al comparir di lei, che ha le pupille così risplendenti da far fermare un cavallo lanciato a corsa vertiginosa!

Di gran lunga più bizzarro è il ferrarese ANTONIO TEBALDEO. Il suo amore è un fuoco che gli brucia il corpo e le vesti; la passione lo ha tanto indebolito che non può più reggersi in piedi, è un fuoco che scioglie la neve e fa da scaldamani a Flavia, la sua donna. Egli ha ricevuto tanti dardi da Cupido che è divenuto una faretra; le sue lacrime formano un torrente e bagnano il terreno su cui cammina; i suoi sospiri hanno la violenza dell'uragano e incutono terrore ai naviganti; le lacrime di Francesco Gonzaga hanno allagato Mantova e ingrossato il Po, e i sospiri del medesimo hanno spezzato l'albero maestro di una nave; il candore di Flavia reca tanto stupore alla neve che questa non fiocca più il poeta è, per i tormenti amorosi, così irriconoscibile da non aver bisogno, per Carnevale, di mascherarsi; Cupido scaglia un dardo contro Flavia, ma invece che al cuore la colpisce al naso producendole un'emorragia; la neve invidiosa della bianchezza di Flavia si vendica mutandosi in ghiaccio per farla scivolare!

Alla stessa maniera ma con più ingegno e maggiore ricchezza di colori verseggia l'abruzzese SERAFINO AQUILANO. Egli è così riscaldato dal fuoco d'amore che, se, per aver sollievo, si tuffa in mare, questo s'infiamma e comunica l' incendio allo scoglio dove battono le onde. Ma la sua donna è di ghiaccio; tuttavia vive nel cuore infuocato del poeta senza liquefarsi. Il fuoco e l'amore generano nella poesia dell'Aquilano antitesi numerose e strane. La neve da lui mangiata si converte in fuoco. Gli occhi della sua bella mandano fiamme e lui si stupisce che non incendiano i libri da essa letti o lo specchio in cui si mira o che il fuoco riflesso dal vetro non infiammi lei stessa. I sospiri del poeta sono così impetuosi che fanno aprire gli usci, così cocenti da bruciare gli uccelli in aria; le sue lacrime servono di pioggia ai prati e formano fiumi che dissetano le fiere; le sue fiamme amorose lo fanno splendere come una lucciola, fanno di lui un faro che guida i viandanti smarriti.

Se nella lirica amorosa del Quattrocento vogliamo trovare qualche accento sincero non dobbiamo cercarlo negli imitatori del Petrarca. Poeta sincero ed originale se pur non grande è GIOVANNI ANTONIO PETRUCCI, conte di Policastro. Per aver partecipato alla congiura dei baroni contro Ferdinando, langue quattro mesi nella torre di S. Vincenzo, dall' 11 agosto all' 11 dicembre del 1486, fino a quando cioè verrà decapitato. Pochi giorni prima aveva sposato Sveva Sanseverino il 21 luglio, e in versi soffusi d' intensa nostalgia canta l'amore della sua donna, i ventidue giorni di felicità trascorsi con lei; ricorda il passato, i sogni, gli studi diletti, i divertimenti, gli amici; e spera nella libertà. Ma nessuno intercede per lui, non il Pontano, non il Cariteo, cui manda sonetti accorati. Per lui il mondo è finito e il suo è il canto del morituro che saluta la vita; un canto che non impreca, ma si lagna cupamente dell' ingiustizia degli uomini, dell' ingratitudine e dell'abbandono degli amici, della volubilità della sorte; un canto profondamente triste che si spegne invocando la morte.

Pure alla morte rivolge il suo verso il pesarese PANDOLFO COLLENUCCIO, trattenuto per quindici mesi in prigione, poi esiliato ed infine decapitato per ordine di Giovanni Sforza. Non è pura la sua lingua né tutti meritevoli di menzione i pochi suoi versi; ma la sua Canzone alla Morte è ricca di ispirazione e di sentimento. Egli si rassomiglia al pellegrino che «nel vago errore stanco - Dei lunghi e faticosi suoi viaggi » desidera di riposare nel luogo natio; al navigante che, dopo i molti pericoli corsi, mira il « disiato porto », e rivolge la sua preghiera alla morte, la quale è per il poeta un «placidissimo sonno», un' «alta quiete» che toglie il velo dell' ignoranza, che distingue il vero dal falso, l'istante dal perpetuo, il mortale dall'eterno, che l'anima scesa pura dal cielo e spogliatasi del «lume di sua gloria» nel soggiorno nel corpo rende libera al cielo, che pone fine alla vita che altro non è che «fatica, affanno e stento - Sospiro, pianto e lamento - Dolore, infermità, terrore e guerra».

Nel Petrucci abbondano le reminiscenze classiche, nel Collenuccio le dantesche. Pur attraverso i nuovi atteggiamenti originati dalla rinascita del mondo,  pagano è il Trecento che tuttavia fa sentire il suo influsso nella poesia del Quattrocento, ma in essa la luce del gran secolo si scolora e si trasforma: l'allegoria dantesca si riduce a pallida visione, ad una cornice di astrazioni aride; il fine psicologismo del Petrarca diviene luogo comune o si stempera in sospiri o si sforma in scempiaggini retoriche; il poemetto popolare perde la sua freschezza giovanile nelle vesti della novella poetica; il poemetto mitologico intristisce nelle ottave di Luca Pulci e si rinnovella nel romanzo pastorale del Sannazzaro, ma perde la sua ingenuità e il suo profumo agreste la tenera ballata trecentesca. 
Ma la poesia cavalleresca, passata dalla piazza alla corte, si avvia alla perfezione e la poesia popolare, raccolta dagli artisti, pur non perdendo niente della sua forma e della sua grazia primitiva, acquista per opera del Poliziano e del Magnifico dignità letteraria.
SECONDA PARTE

LA LIRICA POPOLAREGGIANTE - LIONARDO GIUSTINIANI - LORENZO IL MAGNIFICO - LA POESIA RELIGIOSA - LE SACRE RAPPRESENTAZIONI - L' < ORFEO > E IL DRAMMA PROFANO - LA POESIA DEL POLIZIANO - JACOPO SANNAZZARO E L'ARCADIA - II POEMA CAVALLERESCO - LUIGI PULCI E MATTEO MARIA BOIARDO
LA LIRICA POPOLAREGGIANTE - LEONARDO GIUSTINIAN -
 LORENZO IL MAGNIFICO - LA POESIA RELIGIOSA - 
LE SACRE RAPPRESENTAZIONI - L' « ORFEO » E  DRAMMA PROFANO -
 LA POESIA DEL POLIZIANO - JACOPO SANNAZZARO. - 

Accanto alla poesia dotta vive nel secolo XV la lirica popolare. Dal Duecento in poi il popolo è un gran fabbro di versi in volgare; versi che emigrano di regione in regione alterandosi man mano che passano di bocca in bocca, di paese in paese; versi di cui non si conoscono gli autori e sono il patrimonio di tutto un popolo che con arte ingenua e spontanea, sprigiona tutta la sua anima.

 Nasce in Sicilia e nel mezzogiorno della Penisola, parecchie forme della lirica oggettiva e soggettiva popolare e si spandono con lievi trasformazioni metriche e linguistiche in tutto il resto d'Italia. Primeggiano fra tutte la canzonetta e lo strambotto. Nelle agili strofe di settenari ed ottonari della prima la materia del canto è sempre la solita: lamenti di donne che non hanno trovato nel matrimonio la felicità; lagni di fanciulle che rinchiuse contro il proprio volere nei monasteri, vedono sfiorire la loro giovinezza e si consumano negli ardori del desiderio; brame ed impaziente di zitelle che sognano un marito; fughe dai chiostri e sfoghi contro la tirannia dei parenti. 
Negli endecasillabi del secondo tutte le voci d'un'anima innamorata: il desiderio, la nostalgia, lo sconforto, il dispetto, lo sdegno, l' invettiva, l'ansia, la gioia, l'ammirazione, il ricordo, il sogno, la speranza. Nel Due e nel Trecento alla poesia popolare attingono i poeti: essa offre loro il metro e le movenze, la materia e la sua particolare espressione, e in bocca del CAVALCANTI, del BOCCACCIO e del SACCHETTI conservando l'aggraziata freschezza acquista una più cultacinta leggiadria. Nel Quattrocento la tradizione della lirica popolare non si interrompe. Nel Veneto la poesia popolare fiorisce rigogliosa, in Sicilia lo strambotto è cantato per i campi e sotto le finestre delle belle; in Toscana le feste popolari sono rallegrate dalle canzonette intonate; per le liete adunanze nelle sale e nei giardini i poeti dettano appositamente ballate d' intonazione popolare e i maestri di musica - fra i quali è rinomato Antonio SQUARCIALUPI - le rivestono di note. 
Della prima metà del secolo XV sono due raccolte venete di strambotti e una raccolta toscana giunta a noi col titolo di Rispetti per Tisbe, piena di graziosa freschezza. 
A coltivare i fiori della lirica popolare è tutto intento l'umanista veneziano LIONARDO GIUSTINIAN, di cui ci rimangono ventisette strambotti che formano un breve e leggiadro ciclo. d'amore. Il poeta loda la bellezza della donna amata e manifesta la potenza dell'amore che gli ha suscitato, canta i suoi desideri, i suoi struggimentî, i suoi dubbi e le sue speranze con accenti così espressivi che i suoi versi acquistano una vivezza straordinaria. La forma dei suoi strambotti è l'ottava, in cui sono trattati i soliti argomenti della poesia popolare amorosa, che, per la spontaneità dell'espressione con cui è riprodotta, per l'andatura disinvolta e vivace, per le assonanze e le frequenti ed efficacissime ripetizioni, nelle stanze armoniose del dotto umanista nulla perde della sua freschezza ed ingenuità. 
Non meno fresche e leggiadre sono le canzonette o ballate del Giustinian, dove tratto tratto fan capolino qualche reminiscenza petrarchesca e qualche immagine mitologica che nulla tolgono ad esse di quella fragranza popolaresca di cui sono profumate. Scritte in volgare troppo dialettale, spesso messe in musica dallo stesso autore, svelte nelle strofette di versi brevi, abbondanti di rime, si divulgano rapidamente e danno origine ad una non scarsa produzione di liriche comunemente dette Giustiniane. Passa nelle canzonette del Giustinian la vita veneziana con la sua cornice di mare e di cielo: una striscia d'azzurro stellato tesa su due file di palazzi; un canale quieto tremolante di luci; una gondola che solca silenziosa la laguna; una finestra gotica; una calle deserta; un portichetto inargentato dalla luna.
 
La scena è quasi sempre di notte e l' innamorato canta e prega dalla via; annunzia il suo arrivo con un colpo di tosse, con un sassolino lanciato contro i vetri, e alla bella che si affaccia o a qualche compiacente amica di lei innalza i suoi sospiri, rivela le sue brame, getta la parola d'amore o di sdegno, il bacio appassionato e l'addio doloroso. Nelle notti scure o illuminate dagli astri, nelle tacite vie, piccoli drammi, brevi commedie si svolgono. A volte è protagonista il poeta, a volte egli è l'osservatore e il narratore. Qualche volta ci par di leggere una novella del Boccaccio o un atto del Goldoni: scene colte dal vero, in cui il patetico si intreccia con il comico. Vi si piange e vi si ride, vi s'impreca e vi si gode. L'amore comincia sulla soglia della porta e trionfa nell'alcova.
Le poesie del Giustinian sono lo specchio fedele della vita del tempo; canti ed amori; niente preoccupazioni politiche e religiose, ideali, simboli, allegorie; la vita èc osì com' è e i poeti non la trasfigurano, ma ne cantano i godimenti. Il fondo della vita è la spensieratezza, il fine è la gioia; e gioia e spensieratezza si riflettono nella poesia popolare e popolareggiante, che ne riceve un profumo agreste di sana giovinezza. 

Una lieve filosofia informa la vita ed anima la poesia: godere l'attimo che fugge. Il Giustinian canta: "Fin che zovene siti - Non aspectà che 'l dolce tempo passi", e Lorenzo il Magnifico ammonisce: "Spendete lietamente i vostri giorni - chè giovinezza passa a poco a poco".
LORENZO de' MEDICI è l'espressione perfetta e compiuta del tempo suo, del quale in lui si trovano tutte le caratteristiche e si assommano e si fondono armonicamente tutti gli atteggiamenti. Egli è il vero tipo dell'uomo e dello scrittore del Quattrocento. Principe, si fa chiamare cittadino, e si mescola volentieri al popolo da cui è uscito; tiene corte splendida e scende in piazza; ragiona di filosofia con gli eruditi ed ama la cavalcata e le cacce. L'opera sua accoglie tutte le voci e le tendenze del tempo, ma le fonde e dà loro un'impronta spiccata di originalità. Educato dagli umanisti al culto dell'antichità, ad essa si ispira; accoglie la concezione platonica dell'amore, e ad essa informa la sua poesia; ama ed imita Dante, il Petrarca e il Boccaccio; coltiva e rinnovella la poesia popolare e rusticale e non disdegna il canto religioso.
Frutto dei suoi studi filosofici e dell' influsso che le dottrine neoplatoniche del Ficino esercitarono sopra di lui è l' Altercazione, poemetto giovanile, in cui Lorenzo narra che in una valletta amena venuto a diverbio col pastore Alfeo, il quale loda la vita della città mentr'egli magnifica quella dei campi, Marsilio Ficino, sopraggiunto ed eletto arbitro, dimostra non potersi raggiungere dall'anima umana su questa terra la felicità, che è riposta soltanto nel godimento del Sommo Bene, a cui si perviene per mezzo delle virtù e dell'amore celeste. 

Un'altra opera del Magnifico prodotta dalle stesse dottrine è il Canzoniere. Secondo le dottrine platoniche l' idea della bellezza generale suscitata nell'anima umana dall' immagine de una bellezza particolare è la causa dell'amore. Per Lorenzo questa immagine particolare non è quella di persona viva, ma di una morta. Egli finge di aver veduto il viso bellissimo di una donna - i critici l' hanno identificata con Simonetta Cattaneo amata da Giuliano de' Medici - morta nel fiore degli anni, la quale vista gli mette nel cuore un desiderio vivissimo di trovare ed amare una fanciulla di eguale bellezza. La incontra qualche tempo dopo, in una festa, e qui comincia il suo amore e il suo canto. Ma nel Canzoniere l'amore è un frutto dell'immaginazione del poeta e il canto è mosso da un' ispirazione tutta letteraria. Manca l'affetto vero e manca perciò la sincerità nell'espressione. Lorenzo non manifesta nella sua poesia stati d'animo reali, ma canta situazioni interiori in cui finge di trovarsi, dietro le orme di una tradizione poetica che gli offre già fatto tutto un bagaglio di concetti e di forme. Come nella poesia dello stil nuovo il suo amore è tutto spirituale; la sua donna non è di questo mondo; è donna angelicata, non ha linee proprie di bellezza, ma rifulge dello splendore di una bellezza generale ed astratta; come in Guido Cavalcanti, in Cino e nell'Alighieri e in tutti gli altri poeti toscani della stessa scuola, così in Lorenzo dei Medici l'amore s'identifica con la gentilezza del cuore, il quale da esso viene ingentilito e nobilitato; gli spiritelli d'amore scendono dagli occhi al cuore e vi fanno ressa intorno e si spandono nel petto del poeta e risalgono agli occhi e da altri spiriti guidati passano a popolare tutto il corpo della donna ed a farvi gazzarra come inquilini rumorosi ed importuni. 

Dalla poesia del dolce stil novo a quella del Petrarca il cammino è breve; e del Petrarca è Lorenzo un imitatore costante e felice. Su Laura egli modella la sua donna, con gli occhi del grande lirico aretino la vede e la contempla, e alla maniera del Petrarca ne canta le lodi e analizza i propri sentimenti. Il Petrarca gli offre concetti e immagini, atteggiamenti spirituali e motivi poetici, la maniera del canto e non di raro l'espressione e gli artifici stilistici. Però quando gli avviene di liberarsi dal suo modello e di guardare direttamente la natura, la sua poesia si profuma tutta di una fragranza agreste che inebria, si illumina di una luce chiara di sole, si tinge di colori vari e vivi, palpita di soavi armonie, si riempie di fresche voci e di dolci tepori.

Di fronte alla realtà della vita la poesia di Lorenzo si anima e si colorisce e l'impeto si scioglie e vaga galoppando dove l'estro lo spinge. Pittore insuperabile egli ci si mostra nelle armoniose stanze delle Selve d'Amore, dove c'è una ricca galleria di quadri stupendi. Cantucci di mondo sepolti nella pace, pianure e pendici che rinverdiscono a primavera, foreste ombrose e valli soleggiate sfilano ininterrottamente davanti gli occhi nostri, ed una musica varia di fonti, di rami, di uccelli, di sussurri ci carezza dolcemente l'orecchio. Belle ed efficaci sono le stanze in cui è descritta l'onda che corre serena fra gli argini o dilaga e distrugge, il lieve vento e la procella furiosa, il fuoco che scalda e l'incendio; e quelle che descrivono l'innamoramento del poeta e quelle altre in cui la speranza lo inebria con la visione di immagini di felicità. Piena di delicata eleganza è la descrizione delle rose in Corinto, ecloga in terza rima d'imitazione ovidiana e teocritea in cui un pastore invia i suoi lamenti e le sue preghiere all'amata Galatea con accento profumato di gentilezza che invocando amore offre una dolcissima visione di felicità campestre. Una soavissima malinconia pervade le perfette terzine, prodotta dalla rassegnata constatazione dell' ineluttabile destino a cui sono sottoposte tutte le cose belle, a cui - come le rose della primavera - è sottoposta la gioventù della vita. Quando Corinto vede ad uno ad uno i petali bianchi e vermigli cadere a terra, pensa che "vana cosa è il giovenil fiorire"; ma il suo volto non diventa cupo e il suo accento disperato. Che vale lagnarsi se è questa la legge che regola la vita? Meglio godere, cogliere l'attimo che fugge, prima che la neve imbianchi il crine e dalle corolle disseccate il frutto maturi. "Cogli la rosa, o ninfa, or ech' è il bel tempo". Questa divina malinconia, a cui si innesta una filosofia semplice e pur profonda che proclama la fugacità delle cose e la necessità di goderle tempestivamente, è là nota dominante della poesia amorosa di Lorenzo de' Medici. C' è in lui come il pensiero costante della vecchiaia e della morte, che, assillandolo, gli amareggia perfino la breve gioia del presente; e questo pensiero gli fa sembrare sempre più vane le cose. Questa nota insistente, ammonitrice ritroviamo nelle canzoni, nei sonetti, nelle Selve, qua e là nei poemetti, nelle canzoni a ballo e perfino nei canti carnascialeschi. Sono, questi ultimi, canzoni che il folle carnevale mediceo lancia per le vie di Firenze percorse da maschere. Folleggia il carnevale, e la città gaudente risuona dei canti spensierati che il Magnifico detta ed Arrigo Tedesco riveste di note musicali del Canto delle Fanciulle e delle Cicale, del Canto de' Romiti, del Canto di poveri che accattano per carità, di quello dei bericuocolai e di quell'altro famoso del Trionfo di Bacco ed Arianna, dove il ritornello è l'espressione più bella di quel senso di malinconia che caratterizza la poesia di Lorenzo.

Quant' è bella giovinezza
 che si fugge tuttavia ! 
Chi vuol esser lieto, sia:
 di doman non c è certezza.

Parrebbe questa filosofia una caratteristica personale del Magnifico ed è invece la caratteristica dell'età, la quale d'altro non si cura che del godimento, ama la serenità della vita, il riposo, la pace dei campi, le cacce, le giostre, il baccanale. L'amore per i campi è fortissimo in Lorenzo e genera le cose più belle della sua poesia. Fra Firenze e Pistoia, a Poggio a Caiano, il Magnifico possiede una splendida villa che egli chiama Ambra, dove gli è dolce di quando in quando immergersi nella solitudine e conversare con le muse. Ad Ambra Lorenzo trova un'origine mitologica e nel poemetto in ottava rima dello stesso nome ne tesse la breve e delicata storia. In terzine è il poemetto che s'intitola I Beoni, ma l'ottava ritorna nella Caccia al falcone, poema di scene vive, rapide e colorite, e nella Nencia da Barberino, che è un gioiello di poesia rusticale. Improntato ad un realismo a volte troppo crudo ma mai volgare, questo poemetto seduce per la sua vivacità, per l' immediatezza della rappresentazione, per il brio tutto toscano che lo ravviva, per la freschezza del linguaggio schiettamente fiorentino. Esso troverà imitatori fin nel Seicento e ispirerà a Buonarroti il Giovane la Tancia e a Francesco Baldovino il Lamento di Cocco da Varlungo. Ma anche nel suo secolo il poeta della Nencia ha imitatori, fra i quali LUIGI PULCI, che nella Beca di Dicomano tratta con molta perizia la poesia rusticale, maneggia con arte l'ottava e ci dà una rappresentazione realistica della vita campagnola. Egli però non ha, come Lorenzo, il senso della misura, carica le tinte e riesce volgare. Mentre il Magnifico scherza garbatamente, il Pulci scrive col proposito di beffare i costumi contadineschi; ma l'arguzia nella sua bocca si muta in maldicenza e lo scherzo trasmoda in caricatura.

Lorenzo de' Medici è anche autore di poesie religiose (laude) e di una sacra rappresentazione, San Giovanni e Paolo, recitata nel 1489. Di laude e sacre rappresentazioni c'è nel Quattrocento una ricca fioritura. La forma più comune della lauda è la ballata, raramente l'ottava o le strofette di versi brevi; gli argomenti sono preghiere a Dio e ai Santi, leggende religiose, soggetti attinti al Nuovo testamento; il più delle volte, o per comodità o per quel vezzo che ha il popolo di adattare parole nuove a motivi noti e familiari, le laude vengono cantate su melodie profane molto in voga di strambotti e di canzonette e perfino di osceni canti carnascialeschi. Laude scrivono il Giustinian, Giovanni Dominici, Lorenzo il Magnifico, Feo Belcari, Bernardo Giambullari, Girolamo Benivieni, Lucrezia Tornabuoni, il Poliziano.

LE SACRE RAPPRESENTAZIONI

Parecchi di questi poeti sono anche autori di Sacre Rappresentazioni. Nato nell'Umbria nella seconda metà del secolo XIV dalle laude che venivano recitate dalle confraternite dei flagellanti, questo genere di poesia sacra aveva a poco a poco sviluppato la sua forma drammatica. Verso la metà del Trecento queste laude drammatiche erano chiamate Devozioni. Bisogna però giungere al Quattrocento per trovare il vero dramma sacro che prese poi il nome di sacra rappresentazione ed ebbe il suo maggiore sviluppo in Toscana e particolarmente a Firenze. Gli spettacoli non avevano luogo in appositi teatri, ma nelle pubbliche piazze, in cui era eretto un palco sfarzosamente addobbato; durante lo spettacolo o negli intermezzi spesso si faceva della musica o si cantavano salmi e laudi. Il dialogo era comunemente cantato e i numerosissimi attori appartenevano alle così dette compagnie di dottrina. Lo spettacolo durava perfino due giorni. Non di tutte le sacre rappresentazioni pervenute a noi si conoscono gli autori, la maggior parte sono anonie; delle altre la più antica è la Rappresentazione del di del giudizio di ANTONIO di MEGLIO, recitata nella prima metà del Quattrocento. La forma delle rappresentazioni è l'ottava; esse si aprono con un prologo, in cui l'angelo espone brevemente al pubblico l'argomento, e si chiudono con una licenza. Ma veri e propri drammi queste rappresentazioni non sono, bensì - per dirla col Gaspary - «delle storie, delle leggende, delle novelle esposte in forma dialogica e illustrate con apparato scenico»; storie o parabole tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, leggende intorno alla vita e ai miracoli di Santi e Martiri e favole talora profane attinte ai romanzi e alle novelle del Boccaccio, in cui l'elemento religioso è puramente occasionale ed accessorio. 
Uno degli autori più fecondi di sacre rappresentazioni è Feo BELCARI, autore anche di una Vita del Beato Giovanni Colombini da Siena. Di lui abbiamo le rappresentazioni di Abramo ed Isac, dell' Annunziazione, di S. Giovanni nel deserto, di San Panunzio, del Giudicio finale e parecchie altre; di PICOZZO CASTELLINI abbiamo quelle della Cena e Passione, del Figliuol prodigo, di S.Tommaso, di S.Onofrio, di S.Orsola, di Santa Eufrasia. di S.Vincenzo, di GIULIANO DATI la Sacra rappresentazione della Passione, di Lorenzo di Piero de' Medici La invenzione della Croce; di BERNARDO PULCI quella di Barlaam e di S. Teodora, di ANTONIA GIANNOTTI quelle di S. Guglielmo, di Santa Domitilla, del Figliuol prodigo.
Nelle sacre rappresentazioni l'arte drammatica manca del tutto. «Del dramma infatti - scrive il Gaspary - non vi si trova nulla eccetto che il dialogo; non vi incontriamo nessun carattere, ma solo figure disegnate su tipi, nessuna motivazione psicologica degli avvenimenti, nè mai il tentativo di dare all'azione un organismo e di raccoglierla in poche situazioni profonde. Si ha sempre un racconto trasportato direttamente sulla scena con tutte le sue particolarità, e a tutte queste, anche alle più insignificanti, è data la stessa importanza. Ne risulta una interminabile serie di piccolissime scene, tutte meschine e povere di vita poetica ». 
Ingenuità e somma imperizia drammatica si riscontrano ad ogni passo nelle rappresentazioni, ed anacronismi marchiani vi sono profusi. In esse nulla è rimasto della solennità dei misteri medievali; la materia religiosa non disdegna di accoppiarsi e fondersi alla profana, anzi talvolta la soverchia provocando lo sdegno di Sant'Antonio, il quale vuole che tali spettacoli siano proibiti nelle chiese. 
E vi è di più. Gli autori, pur trattando argomenti sacri, si compiacciono di satireggiare uomini di chiesa con colori e scene poco edificanti. Nel S. Giovanni Gualberto c' è la rappresentazione satirica di un prelato che offre una pieve del Mugello all' incanto e vende con fine arte di mercante una badia.

 Nè solo al clero sono rivolte le punte della satira, ma ad altre classi: ai mercanti, ai giudici, ai medici ignoranti, ai soldati. Spesso la satira si attenua, si muta in canzonatura gustosa e dà origine ad una vena di piacevole comicità. L' elemento comico è strettamente congiunto all'elemento realistico. Scene che ritraggono vivacemente la vita negli aspetti che più sono graditi al popolo, il buffo e il triviale, troviamo nelle sacre rappresentazioni, dove - come nella Stella nella Santa Uliva e nella Rosana - il soggetto sacro è spesso reso più attraente dall'elemento romanzesco. Il dramma sacro in queste rappresentazioni si muta in profano; la parte religiosa vi è del tutto accessoria e comincia a poco a poco a mancare il concetto morale ispiratore. Scritte per un pubblico più colto e con maggior cura dell'arte, le sacre rappresentazioni avrebbero potuto dare origine al dramma profano, ma gli umanisti imitano i classici e scrivono le loro opere drammatiche in latino; nei teatri delle corti, nei palazzi dei prelati, perfino nelle chiese si rappresentano opere latine, che a Ferrara si dànno nelle traduzioni del Collenuccio, del Guarino, e di altri; e le rappresentazioni popolari, confinate nei collegi, nei conventi e in qualche chiesa, vi intristiscono e non subiscono evoluzione alcuna.

Nel 1471, in occasione delle feste date in onore di Galeazzo Maria Sforza e dietro richiesta del cardinale Francesco Gonzaga, il Poliziano, diciassettenne, compone l' Orfeo, in cui per la prima volta in Volgare adatta alla forma della sacra rappresentazione un argomento profano e per giunta pagano.
 La favola è tratta dal quarto libro delle Georgiche di Virgilio e dal decimo delle Metamorfosi di Ovidio. Ma un vero dramma quest'Orfeo non è ed è privo perfino di quel movimento che anima, forse soggiogare, le sacre rappresentazioni. I personaggi non agiscono, ma raccontano e tutta l'azione dell'opera è nella narrazione, la quale inquadra e lega tre momenti lirici, che hanno la loro espressione nella ballata di Aristeo, nelle ottave, dove Orfeo si lagna, prega ed impreca, e infine nel coro ditirambico delle Baccanti: tre liriche bellissime che potrebbero stare da sè e che, cucite insieme per mezzo di dialoghi, formano la favola scenica. 

Dietro le orme del Poliziano altri poeti compongono rappresentazioni di argomento profano, quasi sempre pagano se si eccettui il Jacob e Joseph di PANDOLFO COLLENUCCIO. Nel 1487 è rappresentata a Ferrara, autore NICCOLÒ da CORREGGIO, la Fabula di Cephafo in cinque atti composti di ottave, terzine e canzonette ; qualche anno dopo il Boiardo scrive il Timone adattando alle scene il dialogo omonimo di Luciano; nel 1495 Serafino Aquilano, autore d'un monologo in quindici strambotti dal titolo Atto scenico del tempo, rappresenta a Mantova un'allegoria in cui protagonisti sono la Voluttà, la Fama e la Virtù; BALDASSARRE TACCONE scrive l'Atteone e nel 1496 dà a Milano la Danae in ottava e terza rima; in cinque atti e in ottave Gaspare Visconti detta la Pasitea e un anno dopo GALEOTTO del CARRETTO, autore delle rappresentazioni allegoriche Tempio d'Amore e le Nozze di Psiche e Cupidine, manda la Comedia di Timon Greco ad Isabella Gonzaga alla quale nel 1502 invierà una tragedia in ottave intitolata Sofonisba. A Mantova nel 1499, imitando Benvenuto Accolti che nel 1494 aveva posto sulla scena la Virginia tratta dalla novella boccaccesca di Giletto da Narbona, ANTONIO CAMMELLI detto il Pistoia fa rappresentare una tragedia in cinque atti, Panfila, che è la prima opera italiana la quale si discosti dalla forma delle rappresentazioni popolari e si avvicini alla classica.

IL POLIZIANO

Ma di tutte queste opere drammatiche nessuna ha quelle doti di bellezza di cui è piena la breve favola polizianesca. Nell' Orfeo noi troviamo accennate tutte le caratteristiche della poesia del Poliziano: l'eleganza, l'armonia, le predilezioni metriche, il tono soavemente elegiaco e la rappresentazione idillica del mondo poetico. I metri da lui preferiti per le sue rime sono il rispetto, la canzone a ballo, la canzonetta e qualche volta la canzone petrarchesca. Il Poliziano, come il Giustinian e Lorenzo il Magnifico, imita la poesia popolare, ma mentre questi si mettono a contatto immediato con il popolo, i cui atteggiamenti fanno propri traducendoli nel canto con ingenuità e freschezza, egli mette tra la sua arte e il popolo il suo spirito culto, e la sua poesia di imitazione popolare tradisce il letterato. 
Il Poliziano non è il poeta degli affetti profondi; sotto la sua penna fioriscono il lieve idillio o la tenue elegia. Egli guarda la vita nella sua dolce serenità; dalla villetta medicea di Fiesole il suo occhio spazia tranquillo sulla verde campagna che gli si apre davanti e la tranquillità e la pace della natura gli mettono nel cuore un senso di infinita dolcezza. Sovente egli lascia la sua solitudine e scende fra il popolo e ride e scherza e prende in giro uomini e donne con il suo risolino garbato, con l'ironia piacevole, e diverte e si diverte. Allora dalle sue pupille si dileguano a un tratto i fantasmi classici, si allontanano i motivi letterari tradizionali, ed egli torna ad essere l'uomo del secolo, l'uomo della ridanciana brigata medicea, che guarda la vita nella sua realtà e prende in gioco tutto ciò che altre volte ha considerato con serietà. 
Sovente il Poliziano lascia lo scherzo, l' ironia, la satira e, pur non allontanandosi dalla realtà, la circonda di un'atmosfera di  idealità che la rende gentile e dolce. La sua lirica allora si accosta alla poesia popolare e ad essa attinge tutta la freschezza e tutto il profumo di cui è bella e da essa prende tutte le delicate movenze, la grazia e la leggiadria che conferiscono un fascino speciale alle sue ballate. La più bella delle quali è quella delle rose che ricorda quelle famose del Cavalcanti e del Sacchetti che le rimangono inferiori per freschezza e leggiadria. C' è qui quella tenue filosofia che abbiamo riscontrato nella poesia del Giustinian e del Magnifico: cogliere la rosa prima che avvizzisca, godere la gioventù prima che sfiorisca. Come Lorenzo de' Medici dal carro in cui si celebra il trionfo di Bacco ed Arianna lancia l'ammonimento, cosi il Poliziano, nell'agile ballatella Ben venga maggio, destinata alle fanciulle per festeggiare con canti e con rami silvestri l'avvento del mese più bello, nei settenari saltellanti che esprimono e descrivono il tripudio delle maggiolate fa udire il consiglio alle spensierate giovinette: "non si rinnovella - l'età come fa l'erba". Occorre dunque godere. Il godimento: ecco lo scopo della vita. Carnasciali con carri e trionfi; maggiolate con canti e suoni e tripudio di fanciulle innamorate, danze e musiche nelle piazze, nelle logge, nelle sale splendenti; conviti, nozze celebrate con allegrie di banchetti, di balli e di armeggiamenti; fiaccolate, trionfi d'amore, luminarie, combattimento di animali, giostre: il Quattrocento gode e non cerca altro. 

Nel 1469, in piazza Santa Croce a Firenze si combatte una giostra in cui Lorenzo de' Medici riporta il primo onore. Luca, o, com'altri vuole, Luigi Pulci, ne canta le lodi nelle stanze disadorne di un monotono poemetto. Un anno dopo un torneo bandito a Bologna da Giovanni Bentivoglio è cantato da Francesco Cieco da Firenze. Ogni città ha i suoi tornei, ed ogni torneo il suo poeta. Nella giostra tenuta a Firenze il 28 gennaio del 1475 un altro Medici, Giuliano, ottiene il primo premio e trova il suo cantore nel Poliziano, che scrive le "Stanze per la giostra".

L'intonazione della prima parte del poema del Poliziano è epica, ma epica non è la materia. Per quanto sia fiera ed onorata, la giostra è sempre un giuoco, un'imitazione dei fatti e dei costumi cavallereschi, e spiace vedere un poeta soffiare nella tromba epica per immortalare le imprese di mercanti camuffati da eroi. Se epico è il tono della preposizione, tale non è lo svolgimento. Il Poliziano non è il Pulci e il Cieco, e sa bene quanto sia frivola ed arida la materia che deve trattare; d'altro canto il suo temperamento di artista non è epico, ma idillico. A cantare la giostra il poeta viene trasfigurando con la fantasia la realtà. Il torneo sarà un episodio del poema, non l'intera azione; la materia arida e monotona sarà rimpolpata e variata con una storia d'amore, la cui protagonista sarà madonna Simonetta Cattaneo; e tra le armi e gli amori saranno cantate le lodi della famiglia de' Medici. Ma queste e la giostra saranno parti accessorie; l'elemento principale sarà costituito dal racconto fantastico dell' innamoramento del prode Julio e della bella Simonetta; principio e fine del poema sarà l'amore.

Le Stanze più che del poema tengono delle selve perché il poeta non fa che errare da un luogo ad un altro, dove il capriccio lo porta, non curando le regole e le convenienze, come un viaggiatore che non ha limiti di tempo o di luogo nel suo peregrinare, ma va in giro per diletto, come e dove vuole, e si ferma dove trova una bella figura di donna da ammirare, una valle, un declivio, un prato su cui riposare lo sguardo assetato di bellezza, il mormorio di un ruscello, lo zampillo di una fonte, il dolce gorgheggio di un uccello, la delicata musica di una fronda da ascoltare, e non riparte se prima non si è saziato di contemplare, di sentire, di assaporare tutto ciò che la bella natura gli offre. La bella natura è il suo mondo, la musa che gli accende 1l'immaginazione e gli riscalda l'anima; la natura nella sua bellezza serena, nella dolcezza della sua pace, di cui il Poliziano è l' innamorato e il cantore impareggiabile. Non bellezze cupe, orride, selvagge, ma paesaggi chiari, limpidi, pieni di luce e di profumo, lembi di verde e d'azzurro, primavere fiorite, solitudini agresti: ecco il mondo del Poliziano, ecco il mondo delle Stanze. Il poeta non ha che un culto: quello della bellezza. 

Questa bellezza egli ricerca nel mondo in cui vive e la fissa ed eterna nell'arte insieme con quella che l'antichità gli offre. Ne risulta che, nella poesia del Poliziano, il moderno si fonde con l'antico, l'umanità con la mitologia. La Simonetta diventa una ninfa boschereccia e Giuliano un personaggio di Virgilio o di Stazio. In questo mondo il poeta vive a suo agio come un sacerdote nel suo tempio, e ce ne mostra a una a una le riposte bellezze. Non racconta ma descrive e sovente dipinge. Non i casi da lui narrati ci interessano, ma le scene che ci mostra; le vicende dei personaggi sono un pretesto al poeta per farci sfilare davanti gli occhi le sue pitture. Pittore della vita esteriore non degli affetti: il Poliziano non penetra nell'animo dei suoi eroi nè sa o si cura di mettercelo a nudo, di analizzarci i sentimenti dei suoi personaggi, i quali sono freddi e muti.

Ma che meraviglia di quadri! Ogni quadro è compiuto, sta quasi un mondo a sè, è studiato in tutti i suoi particolari. Nelle ottave che tessono le lodi della vita rustica e dell'età dell'oro è un succedersi di quadretti delicati e deliziosi. La vita dei campi non è vista e ritratta nel suo insieme, ma è contemplata e rappresentata nelle sue parti. Non c' è la visione sintetica, ma una successione di  immagini, che però non rimangono slegate e, pur avendo una certa autonomia, concorrono insieme a dar l'impressione di un tutto armonico e completo come le perle d'una collana. Le stanze che descrivono la caccia formano un quadro stupendo per colori e per movimenti: il bosco si anima, trema dello sgomento e dello scompiglio delle fiere, e pulsa dell'ansia, della febbre, delle manovre dei cacciatori; ogni animale ed ogni uomo vi è colto nel suo atteggiamento particolare; la successione delle scene procede con tale rapidità che non dà tempo all'occhio di riposarsi nella contemplazione delle singole immagini e dà alla rappresentazione un vigore e un rilievo potenti.

Tutti questi quadri vivono al nostro sguardo; ci lasciano l'occhio colpito dalla ricchezza dei colori e dalla sapienza con cui questi sono disposti, dalla vivezza e precisione dei tocchi e dei toni, che danno un'impressione immediata e schietta delle cose. A volte bastano al poeta poche parole per darci la rappresentazione compiuta di una scena, a volte è tutta una stanza che racchiude nel giro dei suoi versi un quadro dipinto in tutti i suoi particolari. Insuperabile è la descrizione della notte: un manto azzurro-cupo trapunto di stelle ricopre la natura; un pianto di usignoli rompe il silenzio profondo delle cose; suoni e colori formano lo sfondo della tela sul quale si muove la tacita e nera schiera dei sogni. E di una leggiadria che innamora è l'altro quadro che ci mostra l'umile viola che fa timidamente capolino fra l'erba, la rosa che sboccia superba al sole fra il verde delle sue gemme e la rosa che, appassita, cosparge di petali caduti il prato. Il Poliziano adopera tutti i mezzi dell'arte per ritrarre con vivezza, nitidezza, precisione ed evidenza paesaggi e figure: sa tutti i segreti delle parole e le compone in modo da dar colorito e movimento alle sue rappresentazioni; ombre e luci, sfumature e rilievi escono fuori meravigliosamente dal suo pennello. Con l'uso sapiente delle cesure e delle sdrucciole, con il collocamento degli accenti ritmici e delle parole il poeta costringe il verso a render i suoni che vuole. Nel Poliziano l'ottava ha trovato l'artefice che ha saputo portarla alla perfezione. Tutte le inesperienze metriche del popolo o dei rimatori popolareggianti, gli artifizi di costruzione del Boccaccio sono scomparsi. L'ottava del Poliziano è un tutto organico ed autonomo, un giro perfetto che racchiude entro di sé come in un piccolo mondo idee ed immagini, una lunga frase musicale compiuta, un gioiello finito. Duttile, armoniosa, viva, essa è capace dei motivi più svariati, dal popolaresco all'elegiaco, dal pastorale al tirambico.

Comune con moltissimi, direi quasi con tutti gli scrittori del suo secolo, ha il Poliziano l'amore per la vita campestre. Per molti è una predilezione puramente letteraria, una moda venuta su dall' imitazione dei classici e della poesia popolare, per alcuni è un affetto realmente sentito che trova espressione spontanea e sincera d'arte, per tutti è una conseguenza delle condizioni di vita. Le guerre e le lotte politiche non tengono più desta l'attività degli Italiani; le popolazioni delle diverse regioni della penisola si sono assuefatte al giogo delle signorie e dei sovrani; spentosi il sentimento di libertà, affievolitosi lo spirito di religione e di parte, tramontato ogni ideale, la vita italiana trascorre in una inerzia ininterrotta. La campagna con la sua pace, col suo verde, col suo profumo, con le sue mille voci armoniose, e i suoi mille colori, con l' innocenza della sua vita e la semplicità dei suoi costumi, esercita un fascino irresistibile e dà materia di canto ai poeti. 

La tradizione letteraria classica e la paesana ne offrono i modelli. La ballata, il rispetto, l'ottave si riempiono di verde e di forosette: l'ecloga e l'idillio, in Latino e in Volgare, tornano a popolarsi di pastori e di ninfe. La campagna diviene l'assillo costante dei rimatori e un ideale poetico nasce e fiorisce e ha come obiettivo la vita pastorale. Ogni piazza d' Italia è teatro, nella poesia del Quattrocento, di idilli pastorali, di favole mitologiche, di scene rusticali, ed echeggia di lamenti di pastori innamorati, di note di zampogne, di belati di greggi. Ma, a poco a poco, queste piagge non accontentano più i poeti. Ci sono vicine le grandi città, non c' è abbastanza pace, ozio, solitudine; si vagheggia un luogo lontano, dove la vita sia simile a quella dell'età dell'oro, dove non giunga nessun rumore che turbi la quiete campestre; e questo luogo è l'Arcadia.

L'ARCADIA, DI SANNAZZARO

Di un romanzo pastorale che porta il nome della famosa regione greca è autore JACOPO SANNAZZARO, napoletano, della bella schiera degli umanisti meridionali e degli accademici pontaniani, conosciuto sotto il nome accademico di AZIO SINCERO. Protetto dal duca di Calabria, combatte al suo fianco (1485-86) contro Innocenzo; fedele a re Federico, quando il reame di Napoli viene conquistato dai Francesi lo segue nell'esilio e gli è compagno fino alla morte. Elegantissimo poeta latino, in elegie di squisita fattura egli canta le persone e le cose a lui più care: le guerre e le vittorie del duca di Calabria, il Pontano, i suoi amici, i suoi desideri di gloria, il suo culto per l'arte, la fede ai suoi protettori, la dolce amica Cassandra Marchese, alla quale rivolge versi pieni di accorata mestizia, in cui narra le sue sventure ed esprime il dolore di non aver potuto raggiungere la perfezione artistica; canta la sua gioventù gaia, i suoi studi prediletti, gli incantevoli luoghi della sua patria, le selve, la sua casetta solitaria per la quale invoca la protezione della divinità dei boschi. In tre libri di epigrammi vari di metri e di contenuto, lancia i suoi strali contro scrittori del suo tempo o innalza lodi a personaggi illustri o canta dall'esilio la nostalgia della patria e vede col pensiero Posillipo e Mergellina. In cinque Eclogae piscatoriae, che sono tra le più belle poesie latine, il Sannazzaro pone la scena dei suoi idilli sulle incantevoli spiagge del golfo partenopeo, narrandoci il dolore di Licida per la morte dell'amato Filli, i lamenti di Licone per la crudeltà della bella Galatea, una gara poetica tra Cromide e Jola, la storia di Nisida che viene tramutata in isola e le querele di Telgone che invoca da Galatea l'amore d'una volta. Nel poema De partu Virginis, frutto di circa un ventennio di assidue cure, in versi impeccabili tratta dell'Annunciazione, della nascita di Gesù Cristo e dell'adorazione dei pastori. In tutta la sua opera poetica in Latino il Sannazzaro si mostra innamorato della bella natura, della pace dei campi e delle spiagge, mite cantore di affetti puri e dolci, e tale ci appare anche nelle produzioni in Volgare, nelle liriche del suo Canzoniere, dove, bellamente petrarcheggiando, ci parla dei suoi amori con Carmosina Bonifacio e Cassandra Marchese, nel dialogo tra La giovane e la vecchia e nel monologo di Venere che cerca Amore

Nel suo romanzo pastorale il Sannazzaro riunisce quasi tutte le voci o tutte le aspirazioni del secolo che hanno per obbietto la natura campestre e foggia un mondo che per tre secoli sarà comodo rifugio di turbe di rimatori. Un vero e proprio romanzo 1' Arcadia non è: sono dodici ecloghe polimetre legate insieme da altrettante prose e precedute da un proemio e seguite da un saluto alla sampogna. Non ha un'azione centrale; contiene invece una successione di tenui azioni che non concorrono a svolgere un nodo comune, ma sono fine a se stesse e sono tra loro allacciate da legami deboli, artificiosi e non necessari; contiene quadri di vita pastorale riuniti in una medesima cornice, ma del romanzo non ha la struttura, l'organicità, la divisione delle parti, il filo logico. Per l' interpolazione di poesie l'Arcadia ha una certa rassomiglianza con la Vita Nuova, ma in questa c' è un organismo compatto, prosa e versi hanno la stessa importanza; nell' Arcadia invece le prose sono un pretesto per introdurre le poesie. I pastori del Sannazzaro non agiscono che per cantare e le loro riunioni sembrano la parodia di sedute accademiche, che terminano sempre allo stesso modo con una gara poetica, la qual cosa genera una grande monotonia. Ma il difetto maggiore è la falsità della rappresentazione della vita pastorale. L' Arcadia è popolata da personaggi che sono pastori soltanto di nome e menano una vita di maniera, la quale attraverso l' idealizzazione poetica non ha alcuna corrispondenza con la realtà. A questa il poeta non guarda per la sua figurazione artistica, e per ritrarla non si serve dell' impressione diretta e immediata. Tra lui e la natura c' è Teocrito, c' è Ovidio, c' è Virgilio, c' è tutta una tradizione letteraria che gli offre atteggiamenti interiori ed esteriori, tipi che rimangono freddi e senza rilievo, che non ci destano alcun interesse e non ci commuovono. 
Pur qua e là, fra la pompa retorica, la contorsione e l'artificiale sostenutezza del periodo boccaccesco e la falsità della rappresentazione artistica, c' è qualche sprazzo di poesia vera, qualche palpito di sincerità, una vena di sentimento che si distingue fra il sentimentalismo malato di stampo petrarchesco, qualche rappresentazione viva e fresca che rivela un' impressione diretta.

Leggere oggi l'Arcadia è certamente molto noioso, ma dai letterati del Quattrocento, per tutti i suoi fiori retorici, per la sapiente imitazione dei classici, per la raffinatezza tutta petrarchesca del sentimento, che dà un soffio di modernità alla materia classica degli idilli, il romanzo pastorale del Sannazaro è considerato un capolavoro.
Le sue edizioni si moltiplicano, in Italia sorgono imitatori, quali il De GENNARO, FILENIO GALLO, il GALEOTA ed altri, e l'imitazione si estende in tutta l'Europa latina e perfino in Inghilterra. Per molti di noi l'Arcadia non ha grande importanza dal punto di vista artistico, ma è importantissima dal lato storico perché da un canto dà l'impulso e il nome al movimento poetico che dilagherà in tutta la penisola e si trascinerà fino all' Ottocento, dall'altro, essendo la prima opera in prosa scritta in perfetta lingua volgare da un autore non toscano, segna la fine delle letterature regionali e l'inizio di una letteratura veramente italiana. 

IL POEMA CAVALLERESCO
LUIGI PULCI E MATTEO MARIA BOIARDO

Sul finire del secolo XIV, nell'Italia settentrionale, la letteratura cavalleresca franco-veneta dà gli ultimi guizzi. Verso il 1400 RAFFAELE MARMORA compone il suo Aquilon de Bavière, ma già da parecchio tempo l'epopea carolingia ha varcato gli Appennini e si è trapiantata in Toscana per opera dei cantastorie, i quali nell' Italia centrale, durante i secoli XIV e XV, hanno non poca importanza. 
I Comuni stipendiano appositamente dei poeti perchè allietino il popolo e i magistrati. Sono quasi sempre improvvisatori, forniti di una certa cultura, ed alcuni di loro, come ANTONIO di GUIDO, araldo del comune di Firenze, e CRISTOFORO ALTISSIMO godono di una fama che varca le mura della propria città. La materia da loro preferita per le pubbliche recitazione e per le improvvisazioni è quella del ciclo carolingio. Essi spesso attingono direttamente ai poemi francesi, spesso a quelli franco-veneti, qualche volta inventano nuove gesta o modificano le antiche. 

Tutte le composizioni sono fatte secondo uno schema fisso. Teatro delle imprese cavalleresche sono l'Occidente e l'Oriente con le immancabili lotte tra Carlo Magno e gli imperatori saraceni; le azioni hanno l' inizio e l'epilogo a Parigi. Il protagonista è sempre un fortissimo guerriero della stirpe di Chiaramonte, il quale, accusato a torto da uno della casa di Maganza, schiatta di traditori, presso Carlo, fugge o viene bandito dal regno. Qui comincia la mirabolante odissea del cavaliere : solo o in compagnia di un fedele scudiere, si allontana da Parigi e si reca in Pagania dove trova le più strane avventure ; sotto falso nome compie prodezze meravigliose, sbaraglia interi eserciti, abbatte giganti fortisssimi, uccide mostri favolosi, cala orribili fendenti che tagliano le armature meglio temprate ; capita in città assediate che difende e libera dai nemici ; prende parte a tornei da cui esce vittorioso ; si acquista il favore di potenti sultani e ispira violente passioni a donne bellissime nelle cui vene scorre sangue reale. Ma tutto ciò giunge all'orecchio dei Maganzesi che hanno giurato di perderlo e rivelano il nome del misterioso cavaliere. L'eroe viene arrestato e messo nel fondo d'una prigione; l'amore d'una fanciulla o l'aiuto improvviso d'amici di Francia venuti per rintracciarlo lo salvano ; egli
fugge; conduce con sè la donna amata, che, fattasi cristiana, diventa la sua sposa ; ritorna in Occidente e giunge a Parigi, che, assediata da un esercito saraceno, sta per capitolare. Il cavaliere dà battaglia, vince, libera la capitale, è festosamente accolto dall' imperatore, che riconosce la sua  innocenza ed ordina la punizione dei traditori. 
Ma l'eroe si mostra magnanimo ed ottiene che siano graziati. Questa è la materia dei cantastorie e dei poemi popolari di cavalleria, quasi tutti anonimi e senza pretese artistiche. La lingua è fresca, ma qua e là contaminata da vocaboli francesi che rivelano le fonti ; i versi sono sovente ordinari e sbagliati e, in luogo delle rime, abbondano le consonanze. Di questi poemi, tutti dei secoli XIV e XV, sono pervenuti a noi il Buovo d'Antona, il Rinaldo da Montalbano, la Spagna in rima, un frammento del Carlo Mainetto, l' Uggieri il Danese, il cantare di Fierbraccio e d'Ulivieri, l' Aspromonte, l' Innamoramento di Carlo, l'Ancroia

Oltre che in rima anche in prosa vengono narrate storie cavalleresche. Ci rimangono frammenti di un romanzo di BUOVO, il Fioravante, le Storie di Rinaldo, la Spagna, il Viaggio di Carlo Magno per conquistare il cammino di S. Giacomo, la Seconda Spagna, l'Acquisto di Ponente, la Storia di Rinaldino e parecchi altri romanzi ancora. 
Uno dei più fecondi scrittori di romanzi cavallereschi è maestro ANDREA de' MAGNABOTTI da Barberino in Valdesa, nato nel 1370 e morto dopo il 1431, che scrisse i Reali di Francia, il Guerino detto il Meschino, l'Aspramonte, le Storie Nerbonesi, l' Ajolfo e l'Ugone d'Alvernia. Il suo romanzo più fortunato è quello dei Reali di Francia. La materia è attinta da varie fonti, dai romanzi cavallereschi in prosa e in versi di autori toscani, da poemi franco-veneti e probabilmente anche da poemi francesi. Ma sovente lo scrittore inventa di sana pianta, spesso modifica la materia attinta e l'abbellisce di nuovi ornamenti. Egli si prefigge lo scopo di dimostrare come la casa di Francia e molti dei più famosi cavalieri abbiano origine italiana ; si dà l'aria di storico scrupoloso, facendo sfoggio di date, di cifre, di particolari topografici, che sono più favolosi delle storie narrate, ma impressionano il pubblico incolto con la loro apparenza di verità. Maestro Andrea non è un letterato ma un cantastorie di una certa coltura. Sa qualcosa di Dante, ha delle cognizioni poco esatte di storia e geografia di cui si serve a proposito ed a sproposito. Il suo racconto è affrettato, la lingua è abbastanza tersa, ma lo stile è monotono. Pure qua e là c' è vivezza di rappresentazione e vigoria d'espressione. Di tutte le storie cavalleresche in prosa e in rima i Reali e il Guerino sono le più lette e diffuse nel Quattrocento ; la prima anzi acquista tanta fama da indurre Cristoforo Altissimo a volgerla in ottave. Ma quanta differenza tra i prolissi e prosaici novanta canti dell' improvvisatore e la prosa viva e spontanea di Maestro Andrea.

II poema cavalleresco langue, diremo anzi che la materia cavalleresca finora non ha avuto ancora un poeta che abbia saputo infonderle vita e bellezza. In mano dei cantastorie, che debbono campar la vita e divertire il popolo, essa perde la primitiva vigoria delle chansons, si veste di forme rozze, di versi disadorni, e non troppo ligi alle regole metriche, non ringiovanisce per invenzioni e intristisce miseramente fino a quando un soffio di vita nuova, la vita dell'arte, non le danno il PULCI e il BOIARDO col Morgante e con 1' Innamorato.

Dice Luigi Pulci, nel XXVIII canto del suo poema, che a scrivere l'opera lo consigliò Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo de' Medici, e si narra anche che il poeta leggesse ad uno ad uno i suoi canti alla tavola del Magnifico. I primi 23 canti furono composti tra il 1460 e il 1470 e videro la luce, forse a Venezia, nel 1482. Nel 1483 del poema si faceva una seconda edizione, nella quale erano aggiunti cinque nuovi canti; ma già nel 1480 correva a stampa l'episodio di Margutte sotto il titolo di Morgante. Solo dall'edizione del 1482 in poi noi troviamo l'aggiunta di maggiore e questo, molto probabilmente, per distinguere la stampa dei ventitrè canti prima e dei ventotto poi dall'episodio. Il successo di questo dovette consigliare il Pulci a lasciare il titolo di Morgante a tutta l'opera benchè non sia Morgante il protagonista. 
Il vero protagonista è Orlando e causa di tutte le sue vicende è, al solito, uno della famiglia dei traditori, Gano di Maganza. 
Calunniato da questo presso l' imperatore, il paladino lascia la corte di Carlo e va errando per luoghi sconosciuti finchè perviene ad una badia. Dall'abato Orlando apprende che tre giganti, Passamonte, Alabastro e Morgante, atterriscono tutta la contrada e costringono i monaci a star tappati nel convento, il quale è quotidianamente bersagliato dai macigni lanciati dai tre malandrini. Il paladino corre a snidare dai loro covi i tre giganti ; i primi due vengono uccisi, il terzo si arrende, si fa cristiano e, armatosi di una grande corazza, di un elmo d'acciaio, di una spada arrugginita e di un battaglio di campana, segue Orlando in cerca d'avventure verso una città su cui regna Caradoro, padre di una bellissima donzella, agognata dal re pagano Manfredonio, che, per impadronirsene, assedia la terra. Lungo il vaggio trovano un palazzo incantato e combattono contro un demonio ; presso una fontana uccidono un sicario di Gano e ricevono notizie dalla Francia da un servo di Rinaldo mandato alla ricerca dell'esule ; Orlando, sotto il nome di Brunoro, viene ricevuto da Caradoro che lo trattiene nel suo campo. Un giorno viene assalito da Lionetto e dalla bella Meridiana, figli di Caradoro, ma il primo resta ucciso, la seconda viene sbalzata d'arcione. Rinaldo intanto, avute notizie di Orlando, va con Ulivieri e Dodone in cerca del paladino ; libera l'abate dalle mani di un gigante ; salva da un drago la bella Farisena, figlia del re Corbante, che fa innamorare di sè Ulivieri, e poi, abbandonata si getta dalla finestra; e infine giunge alla corte di Caradoro. 

Ulivieri si innamora di Meridiana; in una sortita Dodone vien fatto prigioniero e Rinaldo ed Orlando combattono senza conoscersi. Alfine i due paladini si riconoscono ; Manfredonio è costretto a levar l'assedio e Meridiana si converte. Ma Gallo non dà tregua ai suoi nemici e induce il re Erminione ad assalire il castello di Rinaldo. Dopo parecchie avventure i paladini tornano a Parigi e ottengono che Carlo Magno scacci Gano, ma questi riesce a sua volta a far bandire Rinaldo, il quale con Astolfo si dà al brigantaggio e partecipa travestito ad un torneo indetto dall' imperatore. Dopo questi fatti, Orlando va in Persia e cade prigioniero del re Omostante ma è liberato da Chiarella, figlia del re. Rinaldo va in cerca del paladino. Durante il viaggio molte avventure gli capitano : a Saragozza si innamora di Luciana, figlia del re Marsilio : butta dalla finestra il re Vergante e ne battezza i sudditi ; con un fortissimo esercito giunge in Persia e sconfigge ed uccide Omostante ; si  innamora poi di Antea, figlia del re di Babilonia, con la quale lui, Ulivieri ed Orlando fanno prova d'arme. Ora le avventure dei paladini si moltiplicano : Rinaldo vince il Veglio della Montagna ; Orlando libera la figlia del re Falcone dalle pretese di Dombruno ; Antea, incitata da Gallo, assedia Montalbano ; Morgante, dopo avere accompagnato da Parigi in Oriente Meridiana presso il re Caradoro, incontra Margutte, un mezzo gigante, e si accompagna con lui che dopo parecchie vicende muore per il troppo ridere e Morgante per il morso d'un granchiolino ; prima Galavrone poi Antea assediano Parigi che Orlando libera. Da ultimo troviamo il gran paladino in Ispagna, alla testa d'una piccola schiera mandata da Carlo a riscuotere il tributo da Marsilio. Questi, sobillato da Gano, assale i cristiani con un forte esercito. La lotta s'ingaggia terribile ; i paladini danno prove di valore, ma vengono uccisi ad uno ad uno dopo grande strage di nemici. Orlando, disperando di vincere dà fiato al corno chiamando soccorso. Il mago Malagigi spedisce il diavolo Astarotte in Egitto in cerca di Rinaldo. Astarotte e Farfarello, entrati nei corpi di due cavalli, riconducono in Europa Rinaldo e Ricciardetto. Ma intanto Orlando muore e Carlo, giunto tardi in aiuto di lui, ne vendica con Rinaldo la morte incendiando Saragozza, impiccando Marsilio e squartando il traditore Gallo.

Questa la materia del Morgane. Come i poemi popolari così quello del Pulci manca d'unità d'azione ed altro non è che un insieme di avventure troppo debolmente legate tra loro. Il racconto non manca di lacune. Nei primi canti l'azione procede piana e semplice e le avventure sono raccontate con ampiezza di particolari ; a poco a poco però il racconto si fa affrettato e l'azione si complica, si infittisce di episodi e si ingarbuglia per ritornare semplice ed esser particolareggiatamente narrata negli ultimi canti. Le avventure di Morgante che dovrebbero formare la parte principale del poema non sono che episodi nella vasta tela ed allo stesso protagonista Orlando fa concorrenza Rinaldo in modo tale da non conoscere chi dei due sia l'eroe principale. Il Pulci, insomma, non ha un disegno bene definito, non si cura dell'armonia delle parti e non si preoccupa della struttura sì da darci un insieme organico ed armonioso ; ma narra come gli piace e una volta intrapreso il racconto delle avventure di un cavaliere che gli è simpatico vi si dilunga dimenticandosi volentieri del resto. In questo procedere il Pulci rassomiglia ai cantastorie popolari, che - conoscendo i gusti e le simpatie del pubblico - dànno nei loro poemi molto posto agli eroi più popolari, tra cui spicca Rinaldo. Come i poeti che cantano in banca, il nostro comincia e finisce i suoi canti con invocazioni e ringraziamenti a Dio e alla Vergine ed ai santi, e spesso per acuire la curiosità, tronca sul più bello la narrazione e rimanda il seguito al canto successivo. 

Anche per la rappresentazione dei caratteri il Pulci non si discosta gran che dai poeti popolari e dalla tradizione. I cavalieri sono raffigurati tali quali il popolo li conosce, e tali quali attraverso le deformazioni sono giunti a lui. Tutta la loro nobiltà eroica è scomparsa : Rinaldo è un simpatico brigante cavalleresco, Carlo ha perso tutta la sua maestà ed è divenuto un vecchio imbecille, che si lascia ingannare dai cortigiani e spodestare dai suoi stessi sudditi, Orlando stesso non è più l'eroe sovrumano, braccio forte dell' imperatore e della Cristianità che le antiche chansons avevano circondato di aureola quasi religiosa. Solo Gano di Maganza, attraverso i secoli, ha conservato il suo aspetto primitivo. Il Pulci ha accolto i suoi personaggi così come la poesia popolare glie li porgeva, e come i personaggi così ha accolto l'epopea cavalleresca. Questa ha perso l'antico spirito, l'antico contenuto, gli antichi caratteri. 
La lotta tra cristiani e infedeli non è più il motivo principale delle gesta dei paladini ed è ridotta ad elemento accessorio. Il Pulci accetta tutti i caratteri che l'epopea è venuta acquistando ; piglia dalla poesia popolare la materia e la forma e pur non essendo un cantastorie si compiace di darsene l'aria. Non corregge gli errori in cui incorrono i cantori popolari ; è un uomo colto e parla e canta come un indotto. Qua e là, è vero, fa capolino il dotto, quando imita o ricorda Dante e il Petrarca o adorna il suo poema di reminiscenze classiche e mitologiche ; ma di popolaresco è pieno.
  Per primo, nell'epopea d'arte attinge - come è di moda al suo tempo per la lirica - alla poesia popolare. L'arte sua è senza, pretese, il suo stile alla buona, la sua lingua mai ricercata. La sua poesia rifugge dagli artifizi retorici, e benché sia sovente troppo dimessa, corre sempre viva, spontanea e fresca come acqua di fonte. Lo stile di questa poesia è tutto popolare. A volte pare che 1'autore sia un poeta del popolo che canti a un uditorio colto e raffinato e cerchi perciò di elevare il tono, a volte invece pare che sia un cantore colto che si acconci a narrare le sue storie ad un pubblico plebeo.

  Della poesia popolare il Morgante ha tutte le caratteristiche : la lingua che è quella parlata dal popolo toscano, le costruzioni semplici e non di rado contrastanti con le regole sintattiche, i numerosissimi idiomi, il proverbiare frequente, la semplicità delle immagini, la stanza che non forma un organismo compatto, ma spesso è composta di versi slegati; i periodi semplicissimi costruiti a base di coordinate l'abbondanza, di jati, di raddoppiamenti e di ripetizioni.
Variamente giudicato è stato il Pulci come artista. I più gli hanno negato la capacità rappresentativa delle figure, delle azioni e dei sentimenti, gli hanno rimproverato la sciatteria e la volgarità dell'espressione, hanno detto che il comico, in lui, è di bassa lega e non è fuso con l'eroico. 
Ma questi appunti, ed altri ancora, se non mancano di fondamento sono certamente esagerati. In verità un' opera perfetta non è il Morgante ma i pregi non vi mancano nè vi scarseggiano. <

"" ... A parte - scrive il Galletti - l'originalità dei personaggi come Margutte e Astarotte, varie figure che negli esemplari dove attinge sono scialbe e incerte qui si animano di vivezza fantastica straordinaria, in un geniale disordine pieno di contrasti impensati, di memorabili effetti. Il racconto brilla e zampilla nel più schietto eloquio fiorentino popolaresco, ricco di spigliate libertà sintattiche, birichino nell'arguzia, fanciullescamente grave nella descrizione eroica : docile strumento di un poderoso realismo che riflette le più genuine facoltà rappresentatrici della stirpe italica : meraviglioso in specie nè dialoghi, che -mutatis mutandis - sembrano colti al volo tra i popolani di Mercato Vecchio a Firenze ».

Diversa indole e diverso valore artistico ha l'Orlando innamorato del BOIARDO. Questa diversità deriva, oltre che dal diverso ingegno e temperamento dei due poeti, dalla loro diversa origine e dal diverso ambiente in cui l'uno e l'altro vivono ed esplicano la loro attività. Il Pulci è un plebeo, mentre il Boiardo è un nobile; Firenze è una città borghese e la corte de' Medici una corte di banchieri e di mercanti; Ferrara invece non è una
città democratica e quella degli Estensi è una corte di veri ed antichi nobili che trascorrono la vita tra le armi e gli amori e in cui lo spirito cavalleresco non si è ancora spento. 
MATTEO MARIA BOIARDO nacque a Scandiano (Reggio Emilia), visse a lungo a Ferrara ed ebbe dagli Estensi il governo di Modena e di Reggio,dove poi si spense nel 1494. Quando egli si accinse a comporre il poema, due cicli offrivano a lui materia cavalleresca : il carolingio e il brettone ; il primo grave e solenne, imperniato sulle guerre tra i Cristiani e gli Infedeli ; il secondo vario e piacevole, tutto pieno delle avventurose imprese dei cavalieri erranti ispirate dall'amore e dalla galanteria. Caro era il ciclo carolingio agli Italiani e popolarissimi ne erano i suoi eroi, ma il sentimento religioso eche è il suo principale elemento, se non morto, era molto debole nell' Italia del Quattrocento ; invece vivo era negli Italiani del Rinascimento quel sentimento dell'amore che pervade il ciclo brettone e vivissimo era poi nel cuore del poeta che con tanta sincerità di accenti lo aveva profuso nel suo Canzoniere

Non poteva il Boiardo lasciar da parte la materia del carolingio, ma sentiva che era vecchia e non più rispondente alla nuova vita e ai nuovi gusti, sentiva che andava rinnovata, vivificata, ringiovanita per mezzo di vicende romanzesche e di quel sentimento d'amore che più di quello religioso interessava il secolo. La materia rinnovatrice e vivificatrice era offerta dal ciclo d'Artù e il Boiardo pensò di accostare, anzi di fondere il cielo carolingio col brettone
 
« Un'azione di questo ciclo sul carolingio - scrive il Rajna - si era cominciata a vedere nella Francia stessa da ben tre secoli ; ed aveva continuato ad esercitarsi qui da noi. Ma sempre si era trattato di fatti parziali, compiuti senza impulso profondo, col semplice scopo di dilettar maggiormente.
«Gli effetti erano stati per lo più tutt'altro che felici; nè c' è da meravigliarsene. La vera e propria fusione del mondo d'Artù e di quello di Carlo Magno non era possibile se non ad un uomo per il quale due mondi avessero cessato di rappresentare qualcosa di distinto e si confondessero in un'unità superiore : il mondo cavalleresco. Allora soltanto Orlando e Rinaldo e quanti mai li ricordino potranno legittimamente convertirsi in cavalieri erranti; e starà bene che anche i boschi del loro tempo siano pieni di avventure ; e che le donzelle se ne vadano solette in cerca di un prode che osi arrischiarsi a qualche arduo cimento, invochino con alte grida un soccorso che le strappi a un pericolo, siano causa di combattimento chi le accompagni e contro chi pretenda d'impossessarsene ; e che ai castelli si mantengano colle armi le fiere usanze ; e che le fate si intromettano nelle faccende degli uomini, e li attraggano nelle loro dimore, e faccian
sorgere giardini e palazzi maravigliosi, che in un attimo vengano poi a dissiparsi.

Dalla fusione dei due cicli nasce, per merito del Boiardo, un nuovo mondo cavalleresco ed ha origine l'Orlando innamorato. L'amore muove gran parte dell'azione del poema. La corte di Carlo Magno è improvvisamente sconvolta dall'apparire di Angelica, bellissima figlia di Galafrone re del Catai : tutti si innamorano di lei, cavalieri cristiani e saraceni di Spagna, perfino il sacro imperatore e il canuto Namo di Baviera ; ma più di tutti sono presi dalla sua bellezza Ranaldo ed Orlando, i quali quando Angelica parte, vanno in cerca di lei. Durante il cammino, Angelica beve alla fonte dell'amore, che la fa perdutamente invaghire di Ranaldo ; questi invece beve alla fonte dell'odio e fugge l'incantatrice, la quale nella sua rocca di Albracca, viene assediata dal re tartaro Agricane, che, innamorato di lei e da lei respinto, è risoluto ad averla per forza. Ad Albracca capita Orlando, che libera la donna uccidendo Agricane, e vi capita Ranaldo che si azzuffa con Orlando. Ma il duello è troncato da Angelica, che, temendo per il primo, manda il secondo ad una rischiosa impresa. Orlando supera la prova. Egli è così pazzamente innamorato di Angelica, che si rifiuta di soccorrere l' imperatore minacciato dagli Infedeli, e ritorna ad Albracca, ed accompagna in Francia la bellissima donna che vuole raggiungere Ranaldo. Ma questi beve alla fontana d'amore e Angelica
a quella dell'odio. 

Da ciò uno scambio di sentimenti che spinge Orlando e Ranaldo tra loro a combattere. Per far cessare le ostilità tra i due paladini ed assicurarsi il loro braccio nella lotta contro i Mori, Carlo Magno affida Angelica a Namo di Baviera e la promette in premio a chi dei due cavalieri spiegherà maggior valore combattendo contro i Saraceni. Malgrado questa promessa, l'aiuto dei due paladini manca all'imperatore che, sconfitto, si ritira a Parigi e vi è assediato dagli Infedeli. Qui il poema rimane interrotto. La discesa di Carlo VIII, che mette l' Italia tutta a fiamma e a fuoco, fa posare la penna al poeta, che di lì a poco muore.
Questa è l'azione principale dell' Innamorato, la quale, come si è visto, è determinata dall'amore; ma intorno e in mezzo ad essa molte altre azioni secondarie si svolgono:
di Ruggero si innamora Brandiamante per la quale invano sospira Fiordespina ; Marfisa, regina indiana, stringe d'assedio Angelica in Albracca ; Gradasso, re di Sericana, muove con un poderoso esercito contro la Francia e costringe il re di Spagna Marsilio a guerreggiare insieme con lui contro Carlo Magno, il quale è anche assalito da altri nemici, Agramante, Rodomonte e Mandricardo. Non è più la fede che spinge gl'infedeli contro i Cristiani, ma il desiderio della vendetta e della conquista: Agramante vuol vendicare la morte del padre Troiano, Gradasso brama di impadronirsi della spada Durindana e del cavallo Baiardo. Alle grandi battaglie di eserciti contro eserciti, proprie dell'epopea carolingia, sono preferiti i duelli, che caratterizzano il ciclo brettone e nel poema del Boiardo si alternano agli incantesimi, quali quelli della lancia d'Argalia, del libro di Malagigi, dell'anello d'Angelica e delle fonti dell'odio e dell'amore.

Nell' Innamorato la fusione dei due cieli è perfettamente riuscita e n' è venuto fuori - ripetiamo - un nuovo mondo cavalleresco in cui i paladini carolingi hanno acquistato la fisionomia interiore ed esteriore dei cavalieri brettoni, in cui la molla che muove la maggior parte delle azioni è l'amore, commisto al desiderio di gloria e di avventure, in cui infine, da vero uomo del Rinascimento, il Boiardo ammira la bellezza del gesto, spande il suo arguto sorriso, mette tutta la sua fede cavalleresca e profonde tutti i colori della sua tavolozza. 
Certo un'opera d'arte compiutamente riuscita il poema non è ; manca lo sviluppo psicologico ; c'è una farragine di casi in cui si sarebbe desiderata una scelta accurata che snellisse il groviglio un po' pesante delle vicende; fa difetto l'armonia di stile e prova n' è il brusco passaggio dall'eroico al volgare e l'esagerazione dell'elemento comico che spesso diventa caricatura ; lo stile è sovente prolisso e la lingua irta di lombardismi a tal punto da consigliare più tardi il Berni a dare una veste toscana al poema boiardesco ; e infine si osserva nelle ottave la povertà musicale che fa pensare con nostalgia al Poliziano e al Magnifico. 
In compenso però molti sono i pregi dell' Innamorato del Boiardo, cui è esagerato dire - come dice il  De Sanctis - che manchi di fantasia : vi è nel poema una sensibilità lirica fortissima, un brio spontaneo che vivifica la materia, una freschezza di espressione che innamora, una forza descrittiva vivace e colorita, e una ricchezza di vicende e di tipi che sono la prova più bella del genio creatore del poeta. 
"" ...Boiardo - per terminare col Carducci - « impresse la più varia e larga e geniale innovazione della materia cavalleresca a racconto romanzesco che abbiano le letterature del Rinascimento, fondendo insieme .... l'eroismo e l'avventura, l' ideale epico e l' intreccio amoroso, e in quella fusione mescolando .... l'epopea antica, gli episodi omerici e virgiliani. In tutto questo Boiardo fece sul serio, perchè egli credeva nei suoi cavalieri e li amava: quanto studio di verità, quanto fervore di artista nei caratteri che egli prima in questa terza lavorazione dell'antica materia determinò, e fissò ! quanta gentilezza in quelle donne, che creò, naturali e nobili insieme ! Il Boiardo è senza dubbio uno dei più grandi poeti italiani ».

LE ARTI PLASTICHE E FIGURATIVE

Di pari passo con la letteratura, fioriscono, si sviluppano e si trasformano in questo periodo del Rinascimento, le arti plastiche e figurative: l'architettura, la scultura e la pittura. Nell'architettura, allo stile bizantino, al romanico, all'arabo-normanno che tante e meravigliose opere d'arte, nei primi due secoli dopo il Mille, dalla Lombardia alla Sicilia, ci hanno date, è succeduto il gotico che nel Duecento e nel Trecento ha prodotto le abbazie di Fossanova, di Calamari, di San Galgano, di Chiaravalle, il tempio di Assisi, le cattedrali di Siena, di Orvieto, di Firenze, di Milano, di Como, le chiese di Santa Croce e S. Maria Novella, il Palazzo Vecchio, Orsanmichele, il Bargello e la Loggia dei Lanzi di Firenze, il Camposanto di Pisa, il palazzo del comune, la loggia dei Mercanti e le chiese di S. Petronio e S. Francesco di Bologna, la Certosa di Pavia, i palazzi comunali di Pistoia, Perugia e Ferrara, il Castel Nuovo di Napoli e le torri degli Asinelli, della Garisenda e della Ghirlandina. 

Nel Quattrocento l'Architettura si allontana dallo stile gotico, riprende l'arco pieno, sostituisce alla volta ogivale delle chiese quella a botte o il soffitto a cassettoni, rimette in onore l'architettura, la cupola e i capitelli classici. 
I più grandi architetti del sec. XV sono FILIPPO BRUNELLESCHI (1377-1446) e LEON BATTISTA ALBERTO (1404-1472). Al primo si devono la mirabile cupola di S. Maria del Fiore, la ricostruzione della chiesa di S. Lorenzo, la Badia di Fiesole, il secondo chiostro di S. Croce, gran parte della chiesa di Santo Spirito, la cappella de' Pazzi, il tempio degli Angeli, l'Ospedale degli Innocenti, il palazzo Pitti. 
Al secondo si devono il Tempio Malatestiano e la chiesa di San Francesco di Rimini, il disegno di S. Sebastiano e di S. Andrea di Mantova, quello della facciata di S. Maria Novella di Firenze, il palazzo Rucellai e la bellissima tribuna dell'Annunziata. 
Architetti minori sono Michelozzo Michelozzi (1336-1472), autore del palazzo dei Medici (ora Riccardi), del convento di S. Marco, della cappella medicea dell'Annunziata e - per non citare altro - delle ville di Careggi e Cafaggiolo ; Bernardo ROSSELLINO (1409-1.464), che costruì a Siena il palazzo Piccolomini, Agostino di DUCCIO che a Perugia eresse l'oratorio di S. Bernardino e, con POLIDORO di STEFANO, la porta di S. Pietro; Luciano di LAURANA, autore dei palazzi ducali di Urbino e di Gubbio; GIULIANO da MARIANO che innalzò a Napoli la bellissima Porta Capuana; PIETRO di MARTINO, artefice squisito dell'Arco di Trionfo di Alfonso d'Aragona ; e infine Giovanni, BARTOLOMEO e Pantaleon BON, Mauro CODUCCI, Pietro LOMBARDO e Antonio RIZZO che prodigarono l'attività del loro ingegno a Venezia, dove sorsero mirabili opere d'architettura quali il Palazzo Ducale, il Palazzo Vendramin Calergi, le Procuratie Vecchie, la facciata della chiesa dei Miracoli, la Torre dell'Orologio e la splendida Ca' d'Oro.

Nella scultura, che nel secolo XII ci ha dato, fra gli altri, Benedetto ANTELAMI, LANFRANCO, BARISANo di Trani, GIRAMONTE e RODOLFINO, nel secolo XIII NICOLA  PISANO (1206-1280) autore famoso del pulpito del Battistero di Pisa, di quello della cattedrale di Siena, della fontana di Perugia e dell'arco di San Domenico a Bologna, e GIOVANNI PISANO (1250-1320), autore della cattedra di Sant'Andrea in Pistoia, della tomba di Benedetto XI in Perugia, e delle Madonne della cattedrale di Prato, del Battistero e del Camposanto di Pisa, e nel secolo XIV GIOTTO - architetto, scultore e pittore - ANDREA PISANO e l'ORCAGNA cui si deve il magnifico tabernacolo di Orsanmichele, il Quattrocento vede fiorire una schiera di grandissimi ingegni che al marmo, al bronzo, alla terracotta, al legno e allo stucco danno il suggello della loro arte. JACOPO della QUERCIA, senese scolpisce a Lucca il mausoleo di Ilaria del Carretto, a Siena la celebre Fonte Gaja e a Bologna decora le porte di San Petronio ; NANNI DI BANCO innalza la statua di San Filippo in Orsanmichele e quella di San Luca nella tribuna di San Zanobi del Duomo di
Firenze; DONATELLO (1386-1488), fiorentino, scolpisce L'Annunciazione per una cappella di Santa Croce, il San Giovanni seduto, il Giosuè e alcune statue di profeti pel Duomo di Firenze, il San Pietro, il San Marco e il San Giorgio per Orsanmichele, una statua di San Giovanni Battista a Siena e la lapide per la tomba di Giovanni Crivelli a Roma ; decora il Pergamo della cattedrale di Prato e la famosa cantoria a Firenze, orna di bassorilievi i due amboni di San Lorenzo e fonde a Padova la statua equestre del Gattamelata ; LORENZO GHIBERTI, fiorentino anche lui (1378-1455), scolpisce statue per Orsanmichele, bassorilievi in bronzo per il Fonte battesimale di Siena, bassorilievi per l'arca di San Zanobi ed eseguisce due porte del Battistero di Firenze che rappresentano il suo capolavoro ; LUCA DELLA ROBBIA (1399-1480 crea capolavori di terracotta smaltata; BERNARDO ROSSELLINO innalza il mausoleo di Leonardo Bruni in Santa Croce e il monumento della Beata Villana in Santa Maria Novella, e suo fratello Antonio crea i suoi capolavori col mausoleo del Cardinale di Portogallo, il bassorilievo dell'Annunciazione dei Pastori nella chiesa napoletana di Monte Oliveto e col San Sebastiano nella Collegiale di Empoli; DESIDERIO di SETTIGNANO, artista pieno di grazia ed eleganza, erige la tomba di Carlo Marsuppini in Santa Croce, un tabernacolo con la Madonna e il Bambino mirabili per finezza; e il busto di Marietta Strozzi ; MINO da FIESOLE scolpisce con grande delicatezza di linee tabernacoli, pulpiti, sarcofaghi e medaglioni ; PAOLO ROMANO crea le statue di San Paolo e San Pietro e, infine, altri scultori, quali ANDREA DEL VERROCCHIO, FRANCESCO LAURANA, ANTONIO RIZZO, e i fratelli BON, si distinguono per pregevolissimo opere.

Numerosi e grandi ARTISTI ha la pittura nel secolo XV. Il Duecento e il Trecento hanno visto fiorire CIMABUE e DUCCIO da BUONINSEGNA, il grande GIOTTO, TADDEO GADDI, GIOTTINO, GIOVANNI da MILANO, GIOVANNI VENEZIANO, SPINELLO ARETINO, JACOPO D'AVANZO, ALTICHIERO da ZEVIO, L' ORCAGNA, SIMONE di MARTINO e PIETRO AMBROGIO LORENZETTI ;

  il Quattrocento ci dà pittori che animano le tele e le pareti con figure fresche, leggiadre, luminose, piene di vita con le quali il Rinascimento sI afferma potentemente. Un grande maestro è MASACCIO (1401-1428) che con gli affreschi stupendi della cappella Brancacci «riprende - al dir del Lipparini - il grande stile, il far grande di Giotto e dei Senesi, confortandolo con tutti quei progressi tecnici che gli suggerirono un maggiore studio dal vero e le conquiste fatte già dalla scultura ». 
La prospettiva, affermata da Pier della Francesca, è praticata da PAOLO UCCELLO (1397-1475) che negli affreschi di Santa Maria Novella, nelle sue quattro battaglie e nella riproduzione di animali, si rivela un forte realista. Altro realista è ANDREA del CASTAGNO (1390-1457), autore di un Cenacolo, di una Crocifissione e di un bellissimo ritratto del condottiero Pippo Spano. 
Uno dei più illustri pittori del secolo è PIER DELLA FRANCESCA, discepolo di Domenico Veneziano, che con un realismo più temperato affrescò l'ospedale di Santa Maria Nuova in Firenze e la chiesa di San Francesco in Arezzo, ritrasse mirabilmente Sigismondo Malatesta, Federico d' Urbino e Battista Sforza e dipinse la celebre Resurrezione di Cristo e la stupenda Sacra Conversazione. Delicatissimo è il naturalismo di Vittor Pisano, detto il PISANELLO, veronese, autore di molte opere a fresco, di un'Adorazione dei Magi., di un Sant'Antonio, di un San Giorgio e di due Madonne.

  Lo studio dell'antichità è il fondamento della scuola padovana, nella quale primeggiano FRANCESCO SQUARCIONE e JACOPO BELLINI. Ritrattista potente è ANTONELLO da MESSINA, che, secondo la tradizione, portò dalle Fiandre il procedimento a olio, e artisti di gran nome sono GENTILE da FABRIANO, il BEATO ANGELICO e FILIPPO LIPPI. Al primo (1370-1450) si devono, fra le molte altre opere, un'Adorazione dei Magi e una Madonna in gloria ; al secondo (1387-1455) mirabili affreschi nel convento di San Marco in Firenze, la decorazione della cappella del Sacramento e dell'Oratorío di Niccolò V, la Madonna circondata dagli Angeli, l'Incoronazione della Vergine, il Giudizio universale e la Deposizione dalla Croce ; al terzo (1400-1459) gli affreschi dell'abside del Duomo di Prato e del Duomo di Spoleto, una Incoronazione della Vergine e una Vergine col Bambino. Questi tre ultimi pittori, per le caratteristiche della loro arte, che si fonda sull'espressione del sentimento, furono chiamati spiritualisti  e sono i più grandi tra i pochi di questa scuola che deriva da Giotto. 
Ma la scuola che trionfa è quella del realismo, per mezzo del quale la pittura ha moltissimi punti di contatto con la letteratura e mostra di ispirarsi a quelli che sono gli ideali del Rinascimento
.

FINE

Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).

UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

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