LETTERATURA

IL TEMPO DI MANZONI E LEOPARDI
(F. DE SANCTIS)

Colui che diede grandissima autorità al romanticismo italiano e, a ragione, della nuova scuola considerato il capo, fu Alessandro Manzoni.
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo del 1785 dal conte Pietro, che morì nel 1807, e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare, che, separatasi dal marito, andò a convivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati.
I primi studi di Alessandro, a Merate, a Lugano, presso i Padri Somaschi, nel collegio Longone di Milano, presso i Barnabiti, poi si diede al giuoco e si mise a frequentare salotti e teatri, meritandosi i rimproveri del Monti.
Ventenne, nel 1805 raggiunse la madre a Parigi e qui s'imbeveva di cultura francese, classicheggiante e razionalista, oltre a conoscere gli uomini più illustri del tempo, stringendo amicizia con uno di loro, lo storico e letterato Carlo Fauriel. Erano quelli, gli anni che la potenza degli eserciti napoleonici vincevano a Austerlitz, a Jena, e a Milano Napoleone costituiva il Regno d'Italia.

Mortogli il padre nel 1807, Alessandro Manzoni sposò, un anno dopo, la ginevrina Enrichetta Blondel, protestante, e con lei tornò e si stabilì a Parigi, dove il 15 gennaio del 1810 la moglie, che già lo aveva reso padre di una figliuola, Giulia (maritata poi a Massimo d'Azeglio), si convertì al Cattolicesimo.
Il passaggio di Enrichetta alla fede cattolica contribuì non poco a scacciare dall'animo del marito l'incredulità e a farlo tornare pio e religioso. Nell'agosto del 1810 ritornò definitivamente a Milano, tra il 1813 e i11830 gli nacquero i figli Pietro, Cristina, Sofia, Enrico, Clara, Vittoria, Filippo e Clotilde.
Dall'ottobre' del 1819 all'agosto del 1820 soggiornò nuovamente a Parigi, dal 26 agosto al 10 ottobre del 1827 a Firenze, dove conobbe il Giordani, il Leopardi, il Niccolini e il Capponi.
Nel 1833 perdette la moglie e quattro anni dopo passò a seconde nozze con Teresa Borri, vedova Stampa; nel 1848 alla rivoluzione, sulle barricate c'erano i suoi tre figli maschi, dei quali il più giovane, Filippo, fu fatto prigioniero; quello stesso anno Manzoni firmò l'appello dei Milanesi a Carlo Alberto per sollecitare l'intervento.
Nel 1841 gli moriva la madre; successivamente perse le quattro figlie e nel 1861 la seconda moglie.
Nel 1859 fu fatto presidente onorario dell'Istituto Lombardo, il 29 febbraio del 1860 fu nominato senatore e nel febbraio dell'anno seguente partecipò alla seduta in cui fu proclamato il regno d' Italia.
Nel giugno del 1872 fu fatto cittadino onorario di Roma; la sera del 22 maggio del 1873, a 88 anni chiuse in Milano, nella casa, di via Morone, la lunga e nobile vita, pianto da tutta la nazione e specialmente dalla città natale che gli fece funerali imponenti e solenni.
Le poesie giovanili del Manzoni, ripudiate poi dall'artista maturo, sono l'espressione degli ideali di democrazia e razionalismo e il prodotto dell'educazione classica dello scrittore.
A quindici anni Manzoni scrisse il "Trionfo della Libertà", poemetto in terza rima, dai versi sonanti, in cui sono flagellate la demagogia e la corruzione della Cisalpina; nel 1803 compose un idillio, "l'Adda", in sciolti, che il Monti trovò "belli, respiranti quel "molle atque facetum" virgiliano che a pochi dettano le " gaudentes rare Camoenae"; nel 1806 pubblicò un "Carme in morte dì Carlo Imbonati", l'opera sua, giovanile più originale; nel 1809 diede alla luce il poemetto mitologico "Urania", d'imitazione mondana, in cui celebrava i benefici apportati dalla poesia all'umanità.
La nuova coscienza del poeta, dopo il ritrovamento della fede, è documentata dagli "Inni sacri", "La Resurrezione", "Il nome di Maria", "Il Natale", "La Passione" e "La Pentecoste", composti fra il 1812 e il 1822, nei quali il poeta cercò, come scrisse il Fauriel, "di ricondurre alla religione quei sentimenti grandi, nobili ed umani che naturalmente da essa derivano ". Voci profonde di pace, di carità, di amore universale di fratellanza umana, di uguaglianza sociale, dopo tanti anni di guerre, di rivoluzioni e di sangue, queste che scaturivano dagli inni manzoniani. Qui non fervore d'estasi, non ardore di misticismo ispirano il poeta, ma l'amore operoso del bene, il comando della giustizia, la pietà degli umili e degli oppressi, che furono leggi sante del Vangelo prima di essere concetti programmatici di rivoluzioni; e da questa divina ed umana ispirazione sorgono dall'anima dolcemente commossa del Manzoni inni vibranti di fede, pervasi di umanità profonda, quali da più secoli non erano stati espressi dall'accesa fantásia d'un poeta" (Fauriel).
Agli "Inni sacri" seguirono nel 1819, le "Osservazioni sulla Morale Cattolica", scritte in difesa delle massime etiche del Cattolicesimo contro le accuse divulgate dallo storico ginevrino SISMONDO SISMONDI nella "Storia delle repubbliche italiane", dove era stato detto che "la morale cattolica aveva contribuito a far perdere all'Italia la diritta via".
Due anni dopo vennero fuori "Marzo 1821" e "Il Cinque Maggio", che con "l'Aprile 1814" e "Il proclama di Rimini" costituiscono le liriche politiche del Manzoni.
Nella prima ode, dedicata al poeta tedesco Kòrner caduto per la libertà della sua patria nella battaglia di Lipsia, il poeta canta l'inizio del Risorgimento Italiano, immagina che l'esercito piemontese, varcato il Ticino, stringa un patto con i fratelli italiani, giurando di liberare la patria o di morire, e ai Tedeschi - che, combattendo contro Napoleone, hanno gridato: "Dio rigetta la forza straniera. Ogni gente sia libera e pera Della spada l'iniqua ragion - afferma che sui loro stendardi "Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito" perchè essi non hanno mantenuto la promessa di render libera l'Italia, che contro il diritto delle genti tengono schiava.
Con la seconda ode, potente evocazione delle gesta di Napoleone, il poeta esalta la fede, consolatrice e salvatrice degli uomini, quella fede che, scesa nell'anima del Corso accasciata e in procinto d'esser preda alla disperazione, la sollevò alla speranza del premio eterno, al pensiero di Dio, il quale, dopo aver fiaccata la potenza dell'eroe da lui stesso voluta, gli fu unico compagno nell'agonia e "Sulla deserta coltrice Accanto a lui posò".
Obbedendo allo dottrine romantiche, secondo le quali la drammatica doveva svolgere argomenti tratti dalla storia nazionale, nel nostro medioevo il Manzoni cercò i soggetti per le sue tragedie "Il Conte dì Carmagnola" (1820) e l'"Adelchi" (1822).
Nella prima, protagonista è quel Francesco Bussone, prode capitano di ventura, che prima fu al servizio di Filippo Maria Visconti, poi, inimicatosi con lui, passò al soldo dei Veneziani, sotto le cui bandiere inflisse gravi sconfitte alle armi del duca di Milano, fra le quali celebre quella di Maclodio; quindi, sospettato di tradimento, fu decapitato.

II Manzoni ne voleva fare un personaggio vigoroso "desideroso di grande imprese, che si dibatte con la perfidia dei suoi tempi e con istituzioni misere, improvvide irragionevoli ", ma non ha saputo darci che una figura alquanto sbiadita, dal carattere appena accennato, cui dà qualche rilievo soltanto quel senso di rassegnazione e di umiltà contro la malvagità umana che è la caratteristica di molte figure manzoniane.
L'azione si svolge nel gran quadro della guerra tra Venezia e Milano, rievocante le tristi lotte fratricide, e un coro stupendo ("s'ode a destra uno squillo di tromba") interpreta liricamente i sentimenti del poeta, che soffre per quelle lotte e invoca l'unione degli Italiani contro lo straniero e si appella alla giustizia divina, che si vendica degli iniqui e protegge gli oppressi.
Nell'"Adelchi" è protagonista il figlio di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, che in Carlomagno vede non solo il nemico del suo popolo, ma anche il nemico della sua famiglia avendo ripudiata sua sorella Ermengarda. Anche Adelchi come il Carmagnola è un vinto. Davanti alla vittoria dell'invasore e alla rovina del suo popolo, invaso dallo sconforto vorrebbe uccidersi, e invece si rassegna cristianamente pensando che la vita umana è una prova, e, ferito mortalmente, si spegne perdonando al vincitore e pregando per lui.
Accanto ad Adelchi sta la figura di Ermengarda, che nella solitudine del monastero è tormentata dal ricordo dell'amore che nutre ancora per chi l'ha scacciata, ha ricordo della felicità fugacemente trascorsa e finisce la sua vita dolorosa volgendosi a Dio. Figura anch'essa di vinta, che vive però nel drammatico contrasto interiore ed ha poi quiete nella rassegnazione, vittima innocente destinata ad espiare fra gli oppressi con la sua sventura le violenze della sua "rea progenie".
Due cori bellissimi esprimono il pensiero e il sentimento del poeta nel mostrarci il significato storico e morale del dramma. Il primo ("Dagli antri muscosi, dai fori cadenti") rappresenta il monito della storia ai popoli schiavi: non dal valore straniero, ma dal proprio sperino essi libertà; il secondo ("Sparsa le trecce morbide") colorando le infelici vicende della principessa, mette davanti allo sguardo degli uomini la giustizia divina, la quale vuole che i figli innocenti espiino le colpe dei padri.
Le due tragedie manzoniane, rappresentate, non ottennero successo. E in verità il loro pregio è tutto letterario, diremmo anzi che come lavori teatrali esse sono opere mancate, nonostante alcune scene davvero belle e qualche personaggio reso con molta vigoria.

Nel temperamento dello scrittore si debbono ricercare le cause dell'insuccesso teatrale delle sue tragedie; temperamento lirico anziché drammatico era quello del Manzoni, il quale era disposto più ad esprimere liricamente le passioni dei suoi personaggi che a rappresentarle sulla scena. Portato inoltre più all'analisi narrativa che alla sintesi drammatica, il suo ingegno doveva naturalmente produrre i frutti migliori nel campo della lirica e della narrazione: lì infatti diede gli "Inni sacri", le odi politiche e i cori, qui "I Promessi sposi" che costituiscono il suo capolavoro.
Emulo dello scozzese Walter Scott, narra il Manzoni nel suo romanzo immortale le vicende di due popolani lombardi, Renzo e Lucia, le cui nozze sono ostacolate dalla prepotenza di un signorotto, don Rodrigo, che, invaghitosi della giovane, vuole ad ogni costo possederla. Favoriscono le ribalde voglie di don Rodrigo i bravi al suo servizio, le autorità civili del paese, piccole e grandi uomini di chiesa e uomini di legge, la viltà di un curato, incapace, per paura, di compiere il suo dovere, una monaca corrotta istigata dal suo drudo e un potente bandito, l'Innominato; proteggono le vittime della prepotenza malvagia altri umili che nulla possono ed una mirabile tempra di frate cappuccino, il padre Cristoforo, che deve però lasciar libero il campo a don Rodrigo.
È l'eterna lotta del bene e del male che il Manzoni rappresenta in questa sua storia del secolo XVII ch'egli finge di rifare da un vecchio manoscritto; l'eterno conflitto tra il vizio e l'innocenza, la quale giacerebbe vinta sotto i colpi di quello se in sua difesa non sorgesse la Provvidenza Divina, che tocca il cuore di un grande peccatore facendolo tornare sulla buona via e rende giustizia agli oppressi raggiungendo con la mano inesorabile l'oppressore.
Narrando i casi dei due umili protagonisti, che, insidiati e perseguitati dall'umana. malvagità, riescono a trionfare su tutti gli ostacoli per il supremo volere della giustizia di Dio, il Manzoni ci mostra come in un gran quadro tutta la società contemporanea:
"…menzognera e fradicia nelle sue istituzioni, fondata sulla violenza in maschera di legalità, ossequente a una larva di religione che ha falsato per ridurla strumento di dominio. In essa anche le volontà pure, le anime sicure e intrepide, ingannate da menzognere apparenze o non sorrette da chi potrebbe, non riescono a compiere il bene che vorrebbero e ad interporsi fra gli oppressori. Dal signorotto arrogante al pavido curato trasgressore dei sacri suoi obblighi per timor dei potenti, al podestà che non si cura, di far rispettar la legge quando la violano i ricchi alla cui mensa lui s'impinza, all'avvocato imbroglione che le leggi travisa e mentisce a danno degli umili, all'uomo politico che della non meritata autorità abusa per coprire le prepotenze dei suoi parenti, al superiore ecclesiastico che abbandona alle rappresaglie del potere laico il povero frate difensore degli umili per non turbare la concordia fra i due ordini sociali condominanti - pago di salvare l'amor proprio della sua casta con egoistici compromessi - alla suora che, monacata per forza, si fa complice dell'insidia contro una pura fanciulla perché tristi passioni la rendono schiava di un manigoldo, al governatore e ai suoi consiglieri che fanno e disfanno con ridicola superbia leggi che nessuno rispetta, provvedimenti atti a moltiplicar l'anarchia, di grado in grado e di cerchio in cerchio possiamo seguire il flusso e il riflusso del disordine e del male della spagnolesca Lombardia del Seicento.
D'altra parte, il combattivo e talora imprudente ardore di giustizia del cappuccino, la serena magnanimità del cardinale, la semplice carità della famiglia del sarto che ospita Lucia liberata, accanto all'ingenuità impulsiva di Renzo e alla dolcezza rassegnata di Lucia, mostrano come grandi e piccoli, dotti e ignoranti, possano servire ai decreti della Provvidenza, purché accolgano devoti la parola di Dio, e dove siamo tutti uguali; mentre la bonomia del curato quando non lo acceca la paura, il loquace consenso della sua domestica, la petulante ingerenza di donna Prassede nel fare il bene e la ostinazione di suo marito nel tener fede a una scienza in tramonto - la quale lo porta a morir di contagio negando che esso esista, in nome dell'astrologia - ci ricordano che al mondo nelle anime umane non c' è solo il sublime e l'abbietto, ma, tutta una gradazione di valori intermedi. E nel rappresentare questa scala, il Manzoni esercita mirabilmente una dote in lui vivissima, e molto utile alla comprensione della vita vera, alla salvaguardia dalla retorica, dalla falsità accademica: l'umorismo
(Galletti e Alterocca) ".
Così dalla penna del romanziere sorgono vivissime le figure di don Abbondio, don Rodrigo, l'Innominato, il cardinal Borromeo, padre Cristoforo, la monaca di Monza, il dottor Azzeccagarbugli, il Conte Zio, Agnese, Perpetua, fra Galdino, Tonio e Gervaso, Griso, don Ferrante, donna Prassedé, il Vicario, Ferrer e tanti altri.
L'artista le costruisce con pochi tocchi o si compiace di rifinirle pazientemente; ce ne fa conoscere l'animo e l'indole mostrandoci qualcuna delle loro peculiari caratteristiche o penetrando nell'intimo di ognuna di esse, scrutandole, studiandole, ascoltandone fin le più fievoli voci della mente e del cuore; le ravviva con la potenza del suo genio creatore e le colloca sapientemente nel vasto mondo del suo romanzo perché vi esplichino tutta la loro umanità, si amano, si odiano, gioiscono, soffrono, piangono, pregano, meditano, si rassegnano, perdonano; perché vi riflettano l'ideale cristiano dell'autore e per il suo trionfo agiscono colorandosi della sua luce, riscaldandosi alla sua bontà, conciliandosi nella sua mitezza; perché con la loro vita rendano più completa la vita dei luoghi ove si svolge l'azione, di cui l'occhio attento e amoroso dell'artista, guarda, nella luce o nell'ombra, ogni aspetto, ogni forma, ogni recesso: monti, laghi, fiumi, città, paeselli, piazze, vie, sentieri, chiese, conventi, campi, capanne.
Manzoni compose il suo romanzo dall'aprile del 1821 al settembre del 1823, intitolandolo "Gli sposi promessi", ma per motivi artistici e morali lo rivide, corresse, mutò e dopo lunga rielaborazione lo pubblicò, con il titolo attuale, nel 1827. Nonostante il successo editoriale, non contento della lingua che gli sembrava ed era troppo dialettale e sovente artificiosa e non dell'uso comune, il poeta, riprese in mano il romanzo e si recò a Firenze per "risciacquare", come disse, " i suoi cenci in Arno". Ci lavorò sopra per altri 13 anni, poi il romanzo nella nuova e definitiva redazione fu ripubblicato fra il 1840 e il 1842.
Non solo poeta fu il Manzoni, ma anche critico e storico. Per il "Conte di Carmagnola" scrisse una lunga prefazione in cui discusse molto acutamente delle famose unità di tempo e di luogo, che combatteva, dell'ufficio dei suoi cori e intorno ad altre questioni; e alle critiche, mosse dallo Chauvet alla suddetta tragedia, rispose con una "Lettre sur l'unité de temps et de lieu dans la tragedie" (1823) sostenendo le sue idee. All' "Adelchi" premise un dotto Discorso sopra alcuni punti della storia longobarda in Italia.
Nel 1833 scrisse una "Lettera sul Romanticismo al marchese Cesare D'Azeglio", nella quale esamina criticamente le teorie romantiche e le difende sotto l'aspetto cristiano. Altra sua opera critica è il discorso (1845) "Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione", in cui proprio lui condanna il genere cui appartiene il suo capolavoro.
Ci lasciò inoltre un dialogo, "Dell'invenzione, una Storia della Colonna Infame", un frammento di un saggio comparativo su "La rivoluzione Francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859" e, infine, parecchi scritti sulla lingua: "Sentir messa", "una lettera a Giacinto Carena "Sulla Lingua italiana", una relazione al ministro Broglio "Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla", una "Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro "De vulgari eloquio" di Dante, una "Lettera intorno al Vocabolario" e un "Appendice alla lettera al Borghi".
GIACOMO LEOPARDI: LA VITA E LE OPERE
Mentre il Manzoni ritrovava la fede e ne faceva la guida della sua vita, un altro poeta perdeva invece quella fede, perdeva tutte le illusioni, e in compagnia del dolore s'avviava verso la tomba, dove per lui risiedeva l'unico vero: Giacomo Leopardi.
Nacque a Recanati il 29 giugno del 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici ed ebbe un'infanzia e una giovinezza molto tristi, privo com'era dell'amore del padre, tutto dedito ai suoi studi, e di quello della madre, donna dura ed aspra, intenta più ad assestare il patrimonio familiare che a curare i figli.

Il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), scrittore ortodosso e legittimista fra i più tenaci e intransigenti:
La Contessa Adelaide Antici, di nobile famiglia religiosissima: moglie di Monaldo, madre di Giacomo

Dotato d'ingegno precocissimo, Giacomo trovò conforto solo nello studio e vi si diede con tanto impegno che conseguì risultati sbalorditivi, ma nello stesso tempo si rovinò la salute.
A tredici anni cominciò a studiar da sé il greco e l'ebraico, tradusse la Poetica di Orazio e compose due tragedie, "La virtù indiana" e "Pompeo in Egitto"; tra i quattordici e i quindici scrisse una "Storia dell'astronomia"; a diciassette un "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi", tradusse gl'"Idilli" di Mosco, la "Batracomiomachia", il l° libro dell'"Odissea", il 2° dell'"Eneide", la "Titanomachia" di Esiodo e compose un "Inno a Nettuno" che fece credere ai dotti come un'opera dell'antica Grecia da lui ritrovata.
Entrato in corrispondenza con Pietro Giordani, grande ammiratore dell'ingegno del dotto giovanetto, nel 1818 gli fece visita a Recanati. Quel medesimo anno compose, dedicandole al Monti, le canzoni "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante" che si preparava a Firenze, nelle quali è vivo il contrasto tra la passata grandezza e la presente miseria d'Italia: Dal 1819 al 1822 furono anni molto tristi per Leopardi, che in aperto dissidio con i genitori per il suo liberalismo, malvisto dai concittadini, visse una vita cupa e solitaria, bruciato dal desiderio di fuggire lontano dal "natio borgo selvaggio", afflitto per qualche tempo da una grave malattia agli occhi che gli impedì di trovar nello studio una distrazione.
Finalmente, nel novembre del 1822, (aveva 24 anni) poté recarsi a Roma, ma nel maggio del 1823 dovette ritornare a Recanati, dove rimase fino al 1825. Poi fu a Milano al servizio dell'editore Stella, a Bologna, dove s'innamorò, non ricambiato, della contessa Teresa Corniani Malvezzi, a Firenze dove conobbe il Manzoni ed altri illustri scrittori, rivide il Giordani e fu invitato dal Viesseux a collaborare alla "Antologia", a Pisa, ancora a Firenze e di nuovo a Recanati, da dove per sempre lo trascinò via lo storico Colletta, che con generose offerte di denaro l'aiutò a tornare a Firenze. Qui rimase circa tre anni, confortato dalla nobile amicizia di molti valenti uomini, ma addolorato profondamente per la passione non corrisposta che gli aveva ispirato la signora. Targioni-Tozzetti.
Nel 1833 il suo amico Antonio Ranieri se lo portò a Napoli ospitandolo in casa sua e qui quattro anni dopo, il 14 giugno del 1837, l'infelice poeta ebbe finalmente quella pace che invano aveva fino allora invocata.
Oltre alle opere sopra accennate il Leopardi scrisse un "Commento al Canzoniere del Petrarca", compilò per lo Stella una "Crestomazia della prosa e della poesia italiana", tradusse il "Manuale d'Epitteto", compose i "Paralipomeni della Batracomiomachia", poemetto in ottave dove fa la satira dei tiranni d'Italia e degli sforzi fatti dai patrioti per conseguire la libertà, dettò le "Operette morali", prose limpide, schiette e vive, piene di profonda ironia, lasciò i "Pensieri", le "Lettere, appunti e ricordi, e lo "Zibaldone", intitolato prima "Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura", un insieme di note, di osservazioni e di riflessioni, interessantissime per la storia del suo spirito.
Ma l'opera sua alla quale è affidata la sua fama è costituita da i Canti: una quarantina in tutto, se non si tiene conto di quelli scritti nell'adolescenza e poi ripudiati, fra i quali degna di menzione la cantica in terza rima "Appressamento della morte".
Nel comporli il poeta ebbe come muse ispiratrici prima la patria e la donna, seducenti e dispensatrici di dolci promesse e di belle illusioni, poi il Dolore, la Morte, il Nulla, che disperdono ogni speranza, ogni illusione, devastano il cuore, intristiscono l'anima, uccidono la fede.
Per breve tempo, dal 1818 al 1821, la musa della patria eccita l'estro del Leopardi e non gl'ispira che sei canzoni. In quella all' "Italia" il poeta piange sulle rovine e sulla vergogna della patria, schiava dello straniero, si sdegna perché gl'Italiani combattono e muoiono a vantaggio di altra gente ed esalta quelli che spendono la vita per la libertà della propria terra; come i trecento Spartani caduti alle Termopili ed immortalati da Simonide.
Nella canzone "Sopra il monumento di Dante" il poeta vede ancora la patria saccheggiata dagli stranieri e gli Italiani combattenti in estranei lidi, e questa visione dolorosa gli soffoca nel cuore la gioia che era germogliata alla notizia del monumento che si preparava a Firenze al grandissimo poeta e la speranza, per un istante balenata, che l'esempio degli avi illustri potesse risvegliare gli Italiani sonnacchiosi e pigri e spingerli alla riscossa.
Nella canzone "Ad Angelo Mai", dinanzi lo sguardo del Leopardi c' è ancora l'Italia degenere, immersa nel sonno e nel fango, ma spera il poeta che le memorie della grandezza trascorsa, ridestate dai dotti, possano stimolare a nobili azioni l'animo degli Italiani. Questa speranza pervade il canto "Nelle nozze della sorella Paolina" e si sposa al monito rivolto alle donne italiane di amare uomini forti e di educare ad alti sensi, come le spartane, i figli.
Ma la speranza in una patria libera muore ben presto nel cuore del poeta. E' il 1821, l'anno dei moti e della reazione. "Ad un vincitore nel pallone" è l'ultima voce della musa patriottica del Leopardi. "Che vale addestrare le membra se la patria è infelice? Meglio morire, che solo a spregiarla vale la nostra vita. Meglio imitare Bruto, il quale troncò i suoi giorni poiché vide tramontate le libere istituzioni e si convinse che vana era la virtù in cui aveva creduto" (Bruto minore).
Accanto alle illusioni patriottiche, ma più rigogliose e più durature, fioriscono nell'animo del poeta le illusioni amorose, che sono motivo per lui di gioia e di tormento. Dalla Gertrude Cassi alla Fanny Targioni-Tozzetti parecchie figure di donne popolano la vita del poeta, allietandola di sorrisi e di speranze, cui sempre succedono la, delusione, il pianto e l'angoscia. Fugaci gioie d'amore sentimentale; lunghi sogni popolati di dolcissime visioni; desideri e speranze; delusioni, sconforti, lacrime, riempiono i canti amorosi del poeta di Recanati, che nel "Primo amore" esprime le pene suscitategli dalla breve visita della cugina Gertrude, in "A Silvia" e nelle "Ricordanze" canta la gioventù perduta e rievoca le illusioni scomparse, nell'"Ultimo canto di Saffo" impreca alla natura che solo alla bellezza e non alla virtù e all'ingegno ha dato la potenza della seduzione, nel "Sogno" vaneggia dietro le immagini della giovinezza e dell'amore perduti, ne "La vita solitaria" rimpiange le illusioni svanite; specie quelle amorose, nel "Pensiero dominante" rappresenta il suo cuore tutto riscaldato dalla fiamma che vi ha accesa la Targioni; in "Amore e Morte", sbigottito dal divampare della passione, anela addormentarsi nel virgineo seno della morte, in "A se stesso" esprime la nera disperazione dell'anima sua dopo il crollo dell'inganno estremo e, infine, in "Aspasia" vuol vendicarsi di chi gli ha messo l'inferno nel cuore, proponendosi di dimenticarla e chiamandola indegna del suo amore, e invece non può o non sa cancellare la seducente immagine di lei.
Ma la patria e l'amore non sono le sole muse del poeta e i soli argomenti del suo canto. I suoi desideri insoddisfatti, i suoi affetti feriti, i suoi mali fisici, i suoi disagi morali, il contrasto tra la realtà della vita e il dolce immaginare gli incupiscono l'anima, gli tolgono la fede nelle cose belle e sante della vita, lo inducono a meditare sulla propria infelicità, sul doloroso dramma dell'umanità, sulla vanità di tutte le cose e lo fanno persuaso che "ameni inganni" sono la gloria, l'amore, la giovinezza, la gioia e che una cosa sola è vera: la morte.
Il Leopardi allora si fa, cantore della tragedia sua e di quella dell'universo e in liriche stupende esprime i suoi rimpianti per le cose perdute, l'angoscia dell'anima, il logorio del cervello, il suo pessimismo profondo.

"Ma un poeta, per quanto si voglia pessimista, non può negare totalmente la vita: essa parla ai suoi sensi e al suo spirito con mille voci di necessità invincibile. Negli ultimi versi scritti a Napoli, il Leopardi, mentre altra speranza non ha tranne quella di uscir presto dalle pene morendo, non rinnega almeno la fraternità umana".
"Due sentimenti contrastano in lui: un umano dispregio della nostra vanità - che, mentre il male ci opprime da ogni parte, va millantando la potenza sconfinata e il sapere illimitato dell'uomo - e una sincera pietà, per quest'essere materialmente debole, incoerente, orgoglioso, ma capace di sublimi aspirazioni, audace a soffrire con energia intrepida e a lottar da solo contro la violenza della Natura: consapevole che la morte è rimedio, e tuttavia straziato dall'estremo addio ai suoi cari ("Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima - Sopra un bassorilievo antico sepolcrale", ecc.). Ancora - nonostante il sinistro sorriso con cui terminano gli sciolti di "Aspasia" - ancora un compianto alla sorte nostra iniqua e un rimpianto delle prime giovanili speranze ("Il tramonto della luna"): ancora, nella "Palinodia", un ultimo scherno allo pertinaci illusioni nelle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità: e finalmente, ne "La Ginestra" (dell'anno prima della morte) l'ultima grandiosa epopea della guerra implacabile a noi mossa dalla Natura: visione immensa della tragica serie di sforzi vani contro l'occulto potere distruttore, che sempre ci schiaccia e sempre ci ritrova alacri all'opera e impenitenti nell'ingannare noi stessi ... "La ginestra" sembra contenere un intimo appello a tutte le spirituali forze umane, per formare una fraterna catena di dolore comune: sembra l'inizio d'un nuovo stato di animo, atto a riconciliare un giorno il poeta almeno con il prossimo, se non con la divinità.
Ed invece essa fu un termine, un'alba senza sera, che più atroce rende agli occhi nostri la catastrofe di una vita spenta in età giovane eppur già così ricca di opere immortali" (Galletti e Alterocca).
Leopardi si spense a NAPOLI il 14 luglio 1837, a 39 anni, mentre in città infuriava il colera. Era vissuto negli ultimi quattro anni in gravi angustie economiche e in condizioni di salute sempre più precarie, con accanto l'amico Ranieri, un giovane nobile napoletano indubbiamente un devoto di Leopardi anche se molti mettono in dubbio che sia stato capace di intenderne la vera grandezza. Ma non era il solo! Prima, durante e anche nei primi decenni dopo la morte, la grandezza di Leopardi fu generalmente misconosciuta. Pochissimi aderirono alla sua visione della vita e intesero la sua poesia. Giordano, Gioberti, Tenca e lo stesso De Sanctis, lo ammiravano come altezza poetica ma rimasero sempre molto freddi davanti al suo materialismo e pessimismo.
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ROMANZIERI E SCRITTORI DI MEMORIE
Il successo dei "Promessi Sposi" di Manzoni, produsse una larga fioritura di romanzi storici, in non pochi dei quali è evidente l'imitazione del grande lombardo. Ispirandosi a lui, il toscano GIOVANNI ROSINI, autore di una "Luisa Strozzi", scrisse "La Monaca di Monza"; LUIGI GUALTIERI "L'Innominato" e G. B. BAZZONI il "Falco della Rupe"; ma di queste opere pochissimi le ricordano.
Vita più lunga quelle del GROSSI, del D'AZEGLIO, del CANTÙ e del NIEVO.

TOMMASO GROSSI (1790-1853) fu anche poeta e si acquistò fama con le novelle in versi "La fuggitiva", "Ulrico e Lida" e "Ildegonda" e con il poema epico "I Lombardi alla prima crociata", ma l'opera sua migliore è il romanzo storico "Marco Visconti", dove è narrata una storia d'armi e d'amore del Trecento, in cui sono scene molto vivaci ed episodi di non scarsa bellezza.

Di MASSIMO D'AZEGLIO (1796-1866) abbiamo altrove ricordato gli scritti politici; qui ricorderemo "I miei ricordi", note autobiografiche vive, sincere e colorite, e i due romanzi storici "Ettore Fieramosca" e "Niccolò de' Lapi", nel primo dei quali con freschezza di stile e con intemperanza giovanile narra le avventure del Fieramosca e la famosa disfida di Barletta e nel secondo con maggiore sobrietà la storia di una famiglia popolana fiorentina e l'eroica ma sfortunata resistenza del popolo di Firenze alle soldatesche di Carlo V e di Clemente VII.
Di CESARE CANTU' (1804-1895), di cui parleremo ancora quando ricorderemo gli storici, ci lasciò un romanzo storico, "Margherita Pusterla", in cui si trova qualche episodio molto vivo e alcune scene mosse e suggestive.
Il più grande di tutti fu IPPOLITO NIEVO (1831-1861- perì nel naufragio dopo la spedizione dei Mille) garibaldino e poeta, morto a 29 anni, autore di novelle e di tragedie, di due delicate raccolte di versi -"Lucciole" e "Amori garibaldini"- e di un romanzo di gran respiro, cui è legata la sua fama - "Le confessioni di un italiano" - e che, malgrado le disuguaglianze, le sproporzioni e gli altri non pochi difetti, è una delle opere più vigorose del suo tempo. E' la storia dell'italiano nuovo, che si viene formando agli ideali del Risorgimento, pur sentendo la nostalgia del mondo settecentesco che scompare.
Si allontanano dal Manzoni il LANCETTI, autore di un "Gabrino Fondulo"; CARLO VARESE, che scrisse la "Sibilla Odaleta"; GIULIO CARCANO, autore della "Nunziata"; del "Damiano", di "Gabrio e Camilla" e dell' "Angiola Maria", primi esempi di romanzi intimi; ANTONIO RANIERI che con "Ginevra" o "l'orfana dell'Annunziata" trattò per primo in Italia il romanzo sociale e, per non citare altri, FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI (1804-1873), scrittore torbido (romanzo nero), gonfio, disordinato, ma ardente e vigoroso, che ci lasciò La Battaglia di Benevento, "L'assedio di Firenze, Veronica Cybo, Isabella Orsini, Beatrice Cenci, La torre di Nonza, Pasquale Paoli, Serpicina, Buco nel muro, L'asino, discorsi politici e vite d'uomini illustri; il TOMMASEO, autore del "Duca, d'Atene" e di "Fede e bellezza"; e il gesuita ANTONIO BRESCIANI, del quale basta ricordare "L'ebreo errante" e "Lorenzo il coscritto".
Molto in voga nel periodo del Risorgimento gli "epistolari" e le memorie autobiografiche.
Le sue "Memorie" le scrisse GIUSEPPE GARIBALDI, un libro di vivaci "Memorie" GIUSEPPE GIUSTI, memorie il generale PEPE e parecchi uomini politici e di guerra.
Un delizioso volume di ricordi autobiografici e di pensieri sull'arte ci lasciò lo scultore GIOVANNI DUPRÈ, i citati "Miei ricordi" del D'Azeglio, memorie sulla sua giovinezza il DE SANCTIS, "Ricordi" MAURIZIO BUFALINI; ma i libri di tal genere che più degli altri acquistarono gran fama furono le "Ricordanze della mia vita" di LUIGI SETTEMBRINI, dettate in una prosa semplice, colorita, efficace, sincera, a volte potente, e "Le mie prigioni" di SILVIO PELLICO, in cui le terribili sofferenze della lunga prigionia contrastano drammaticamente con la cristiana rassegnazione del condannato e le vicende d'ogni giorno sono narrate con accento modesto, dolce e sereno che lascia però trasparire il calore del sentimento patrio e religioso.
POETI PATRIOTTICI E SATIRICI - G. PRATI, A. ALEARDI, G. ZANELLA

LA SCAPIGLIATURA MILANESE

 

Molti furono i poeti minori del periodo del Risorgimento, specialmente i lirici. Non pochi di loro, fra cui il Cantù e il Mamiani, imitarono il Manzoni degli "Inni sacri", altri, come il Tommaseo, cantarono con originalità e calore la Fede, parecchi coltivarono la poesia satirica e giocosa, i più - ed era naturale - s'ispirarono alla patria e furono i cantori acclamati del riscatto italiano. Fra questi ultimi merita il primo posto GIOVANNI BERCHET, il quale, nell'esilio, scrisse romanze e ballate - Clarina, Il romito del Cenisio, Il rimorso, I profughi di Parga, Fantasie, tutte vibranti di patriottismo.
"Spira - dice il Cesareo - qua e là il soffio biblico, che spesso piacque ai poeti; i metri, l'aggettivazione, i paesaggi, il gusto della visione storica, tutto questo è derivato dal gran caposcuola, il Manzoni; ma dove si accenna alla patria, la mossa è nuova, ardita, drammatica, assai più comunicativa che nel Manzoni non fosse mai.
Su ! nell'irto; increscioso Alemanno,
su! Lombardi, puntate la spada:
fate vostra la vostra contrada,
questa bella che il Ciel vi sortì.
Vaghe figlie del fervido amore,
chi nell'ora de' rischi è, codardo,
più da voi non ispiri uno sguardo,
senza nozze consumi i suoi dì.
Versi, questi, che facevano balzare e lacrimare, di cruccio, di speranza e d'entusiasmo i padri che incitavano i giovani figli a rischiare la vita cospirando o a darla per la patria cadendo nelle sante battaglie della libertà ".
Altri poeti patriottici furono il piemontese ANGELO BROFFERIO, il Napoletano ALESSANDRO POERIO, l'abruzzese GABRIELE ROSSETTI, autore anche del poemetto polimetro "Il veggente in solitudine"; l'emiliano PIETRO GIANNONE, autore de "L'esule"; il veneto FRANCESCO DALL'ONGARO, che scrisse stornelli popolarissimi, l'altro veneto ARNALDO FUSINATO, i trentini ANTONIO GAZZOLETTI e GIOVANNI PRATI, il bresciano GIULIO UBERTI, il marchigiano LUIGI MERCANTINI, celebre per l' "Inno di Garibaldi" e il genovese GOFFREDO MAMELI, poeta e soldato, caduto giovanissimo (22 anni) nel 1849 alla difesa di Roma, del quale rimase famoso l'inno "Fratelli d'Italia", musicato da Michele Novaro.
Dei poeti satirici basta qui ricordare il milanese CARLO PORTA, poeta di grande forza di cui son celebri "I desgrazi de Giovannin Borgee, La nomina del Cappellan, La guerra di Pret, La Nina del Verzee; l'altro famoso poeta dialettale GIOACCHINO BELLI, romano; l'aretino ANTONIO GUADAGNOLI e GIUSEPPE GIUSTI da Monsummano, che satireggiò con spigliatezza popolaresca tutta toscana la società del tempo, in parecchie poesie ebbe accenti nazionali ("Lo stivale, La terra dei morti", ecc.) e in qualche altra ("Sant'Ambrogio") sposando lo sdegno alla compassione e l'ironico al serio, riuscì ad esprimere con grande efficacia quel senso di umana fratellanza contro l'oppressore che animò il pensiero e l'azione del Mazzini.
Gli ultimi poeti del romanticismo furono GIOVANNI PRATI, di Campomaggiore nel Trentino, ed ALEARDO ALEARDI, veronese.
Il PRATI, come il veneziano LUIGI CARRER, fu seguace più del romanticismo straniero che dell'italiano; poeta dalla vena abbondante e melodiosa, salì in fama con la novella in sciolti "Edmenegarda"; imitò nelle sue ballate e romanze il Byron, il Lamartine, il Moore e l'Hugo; cantò le gesta di Casa Savoia; compose liriche amorose, satire, epigrammi, poemi storici e filosofici ("Jerone, Il conte di Riga, Satana e le Grazie, Rodolfo, Ariberto, Armando"); e negli ultimi anni della sua vita fu tra le file dei fautori del classicismo con due raccolte di versi intitolate "Psiche e Iside". Del Prati, allora famosissimo, non molte cose hanno sfidato il tempo, ma quelle che non sono state dimenticate - ad es. il "Canto d'Igea, Armando", Ideale, Incantesimo di Iside, Anniversario di Curtatone e A Ferdinando di Borbone - rivelano il poeta vero e l'artista squisito.
ALEARDO ALEARDI scrisse poemetti storici, liriche ispirate all'amor di patria e alla religione e versi di amore (famosi quelli intitolati "Lettere a Maria") ora con sentimentalismo languido e sdolcinato, tanto gradito ai lettori del tempo, ora con vuota rintronanza, sempre con virtuosità di forma che soffoca o svia il sentimento.
Un posto a sé lo si deve dare al sacerdote vicentino GIACOMO ZANELLA, che nelle sue poesie volle esaltare la scienza, il progresso e la civiltà e, da cattolico modernista, conciliare la scienza e la fede. Che vi sia riuscito pienamente non diremo, tuttavia qualche volta l'entusiasmo per la scienza operò sul suo spirito così fortemente da ispirargli liriche veramente belle come "Ospizi marini, Microscopio e telescopio, Per il taglio dell'istmo di Suez, Milton e Galileo e quel piccolo capolavoro: l'ode "Sopra una conchiglia fossile".
Una manifestazione del romanticismo fu la Scapigliatura milanese, composta da un manipolo di scrittori, sostenitori della teoria dell'arte per l'arte, sentimentali e sensuali insieme, che molto attinsero all'opera di Goethe, di Heine, di Hugo e di Baudelaire. Capo della Scapigliatura fu GIUSEPPE ROVANI, critico, giornalista, e romanziere milanese, autore di due romanzi pregevoli, "I cento anni" e "La giovinezza di Giulio Cesare".
Gli altri scrittori del gruppo furono EMILIO PRAGA, che affidò il suo nome ai volumi di liriche Tavolozza, Penombre, Fiabe e leggende, Trasparenze, in cui con squisita delicatezza e con sfacciato cinismo cantò affetti nobili e torbidi sentimenti, volò nelle regioni dell'ideale e strisciò nella più cruda realtà. IGINO UGO TARCHETTI, poeta malinconico, che ci lasciò il meglio della sua produzione lirica nel volume "Dispecta" e che nel romanzo "Una nobile follia" cercò di diffondere le teorie umanitarie antimilitariste del Tolstoi. GIOVANNI CAMERANA, pittore e poeta, che si diede la morte nel 1905 per nevrastenia. Il pavese CARLO DOSSI, ingegno originale e bislacco, che ci diede pagine stupende in "La desinenza in A" e in "Gocce d' inchiostro" e un buon romanzo sociale-utopistico intitolato "La colonia felice". VITTORIO BETTELONI, seguace del verismo, e infine ARRIGO BOITO, il quale, dopo aver fatto buona prova nella poesia, si diede tutto alla musica, dalla quale, con il "Mefistofele" e il "Nerone", ottenne una gran successo.

LA TRAGEDIA, IL DRAMMA STORICO E LA COMMEDIA
Anche nella tragedia il MANZONI fece scuola. Sulle sue orme si misero il PELLICO, autore applaudito di "Francesca da Rimini, Eufemio da Messina, Ester d'Engaddi" ed altre tragedie; il NIEVO, che compose, come abbiamo detto, "I Capuani" e "Spartaco"; CARLO MARENCO, autore di mediocri tragedie, tra cui citiamo la "Pia dei Tolomei" e "Arnaldo da Brescia"; e parecchi altri nomi riportati solo nelle grandi enciclopedie.

Imitatori dell'Alfieri furono invece il cortonese FRANCESCO BENEDETTI autore di undici tragedie, fra cui un "Cola di Rienzo", il cesenate EDUARDO FABBRI, che pubblicò nove tragedie, fra le quali una "Francesca da Rimini"; e per gran parte della sua produzione GIAMBATTISTA NICCOLINI, nato a Bagni di S. Giuliano nel 1782 e morto a Firenze nel 1861.
Il Niccolini fu anche critico e poeta lirico, scrisse un "Canzoniere nazionale" e un "Canzoniere civile", e parecchie traduzioni, acquistando in tale campo un bel posto fra i migliori traduttori del tempo, quali ANDREA MAFFEI, BERCHET, ZANELLA, CARCANO, CARLO RUSCONI, PAOLO MASPERO, FELICE BELLOTTI, BORGHI, SETTEMBRINI, TOMMASEO e TOMMASO GARGANO.
La fama del Niccolini è dovuta alle tragedie. Scrisse le prime trattando argomenti classici e orientali ("Nabucco") seguendo le orme dell'Alfieri; in seguito, pur non abbandonando i suoi modelli, seguendo la moda romantica trattò con una certa, libertà soggetti tratti dalla storia nazionale. Nacquero così Antonio Foscarini, Giovanni da Procida, Lodovìco Sforza, Rosmunda d'Inghilterra, tragedie fiere di sentimento patrio e liberale, che suscitarono, dovunque furono rappresentate o lette, entusiasmi indescrivibili. Il capolavoro niccoliniano è "Arnaldo da Brescia", che, incarnando, l'odio contro la tirannide papale e imperiale tedesca, fu proibito dalla polizia e dalla censura, ma fu venduto lo stesso a migliaia di copie in Italia e fu tradotto all'estero.
"Le tragedie del Niccolini però - nota il Cesareo - sono dimostrazioni di principi, non elaborazioni di carattere. Procida è l'odio dell'oppressione straniera sviluppato in concioni, Arnaldo è la lotta all'arbitrio papale spiegata in allocuzioni. Ci sono qua e là bellissimi squarci oratorii, ma la costruzione è meccanica: scarseggia l'esperienza del cuore umano, l'accento sincero della passione, la novità della fantasia, il color della vita ".
Parecchi cultori ebbe il DRAMMA STORICO, intorno a questo, MAZZINI scrisse un notevole saggio critico. Gran successo ebbe il "Povero Fornaretto" del DALL'ONGARO; ma chi s'alzò fra gli altri in questo genere fu il romano PIETRO COSSA, autore di Mario e i Cimbri, Bordello, Monaldeschi, Nerone, Plauto, Messalina, Cecilia, I Borgia, I Napoletani del 1799, con il quale gareggia il piemontese PAOLO GIACOMETTI, autore di due drammi storici, "Elisabetta regina d'Inghilterra" e "Maria Antonietta regina di Francia", e i drammi sociali a tesi, fra cui notevoli "La morte civile" e "La colpa vendica la colpa", e di parecchie commedie.
Nella COMMEDIA, prima si cercò di seguire le orme del Goldoni, poi s'imitò il teatro francese nelle produzioni dell'Augier, del Dumas figlio e del Sardou. Imitatori più o meno felici del Goldoni furono il bolognese FRANCESCO ALBERGATI, il romano GHERARDO DE ROSSI, il padovano ANTONIO SOGRAFI, i piemontesi ALBERTO NOTA e CAMILLO FEDERICI, il romano GIOVANNI GIRAUD, che godette grande fama specie per la briosa commedia "L'ajo nell'imbarazzo", e i toscani TOMMASO GHERARDI DEL TESTA e VINCENZO MARTINI.
L' influsso francese lo sentì fra gli altri anche il GIACOMETTI. Il maggior commediografo di questo periodo - che con GARELLI, PIETRACQUA, TOSELLI, BON, ZANNONE, BERSEZIO vide fiorire anche il teatro dialettale - fu il modenese PAOLO FERRARI, che prima seguì il Goldoni, poi la moda della commedia a tesi e riuscì a creare tipi indimenticabili come il marchese COLOMBI della commedia "La satira e il Parini". Altre commedie applaudite del Ferrari sono Il Goldoni e le sue sedici commedie nuove, Amore senza stima, Il duello, Il ridicolo, Cause ed effetti, Il suicidio, Fulvio Testi, a cui debbono aggiungersene alcune dialettali, come "Baltromeo Calzolaro, La siora Zvane" e "La medicina d'una ragazza malata", che è un vero capolavoro di comicità.
SCRITTORI POLITICI - STORICI E CRITICI - F. DE SANCTIS
Numerosi furono gli SCRITTORI POLITICI, parecchi dei quali - MAZZINI, GIOBERTI, BALBO, D'AZEGLIO, SETTEMBRINI, MAMIANI - abbiamo già accennato nel corso di questa storia e all'interno dei fatti storici nei riassunti dei vari anni). A questi possiamo aggiungere GUERRAZZI, CARLO CATTANEO, RUGGERO BONGHI, GIUSEPPE FERRARI, CESARE CORRENTI, CAVOUR, CARLO TENCA, ALBERTO MARIO E AURELIO SAFFI.
Altrettanto numerosi furono gli storici. Il Balbo scrisse la "Vita di Dante, Sommario della Storia d'Italia, Storia d'Italia sotto i barbari"; MICHELE AMARI "La Storia del Vespro siciliano, la Storia dei Musulmani di Sicilia"; CARLO TROYA la "Storia d' Italia nel Medio Evo"; GINO CAPPONI la "Storia della repubblica di Firenze"; ATTO VANNUCCI la "Storia dell'Italia Antica"; PAOLO EMILIANI-GIUDICI la "Storia dei Municipi italiani"; CESARE CANTÙ la "Storia universale, Storia degli Italiani, Storia dei cento anni 1750-1850, Gli ultimi trent'anni (1879), la Cronistoria dell'indipendenza italiana, La Lombardia nel secolo XVII, L'abate PARINI e la Lombardia nel secolo passato, Il principe Eugenio, memorie del Regno d'Italia, Il Conciliatore, Carbonari, ecc.
GIUSEPPE LA FARINA la "Storia d'Italia dal 1815 al 1850"; GIUSEPPE MANNO la "Storia della Sardegna"; LUIGI CIBRARIO una storia della dinastia di Savoia e "L'economia politica dei Romani"; CARLO VARESE la "Storia della Repubblica di Genova". E a questi si potrebbe far seguire un nutrito elenco di altri storici minori.
Chiuderemo questi rapidi cenni intorno alla letteratura italiana del periodo del Risorgimento, accennando alla critica, che, dopo l'esempio del Foscolo e l'avvento del romanticismo, si mise a percorrere vie nuove, in cui procedettero ingegni di varia misura, che tentarono di reagire alla retorica e alla critica tradizionalista e formalista.

I critici che più si distinsero furono il MAZZINI, il CAMERINI, autore di profili letterari, il MANZONI, il TOMMASEO, autore di "Saggi", di un "Commento alla Divina Commedia", e di un "Dizionario estetico"; il GIUSTI e CARLO TENCA, autore di importanti articoli pubblicati nel "Crepuscolo"; il SETTEMBRINI, autore delle "Lezioni di letteratura italiana", e PAOLO EMILIANI-GIUDICI, che nel 1844 scrisse una "Storia delle belle lettere in Italia", preceduta da un importantissimo discorso, e nel 1855 la ripubblicò con notevoli modifiche sotto il titolo di "Storia della letteratura italiana".
Infine con l'autore, con il quale abbiamo iniziato le pagine di questo periodo.
Il più grande critico di questo periodo storico fu proprio FRANCESCO DE SANCTIS, nato a Morra Irpina nel 1817 e morto a Napoli nel 1883, il quale scrive il Cesareo - "fu il primo a dichiarare nettamente che in arte la forma è tutto, però nessun contenuto va sottratto al dominio della fantasia; che la creazione della bellezza, indipendente da ogni altra attività dello spirito, dall'utilità, dalla moralità, dal patriottismo, dalla religione, dalla filosofia; che la facoltà creatrice non è la conoscenza il 14 luglio, né l'invenzione, né l'immaginazione incompleta, ma la fantasia".
Il De Sanctis guardava l'opera d'arte con occhio non velato da preconcetti: ciò che vi ricercava non era l'ideale, ma la realtà; non il fine, ma l'atto; non l'astrazione, ma la natura; non l'insegnamento, ma la bellezza".
Su questi fondamenti, aiutato da un intuito portentoso e da una squisitissima sensibilità artistica, il De Sanctis costruì i "Saggi critici", il "Saggio sul Petrarca", "La Storia della letteratura italiana", i "Nuovi saggi critici", lo "Studio su Giacomo Leopardi" e le "Lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX", che, malgrado le disuguaglianze e le inevitabili lacune, rimangono fra le opere più belle e più geniali che la critica non solo italiana ma anche europea abbia mai prodotto.


Fine

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -(5 vol. Nerbini)
VISCADI - Storia Letteratura (i 50 vol.) Nuova Accademia
DE SANCTIS - Storia della Letteratura Italiana, Einaudi
Dizionario Letteratura Italiana, (3 vol) - Einaudi 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DALLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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