PRIMA GUERRA MONDIALE

Caduti di SERIE A e caduti di SERIE B

E I 300.000 PRIGIONIERI ITALIANI DOPO CAPORETTO ?
(per i generali, erano "vili" , quindi furono dimenticati !!)

a fondo pagina
una testimonianza dell'ultima ora, (13-11-2006)
dall'Ungheria !!!
(un ungherese ha letto queste pagine e ci scrive ....)

 

GLI ITALIANI DIMENTICATI


IL LIBRO IN PRIMO PIANO
300.000 uomini catturati dagli austro-ungarici dopo
la tragica rotta del nostro esercito durante la Prima Guerra Mondiale


Di questi 300.000 ne sono morti 100.000.
Di fame, di malattia, di dolore. E di umiliazione.


La seconda opera di Camillo Pavan sulla storica sconfitta




CAPORETTO non è, nella nostra lingua, solo il nome di una città; è divenuto sinonimo di disastro, disfatta, di qualcosa di più e peggio della semplice sconfitta. Nell'immaginario Caporetto si materializza in tragiche immagini di armate in rotta, di soldati sbandati, che vagano, privi di ordini e in preda al panico.
Insomma, Caporetto è l'evento militare che segnò il punto tragico della Grande Guerra e dal quale, però, partì poi la riscossa, fino a giungere al glorioso 4 novembre 1918à tutto vero.
Però non fu solo questo.


A ricordarci che la guerra non è fatta solo di schemi tattici, di strategie, di grandi battaglie, ma è fatta anche da mille sofferenze dimenticate, che non entrano nell'epica ufficiale, torna Camillo Pavan, col suo bellissimo libro
I prigionieri italiani dopo Caporetto , corredato dall'elenco e la carta dei campi di prigionia, compilati a cura di Alberto Burato. Abbiamo detto che Pavan "torna", perché già ci aveva dato (edita nel 1997) un'altra interessante opera sull'argomento, Grande Guerra e popolazione civile , vol. 1, Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari.

In questa nuova fatica di Pavan i protagonisti sono quei 300.000 soldati che caddero prigionieri nei giorni della disfatta di Caporetto. Attraverso le pagine del libro li seguiamo nell'ora della resa, nelle penose e interminabili marce di trasferimento verso i campi di concentramento e infine nella realtà quotidiana della prigionia, realtà sempre drammatica, spesso tragica.
(DI QUESTE, DEV'ESSERE QUEL GRUPPO FINITO NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO IN UNGHERIA - E CHE ORA A DISTANZA DI 87 ANNI SCOPRIAMO ESSERE STATI DIMENTICATI, MAI ONORATI - VEDI SOTTO LA SEGNALAZIONE CHE HO RICEVUTO DALLA CITTA' DI PECS.)

E' un libro importante perché viene a coprire una grave falla della storiografia del trascorso secolo; solo Giovanna Procacci, nel suo Soldati e prigionieri nella Grande Guerra , con una raccolta di lettere inedite (edito nel 1993 da Editori Riuniti di Roma) iniziava a togliere dall'oblio della cosiddetta storia minore del primo conflitto mondiale tante tormentate vicende, consumate non sulla gloria del campo di battaglia, ma nell'angoscia dell'esilio, della lontananza dagli affetti e da una Patria matrigna, che chiedeva ai propri figli di esser pronti a dare la vita, ma poco o nulla faceva per difenderli.

Camillo Pavan riprende e approfondisce l'indagine, concentrandola sui prigionieri di Caporetto; il suo libro, ricco di documentazioni e di immagini, si legge d'un fiato, non solo perché scritto con uno stile sciolto e gradevole, ma anche perché ad ogni pagina apriamo gli occhi su realtà sconcertanti e sconosciute e spesso la lettura ci coinvolge fino a commuoverci.
Con un lavoro di paziente raccolta, l'autore attinge a diari, lettere, testimonianze dirette. E se possiamo leggere le pagine riflessive e ben scritte del capitano medico Michele Daniele, o del tenente Persio Falchi, non mancano le vivide testimonianze del granatiere Giuseppe Giuriati, che tenne un diario, ricco di frasi spesso disordinate e sgrammaticate, che ci porta direttamente in una realtà di durezza, di abbandono, di fame. E non abbiamo citato che pochissimi, tra i molti uomini, dal semplice soldato all'alto ufficiale, i ricordi dei quali costituiscono la più immediata e commovente ossatura del libro.

Pavan non ha la pretesa di fare un'analisi delle ragioni della gravissima sconfitta di Caporetto; non è il suo scopo, come dicevamo, e sull'argomento specifico esistono già fiumi di letteratura. Ma proprio dalla ricchezza di testimonianze dirette e non filtrare dalla storiografia ufficiale emerge un quadro significativo. Lasciamo la parola all'autore:

" Non si può dimenticare che fin dall'inizio della battaglia, a spettacolari e noti episodi di resa senza combattere si affiancarono, meno noti ma non meno numerosi (il corsivo è dell'autore di questo articolo), episodi di tenace resistenza. In fondovalle sinistra Isonzo nella prima linea di Gabrje, ad esempio, due compagnie italiane restarono sul posto venendo letteralmente piallate dall'avanzata di quattro battaglioni della 12° divisione slesiana del gen. Lequis. Senza contare la resistenza sul crinale Vodil-Mrzli-M.Nero, una lotta senza speranza perché dopo poche ore gli italiani si trovarono con gli austro-tedeschi alle spalle e il ponte di Caporetto inagibile perché fatto saltare. Strenua resistenza ci fu anche sul Rombon, sul Cukla, sugli accessi alle valli Resia e Raccolana. E poi i mille piccoli e grandi, noti e meno noti episodi avvenuti durante la ritirataà " .

Proprio il già citato granatiere Giuseppe Giuriati riporta nel suo diario una testimonianza dell'ultima confusa battaglia: "à allora il colonnello Spinucci è rimasto morto, il comandante di compagnia ferito e diversi granatieri morti e feriti. Ora prende il comando un altro e si cambia fronte e ora si fa tutti un altro attacco. Ma inutili sforzi, ora ci perdiamo di collegamento, chi gira di qua chi gira di là. All'alba ci vediamo circondati, abbiamo fatto un altro attacco con un aspirante (allievo ufficiale, ndr), misti con fanteria. Si sente dire che hanno fatto saltare il ponte sul Tagliamento e allora essendo ormai circondati da tanto tempo, ci è toccato abbassare le armi. Oggi siamo ai 30 ottobre 1917. Addio Italia. Famiglia arrivederci. Ora mi trovo nelle mani dei germanici!"

Questa testimonianza è importante, come molte altre riportate nel libro di Pavan (quelle di Sisto Tacconi, del capitano Attico Dadone, del tenente Giulio Bazini, del fante Mario Tarallo, per non citarne che alcune) perché Caporetto non fu solo una sconfitta, seppur gravissima. Fu, da subito, la corsa alla falsificazione, allo scarico di responsabilità. Se biasimevole fu il panico che prese alcuni reparti (ben pochi, per altro), che si arresero senza sparare un colpo, non meno vergognoso fu il panico che prese i vertici militari, preoccupatissimi di salvare la propria faccia. Fin qui, non ci sarebbe nulla di strano, in un'antica vocazione ad anteporre carriera e posto di lavoro a qualsiasi altro valore. Ma la falsificazione ebbe una conseguenza crudelissima, che apprendiamo dal libro di Pavan.

Spieghiamoci: la prima versione ufficiale sul disastro di Caporetto addebitava quasi intieramente alla truppa la colpa di essersi arresa senza accennare resistenza; in poche parole, era stata la viltà dei soldati a rendere possibile la travolgente avanzata nemica. Versione debole, poco realistica, anche per le grandi dimensioni della disfatta, salvo che si volesse pensare che su quel fronte, per uno strano caso della sorte, fossero schierati solo codardi e fedifraghi. Ma era una versione comoda, perché copriva mille mancanze di comandanti improvvidi, errori marchiani, sottovalutazioni del nemico; ed era anche una versione per nulla strana in un ambiente, quale quello militare di allora, in cui il semplice soldato era considerato poco più che un numero, una delle gocce che dovevano formare quelle ondate d'urto destinate solo all'assalto e al sacrificio. Fu una mentalità di questo genere, per fare un esempio, che causò le centinaia di migliaia di morti nel terribile carnaio delle battaglie dell'Isonzo.

Ebbene, accettata la tranquillizzante spiegazione della disfatta di Caporetto dovuta ad una truppa vile e incline alla diserzione, nulla vi era di strano nel fatto che l'Italia non fornì alcun aiuto alimentare a quei suoi figli, prigionieri del nemico. Mentre i prigionieri francesi e inglesi ricevevano dai rispettivi governi gli aiuti tramite la Croce Rossa, la sorte degli italiani fu nerissima, né Austro - Ungheresi e Germanici, a loro volta ridotti alla fame, avevano di che nutrire quei prigionieri.

Nulla di strano, dicevamo. Del resto, a ricordarci in quale considerazione fosse tenuto il soldato e con quale rudezza estrema fosse intesa la disciplina, Pavan ci riporta un ottimo esempio, la circolare num. 3525 del 28 settembre 1915, con la quale il generalissimo Cadorna, comandante supremo, ricordava che " ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto - prima che si infami - dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell'ufficiale".

Con queste premesse, con questi livelli di umanità, facilmente si arrivava alla conclusione che era " meglio che crepassero di fame, quei vigliacchi di Caporetto" , anche come monito per tutti: disertare non conveniva, se non si veniva uccisi dai propri commilitoni o ufficiali, si finiva prigionieri e affamati. E la fame, già patita nei lunghi viaggi verso i campi, diviene la compagna ossessiva di una prigionia resa ancora più dura dalla sensazione di essere soli, dimenticati da una patria ingrata.
La fame strema i corpi e le coscienze, i rapporti umani si sfalsano, la dignità, la solidarietà, il rispetto, l'amicizia, divengono parole vuote, di fronte alla lotta per sopravvivere, alle dispute per suddividersi le miserrime razioni fornite da carcerieri a loro volta affamati.

La fame ricorre di continuo nei diari riportati alla luce dall'autore, non è "un argomento", ma diviene ben presto "l'argomento". La fame condiziona giorno per giorno la vita dei prigionieri. Il capitano Gaetano Tassinari, prigioniero in Germania, a Schwarmstedt, scrive al primo ministro Orlando una lettera che sarà bloccata dalla censura:
" à ogni istanza diretta ad ottenere un vitto meno scarso non ha ottenuto alcun esito: le autorità tedesche rispondono che non possono dar di più ai prigionieri ed esortano gli ufficiali a rivolgersi alla madre patriaà tali condizioni di vita, poste a confronto con quelle dei prigionieri Francesi, Russi, Inglesi e Belgi, i quali dai loro governi ricevono abbondante vitto e vestiario, costituiscono uno stridente contrastoà (da eliminare) ad evitare che la tensione degli animi, cagionata dalle sofferenze, possa offendere il decoro del nostro paeseà"

Ma se il capitano Tassinari si preoccupava ancora del decoro, altre voci ci portano a conoscere una realtà ben più drammatica, dove ormai si parla solo di sopravvivenza. Sisto Tacconi, internato a Rasttat-Russenlager:
"à la fame continuata non ci faceva pensare più che al mangiare, al mangiare, al mangiare; si parlava di questo, si pensava questo, si ricordava questo; si viveva per una misera scodella di sbobba da maiali che veniva data due volte al giorno e per un tozzo di pane nero dal peso di 350 grammià".
La pagnotta andava divisa tra cinque persone e troviamo la descrizione del rito per tagliare le cinque fette, stando ben attenti a non perdere neppure una briciola di un "pane" composto perlopiù da patate, acqua e ghiande, con aggiunta di legno e paglia.

La fame fa escogitare un macabro espediente: nascondere il più possibile i cadaveri dei commilitoni, per poter usufruire per qualche giorno anche delle razioni che sarebbero spettate ai morti:
"à spesso questi morti non vengono denunciati subito: per poter fruire della loro razione di rancio, i compagni li tengono nascosti, ficcati sotto i pagliericci, finché il processo di decomposizione non rende insopportabile la loro presenzaà"

La disfatta, i patimenti, le privazioni, la fame spingono il tenente Falchi a riportare nel suo diario una citazione dell'Apocalisse:
"E in quei giorni gli uomini cercheranno la morte, e non la troveranno; e desidereranno di morire, e la morte fuggirà da loro".

Ma la morte non fuggì: centomila di quegli infelici morirono nei campi di prigionia, il quintuplo dei prigionieri delle altre nazioni, che non dimenticavano i loro figli in disgrazia. Le cause principali di morte furono due: la tubercolosi e la fame. Ma in quest'ultimo caso si annotava pudicamente nei registri una morte per " odem ", edema, perché la morte "per fame" ufficialmente non poteva esistere. Quanto alla tubercolosi, nota l'autore, "è difficile non identificare in questa tubercolosi di massa il processo finale di mesi e mesi di stenti, aggiunti al clima rigido dell'Europa centro settentrionale, affrontato senza le più elementari protezionià"

Ma prima di entrare nel girone infernale dei lager, ci narra Camillo Pavan, i prigionieri, che già avevano vissuto l'angoscia della resa, sperimentano i diversi comportamenti, ora vili, ora di splendida solidarietà umana, delle diverse popolazioni che incontrano sul lungo cammino verso i campi di concentramento. La fruttivendola di Gorizia che, fiutato il cambio del vento, rifiuta di dare qualche aiuto "a voi italiani", contrasta con la generosità degli abitanti di Lozzo, che cercano in ogni modo di dare conforti a quelle colonne di uomini stanchi e angosciati. E ciò che avviene a Lubiana, dove non pochi abitanti danno cibo ai prigionieri solo in cambio di quel che poco che essi ancora possedevano (una coperta, una mantellina, qualche capo di biancheria), fa scrivere al sergente Pennasilico sul suo diario una vera invettiva contro la città:
"Ricordalo Lubiana! Hai denudato infelici affamati sulla via dell'esilio! E questo mentre si avvicina il Natale, mentre le campane delle tue cento chiese chiamano i fedeli alla preghiera, insegnando loro ad amare il prossimo!".

Grazie, dunque, a Camillo Pavan, perché il suo nuovo libro ci permette di leggere un grande evento come Caporetto da un angolo di visuale finora nascosto, prima per voluta falsificazione della storia, persa nell'orgia di retorica risorgimentale (funzionale a tante altre coseà ), poi perché il tempo rischia sempre di seppellire tutti i ricordi. E leggendo il libro facciamo anche omaggio alla memoria di tanti nostri fratelli, morti dimenticati, se non addirittura ingiustamente bollati col marchio di disertori.

E per cercare di capire l'angoscia di quegli uomini, riportiamo ancora dal libro di Pavan un brano del diario del sergente Alessandro Pennasilico, che racconta l'ingresso al campo di concentramento di Milowitz (ora Milovice, nella Repubblica Ceca):
"Passiamo accanto a un cimitero, un abbandonato cimitero, senza monumenti, senza recinto. Molte croci di legno, tutte eguali. Domandiamo se quello è il cimitero del paese e ci vien detto che è cimitero dei russi, morti in prigionia. Questa notizia ci rattrista profondamente. Tutte queste croci si sono conficcate nel nostro cuore. E una tristezza ci accompagna, mentre le braccia delle croci affiorano nella neve, chiedendo pietà. Forse morremo anche noi in questo esilio, lontani da tutti, dalla Patria, dalla mamma. Con questi dolorosi pensieri, con questo stato d'animo così angosciato, entriamo (diciassettemila persone) nel recinto del campo di concentramento che è enorme. Sul cancello si legge: K.u.K. Kriegsgefangenenlager Milowitz. Un'immensità di baracche. Nere. Come il nostro umore. Reticolati altissimi, doppi, sentinelle ad ogni passoà".

Leggiamolo questo libro e riflettiamo su cos'è la guerra, scremata da ogni discorso di politica, arte militare, strategia: sofferenza, umiliazione, degrado, morte. Nella sua narrazione, profondamente partecipata, Camillo Pavan ci parla di un'umanità sofferente, in cui spesso prigioniero e carceriere si potrebbero scambiare i ruoli l'uno con l'altro, vittime entrambi di una follia che devastò l'Europa, e che non fu che il prodromo di un'altra follia, ancora più devastante, dopo neppure trent'anni.
Sbaglierebbe chi volesse qualificare l'opera di Pavan come "antimilitarista": tutte le definizioni impoveriscono. Noi crediamo che I prigionieri italiani dopo Caporetto si possa piuttosto definire un diario dell'uomo, tragico e splendido a un tempo, una narrazione della miseria umana, non di rado illuminata da sprazzi di fratellanza e di solidarietà, che incredibilmente riescono a sopravvivere anche negli orrori più profondi.
Infine è opportuno segnalare che i prigionieri italiani dopo Caporetto è anche un ottimo supporto per quanti, studiosi, appassionati, desiderassero approfondire gli argomenti trattati, nonché per chi desiderasse rintracciare il luogo di sepoltura di un disperso (e furono migliaia).
Il già citato elenco dei campi di concentramento è arricchito dall'elenco delle ambasciate e consolati d'Italia, che potranno dare assistenza a chi voglia condurre ricerche specifiche e localizzate nei vari paesi in cui i prigionieri vissero la loro odissea.

Abbiamo letto questo libro con vivo interesse e lo consigliamo a tutti i nostri lettori; aspettiamo l'amico Camillo Pavan al prossimo appuntamento, nella certezza che vorrà ancora farci partecipi delle sue fatiche di storico acuto e scrupoloso.

 

ultima ora

un navigante dopo aver letto questa pagina mi manda via e-mail dall'Ungheria
questa singolare testimonianza:


"Egregio Signori di Cronologia
Scrivo da una cittá ungherese, che si chiama Pécs. Leggendo la Vs pagina sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale vorrei informarVi che qui da noi nel cimitero giacciono soldati italiani caduti durante quella tragica guerra.


Ci sono 65 tombe di italiani qui seppelliti.
Purtroppo sulle tombe sono scritti solo i nomi dei soldati senza data di nascita di morte nè la loro provenienza.

Nessuno li ha mai onorati nè li ha mai reclamati!!
Dimenticati dalla Patria!

Elenco dei soldati italiani
( dimenticati ! )
seppelliti a Pécs (Ungheria)

Avalloni Giovanni sergente
Dalponte Ambrogio caporale

Baggiachi Francesco
Barbario Salvatore
Belfiglio Eugenio
Benetti Alberto
Bersoni Giulio
Biffi Pietro
Bilotti Emilio
Birbi Pietro
Borsotto G. Battista
Bruni Luigi
Camorati Saverio
Capraro Giovanni
Carre Antonio
Chiarelli Tomaso
Cikovic Armando
Concini Secondo
Dal Brun Antonio
Diani Luigi
Dinarich Oscare
Dinopati Santino
Emaldi Natale
Friello Stefano
Galotti Giacomo
Garanti Luigi
Guidi Giuseppe
Host Antonio
Jankivich Giulio
Lai Antonio
Langomarino Giacobbe
Lansotti Emilio
Lasol Romano
Ligabue Umberto
Livi Gioacchino
Madalio Rocco
Magovero Matteo
Mambretti Azelmo
Marcucetti Giuseppe
Masi Ariomeno
Michelic Rodolfo
Moglia Francesco
Montanari Francesco
Monton Vizzorio
Nicolo Alfonso
Petraccio Placido
Pogorzevac Giovanni
Raccioppi Andrea
Rakicic Alessandro
Rossi Americo
Rulli Oreste
Sambasile Vincenso
Scaramucic Andrea
Scarigatore Luca
Scoppi Gaetano
Seegner Adalberto
Soave Zelindo
Svara Giuseppe
Tarasconi Massimo
Valtorta Giuseppe
Venuti Giuseppe
Vurtacin Andrea
Zanata Vittorio
Zoldan Quirino
Zudic Giovanni


Saluti: Sárics Jenõ
Pécs (Ungheria) 13-11-2006

"TI FACCIO SAPERE QUALCOSA DI PIU' NEI PROSSIMI GIORNI
DOPO AVER FATTO ALCUNE RICERCHE NEI REGISTRI DEL CIMITERO".

 

 

12-12-2006
"ecco cosa sono riuscito a leggere -
ma a breve intensificherò ancor più le ricerche,
visto che sei stato così sensibile ad occupartene.
"ECCO COSA HO TROVATO ! il alcuni dei 53 I NOMI DEI SEPOLTI che sono riuscito a stento a leggere.
PROBABILMENTE I NOMI DEI PAESI E CITTA' SONO DISTORTI"


"COME VEDI DALLE DATE SONO TUTTI MORTI NEL CORSO DEL PRIMO e SECONDO ANNO".
(dopo chissà quale "odissea" - denutrimento, malattie, angosciosa solitudine, ecc.)

nome

localitá di nascita'

anni

morte

Avalloni Giovanni sergente

 

22

1918 06 27

Anafossi Carlo Lardirago
36
1918 05 25
Ansoldi Enrico Cremona
34
1918 04017

Baggiachi Francesco

Pietralunga

36

1918 05 28

Barbario Salvatore

Cefala' Diana

26

1918 05 26

Belfiglio Eugenio

 

21

1918 07 10

Bersoni Giulio

 

42

1918 02 21

Biffi Pietro

Bari

22

1918 10 26

Bilotti Emilio

Merano Principiato ?

25

1917 06 27

Borsotto G. Battista

Barnetto ?

35

1918 04 15

Bruni Luigi

 

 

1918 10 24

Camorati Saverio

 

 

1918 11 06

Capraro Giovanni

Belluno Palacastello ?

20

1919 01 27

Caranta Luigi Torino
20
1918 09 11

Carre Antonio

Pecanca Riggo ?

22

1918 09 08

Chiarelli Tomaso

 

 

1918 11 06

Cikovic Armando

 

24

1918 14 11

Dal Brun Antonio

Sarcedo àVe....?

20

1918 05 02

Dalponte Ambrogio caporale

(Vichiano) Bellino ?

24

1918 11 18

Diani Luigi

 

22

1916 06 28

Dinopati Santino

Pernate

30

1918 11 03

Friello Stefano

Caiazzo (Caresto)

30

1918 06 28

Galotti Giacomo

Bari

23

1918 05 17

Grosso Michele
Grammichele
21
1918 04 27

Guidi Giuseppe

Alessandria

30

1918 03 29

Host Antonio

 

47

 ?

Jankivich Giulio

 

 

1917 04 13

Lai Antonio

Perves Dio Iogo ?

26

1918 07 17

Leoppi Gaetano Borgetto
21
1918 11 05

Ligabue Umberto

Rozemili ?

 

1918 06 06

Livi Gioacchino

Barbano di Lulu ?

36

1918 10 18

Madalio Rocco

 

24

1918 10 07

Magovero Matteo Castelnuovo
23
1917 09 15

Mambretti Azelmo

Caldarette Varesi ?

24

1918 06 05

Marcucetti Giuseppe

(Ortuànasina) ?

24

1919 03 06

Masi Ariomeno

 

20

1918 07 14

Moglia Francesco Cremona
27
1917 05 22

Montanari Francesco

Mazzia Carbe ?

40

1918 10 06

Monton Vizzorio

Fiume

29

1916 07 06

Nicolo Alfonso

 

 ?

1918 06 02

Petraccio Placido  
20
1919 06022

Raccioppi Andrea

 

34

1918 07 05

Romano Barol Longarone
24
1918 11 02
Rossi Americo Aforense Osento (?)
26
1918 06 23
Sambasile Vincenso Lentine
26
1918 12 13
Scaramucic Andrea  
39
1917 04 04
Scarigatore Luca Reggio Emilia
30
1918 11 26

Soave Zelindo

 

22

1917 07 10

Tarasconi Massimo Parma
21
1918 05 09

Valtorta Giuseppe

  ?

29

1918 08 13

Venuti Giuseppe Sanpietro
27
1915 02 23
Vurtacin Andrea Rastelenzo (?)
22
1919 02 16
Zanata Vittorio Treviso
27
1918 11 15
Zoldan Quirino Langarano(?)
19
1918 06 24

 

"Poveri figli d'Italia! La cui unica colpa fu di cadere prigionieri del nemico -avrebbe potuto accadere a tutti, anche a quelli ora sepolti nei sacrari, che oggi vengono visitati da turisti, parenti e studiosi. NON VA BENE. Non va per niente bene. Secondo me non furono ne' i peggiori, ne' i migliori a cadere prigionieri. Fu un colpo di sfortuna, di esser al posto sbagliato al momento sbagliato. Per questo trovo oltraggiosa questa discriminazione tra caduti di serie A e caduti di serie B".(Un sottoscrittore)

(Pecs, è una bellissima bimillenaria città ungherese di 160.000 abitanti, la sua provincia confina con la Croazia; al tempo dell'impero romano era la capitale della Pannonia. Singolarità - la bandiera ungherese ha gli stessi colori di quella italiana: bianco, rosso e verde, in fasce orizzontali).