LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1917

CAPORETTO: L'ESERCITO ITALIANO, I MALINTESI - INIZIA L'ATTACCO

LO SCHIERAMENTO DELL'ESERCITO ITALIANO NELL'OTTOBRE DEL 1917 - DISEGNO DI OFFENSIVA AUSTRO-TEDESCA - I MALINTESI FRA I GENERALI CADORNA E CAPELLO - LE NOTIZIE DEL NEMICO - LE FORZE ITALIANE E IL LORO SCHIERAMENTO NELLA NOTTE SUL 24 OTTOBRE - IL FUOCO DELL'ARTIGLIERIA NEMICA E L'ATTACCO DELLE FANTERIE AVVERSARIE - SFONDAMENTO AUSTRIACO DEL FRONTE - I TEDESCHI A CAPORETTO - LE VICENDE DELLA BATTAGLIA NEI GIORNI 25 E 26 - SI COMBATTE CON I SASSI - INIZIA IL RIPIEGAMENTO
----------------------------------------------------------------------------------------------------


LO SCHIERAMENTO DELL'ESERCITO ITALIANO
IL PIANO OFFENSIVO AUSTRO-TEDESCO CONTRO L'ITALIA
MALINTESI TRA I GENERALI CADORNA E CAPELLO


PRIMA, DURANTE, DOPO CAPORETTO (1917) E DOPO IL 4 NOV 1918

 

Nei capitoli precedenti, abbiamo visto che per tutto il corso della guerra, costantemente continuò in crescendo l'atteggiamento inflessibile del generale CADORNA, sull'obbedienza cieca, sulle punizioni esemplari per i "codardi" (perfino con la "decimazione" sul campo), e i suoi anatemi sulla propaganda dei disfattisti o dei pacifisti d'ogni risma; e fra questi anche i cattolici e perfino il Papa, che non erano certo di sinistra.
Continuò ostinato fino alla vigilia di Caporetto, senza però mai riuscire a capire che in questa guerra di massa, lo stile di comando richiedeva uno stile tutto diverso. Invece, non faceva affidamento solo nei suoi metodi brutali, ma incitava costantemente i suoi comandanti ad assumere una linea inflessibile di fronte alla minima trasgressione. Cadorna era un uomo austero, un militare della vecchia casta militare piemontese, autoritario, sprezzante verso i borghesi, e aveva una visione austera dei suoi ufficiali.
Fino alla vigilia di questa battaglia conclusasi con una disfatta, aveva già destituito 217 generali e 255 colonnelli. Questo costante rimescolamento dei comandi (a parte il morale basso per gli inconcludenti attacchi, oltre per le gravissime perdite) non contribuì certamente all'efficienza dell'esercito; che non era un "esercito di professionisti", ma composto di circa 5 milioni di "richiamati" uomini maturi, strappati all'improvviso a ondate dalle loro case e attività, e la maggior parte erano contadini e braccianti agricoli; e metà di questi (per lo più utilizzati nei reggimenti di fanteria in prima linea, per l'assalto alla baionetta - gli uomini alti 1,50-1,60 di media ! il loro '91 con la baionetta in canna misurava 2,10 !) erano meridionali. Quelli settentrionali (escludendo i reparti di Alpini che fecero cose veramente straordinarie) di solito servivano in unità più tecniche, distanti dalla prima linea e dai pericoli, ed erano di leva.

La situazione non era molto diversa negli ufficiali di livello inferiore, che non erano militari di carriera, ed erano pure loro circa la metà meridionali. All'entrata in guerra l'Italia aveva soltanto 15.000 ufficiali di ruolo, mentre alla vigilia di Caporetto 160.000 giovani -non contadini ma inesperti come loro- erano stati promossi ufficiali. Ed anche questi, circa la metà meridionali, chiamati a fare una guerra per la prima volta nel settentrione per ragioni che per molti di loro (e ancora di più i loro sottoposti) erano incomprensibili; non c'era da meravigliarsi se erano rari gli ideali nazionali, né per loro avevano un significato quelle distese di roccia attorno all'Isonzo dove -per conquistarle o per difenderle- erano già morti circa 500 mila uomini.

Inoltre fra questi vecchi e nuovi ufficiali di quest'altra metà dell'Italia, poiché erano stati massicciamente impiegati sul campo, in prima linea, ben presto proprio sul campo (molto spesso facendosi onore), misero in crisi la vecchia casta militare settentrionale che aveva tutto un altro carattere: alla Cadorna. E quindi non solo sul campo ma poi anche nel quartier generale i contrasti non furono pochi e le incomprensioni tante.
Con i politici poi non vi erano -fra Comando e Governo- solo incomprensioni ma si era ai ferri corti. CADORNA chiese al governo, le dimissioni di ORLANDO, ma poi il ministro della guerra diventato presidente del consiglio si prese la sua rivincita e dopo Caporetto fu lui a destituire CADORNA.

Con questa situazione -da più parti conflittuale oltre che per la grave crisi di sfiducia- e dopo gli interventi ottimistici e bellicosi in Parlamento (che abbiamo letto nel precedente capitolo: "venga pure l'attacco, noi non lo temiamo") l'esercito italiano si presentava sui campi di battaglia al fatale appuntamento in queste condizioni non certo ideali; fra l'altro, i loro comandanti non sapevano né dov'era il vero campo di battaglia, ne avevano deciso cosa fare se una difensiva o una offensiva.

Eppure l'Austria, dopo la battaglia della Bainsizza, era in gravi difficoltà; ma sfruttando la grave crisi politica e militare italiana, e il disimpegno di alcune divisioni sul fronte russo, si persuase della necessità di lanciare una controffensiva prima dell'inverno. Tedeschi e austriaci metteranno a punto un grande piano offensivo, che nella sua sostanza, era una normale operazione bellica, con delle buone ragioni tattiche e con una perfetta strategia; che ebbe il desiderato successo (problemi identici a quelli italiani -stanchezza, sconforto, contrasti nei comandi, e grave crisi- vennero fatalmente poi dopo).

LO SCHIERAMENTO ITALIANO

Lo schieramento dell'esercito italiano al fronte nell'autunno del 1917 era il seguente: dallo Stelvio al Garda il III Corpo Autonomo (gen. CAMERANA); dal Garda alla Valsugana la I Armata (gen. PECORI-GIRALDI), composta dei Corpi d'Armata V, X, XX, XXII, XXVI e XXIX e di una riserva in Bassano; dalla Valsugana al Paralba la IV Armata (gen. ROBILANT), formata dei Corpi d'Armata I IX e XVIII; dal Paralba al Canin il XII Corpo Autonomo o Gruppo Carnico (gen. TASSONI); dal Rombon al Vippacco la II Armata (gen. CAPELLO), costituita dai Corpi IV, XXVII, XXIV, II, VI, VIII, VII, XIV e XXVIII; dal Vippacco al mare la III Armata (com. DUCA D'AOSTA), composta dei Corpi d'Armata XI, XIII, XXIII, XXX e XXV.

Della II Armata, il IV Corpo (gen. CAVACIOCCHI), divisioni 50a, 43a e 46a, guardava il tratto Rombon-Cabria; il XXVII (gen. BADOGLIO) aveva le divisioni 64a, 22a e 65a sulla sinistra dell'Isonzo, nella Bainsizza superiore, e la 19a al monte Jezza, sulla destra del fiume; il XXIV (gen. CAVIGLIA) teneva con le divisioni 10a, 68a e 49a la Bainsizza inferiore; il II (gen. MONTUORI), divisione 8a, 44a e 67a, stava dal margine sud della Bainsizza al San Gabriele; il VI (gen. LOMBARDI), divisioni 24a e 66a, presidiava la parte nord dell'anfiteatro goriziano, mentre la parte meridionale era presidiata dall'VIII (gen. GRAZIOLI) con le divisioni 7a, 59a e 48a. Le seconde linee erano presidiate dal VII (gen. BUONGIOVANNI), divisioni 3a e 34a; dal XIV (gen. SAGRAMOSO), divisioni 30a e 25a e dal XXVIII (gen. SAPORITI), divisioni 23a e 47a.

Dalla III Armata, l'XI (gen. PENNELLA) si stendeva da San Grado a Castagnevizza con le divisioni 58a e 31a; il XIII (gen. SANI), divisioni 54a e 14a, da Castagnevizza a Selo di Monfalcone; il XXIII (gen. DIAZ), divisioni 45a, 28a e 61a, da Solo di Monfalcone alla foce del Timavo. Presidiavano le seconde linee il XXX (gen. ETNA), divisioni 21a e 16a, e il XXV (gen. RAVAZZA), divisioni 33a e 40a.
Il COMANDO SUPREMO (Cadorna) disponeva, come riserve, della 60a divisione a Ipplis, della 13a fra S. Martino e Sagliano, della 53a presso Cividale, della 4a brigata bersaglieri tra S. Pietro al Natisone e Polava, della 63a e 33a a Palmanova, del XXX Corpo fra Rivignano e Talmassone. La II Armata aveva come riserve il XXVIII Corpo fra Canale-Desda, Cormons, Podresca e Liga, il XIV fra Prepotto-Plava e Anhovo, il VII fra Savogna, Drenchia e Purgessimo, la brigata "Potenza" e la 2a divisione di Cavalleria.
Riserve della III Armata erano: la 4a e 20a divisione presso Palmanova e la 1a divisione di Cavalleria a Motta di Livenza. Inoltre riserva speciale del XXVII Corpo formavano le Brigate Puglie e Roma e il 10° gruppo alpino (battaglioni Vicenza, M. Berico, Morbegno).

L'ESERCITO AUSTRIACO

Di fronte alle truppe italiane stava schierato l'esercito austriaco diviso in tre gruppi, uno sul fronte trentino al comando di CONRAD, il secondo sul fronte carnico al comando di KROBATIN, il terzo sull'Isonzo al comando di BOROEVIC. Quest'ultimo era il gruppo più forte e fronteggiava la III e la II Armata su una linea che, specialmente nel tratto dal Vippacco al Rombon, presentava maggiore solidità di quella italiana.
Il sistema difensivo sulla fronte della II Armata era costituito: da una "linea avanzata", che dal Rombon scendeva a Plezzo, attraversava l'Isonzo alla foce dello Slatenik, raggiungeva la sella di quota 1270 tra il Krasji e il Vrsic, lambiva le creste rocciose del Monte Nero comprendendo il Monte Rosso e, per le pendici dello Sleme e del Mrzli, scendeva all'Isonzo presso Gabria; quindi per Volzana e Cigini saliva a Feseniak fronteggiando la testa di ponte di Tolmino; da una "linea di difesa ad oltranza" che si appoggiava al Canin, sbarrava la stretta di Saga, coincideva per un buon tratto con la linea avanzata, scendeva poi per Pleka all'Isonzo fra Kmno e Volaria, saliva alla Costa Raunza e a Jeserniak, continuava fino alla cresta di Case Camponi e ridiscendeva all'Isonzo a un chilometro a sud di Selo; e da una "linea d'armata", che sbarrava Valle Uccea tra M. Guarda e M. Musié, correva lungo la cresta dallo Stol allo Starinskj, scendeva all'Isonzo, comprendeva la testa di ponte del Volnik, ripassava sulla destra del fiume ad est di Idersko, saliva alla vetta del M. Kuk e per la dorsale del Kolovrat andava al passo di Zagradam, al M. Jeza e al M. Globoeak, svolgendosi quindi per Liga, M. Corada e Planina.

Dalla "linea d'armata" se ne staccava un'altra, appena tracciata, a nord-ovest di Caporetto che passava ad ovest di Staroselo, si svolgeva sulle falde settentrionali del Matajur fino al M. S. Martino. Dal passo di Zagradam partiva una breve linea che allacciava questo passo con la linea che univa Monte Xum col Globocak. Dallo Xum, una linea appena abbozzata percorreva da un lato la dorsale fra l'Iudrio e il Natisone e dall'altro per il M. Kuk si allacciava a quella della dorsale del Kolovrat. Appena iniziata era la costruzione di tre linee di difesa sulla Bainsizza.

Contro il fronte della II Armata, sul finire dell'estate del 1917 -l'abbiamo accennato già sopra- Austria e Germania, preoccupate dei progressi fatti dall'Italia sull'altipiano della Bainsizza, stabilirono di sferrare una potente offensiva. A tale scopo fu costituita con 7 divisioni germaniche e 9 austriache, un'armata (14a mista), che fu messa sotto il comando del generale tedesco OTTO VON BELOW e fu incuneata fra l'estrema sinistra del Raggruppamento carnico del Krobatin e l'estrema destra della II Armata austriaca (gen. WURM) dell'"Isonzo Armee" del Boroevic.
Per ingannare il Comando italiano sulla direzione dell'attacco e far credere che questo dovesse essere sferrato dal Trentino si fecero passare attraverso il passo del Brennero le truppe germaniche provenienti dal fronte franco-inglese e alcune di quelle provenienti dal fronte russo-romeno.

Azioni dimostrative dovevano essere fatte sul fronte tridentino. Le due armate del Boroevic II (gen. WURM) e I (gen. HENRIQUEZ), dovevano tener fortemente impegnate le armate italiane antistanti. Il compito dello sfondamento era affidato alla 14a Armata, la quale doveva rompere la linea italiana tra Plezzo e Tolmino e portarsi sulla fronte Tarcento-Cividale-Corada-Sabotino, fortemente appoggiata dall'ala destra della II Armata austriaca, che prima doveva trattenere a lungo le truppe italiane della Bainsizza, e, avvolgendole da nord e da est, doveva poi avanzare sulla linea di confine a nord-ovest del Corada-M. Santo-San Gabriele.

Il generale von BELOW divise la sua Armata in quattro gruppi: il 1° (KRAUSS) composto di tre divisioni austriache (3a Edelweiss, 22a Schutzen e 55a) e di una germanica (JÀGER) disteso dal Rombon al Vrata; il 2° (STEIN), composto di una divisione austriaca (50a) e di due germaniche (12a Assiana ed Alpenkorps), dal Vrata a Volzana; il 3° (BERRER), composto di 3 divisioni germaniche (200a, 5a e 26a) da Volzana a S. Lucia; il 4° (SCOTTI), costituito da tre divisioni austriache (la 33a e 35a) da S. Lucia al Lom di Tolmino.

Il gruppo Krauss ebbe l'ordine di irrompere tra Plezzo e Monte Nero, superare la stretta di Saga, risalire con parte delle sue truppe la valle Uccea aggirando il Monte Stol e col resto scendere a Caporetto. Il gruppo STEIN ebbe il compito di irrompere con la 50a divisione dallo Sleme e dal Mrzli spingendosi fino alla linea Pleka-Spika, di procedere con la 12a divisione Assiana su Caporetto per le due rive dell'Isonzo, mirando principalmente al Matajur, e di conquistare con l'Alpenkorps Costa Rauzza e Costa Duole e procedere per cresta verso occidente; il gruppo BERRER doveva dare man forte al II gruppo, attaccare la regione di Monte Jeza e puntare su Cividale; il gruppo SCOTTI infine doveva mirare al Kradvrh, aiutare Berrer nella conquista del massiccio del Jeza e tendere da Prepotto a Cividale.

Sebbene il 14 settembre gli Imperi centrali avessero ordinato la chiusura della frontiera svizzera per nascondere i loro movimenti, il Comando Supremo italiano non credeva all'imminenza di un attacco, ma a fargli mutar parere valse il continuo accrescersi delle forze avversarie sul fronte Giulia, e il 18 settembre (lo abbiamo citato nelle precedenti puntate) CADORNA ordinò ai comandi della III e della II Armata
"di rinunciare alle progettate operazioni offensive e di concentrare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa ad oltranza".

L'ordine di Cadorna non riuscì gradito al generale CAPELLO, il quale era persuaso che "di fronte ad un'offensiva strategica in grande stile, nessun'altra manovra può dare risultati decisivi se non una corrispondente controffensiva strategica in grande stile, o meglio ancora una pronta offensiva che sorprenda il nemico in crisi di preparazione".

Ma poiché il "generalissimo" aveva ordinato di mettersi sulla difensiva, per non contravvenire alle disposizioni del Comando Supremo e ai propri principi, CAPELLO decise di integrare la "difesa ad oltranza" con una poderosa controffensiva da sferrarsi in condizioni tali da far fallire fin dall'inizio l'attacco nemico.
A questo concetto s'ispirarono tutti gli ordini impartiti fino al 19 ottobre da CAPELLO ai comandi da lui dipendenti. In un ordine emanato l'8 ottobre, impartite direttive di carattere tattico sul modo di condurre la difesa (resistenza accanita nelle prime linee, contrattacchi contro i fianchi del nemico da attanagliarlo nelle zone ove fosse riuscito a sfondare la prima linea), il generale Capello aggiungeva:

"Non bisogna dimenticare che spesso un'offensiva nemica arginata e paralizzata può dare favorevole occasione per una più grande azione controffensiva. Ciò può essere tanto più vero in questo momento in cui noi abbiamo notevole superiorità morale sul nemico. Ho già indicato in precedenti comunicazioni quali sono le direzioni più favorevoli per un contrattacco da spingersi a fondo. Per intanto, per quanto riguarda le forze a disposizione dei corpi d'Armata, posso precisare che per le truppe che sono sull'altopiano di Bainsizza, il primo obiettivo è il raggiungimento dell'orlo dell'altopiano stesso sul Vallone di Chiapovano. Per II Corpo il raggiungimento della soglia di Ravnica; per il VI estendere l'occupazione sul S. Gabriele, specialmente ai lati e sopra tutto poi verso S. Caterina"; e terminava prescrivendo "essere necessario che tutto sia predisposto in modo che il meccanismo della difesa e della controffensiva, in pieno accordo tra fanteria, ed artiglieria, possa svolgersi automaticamente anche se il fuoco arrivasse a distruggere completamente ogni comunicazione".

CADORNA, con lettera del 10 ottobre, dichiarò che "approvava in linea di massima le direttive comunicate", ma disapprovò la dislocazione delle truppe e lo schieramento delle artiglierie ed ordinò che il XXVII Corpo d'Armata gravitasse con la maggior parte delle forze sulla destra dell'Isonzo e che i medi calibri non rimanessero sull'altipiano della Bainsizza che quelli più mobili.

II generale CAPELLO desideroso che il Comando Supremo non soltanto in linea di massima approvasse le sue direttive, sollecitò un colloquio con il "generalissimo", e, non avendo potuto ottenerlo, s'incontrò prima con il generale PORRO, sottocapo di Stato Maggiore, poi con il colonnello CAVALLERO, della segreteria del generale Cadorna.
Al primo dichiarò che
"…qualora si fosse manifestato il previsto attacco nemico, lui avrebbe avuto in animo di sviluppare una manovra controffensiva dal fronte del XXVII Corpo, e per questa manovra sarebbe stato necessario conservare una congrua quantità d'artiglierie sulla sinistra dell'Isonzo".

Mentre al secondo sostenne che "considerava una decisa controffensiva come il mezzo più sicuro per rintuzzare l'attacco nemico, e che tale controffensiva si proponeva di svilupparla dalla conca di Vhr - direzioni probabili di tale controffensiva- da un lato quella di Veliki-Selo ed oltre, dall'altra quella di Ravnica".

CADORNA forse informato del contenuto di questi incontri, il 17 ottobre, spedì a CAPELLO il seguente telegramma:
"V. E. se attaccato, può fare assegnamento sulle forze di cui attualmente dispone con le quali pertanto è necessario provveda alla costituzione delle progettate masse di manovra. Per il migliore inquadramento di questo, dispongo che V. E. passi alla dipendenza del Comando VIII Corpo d'Armata tenuto da Gen. BONGIOVANNI.
Per quanto riflette le artiglierie V. E. può fare assegnamento su quelle di cui attualmente dispone schierandole nel modo migliore per l'attuazione del concetto di manovra esposto. Fino tanto che non sarà ben chiarita l'estensione e la direzione offensiva nemica, non posso consentire spostamento comando gruppi e batterie ed un pezzo per batteria del nucleo d'artiglieria mobile tenute pronte presso Comando della III Armata. Ne comunico a parte l'esatta composizione. Dispongo che siano dalla I Armata posti a disposizione V. E. un reggimento da campagna e due gruppi di montagna".

Da questo telegramma il generale CAPELLO ebbe la persuasione che CADORNA approvasse in linea di massima il suo concetto operativo; ma il 19 ottobre fu disingannato. Quel giorno CAPELLO e CADORNA ebbero un incontro a Udine. Il generalissimo approvò pienamente il concetto di controffensiva tattica, basato sull'attanagliamento; ma disapprovò il concetto della grande controffensiva d'Armata.
Non pago del colloquio, il giorno dopo CADORNA confermava i suoi intendimenti con una lettera a Capello, in cui vi era detto:

"Il disegno di V. E. di contrapporre all'attacco nemico una controffensiva di grandissimo stile è reso inattuabile dalla presente situazione della forza presso le unità di fanteria e dalla gravissima penuria di complementi. V. E. conosce l'una e l'altra e sa che per questo appunto ho dovuto, con grande rammarico, rinunciare alla seconda fase della nostra offensiva
(quella fermata alla Bainsizza - Nda), fase che si delineava promettente di fecondi risultati. Ciò posto è necessario di ricondurre lo sviluppo del principio controffensivo, base di ogni difesa efficace, entro i reali confini che le forze disponibili ci consentono. Il progetto della grande offensiva di armata ad obiettivi lontani deve essere abbandonato; esso ci condurrebbe in sostanza a sviluppare una grande offensiva di riflesso non meno costosa di quella seconda fase alla quale già abbiamo rinunciato.
Troveranno posto, invece, nel quadro d'una tenace difesa attiva, risoluti contrattacchi, condotti da truppe appositamente preparate ed ispirati a quel concetto dell'attanagliamento ben delineato dell'E. V., ma con carattere locale, contenuti, cioè, entro il raggio tattico, per mantenere la difesa nei limiti dell'indispensabile economia".


Lo stesso giorno 19 ottobre, dopo il colloquio avuto con il generalissimo, CAPELLO ordinò ai comandanti di Corpo d'Armata di assumere contegno difensivo, ma li ammonì di contare "unicamente sulle proprie forze" perché "sottrarre all'Armata le riserve sarebbe imporle rinunzia all'azione controffensiva e alla possibilità di un grande risultato".

Il giorno dopo (forse per aver ricevuto la lettera di Cadorna citata sopra) il generale CAPELLO, colto da un eccesso uricemico, chiese e ottenne una brevissima licenza, sulla quale molto si malignò; e durante la sua assenza lasciò il comando dell'Armata al generale MONTUORI, il quale fu sostituito nel comando del Il Corpo dal generale ALBRICCI.

Giungevano, intanto, notizie sul nemico, le quali in verità non erano mai mancate, infatti, fin dal 25 settembre dal Centro italiano d'informazioni di Berna si era saputo che gli Austriaci preparavano una grande offensiva su due direzioni; il 7 ottobre l'ufficio informazioni, dagli indizi e dalle notizie raccolte, aveva concluso esser probabile l'offensiva sul medio Isonzo con il concorso di truppe germaniche e azione dimostrativa nel Trentino.
Il 20 ottobre alle linee italiane del Vodil si presentò un ufficiale disertore czeco, il quale riferì che il nemico avrebbe sferrato l'offensiva nella conca di Tolmino, mirando al Kolovrat dopo aver sfondato le linee Dolje e Santa Maria. Secondo lui l'azione avrebbe avuto inizio il 26 e il concorso tedesco sarebbe stato sicuro; difatti un contingente germanico era pronto fra il Vodil e Santa Maria.

Ma l'Ufficio Situazioni del Comando Supremo Italiano si manteneva scettico e il 21 riferiva che la notizia della presenza di divisioni germaniche di fronte alle linee italiane era da accogliere con molte riserve. Però lo stesso giorno 21 due ufficiali rumeni anche loro disertori si presentavano alle linee del Vodil, affermavano imminente l'offensiva nemica, portavano copia del piano d'attacco contro la posizione del Mrzli e la linea retrostante del Pleka, asserivano che l'attacco risolutivo sarebbe avvenuto nel settore Plezzo-Selo e precisarono pure che dal Monte Nero al Vodil avrebbe operato la 50a divisione.

Dopo le informazioni fornite dall'ufficiale czeco e dagli ufficiali rumeni, nessun dubbio poteva più sussistere, e il generale MONTUORI prese alcuni importanti provvedimenti riguardanti spostamenti ed arretramenti di batterie, trasferimenti di reparti da un corpo ad un altro, modifiche dei fronti del IV e del XXVII Corpo d'Armata; quindi, quello doveva provvedere alla difesa sulla sinistra dell'Isonzo, questo alla difesa di tutta la riva destra, intorno alla testa di ponte di Tolmino, fino a Solo.

Il 22 ottobre mattina, il generale CADORNA andò a Creda dal generale CAVACIOCCHI, comandante del IV Corpo d'Armata, il quale, richiesto se le forze di cui disponeva fossero sufficienti, rispose negativamente. Il generalissimo lo rassicurò affermando "improbabile e, in ogni caso, non temibile un'offensiva austro-tedesca", ed assegnò per la difesa di Saga la 34a, divisione, composta della brigata "Foggia", che fu tolta al VII Corpo. Dei tre reggimenti della brigata il 280° fu mandato a Saga, il 281° e il 282° furono tenuti a Caporetto.

Il 22 ottobre, a mezzogiorno, sul Vrsic, fu intercettata una comunicazione telefonica del nemico, la quale annunciava che l'offensiva avrebbe avuto inizio la notte dal 23 o prime ore del 24. Quel giorno stesso, il generale CAPELLO telegrafò da Treviso che, guarito, riprendeva il suo posto. La sera era a Cividale, e informato delle notizie date dagli ufficiali nemici disertori, ordinò che la brigata "Potenza" (reggimenti 271°, 272° e 273° partisse da Faedis, dove si trovava, e per la mulattiera di Conebola, si portasse a Sedula e vi rimanesse a disposizione del Comando d'Armata.
Il mattino del 23 CAPELLO era pure lui a Creda a informare il generale CAVACIOCCHI, che, oltre le brigate "Foggia" e "Potenza", gli avrebbe mandato anche la "Massa" e "Carrara". Gli promise inoltre un'altra brigata, di cui doveva essere mandato un reggimento a Saga e l'altro sullo Stol, e 17 batterie di medio calibro, delle quali, però, soltanto due, da 105, giunsero il 24. A CAVACIOCCHI, Capello ordinò di sostenere forte resistenza sulla linea di difesa avanzata.

Nella stessa mattina del 23 il generale CADORNA aveva a Carraria (Cividale) un colloquio con il generale BADOGLIO di cui approvò le disposizioni prese in vista dell'attacco nemico. Nel pomeriggio CAPELLO riuniva a Cividale i dipendenti comandanti di Corpo d'Armata e i comandanti d'artiglieria e del genio d'Armata, esponeva loro i disegni del nemico, prospettava le gravissime conseguenze della riuscita di quei piani e sosteneva che, con i rinforzi concessi al IV e al XXVIII Corpo, con lo spostamento del VII dietro le ali interne dei due Corpi suddetti e con le altre riserve confidava che l'urto nemico sarebbe stato contenuto in modo da permettere alle riserve generali di manovrare.

Lo stesso giorno 23 da un'intercettazione telefonica della stazione dello Sleme si veniva a conoscere l'ora esatta dell'inizio del bombardamento nemico: le ore 2 del 24 ottobre. Oramai si sapeva con sufficiente precisione l'ora e il giorno dell'attacco, l'entità delle forze nemiche, il piano d'operazione dell'avversario; ma era ormai troppo tardi !

"Troppo tardi - scrise più tardi Volpe- per attuar tutte le misure relative al mutamento di piano! Peggio ancora: parte attuate e parte no. Cioè non eravamo più disposti né per un'offensiva e neppure per una controffensiva strategica, come CAPELLO e BADOGLIO volevano; e non ancora per la difensiva o controffensiva tattica, come voleva CADORNA; e come Cadorna aveva bene spiegato a Capello il 19 ottobre e come aveva ribadito anche per iscritto. Troppa grossa artiglieria in posizioni avanzate. Troppi uomini addossati sulle prime linee. Sguarnite oppure vecchie e malandate, invece, le linee e fortificazioni retrostanti e destinate alla difesa successiva.
Troppe unità sull'altipiano della Bainsizza, in confronto di quelle messe a custodia della valle Isonzo, da Tolmino a Plezzo. Troppo gravitante a destra la II Armata, mentre al centro e al nord si annunciavano gli attacchi nemici in gran forza. Poca cosa le sue riserve, avendole Cadorna rifiutate ad un'Armata che contava già 330-340 battaglioni e poteva costituirsele da sé. Di riserve centrali, a disposizione del Comando Supremo solo due nuclei, non troppo organici e molto lontani, a sud: vuoi che così volesse la direzione delle strade, oblique e non perpendicolari al fronte della II Armata, vuoi che così consigliasse il sempre vivo sospetto che il nemico la sua vera offensiva l'avrebbe fatta nel Goriziano e nella Bainsizza.
Perché, in fondo, a questa offensiva nemica noi non attribuivamo altro scopo, se non di riprenderci gli ultimi nostri acquisti: quasi che gli Austro-Germanici, passando all'offensiva, dovessero tener molto a quelle posizioni cui molto avevano mostrato di tener nella difensiva. Insomma, sul fronte orientale, gran parte delle nostre forze erano proiettate oltre Isonzo. Di qua dall'Isonzo, forze minime, almeno a portata di mano. E di queste forze d'oltre Isonzo, la parte di gran lunga maggiore era schierata dalla Bainsizza al mare, il resto, cioè poco più di 1 Corpo d'armata, sopra 9, dalla Bainsizza a Plezzo. Guai se il nemico avesse attaccato al nord della Bainsizza e fosse riuscito lì a passare il fiume!
Così la fortuna dell'anticipata conoscenza del piano nemico poco o nulla ci giovò. La situazione nostra risultante da un lungo concatenamento di eventi e di pensieri, non poteva esser mutata da una rivelazione casuale dell'ultimo giorno. Si sarebbe potuto forse, sopra una parte del fronte della II Armata, passar dalla linea avanzata alla linea di resistenza, che per molto tratto era alquanto più indietro e più breve: ciò che avrebbe permesso di costituir una riserva e di parar meglio, alla dovuta distanza, il colpo. Ma neanche questo si fece. Le riserve furono fatte venire in parte dalla I Armata e giunsero tardi, stanchissime, alcune senza artiglierie e senza mitragliatrici, lasciate indietro nella marcia affrettata, fra i monti, ignare del terreno, senza collegamenti con le unità della II Armata. Si ebbe così un altro Corpo d'Armata, assai smilzo, alle spalle del IV e del XXVII Corpo, comandato dal gen. BONGIOVANNI.
Il lavoro degli ultimissimi giorni ebbe, in questo settore, carattere quasi di improvvisazione, per quanto riguarda le riserve, l'occupazione di linee arretrate, la dipendenza di unità e reparti, i collegamenti loro ecc. Molto fare e disfare, molti ordini e contrordini. E, naturalmente, il 24 ottobre quel lavoro era lontano dall'essere compiuto (Volpe)".

L'ATTACCO AUSTRIACO
VICENDE DELLA BATTAGLIA NELLA GIORNATA DEL 24 OTTOBRE
I TEDESCHI A CAPORETTO
LE GIORNATE DEL 25 E DEL 26 OTTOBRE
L'ORDINE DI RIPIEGAMENTO AL TAGLIAMENTO
LE CAUSE DELLA ROTTA

Nella notte sul 24 ottobre il fronte dal Rombon a Tolmino era difesa così: Il IV Corpo d'Armata presidiava il tratto Rombon-Cabria con le divisioni 50a, 43a e 46a. La 50a divisione, comandata dal generale ARRIGHI, difendeva la parte superiore di questo tratto dal Rombon alla borgata di Plezzo inclusa, tenendo a sinistra sul Rombon, i battaglioni alpini Dronero, San Dalmazzo, Saluzzo e un battaglione dell'88° fanteria (brigata Friuli), al centro, lungo l'Isonzo, l'87° fanteria e gli altri battaglioni dell'88°, a destra, sulle alture di Ceszoca, i battaglioni alpini Mondovì e Monviso; al quartiere divisionale, in Saga, erano i battaglioni alpini Ceva e Argentara e il 28° della Foggia, la quale aveva a Caporetto gli altri due reggimenti (281° e 282°).
La 43 a divisione, al comando del generale FARISOGLIO, guarniva le trincee dal Poulonik al Monte Nero, avendo in linea la brigata "Genova" (97° e 98° reggimenti) e il 223° della brigata "Etna", e di riserva nella conca di Drezenca il 9° bersaglieri e il 5° gruppo alpino (battaglioni "Albergian, Valchiusone e Belluno). La 46a divisione, comandata dal generale AMADEI, aveva nelle trincee dallo Sleme al Mrzgli la brigata "Caltanissetta" (147° e 148° reggimenti) e il 224° dell'"Etna", dal Mrzli a Gabria e sul fondo valle la brigata "Alessandria" e il 2° bersaglieri: quella in prima linea con un battaglione del 155° e due del 156°, questo con due battaglioni sul Pleka e uno a Vrino.

Nella linea avanzata del tratto Volzano-Selo e nella successiva di resistenza stava l'estrema sinistra del XXVII Corpo, formata dalla 19a divisione del generale VILLANI (brigate "Spezia", 125° e 126°, e "Taro", 207° e 208° e battaglione alpino "Val d'Adige"). A rinforzo della divisione il 22 ottobre era stata, inviata la brigata "Napoli" che aveva un battaglione del 76° fra M. Plezia e l'Isonzo e gli altri due al passo di Zagradam e il 75° e le due compagnie mitragliatrici a Case Ardielh, presso Casoni Solarie. A prolungare la destra della 19a divisione era stato messo sul Krad- Vhr il 10° gruppo alpino (battaglioni Vicenza, M. Berico e Morbegno), che aveva dietro di sé la brigata "Puglie".
La notte del 24 ottobre la brigata "Potenza" marciava lentamente da Faedis a Sedula per la mulattiera di Conebola; la brigata "Massa e Carrara", giunta appena dopo un giorno di marcia a Brischis, riceveva l'ordine di difendere insieme con la 53a divisione (brigata "Vicenza", reggimenti 177°, 178° e 179°) Stupizza; nella conca di Drenehia con la 3a divisione (brigate Elba, Arno e Firenze") e a Polava con la 62a divisione giunta senza artiglierie dal Trentino si trovava il VII Corpo d'Armata, rimasto privo della 34a divisione ch'era stata ceduta al IV Corpo. A portata di questo Corpo e della 19a divisione stavano, a Podresca la 1a brigata bersaglieri, a Loga la 5a, a Canale la "Palermo", a Gorenie la "Treviso", e a Dresca la "Livorno".


L'ATTACCO


Alle ore 2 del 24 ottobre, mentre sulla zona gravava una fitta nebbia, il nemico iniziò il bombardamento dal Monte Rombon al mare, dirigendo il tiro specialmente, oltre che sulle prime linee, sulle retrovie, sulle vie di comunicazione, sugli osservatori, sulle sedi dei comandi e sulle zone di postazione delle artiglierie italiane. In certi punti, specie sui tratti Rombon-Gabria e Volzano-Selo dell'Isonzo, il fuoco fu d'una violenza terribile. Fu fatto dal nemico larghissimo impiego di granate a gas tossici. Da parte italiana scarsissima fu la reazione dell'artiglieria e in qualche settore nulla. Spesso le batterie, impedite dalla nebbia fitta, controbatterono a caso, mentre le nemiche, che avevano precedentemente inquadrato il tiro, bombardarono le nostre posizioni con molta precisione e con un risultato efficace.
L'effetto dei gas fu terribile nella conca di Plezzo, dove l'87° fanteria perse due terzi dei suoi effettivi. In questa conca, il nemico, dopo avere bombardato violentemente la prima linea, allungò il tiro sulla seconda linea Za Verzelinom-Na Radlje. Fin dall'inizio l'artiglieria italiana intervenne con un intenso fuoco sulle trincee di partenza e un po' prima delle ore 8 anche i piccoli calibri cominciarono il tiro di sbarramento. Così il nemico dovette ritardare l'attacco, il quale, sebbene sferrato da una trentina di battaglioni contro una linea, difesa da appena sette, venne in più punti contenuto ma non respinto.

Infatti, la superiorità numerica degli avversari ebbe ragione della resistenza italiana. Alle 9.30 la linea di Fornace fu sfondata e un quarto d'ora dopo anche le trincee da quota 700 a quota 900 del Rombon, caddero in mano del nemico che, impadronitosi di Plezze e Dvor, portò l'attacco sulla seconda linea italiana.
Nelle prime ore pomeridiane, i resti delle truppe dell'armata italiana che si trovavano alla sinistra dell'Isonzo, ripiegando dalla conca, si erano concentrati a Saga. Qui, insieme con il 280° fanteria e con i battaglioni alpini Ceva, Mondovì e Argentera, si opposero con coraggio all'avanzata del nemico. In questa lotta si distinse la 4a compagnia del battaglione Ceva, che da Pluzue, dov'era stata mandata a rincalzo della brigata Friuli, respinse eroicamente e disperatamente per due volte l'avversario, ma lasciando poi sul terreno quasi tutti i suoi uomini.

Fino alle ore 18 il nemico, ostacolato dalla artiglieria e dalla viva resistenza delle truppe italiane, non riuscì a superare la stretta di Sega; ma a quell'ora il generale ARRIGHI, avendo perso il collegamento telefonico con il comando del Corpo d'Armata ed avendo saputo che Caporetto, la sella di Za-Kraju e il Krasji erano caduti in mano del nemico, ordinò che la 50a divisione ripiegasse sulla linea Monte della Guardia-Valle Uceea-Prvi Rum-Monte Stol.

Due battaglioni dell'88° che erano situati alla sinistra dell'Isonzo resistettero tutto il giorno all'urto avversario ma alle ore 19 iniziarono il ripiegamento attraverso il ponte di Serpenizza recandosi ad occupare le posizioni fra Prvi Rum e la selletta dello Stol. I battaglioni alpini S. Dalmazzo, Dronero, Saluzzo e un battaglione dell'88° fanteria, situati sul Rombon, per tutta la giornata resistettero energicamente al nemico, contrattaccandolo e respingendolo più volte. Verso sera, separati dalle altre truppe della loro divisione, danneggiarono i pezzi e ripiegarono verso sella Prevala procedendo per tutta la notte fra la tormenta e le difficoltà immense del cammino, finché furono raccolti dalla 35a divisione del Gruppo Carnico. Una piccola parte di loro, circondati, resistette per due giorni interi.

Contro il tratto di fronte tenuto dalla 43a divisione e specialmente contro le linee di Za Kraju e quota 1270, sulla conca di Drezenca e sul Monte Rosso, l'artiglieria, nemica si accanì a lungo. E per facilitare l'avanzata alle sue truppe l'avversario fece brillare delle mine sul Monte Rosso e sullo Sleme; ma gli italiani resistettero e contrattaccarono più volte con impeto, distinguendosi il 223° fanteria della brigata "Etna", il 97° della "Genova" e il battaglione alpini "Valchiusone". Ma verso sera, ricevuta notizia che una colonna nemica avanzava verso Caporetto e che la destra della sua divisione era minacciata dalla divisione slesiana dello Stein, il generale FARISOGLIO ordinò il ripiegamento, quindi, per rendersi esattamente conto della situazione, avventatamente si avviò con la sua automobile a Caporetto cadendo nelle mani del nemico che ormai l'aveva occupata.

Alcuni reparti dell'ala sinistra, dopo accanita resistenza, riuscirono a ripiegare e superando ponte di Ternova raggiunsero allo Stol la 50a divisione; altri reparti, accerchiati, tentarono di aprirsi la via usando non le munizioni che non avevano più, ma le baionette e lottarono eroicamente tutta la notte, altri ancora, pochissimi, riuscirono a passare il ponte di Caporetto prima che il capitano PLATANIA, del genio, lo facesse saltare. Un nucleo del 223° fanteria e del 9° bersaglieri, annidatosi fra le rocce del Monte Nero vi fece resistenza più giorni; gli alpini del battaglione Albergian resistettero magnificamente sul Pleka, fino la sera del 25 respingendo attacchi e facendo perfino prigionieri; sul Kozziak un battaglione del 9° bersaglieri, comandato dal maggiore JANNONE si sostenne eroicamente tutta la notte del 25; una compagnia dell'Albergian con il colonnello MAGLIANO riuscì a ritirarsi sul Volnik e resistere fino il mattino del 26. Alcuni reparti, era da due giorni che non mangiavano, e da due giorni non arrivavano più munizioni.

Non meno aspra, sebbene in condizioni sfavorevoli, fu la lotta sul fronte della 46a divisione del generale AMADEI, che fu investita dalla 50a divisione austroungarica e, dal 63° reggimento della divisione Slesiana. Una poderosa mina sconvolse alle 7.40 il trincerone del Mrzli e sulle rovine passò il nemico che riuscì anche a sfondare fra lo Sleme e il Mrzli la prima e seconda linea italiana, invano ostinatamente difese da due battaglioni del 147° della brigata Caltanissetta, i cui resti verso le ore 11 ripiegarono su Selisce. Più lunga e accanita resistenza fece il 148°, anch'esso costretto, più tardi, a ripiegare, imitato poi dal 224°.
Anche l'"Alessandria" dopo avere respinti due attacchi ripiegò sulla linea a oltranza. Prima di mezzogiorno la difesa era ancora salda: a sinistra la "Caltanissetta" teneva duro a Kamno; al centro resistevano accanitamente il 2° bersaglieri, il 224° e il 155°; alla destra il 156°. Ma era una difesa inutile perché due fortissime colonne nemiche risalendo l'Isonzo dalla riva destra e dalla riva sinistra minacciava di avvolgere l'intera divisione. Invano tentarono due compagnie del 282° fanteria di sbarrare il passo alla 12a divisione slesiana al ponte di Idersko; invano da Kamno si oppose il II battaglione del 147° che vide eroicamente cadere il tenente colonnello PISCICELLI, eroica tempra di soldato e di viaggiatore. Alle 14.45 gli Slesiani entravano a Caporetto e intanto continuava sulla sinistra dell'Isonzo, da parte delle truppe superstiti della 46a divisione la resistenza, che sul far della sera si raccoglieva intorno al 224° del colonnello LUIGI ROSSI e terminava all'alba del giorno dopo -pure loro- per mancanza di munizioni.

Alla destra della 46a, un urto terribile lo ebbe la 19a divisione contro la quale si gettarono l'Alpenkorps, sei battaglioni della 12a slesiana e le sei divisioni dei gruppi Berrer e Scotti. L'Alpenkorps, per la nebbia fittissima, superò quasi indisturbato la zona di sbarramento di fuoco e la linea di osservazione di Volzana-Tigini. Alle ore 10, superate le difese di Costa Raunza, il nemico avanzava verso Monte Plezia, procedendo anche per valle Ramenca e per valle Duole, catturando in gran parte le truppe italiane che presidiavano quelle posizioni, fra cui un battaglione del 76° fanteria, e le loro artiglierie.

Rimasto sguarnito il fondo di valle Isonzo sulla riva destra, fu facile al grosso della 12a divisione slesiana di risalire il fiume sulla riva destra, aiutando il procedere del resto delle sue truppe sulla sinistra con reparti fatti passare su quella sponda sopra le passerelle di Volaxie e il ponte di Idersko.
A mezzogiorno la colonna della riva sinistra era a Kamno e quella della riva destra più avanti, all'altezza di San Lorenzo. A difendere Caporetto si precipitò il generale BASSO, comandante la 34a divisione, con uno squadrone di cavalleria, sostenuto da una batteria da montagna e da quattro da 105, e alcuni reparti del 282° e tre compagnie mitragliatrici al comando del brigadiere PISANI della Foggia; ma, arrestato per poco, il nemico riprese l'avanzata, costringendo i difensori a ripiegare e catturando buona parte di loro verso lo Stariski, dove trovò la morte il prode brigadiere Pisani.

Mentre gli Slesiani marciavano su Caporetto i gruppi Berrer e Scotti sboccavano dalla testa di ponte di S. Lucia e S. Maria ed attaccavano il 10° Gruppo alpino sul Krad Vrh e la brigata Spezia sulla principale linea di resistenza, costringendo gli alpini a ripiegare parte per valle Doblar, parte verso il monte Jeza, dove pure ripiegavano i fanti della Spezia.
Anche l'azione dell'Alpenkorps si svolgeva intanto con successo, e la brigata Taro, investita, dopo un'eroica ma vana resistenza ripiegava verso Cappella Sleme.
La difesa del monte Jeza fu fatta, per ordine del generale VILLANI, dal battaglione Alpini Val d'Adige e dai resti della Spezia e si protrasse accanita fino a sera inoltrata, poi i difensori ripiegarono su Natpriciàr e Case Dugo e il giorno dopo si ritrassero a Lombai dove si era istallato il comando della 19a divisione. La sera del 24 il 75° fanteria, che era di riserva a Case Ardieh, fu chiamato per tentare la riconquista del monte Jeza, però, nonostante l'impeto, di fronte alle soverchianti forze nemiche l'attacco fallì.

La brigata "Puglie" (71° e 72° fanteria), che teneva la linea Pusno-Shrednje-Globocak, venne a contatto con reparti del gruppo Scotti verso le 19 e dopo due ore di combattimento ripiegò sul Globocak a sostegno del quale fu mandata la 1a brigata bersaglieri, mentre la 5a era spedita a sbarrare la testata dello Iudrio.
Abbandonata, sotto la pressione nemica, la linea Stariski-Staroselo-Matajur, il generale BASSO ricostituì la 34a divisione con i resti della Foggia e con la brigata Potenza, che il generale MONTUORI, nominato da CAPELLO comandante dell'ala sinistra della II Armata aveva messo a sua disposizione mandandola a Robic da Sedula. Per quanto i fucilieri della Potenza fossero stanchi, con poche munizioni, privi delle compagnie mitragliatrici non ancora giunte, e in numero di appena circa tremila, schieratisi dallo Stol a Potoki, Creda e Robic, arrestarono il nemico non solo per quella sera, ma per tutto il giorno seguente.

La situazione italiana, la sera del 24, era la seguente: la 50a divisione in ritirata dalla stretta di Saga verso Projhum e sbarramento di Valle Uccea; sul Monte Stol il 271° fanteria della Potenza, i battaglioni alpini Belluno e Valchiusone, una parte del 9° bersaglieri e i resti della 46a divisione, eccettuati quei reparti, specie della Caltanissetta e del 224, rimasti sul Monte Nero, dove resistevano ancora insieme con la Genova, col 223°, con un battaglione del 9° e due del 2° bersaglieri e col battaglione alpini Albergian; sul Monte Maggiore giungevano due battaglioni del 7° gruppo alpino (proveniente dal Trentino e messo dal Comando Supremo a disposizione metà della II Armata e metà del XII Corpo Carnico), altri due stavano per giungere a Resiutta, in Val Folla, altri due battaglioni alpini, due compagnie mitragliatrici e quattro batterie da montagna rimontavano la Val Resia per andare a sbarrare Valle Uccea a Rio Bianco; la Potenza aveva un reggimento (271°) sullo Stol e gli altri due (272° e 273°) in corrispondenza della stretta Creda-Robic; a Stupizza era la 53a divisione, a Purgessimo la brigata Ferrara.

Il VII Corpo, il quale per tutto il giorno non aveva combattuto, ad eccezione della Napoli, passata a sera alle sue dipendenze, occupava la cresta del Kolovratk il Cucco e le falde del Niatajur, il quale doveva esser tenuto dalla Massa e Carrara, che invece, aggregata alla 53a, si trovava a Stupizza; del VII Corpo la 62a divisione si preparava ad attaccare il Golobi. Sul fronte di riva destra del XXVII Corpo le brigate Puglie, Treviso, e la e 5a bersaglieri difendevano la linea Monte Xum-Pusno-Globocak-Cicervik; i resti della 19a divisione erano in ritirata verso il Corada.

Nella giornata del 24 il Comando Supremo aveva preso vari provvedimenti: aveva messo alle dipendenze del Gruppo Carnico, cui aveva ordinato di occupare Monte Maggiore e sbarrare la Valle Uccea, la 50a divisione; aveva ordinato al Comando della II Armata di mandare a Bergogna una divisione della riserva, d'arretrare la nostra occupazione della Bainsizza sulla linea principale e di predisporre per l'eventuale abbandono dell'altopiano e per la difesa sulla destra dell'Isonzo; aveva disposto che tutto il XXX Corpo e due divisioni provenienti dal Trentino passassero alle dipendenze della II Armata e si stabilissero nella zona Udine-Tarcento-Nimis; aveva prescritto che la sinistra del nuovo schieramento nel settore attaccato s'imperniasse a Monte Maggiore saldato al Gruppo Carnico, che la difesa fosse organizzata a compartimenti stagni e che si facesse forte resistenza sulla linea dello Stol; infine aveva mandato ordini affinché fosse messa in efficienza la linea difensiva del Tagliamento.

Altri ordini furono dal generale CADORNA concepiti nella notte del 24-25, ma emanati poi all'alba del 26. Alla III Armata fu ingiunto di mandar subito oltre il Piave le artiglierie di grosso calibro meno mobili e di arretrare tutte le altre artiglierie di medio e grosso calibro più mobili ad est del Vallone presidiandone la linea difensiva con due divisioni. Si avvertì il Comando del Gruppo Carnico che, nell'eventualità di una ritirata delle armate dalla fronte Giulia, il XII Corpo avrebbe dovuto ripiegare sulle Prealpi Carniche, mantenendo il collegamento con la II Armata a Monte Maggiore e con la IV a Forcella Razzo.

La mattina del 25 il generale CAPELLO, sebbene ammalato, si recò a Udine per conferire con il "generalissimo", e a mezzogiorno, essendosi il suo male aggravato, lasciò il Comando della II Armata che fu affidato al generale MONTUORI, il quale ebbe in sottordine i generali ETNA, FERRERO e SAGRAMASO come comandanti rispettivamente dei settori settentrionali, meridionale e centrale. In seguito il comando del centro fu dato al generale PETITTI di RORETO. MVIII Corpo fu fatto passare alle dipendenze della III Armata.
Nella notte del 25, reparti della divisione Edelweiss attaccavano e respingevano da Monte della Guardia il battaglione Alpini Ceva, quindi avanzavano per Valle Uccea e per la sella di S. Anna di Carnizza, affacciandosi in Val Resia. Durante la stessa notte la brigata Genova con i battaglioni alpini Belluno e Valchiusone ripiegava dal bastione del Monte Nero e si dirigeva ai ponti di Caporetto e di Ternova, ma soltanto le truppe avviate a questo secondo ponte riuscivano a passare l'Isonzo e a recarsi sullo Stol; allo stesso tempo verso il ponte di Ternova si dirigevano i resti del 224°, del 148° e dei battaglioni del 2° bersaglieri, ma il ponte era incendiato e solo una parte dei ripieganti riusciva a passarlo.

La mattina del 25 la divisione Schutzen attaccò lo Stol. Le truppe italiane che difendevano il caposaldo resistettero per tutta la giornata: il battaglione Argentera, esaurite le cartucce, con la disperazione ma senza mollare si mise ad usare i sassi per difendersi; mentre il battaglione Belluno,pure questo rimasto senza munizioni, quando si sentì circondato, si aprì il passo alla baionetta.
Nella notte stanchi dal lungo combattere e affamati, ripiegarono sotto la protezione di reparti della "Genova" per Bergogna. Pure verso Bergogna, verso sera, cominciò a ripiegare la brigata "Potenza" che aveva resistito valorosamente nelle strette di Creda e di Robic.

All'alba del 25, reparti della 62a divisione dalla sella di Luico contrattaccarono il nemico che aveva occupato le posizioni di Golobi e le ripresero, riconquistando undici cannoni da 105 che il giorno prima vi erano stati abbandonati, ma questo fortunato contrattacco non poteva influire sulla situazione e arrestare i successi del nemico. Il quale subito dopo sferrò un attacco violento contro le posizioni tenute dal VII Corpo d'Armata, dalla divisione bersaglieri, dagli avanzi della brigata "Puglie" e dalla brigata "Treviso".

Le Divisioni dei gruppi Stein, Berrer e Scotti concorsero a questo tremendo attacco che investì la linea italiana dal Matajur al Cicer Vrh. Il primo punto della linea che fu sfondato fu la posizione del Kolovrat, tenuta dalla brigata "Arno". A mezzogiorno il nemico, già padrone della testata di Val Riccia, aveva rioccupato il Golobi e aveva intaccato la difesa del Matajur; quindi premeva fortemente sulla 62a divisione.
Da questo lato la 4a brigata bersaglieri (generale PIOLA CASELLI) della 62a bloccò per un po' l'irruzione avversaria, ma respinta, indietreggiando si rovesciò sull'altra brigata della divisione, la "Salerno" (89° e 90°), la quale, scompigliata dal ripiegamento dei bersaglieri e dal sopraggiungere dei tedeschi e priva del proprio comandante, il generale ZOPPI, chiamato a sostituire nel comando della divisione il generale VIORA ferito presso Polava, si rigettò sull' Elba (261° e 262°) della 3a divisione (generale NEGRI di Lamporo).
Ad accrescere lo scompiglio si aggiunse la rotta della brigata "Arno", i cui resti in fuga urtarono anch'essi, inseguiti dal nemico, contro l'Elba, la quale resistette, nell'infelice condizioni in cui si trovava, per qualche tempo, poi, caduto prigioniero il proprio Comandante, si sbandò in un "si salvi chi può".

A destra del Kolovrat la lotta si mantenne incerta sulla cresta di Monte Piatto, di Bucovo Jeza e dell'Uplatanak; in corrispondenza della testata dello Iudrio e del Globocak il nemico fu arrestato, ma più a sud riuscì a penetrare in Auzza e vi catturò un battaglione italiano, non molestato dalle vicine riserve, il cui mancato intervento permise all'avversario di procedere lungo l'Isonzo e di spingere audaci pattuglie fino a Plava. Dopo di che il XXIV Corpo del generale CAVIGLIA con tre divisioni del XXVII messe alle sue dipendenze, era costretto pure lui a ripiegare attraverso i ponti di Plava.
Nella notte sul 26 il generale CADORNA avvertiva il generale MONTUORI che gli ordini pel ripiegamento erano pronti, però prima di notificarli voleva sapere se tale ripiegamento rispondeva veramente alle necessità della situazione. Il Montuori, interpellati i comandanti di Corpo d'Armata, rispondeva che era possibile resistere ancora ed allora fu decisa la resistenza sulla linea degli sbocchi.

Il 26 il "generalissimo" informava il Ministero della gravità della situazione, assicurando però che contro il disastro avrebbe lottato fino all'ultimo. Scriveva anche ai comandi della II e della III Armata che era necessario il ripiegamento della prima sulla linea Monte Maggiore-Monte Joanes-Monte Madlessena-Monte Purgessimo-Castel del Monte- Corad-Monte Kuk-Vedice-Monte Santo-Sella di Dol-Salcano e l'arretramento della III sulla linea del Vallone.
Alla II Armata il Cadorna affidava, oltre le due divisioni del XXX Corpo, la 20a e la 33a divisione del XXV con il quale costituiva, al comando del generale ANTONINO DI GIORGIO, un Corpo d'Armata speciale destinato a garantire il possesso dei ponti da Pinzano a Traseghis; in Carnia mandava la 63a divisione e lasciava la 4a a disposizione della III Armata. Contemporaneamente dava disposizioni per l'eventuale ripiegamento al Tagliamento ordinando alla IV Armata di mandare in pianura le artiglierie di grosso e medio calibro più moderne.

CADORNA, nella sua ottica (poco chiara, e non a causa della nebbia) sperava ancora di potere resistere sulla linea Monte Maggiore-Purgessimo-Corada-Sabotino; ma questa speranza durò poco. Il giorno 26 ottobre cadde in potere del gruppo Krauss il Monte Maggiore e il nemico avanzò da una parte in Val Resia minacciando di dividere il Gruppo Carnico della II Armata e dall'altra puntò su Tarcento. La linea Monte Mia-Stupizza-San Martino-Monte Xum dovette essere abbandonata perfino dalle retroguardie italiane che, tenendola, dovevano assicurare la sistemazione sulla retrostante principale linea di difesa. La stretta di Stupizza era stata il giorno prima difesa strenuamente e perfino con qualche successo dalla 53a divisione comandata dal prode generale GONZAGA. Ma poi dovette desistere e mettersi in salvo.

Data la critica situazione, il generale CADORNA stimò inevitabile il ripiegamento al Tagliamento e nella notte del 27 diramò gli ordini ai comandi dipendenti. Il ripiegamento doveva avvenire lentamente, resistendo in alcuni punti: il gruppo Carnico a Chiusaforte e sul Sifincis, la II Armata sulla linea Lusevera-Monte Cladis-le Zuffine-Monte Joanes-Monte Madlessena-Purgessimo-Castel del Monte-Corada-Sabotino, oltre che sulla linea KukVodice-Santo.
Il Gruppo Carnico, indietreggiando, doveva collegarsi con la IV Armata a Casera Razzo e con la II a Monte Caoria; la IV doveva collegarsi con la I a Col della Caldiera, tenendosi pronta a proseguire il ripiegamento appena questo fosse ordinato e prendendo subito in consegna i lavori in corso d'esecuzione sul Grappa, la cui difesa le era affidata.
La III Armata doveva con le sue forti retroguardie ritardare l'avanzata del nemico e provvedere alla copertura del proprio fianco sinistro. Una sosta doveva esser fatta sul Torre. La II e la III Armata dovevano schierare sul Tagliamento le piccole artiglierie, le pesanti campali e i medi calibri più mobili. Le altre delle predette armate e quelle del Gruppo Carnico, dovevano essere disposte fra il Sile e il Montello. Il Comando della II si sarebbe trasferito a Pordenone, quello della III a Motta di Livenza, il Comando Supremo a Treviso.

La massima energia e attività e severità era ordinata ai comandi, i quali dovevano portare in salvo il maggior numero possibile di artiglierie, distruggere i magazzini e i depositi di viveri, munizioni e materiali vari e interrompere le comunicazioni, gettando però dei ponti sul Tagliamento per agevolare il ripiegamento. Quest'ultima disposizione non poté essere eseguita per la piena del fiume, la quale non solo impedì alla II Armata di gettare i ponti fra quelli delle Delizie e Pinzano, ma distrusse quello di Dignano e sommerse quello di Madrisio.
(Per fortuna che stesse piene, dopo impedirono ai nemici di sfondare e attraversare il Piave)

Nella stessa notte sul 27 ottobre, CADORNA incaricò il generale MAGLIETTI di portare a completamento la sistemazione difensiva del Piave iniziata assai prima per altro scopo.

"Penseremo poi,
- disse - e se sarà il caso, all'Adige e al Po; ma ho fede che dietro al Piave l'animo del soldato italiano si riprenderà".

Quest'affermazione e le difese ordinate dimostrano chiaramente che nel pensiero del generale Cadorna la linea del Piave, e non quelle più avanti (del Tagliamento), doveva costituire la linea definitiva d'arresto del ripiegamento del suo esercito.

Con l'ordine di ripiegare terminava la battaglia che si chiamò di Caporetto e fu la 12a dell'Isonzo.
Essa indubbiamente costituì un grave insuccesso. Questo però non deve attribuirsi, come qualcuno fece, al contegno dei soldati italiani, i quali anzi, in condizioni sfavorevoli e in numero infinitamente minore, resistettero quasi ovunque accanitamente, scrissero pagine di eroismi superbi e spesso sgominarono il nemico, ma ad altre cause; dissensi fra il Comando Supremo tra CADORNA e il generale CAPELLO; infelice schieramento difensivo sul fronte Giulia; insufficiente presidio sulla parte settentrionale del fronte isontino; stato deplorevole delle linee successive alla prima, quà lasciate in abbandono, là incomplete, ovunque poco solide; mancanza di numerose riserve e mediocre impiego di quelle esistenti; malattia del comandante della II Armata; mancato concorso di qualche Corpo d'Armata; ritardo di alcuni comandante nell'eseguire gli ordini superiori; insufficienza assoluta dei servizi di collegamento.
A queste cause di carattere militare vanno aggiunte altre cause indipendenti dalla volontà umana, (che pure ebbero il loro peso, quali la nebbia fittissima e poi la piena del Tagliamento, ed altre cause ancora, organiche e morali, quali il malcontento diffuso nell'esercito per il malgoverno degli uomini da parte del Comando Supremo, un certo senso, nei soldati, di stanchezza e di sfiducia, e la deleteria propaganda disfattista ed apatrida esercitata fra le truppe, alla quale né il Governo né il Comando Supremo seppero porre riparo.

Ricercando le cause della rotta di Caporetto, il generale SEGATO conclude affermando che:
"…le cause dello sfondamento furono principalmente di carattere tecnico e che durante il ripiegamento le conseguenze degli errori militari commessi furono ingigantite dalle condizioni organiche e morali in cui era ridotto l'esercito specialmente in corrispondenza di quell'ala in corrispondenza della quale era avvenuto lo sfondamento, e contro della quale più s'accaniva la pressione nemica".
Ad ogni modo, secondo lui, "la responsabilità della rotta di Caporetto non si limita a capi militari ed a uomini di governo: essa coinvolge tutti coloro che col disfattismo attivo o passivo esercitarono influenza deprimente sullo spirito del soldato: essa coinvolge coloro che, riusciti ad imboscarsi, dell'imboscamento si valsero per trarre dalla guerra il maggior profitto possibile, poco curando se con ciò venivano a danneggiare coloro che nella trincea soffrivano e morivano; essa coinvolge coloro che non avevano rossore d'offrire al soldato che per licenza o per servizio, rientrava temporaneamente dal fronte, un nauseante spettacolo di vita fatta di godimento e di spreco, guardando i reduci dal fronte con un sorriso di compassione, quando non era sorriso di scherno"
. (gen. Segato).

Erano questi i cosiddetti "imboscati", operai settentrionali, figli di notabili o di uomini politici, che erano al sicuro di ogni rischio, e che non probabilmente, ma sicuramente guadagnavano molto bene e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dell'esercito e della guerra. E se già nelle trincee il morale era basso, con spesso il dubbio se valesse la pena di combattere per delle distese desolate e rocciose, l'esercito combattente sapeva che a casa era rimasto "un altro esercito" fatto di imboscati, e che per quelli che ne facevano parte, la pena di combattere non valeva proprio la pena.

Nella sconfitta, che poi divenne nel giro di un paio di giorni una disfatta, sembra che i soldati al fronte volessero punire quella certa Italia ambigua, assente e furbastra; "gli austriaci, i tedeschi? Che entrino pure; al di qua del Tagliamento, al di qua del Piave, e perfino al di qua dell'Adige e del Ticino, cosi proveranno gli "imboscati" ad aver paura pure loro; e finalmente si sveglieranno!".

I Francesi temendo perfino il peggio, erano già decisi ad inviare alcune divisione sulle alpi piemontesi per fermare un'invasione austro-tedesca in Francia.
Fortunatamente quando centinaia di migliaia di soldati si ritirarono e finirono oltre la linea del Piave, il fiume in piena autunnale fermò gli austriaci.
Ma la maggior parte del Veneto era andata perduta. Si era partiti tre anni prima per conquistare molto di più del giolittiano "parecchio", e ci si ritrovava quasi quasi (e mancò poco) nelle condizioni del 1866.
La posta in gioco ora era molto più alta; e non erano più necessari i discorsi retorici, ne quelli marinettiani, né la diplomazia, per vincere questa difficile partita, che se persa, l'Italia tornava indietro di mezzo secolo ( entrando a Cividale e a Udine gli austrotedeschi invasori già gridavano "A Milano ! A Milano! "

Ora l'Italia non combatteva più per le distese desolate e rocciose del Carso, ma combatteva per difendere le sue ridenti pianure dagli invasori come ai tempi dei "barbari". E se i soldati del fronte volevano punire e svegliare gli "imboscati", vi erano proprio riusciti. E questa era veramente già una loro "prima vittoria" di popolo. E perdonate la frase che può sembrare anche questa retorica, non era più una vittoria "politica" ma una vittoria "patriottica". Cioè "cacciare lo straniero".
E, infatti, improvvisamente, quando ormai sembrava una cosa impossibile (quelli dell'Intesa non avevano l'intenzione di rischiare nemmeno una divisione) l'Italia pur nella tragedia, non perse la testa e si ritrovò ad essere una vera "nazione in armi".
Ma ne riparleremo nei successivi capitoli.

Qui non abbiamo finito; si è parlato dell'attacco, ma non ancora del triste ripiegamento, della drammatica ritirata e della bruciante disfatta.

…Caporetto, il ripiegamento, la ritirata, la disfatta

CONTINUA > > >

< < < INDICE


HOME PAGE STORIOLOGIA