LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1917

DOPO CAPORETTO - IL SUSSULTO D'ORGOGLIO
LA POLITICA

IL DOPO CAPORETTO, MILITARE E POLITICO - I PRIGIONIERI - I PROFUGHI - IL PAESE PER LA RESISTENZA - LA RIAPERTURA DELLA CAMERA - IL DISCORSO DI ORLANDO E LE DICHIARAZIONI DEGLI EX-PRESIDENTI DEL CONSIGLIO - L'ORDINE DEL GIORNO DEL SENATO

IL BILANCIO DELLA 12a BATTAGLIA DELL'ISONZO
I PRIGIONIERI - I PROFUGHI - IL PAESE PER LA RESISTENZA

Ben conoscendo le condizioni morali e materiali -molto critiche- in cui versava l'Esercito italiano e il Paese, insieme, gli austro-tedeschi sferrando l'offensiva e agendo senza il minimo indugio con un imponente concentramento di forze, nell'arco di due settimane (dal 24 ottobre al 7 novembre), dopo aver respinto le armate italiane fino al Piave, si proponevano di forzare il passaggio del fiume avanzando da ponente a levante. Erano insomma, vicini ad una vittoria definitiva, tale da mettere fuori causa l'Italia per sempre.
Notevolmente meglio armati, -a differenza di quanto capitava loro, di solito, nello scacchiere orientale - gli invasori godevano anche il vantaggio del numero: 400.000 uomini contro i 280.000.

La marcia, come abbiamo visto nella puntata precedente, fu inarrestabile; grazie ai fattori sopra accennati, alla sorpresa e ad una sottovalutazione di Cadorna del nemico; poi ad alimentare l'ottimismo di Germania e Austria ci fu anche la disgregazione del fronte russo, accelerata dagli eventi rivoluzionari. (La rivoluzione Russa è del 24-25 ottobre secondo il calendario ortodosso, ma con l'occidentale, i giorni fatidici corrispondevano proprio al 6-7 novembre - Ne parleremo in una successiva puntata).

Imbaldanziti dai rapidi, facili e grandiosi successi, i Comandi nemici non si preoccuparono di predisporre il nuovo poderoso sforzo aggressivo con la consueta e minuziosa abilità organizzativa. Del resto continuando a prelevare dall'oriente le Divisioni rese disponibili dal crollo militare russo, l'Austria avrebbe avuto sempre modo di colmare eventuali vuoti.
Ormai persuasi di affrontare un avversario incapace di reagire efficacemente, gli Austro-tedeschi s'impegnarono solo contando su cedimenti improvvisi e i vasti fenomeni di dissoluzione nell'altro campo.
Ma una volta ancora, la storia doveva dimostrare quanto sia pericoloso la svalutazione aprioristica del nemico. E' buona massima di guerra supporre sempre, in qualunque circostanza di dover affrontare truppe ben disposte a battersi. L'inosservanza di questo principio spinse von Below a tentare la sorte, e il 10 novembre, riprendendo la sua marcia, mai più immaginava che avrebbe trovato improvvisamente, a poche ore dal precedente disastro, un'Italia diversa.

Infatti, come vedremo nella successiva puntata, trascorsero solo tre giorni da quella che sembrava una totale disfatta, quando la massa combattente del fronte, senza tante indicazioni politiche e militari, quindi senza piani d'operazioni, dal suo latente Dna come figli e nipoti di coloro che avevano lottato nel Risorgimento contro l'oppressiva Austria, espressero tutta la loro orgogliosa rabbia che avevano in corpo, trasmessa dai loro padri e nonni, coprendosi tutti di valore.

Laceri, stremati, privi perfino degli indumenti resi necessari dalla stagione, spesso sprovvisti di artiglierie, ancora sotto l'incubo della disfatta ingiusta, seppero riaversi e da soli ricostituirsi, sgomentando il nemico, meravigliando gli increduli alleati, stupendo il mondo, dal 10 novembre al 30 gennaio, perdendo purtroppo nella lotta impari, 9.300 uomini a novembre, 8.160 a dicembre, 2950 a gennaio.
E se morivano è perchè combattevano. I vinti dell'esercito disfatto, per quanto sembri assurdo, si riebbe prima dei vincitori; si mostrò più saldo e tenace di quello che l'aveva costretto alla ritirata disastrosa.

L'attonito SCHWARTE nella sua opera "Der grosse krieg" (La Grande Guerra), redatta secondo il pensiero delle alte gerarchie militari degli Imperi Centrali, scrisse:
"Pareva impossibile, che un esercito il quale usciva da una catastrofe come quella di Caporetto, avesse potuto riprendersi così rapidamente".

Se è efficace l'immagine di apertura, con quella scritta eloquente, che sembra voler ricordare il tallone austriaco del secolo precedente, lo è ancora di più la "prima medaglia d'oro" al valore di questa straordinaria resistenza-riscossa.
Erano passate poche ore dalla ripresa delle ostilità (concentriche, con Conrad in Valsugana e Below sulla sponda sinistra del Piave - passare questo voleva dire la rovina dell'Italia) quando un oscuro sottotenente VINCENZO ONIDA con un manipolo di uomini sbarrava il passo alla prima orda di nemici sbarcati sulla sponda destra del grande fiume; diventato in breve tempo "Sacro".

Rifugiatisi in un fabbricato trasformato in un improvvisato fortilizio, ma incalzati dalla furia del manipolo italiano del sottotenentino, non rimase altro scampo -a costoro che avevano osato tanto- che la resa. Fatti prigionieri, li avevano già raggruppati davanti a ONIDA, quando un loro ufficiale slealmente gli scagliò fra le gambe una bomba a mano. Seguì una scena raccapricciante: mutilato del piede destro, perdendo fiotti di sangue dal moncone, Onida in uno sforzo disperato, con una volontà titanica, raccolte le proprie energie, vacillando, guardandolo diritto in faccia avanzò verso l'ufficiale, poi sfoderò la baionetta, gli si scagliò contro e gli inferse un colpo mortale; e agli altri attoniti prigionieri gridò loro in faccia: "Così, sanno battersi gli italiani!". ("davanti" al nemico, non a "tradimento"). Poi morì dissanguato.
Vero o presunto questo grido, una cosa è certa: quello era il grido rabbioso che avevano in corpo i tre milioni di soldati italiani al fronte, dopo appena tre giorni da quella che sembrava una funesta disfatta morale oltre che materiale.
E non passò molto tempo, che la grave crisi di sfiducia, gli ammutinamenti, le defezioni e le diserzioni, che fino allora avevano attanagliato l'esercito italiano, in crescendo, invasero i campi avversari.


IL NEGATIVO BILANCIO

Tuttavia, gravissime erano state le perdite di uomini e di materiali subite dall'Italia nella dodicesima battaglia dell'Isonzo (Caporetto) e nel successivo ripiegamento: 3152 cannoni, 1732 bombarde, circa 3000 mitragliatrici, 300.000 fucili, 150 aeroplani, 4000 autocarri; 11.000 morti, 30.000 feriti, 280.000 prigionieri, fra cui una diecina di generali; 350.000 in fuga verso la Pianura Padana, seguiti da 400.000 profughi civili.
Accerchiato per non cadere prigioniero si uccise il divisionario GUSTAVO RUBIN de CERVIN, fratello del comandante della "Benedetto Brin"; non resistendo al dolore della sconfitta si uccise pure il prode generale LUIGI VILLANI, comandante la 19a divisione.

"I prigionieri - scrive il Gori, attingendo a memorie di reduci - furono avviati ai campi di concentramento negli stati austriaci e in quelli tedeschi. Nel miserabile viaggio gli ufficiali non furono trattati meglio della truppa. L'ufficiale italiano patì l'insulto e la depredazione del soldato austriaco e tedesco; viaggiò in vagoni-bestiame con le lettiere di sterco bovino; in prigionia come corredo ricevette quello di un infame galeotto. La brutta reputazione dei campi austriaci di Mauthausen, di Spistzen, di Sigmundsberger non sembrò esagerata ai nuovi arrivati, che trovarono i vecchi prigionieri nelle più infime condizioni fisiche e morali, dimentichi di ogni senso nonché di disciplina, e talora di dignità, di onestà e d'umanità. Alla gerarchia militare, ai campi, se ne era sostituita un'altra, commisurata all'anzianità di prigionia e non al grado; e questi anziani godevano di molteplici privilegi sui novellini.
I prigionieri di Caporetto, che già se la intendevano poco tra loro, con la propaganda tedesca che li presentava come "codardi", erano visti dagli anziani con sdegno. Inoltre l'avversione contro i caporettisti cresceva perché il loro arrivo coincideva con le restrizioni e la penuria di cibo.
Con già i suoi popoli affamati, il Governo austriaco negava ai prigionieri, ormai troppi, perfino il necessario; né era raro che perfino le sentinelle chiedevano agli stessi prigionieri se aveva avanzato un tozzo del suo orribile pane.
Fame e freddo furono i più atroci persecutori degli Italiani in Austria; anche se non ebbero a patire maltrattamenti. Anzi, alcuni riferirono che alitava intorno una certa aura di simpatia popolare.
Non così i 120 mila ufficiali e subalterni presi nel disastro dell'ottobre e inviati la maggior parte in Germania ad Augustabad. Questi invidiavano i prigionieri dei campi austroungarici.
Nei paesi tedeschi, specie in quelli settentrionali e luterani, il prigioniero respirò un'aria di odio e di disprezzo. Unica lettura dei prigionieri i giornali tedeschi, che riferivano le tristi notizie esagerate e le corredavano di odiose invenzioni: "Disfatta totale, Cadorna ucciso, il re fuggito, la repubblica sociale proclamata a Roma". Precari i servizi igienici e profilattici; umilianti le perquisizioni; il cibo insufficiente e fatto tutto di surrogati, nauseabondo col quale i prigionieri ingannavano lo stomaco. Donde un'atroce fame cronica, che favoriva la malattie, rodeva i nervi, esasperava gli umori, avviliva i caratteri; e liti riprovevoli per il cibo e accuse reciproche e pietose astuzie nel defraudarsi l'un l'altro. Alcuni non ressero e morirono disperati; in altri la bramosia di fuggire divenne ossessione maniaca. Per lunghi mesi restò vietata qualsiasi comunicazione con la patria; poi si concesse un pigro scambio di cartoline stampate, nelle quali qualunque frase di carattere politico o di lamentela, erano cancellata con il nerissimo inchiostro. Tuttavia i prigionieri, corrispondendo in qualche modo con le famiglie, riuscirono a far conoscere che morivano di fame e di freddo.
Assai tardi fu provveduto all'invio di "pacchi" con cibarie e vestiti. Il Governo italiano apparve ai prigionieri poco premuroso, quasi volesse punire in loro l'onta di Caporetto. Attribuirono a deliberato proposito ostile l'ordinata sospensione dell'invio dei "pacchi" e la sorveglianza dei "pacchi" stessi, dei quali in più luoghi e principalmente a Domodossola si faceva saccheggio e commercio.

Lodavano solo il Papa per essere, assai più del Governo, generoso e provvido. La prigionia fornì acri fermenti di sovversivismo agli ufficiali italiani. E peggio ancora i soldati i quali (compresi i graduati, cui il nemico non riconobbe il grado) furono trattati in modo riprovevole, costretti nel gelido inverno 1917 a lavorare all'aperto, digiuni, seminudi e unico riscaldamento le bastonate o i frustini. E si capisce perché molti di loro preferirono chiedere un lavoro nelle officine militari nemiche. In Germania furono pure adoperati nell' "industria chimica di utilizzazione dei cadaveri"; industria che io avrei creduto una storiella macabra, se non ne avessi letto i documenti in uno spiacevole libro ufficiale.

Gli sbandati -come già detto sopra- sommarono a circa 350 mila. Non pochi, credendo conclusa la pace, e legittimo lo sbandamento, se ne tornarono tranquilli e palesi alle loro case; altri andarono ad ingrossare le bande dei renitenti e disertori. Un comunicato del Comando Supremo (c'era ancora Cadorna), invitava gli sbandati a costituirsi e comminando pene severe chi dava loro ospitalità o aiuti di ogni genere.
Successive ordinanze (con Diaz), che seppero conciliare minacce ed esortazioni, cominciarono a schiarire le menti ottenebrate e finirono col venire ubbidite; durante l'inverno, oltre 300 mila sbandati si consegnarono alle autorità locali e raggiunsero i campi di assembramento dell'Emilia .... Di profughi ne furono censiti 208 mila, cui vanno aggiunti migliaia di non censiti e 200 mila fatti sloggiare, per ragioni militari, da Treviso, Venezia, Vicenza, Padova.
Fin dall'inizio della guerra, si era già avuto in Italia schiere di profughi, e molti ce ne furono dopo la Strafexpedition. Ma il Paese li aveva assorbiti senza traumi. Ma adesso erano tanti e provenivano da un vasto territorio che contava circa tre milioni di abitanti, cui urgeva provvedere con vigore; inoltre -con le ultime cattive notizie- non si sapeva quando e dove quest'esodo si sarebbe fermato. Chi aveva mezzi, timori e angosce, autonomamente si stava già allontanando non solo dalle città a rischio su menzionate, ma anche dalle piccole cittadine e paesi.

Una gran moltitudine era già stata ammassata a Milano; affollavano alberghi, teatri, magazzini, stabilimenti; fu per loro riaperta la villa reale di Monza, chiusa dal famoso 29 luglio 1900. Il Comitato milanese pro-profughi che si era formato ebbe aiuto dalla "Umanitaria" e dalla "Bonomelli", che s'incaricarono dei primi smistamenti. L'enorme e tumultuante ammassarsi dei rifugiati ingenerò commozione nella cittadinanza. Le società patriottiche si agitavano affinché fossero accolti nelle case lasciate vuote dai Tedeschi e Austriaci; socialisti e disfattisti spargevano timori per l'alimentazione e la salute pubblica. La paura di tumulti accelerò lo smistamento di oltre 100 mila profughi nelle città dell'Italia centrale, che furono ben presto piene di turbe cenciose, accasermate nel modo più povero e sommario, quasi in stato di prigionia.
Tutti mostravano i segni dei disagi e degli stenti e tutti mostravano un'estrema miseria, anche i molti, che avevano conservato il gruzzolo e se lo tenevano ben stretto e nascosto. Consumati presto i milioni raccolti con le sottoscrizione, fu assegnato ai profughi privi di mezzi un modesto sussidio giornaliero per campare; sussidio però che cessava se trovavano un'occupazione, che nelle grandi città non era facile. O se c'era alcuni approfittavano della situazione per fare -con i bassi stipendi a questi infelici- lauti guadagni.
Migliore sorte incontrarono quei profughi che, esperti di lavori agricoli, si spinsero nelle campagne. Costoro, meno protetti ma anche meno invischiati nel burocratismo governativo, condussero generalmente una vita più quieta: quantunque i contadini utilizzandoli li guardassero un po' come schiavi, e forse anche con odio come complici del perpetuarsi della guerra".

Continuavano nel Paese a non esser pochi i malcontenti della guerra, ma, questi erano zittiti da quanti volevano la riscossa, che erano in questi tristi giorni la maggioranza. Un soffio di rabbia guerriera ormai correva sulla penisola, riaccesa dalle parole e dall'opera di governanti, di uomini politici, di istituti, di militari mutilati reduci dal fronte.
L'on. ORLANDO telegrafava a Diaz "Il popolo italiano continua impavido la terribile prova e non un momento solo ha sentito vacillare la sua fede nell'Esercito e nel Capo che la comanda .... Sappia il nemico e sappia il mondo che gli Italiani, dallo stesso inesprimibile dolore per la Patria invasa, traggono la virtù di comporre ogni loro interiore dissenso e di rinsaldare volontà, energia e opere affinché il suolo della Patria sia riconsacrato dalla immancabile vittoria".

A Wilson telegrafava che il nostro popolo sosteneva "con indomito cuore l'ora delle avversità" e a Lloyd George: "Se il nemico tenta di scuotere così la nostra resistenza interna, esso consegue l'effetto del tutto contrario, poiché la necessità ha rinsaldata e temprata la nostra compagine nazionale".
Ai prefetti del Regno poi telegrafava: "Abbiamo l'incrollabile fede che l'Esercito nostro, subito riavendosi dall'urto immane, saprà con il consueto valore riconquistare il suolo della Patria e ricondurre alla vittoria le nostre bandiere. A questa grande battaglia che si combatte per essere o non essere, il popolo tutto deve partecipare con concordia di intenti, con saldezza di animi, con austerità di disciplina".

Le amministrazioni comunali di tutte le città d'Italia pubblicavano manifesti incitanti alla calma e al sacrificio; il ministro COMANDINI scriveva a tutti i segretari provinciali delle opere federate di assistenza e propaganda nazionale nobili parole, raccomandando loro di "essere presenti dappertutto, assertori di fede e di verità"; le loro parole di fede lanciavano i mutilati, i quali, noncuranti delle proprie ferite, ancora non bene rimarginate, partivano a scaglioni per il nuovo fronte, se non proprio per impugnare di nuovo le armi, per rincuorare i combattenti; manifesti pubblicavano le associazioni politiche, le patriottiche, le cattoliche; l'unione magistrale agli educatori d'Italia, il vescovo castrense ai cappellani; 346 deputati al Paese, il ministro DALLOLIO agli operai, la Dante Alighieri ai suoi comitati, le madri dei Caduti ai combattenti, l'unione dei medici ai propri clienti; la confederazione del Lavoro affermava che il popolo italiano doveva "raccogliersi in un supremo sforzo di volontà, per respingere l'assalitore" perché, "quando il nemico calpesta il nostro suolo, un solo dovere si ha, quello di resistergli"; l'onorevole PRAMPOLINI raccomandava agli operai di avere i nervi a posto e l'animo fermo e l'onorevole TURATI dichiarava che se egli non aveva mai voluto la guerra, ora bisognava dar tutte le energie per la resistenza.

Il 10 novembre si riunirono presso l'on. MARCORA, presidente della Camera, i quattro ex-presidenti del Consiglio, onorevoli BOSELLI, GIOLITTI, SALANDRA e LUZZATTI, i quali, data la gravità dell'ora, stabilirono di rivolgere tutta la loro attività affinché tutte le forze del Paese, sopite le lotte dei partiti, si cimentassero e tendessero alla difesa della Patria.

LA RIAPERTURA DELLA CAMERA
IL DISCORSO DELL'ON. ORLANDO
E LE DICHIARAZIONI DEGLI EX-PRESIDENTI DEL CONSIGLIO

Il 14 novembre avvenne alla Camera una storica seduta. Il presidente del Consiglio, on. ORLANDO, pronunciò un importante discorso, in cui accennò all'eccezionale gravità degli avvenimenti che non doveva essere attenuata parlando da uomini forti ad un popolo forte e sereno, parlò della difficile situazione militare creatasi dopo la dodicesima battaglia dell'Isonzo e dopo il ripiegamento al Piave consigliato da ragioni strategiche, disse che il Paese e il Parlamento come avevano inneggiato all'esercito nei giorni delle vittorie così dovevano ora inneggiare nell'ora delle avversità; e affermò che i soldati italiani avrebbero accolto il fiero grido d'incitamento di tutti coloro che davanti all'irrompere degli invasori avevano dovuto abbandonare la loro terra.
"Io ho veduto - disse - le lunghe file dolorose, che si vanno diffondendo per le varie parti d'Italia; molte parole ho udito di accoramento e di rimpianto; ma non un grido solo di disperazione e di viltà; non un grido solo che non fosse d'affetto per la Patria, i cui destini avevano imposto il grande sacrificio. Questo spettacolo d'infiniti dolori così nobilmente sopportati, mentre determina una magnifica manifestazione di solidarietà nazionale, addita, al Governo precisi doveri che esso si sforza di assolvere pur tra le difficoltà create dalla vastità del disastro e dalla maniera improvvisa dove è avvenuto. Intanto tra, le prime sue cure il Governo intende provvedere affinché al vincolo territoriale, per ora venuto meno, supplisca, per quanto è possibile, il ricongiungimento intorno agli uffici rappresentativi delle varie comunità; ed ha già istituito l'ufficio di un alto Commissariato attraverso il quale lo Stato assume la direzione dei complessi servizi di assistenza ed affronta nel tempo stesso i problemi che si collegano con il formidabile esodo dei nostri fratelli".

Poi l'on. Orlando parlò degli Alleati, della Convenzione di Rapallo e dei doveri dell'Esercito e del Paese:
"È la prima volta che le fiere truppe di quella meravigliosa manifestazione di volontà e di forza nazionale che è l'esercito inglese intervengono in Italia a combattere; ma già altra volta in Crimea e ora sulla fronte macedone soldati inglesi e soldati italiani si sono potuti conoscere ed apprezzare. Non è invece la prima volta che il sangue dell'esercito francese sta per bagnare il suolo d'Italia in difesa della libertà; della libertà nostra a Magenta, e Solferino; della libertà comune a tutte le genti, domani.
Alla ferma e cordiale solidarietà degli Alleati era mancata finora la forza animatrice e fattiva della organizzazione pratica e spedita. A ciò si è provveduto nel recente Convegno di Rapallo. Fu deciso di creare un Consiglio Supremo politico fra gli Alleati, al quale spetta l'essenziale compito di meglio coordinare l'azione militare nelle diverse zone di guerra del fronte occidentale. Fu pure costituito un Comitato Militare consultivo permanente per coadiuvare il Consiglio Supremo con l'esperienza tecnica degli eminenti generali chiamati a farne parte; tali consigli comprenderanno pure i rappresentanti degli Stati Uniti d'America, che parteciperanno alla guerra sul fronte occidentale.

Anche nell'ultima dolorosa nostra coincidenza la grande Repubblica Americana ci fornì solenne prova del suo potente e volenteroso concorso, per il quale esprimo la riconoscenza del Paese. Il Governo ha inoltre avvertito essere suo essenziale dovere il tenersi in continuo contatto con l'Esercito e con il suo Comando Supremo; e, occorrendo, si riserva di rapidamente attuare forme e modi capaci di meglio regolare e ordinare tali rapporti. Il Governo sa che l'Esercito è il popolo in armi, e di questo è unica e diretta rappresentanza. Data la guerra moderna, come non esiste politica, se non in funzione di guerra, così la direzione della guerra è in intimamente collegata con la necessità della complessa vita del Paese. Non vi sono due Italie: una dove si combatte e si muore; l'altra impegnata solo ad inviare uomini e mezzi. Vi è un'Italia sola, come vi sono un solo Governo, una volontà e un dovere per tutti: respingere il nemico e vincerlo; vincerlo con le forze delle armi; vincerlo con la resistenza interna del Paese.
On. Colleghi ! Il nemico si prefiggeva due obiettivi, militare l'uno, politico l'altro, ridurre in frantumi l'esercito e decomporre il Paese. Mentre i nostri soldati combattono perché sia arginato il successo militare, ben possiamo noi affermare che il secondo fine non sarà raggiunto. Molte volte la concordia degli animi fu invocata in questa Camera ed ebbe larga eco, se pure con esito non completo. Ma ora la stessa solenne gravità dell'ora conferisce ben altra austerità in questo dovere. Prima della guerra da noi dichiarata, era rispettabile l'opinione di chi non la credeva necessaria. Dopo che essa fu dichiarata, poté anche comprendersi una diversa valutazione e quindi un dissenso sul fine della guerra e sul modo di pervenire alla pace, allorché l'Italia aveva la fortuna d'essere l'unica fra le Nazioni continentali di cui nessuna parte di territorio nazionale fosse occupata dallo straniero. Oggi, dinanzi all'invasione nemica e alla persistente pressione di essa, nessun dubbio, nessuna esitazione sono possibili. Chi resta al di fuori della compagine nazionale rinnega, le qualità d'italiano e chi, in questo momento, rinnegasse le sue qualità d'italiano non potrebbe neppure dirsi straniero ma nemico".

L'on ORLANDO così chiuse il suo discorso:
"Compreso della necessità di una tale affermazione d'unione nazionale, il Governo ha creduto che solo il Parlamento potesse dare un'espressione solenne e tangibile della volontà del popolo, così al cospetto del nemico come in confronto dei nostri Alleati e proclamare dinnanzi al giudizio di tutto il mondo civile e della storia che il popolo italiano riconsacra la sua unità morale nell'ora della sventura e riafferma la sua irremovibile decisione di sopportare ogni sacrificio, di subire ogni lacerazione, ma di tenere alta la fronte, impavido il cuore fra le avversità, fedele all'impegno d'onore, che ha assunto quando ha partecipato ad una lotta per il trionfo del diritto e della giustizia fra le genti. In questa idea del Parlamento io comprendo e anzi antepongo Colui che del Parlamento è parte e capo - l'Augusto Sovrano, la cui parola suonò animatrice e incitatrice al popolo italiano e ne assunse in un supremo comandamento il dovere supremo: tutti siamo pronti a dar tutto per la vittoria e per l'onore d'Italia!".

Dopo il discorso dell'on. Orlando, coronato da grande ovazione, fecero brevi dichiarazioni gli ex-presidenti del Consiglio. L'on. BOSELLI, che aveva presentato un ordine del giorno ("La Camera afferma la necessità della concordia nazionale, della fusione di tutte le energie, per fronteggiare l'invasione nemica, mediante il valore dell'Esercito e la fede negli Alleati"), disse:
"Sarà passeggera l'ora del pericolo per l'Italia unita, libera, forte. All'invasione nemica risponde arditamente l'anima eterna di Roma, l'anima delle Venezie, alle quali il soffrire per l'Italia è vocazione gloriosa, onde tutti gl'italiani all'incomparabile dolore delle intrepide Venezie s'inchinano commossi e riconoscenti .... Non pensi il nemico invasore di deprimerci o di dividerci. Dalla reggia alle più umili case, da ogni città ad ogni paese, dalle scuole alle officine e ai campi, e unanime il pensiero, unanime il volere per la patria rivendicazione; e, di fronte all'ira e alla minaccia del nemico, si risvegliano il grido fatidico di Carlo Alberto, che risuonò per tutte le terre e per i mari italiani, e, con ispirazione potente, l'inno vittorioso di Garibaldi".

L'on. GIOLITTI dichiarò:
"Non è tempo di discorsi; ma di guardare con la calma dei forti alla realtà e di agire con suprema energia e prontezza. Sul valore dei nostri soldati possiamo fare sicuro affidamento, e ora ogni cittadino deve avere animo di soldato, disciplinato e pronto a qualsiasi sacrificio. I rappresentanti della Nazione devono darne l'esempio. I fedeli e valorosi Alleati, che vengono a combattere al nostro fianco, devono trovare l'Italia tutta virilmente in piedi, degna della sua storia ....".

L'on. SALANDRA sostenne che uno spirito di fratellanza doveva avvicinare gli uomini di tutti i partiti, essendo tutti fratelli in armi contro un solo nemico; affermò doversi aver fede negli Alleati e sapere ispirare fede, ma aggiunse:
"Il concorso degli Alleati non può in alcun modo attenuare il nostro sforzo. Solo a questo patto noi potremo largamente valercene, senza menomare la nostra dignità e il nostro onore".

L'on. LUZZATTI portò alla Camera l'invito dei Veneti di sopportare ancora una volta, tutti i sacrifici, tutto il martirio, tutti i dolori, pur di serbare fede ai principi d'indipendenza e di libertà che costituiscono l'onore nazionale d'Italia.
Alle dichiarazioni degli ex-presidenti l'on. PRAMPOLINI aggiunse quella dei socialisti ufficiali. Affermò che...

"il Gruppo Socialista è interprete e difensore del pensiero e degli interessi delle masse che soffrono più duramente i dolori della guerra; e che non è questa l'ora dei palleggiamenti di responsabilità, ma che nessuno speri di sottrarsi a queste…i socialisti hanno sempre respinto e denunciato come sedizioso e scellerato ogni tentativo di aggredire il partito quale responsabile di eventi complessi sulla cui causa ben altra indagine (che i socialisti invocano) dovrebbe condursi" ed infine sostenne "…contenere il Socialismo, entro gli schemi della sua concezione, tutte le ragioni ideali e materiali dell'indipendenza territoriale".

Dopo i discorsi fu approvato per acclamazione l'ordine del giorno BOSELLI e la seduta si chiuse con altissime grida di Viva l'Italia.

L'ORDINE DEL GIORNO DEL SENATO

Quel giorno stesso l'on. ORLANDO parlò al Senato, dove pronunciarono vibranti parole patriottiche il presidente MANFREDI e TITTONI. Quindi il Senato votò per acclamazione i1 seguente ordine del giorno che per prima portava la firma del Generale CANEVA:
"Il Senato, in quest'ora di supremo cimento per la Patria, riafferma la sua fiducia immutabile nell'esercito lungamente sperimentato in eroiche battaglie; fa plauso all'unità d'azione fra gli Alleati, vigorosamente affermata, novello pegno di stretta solidarietà; confida che dalla concordia nazionale auspicata dall'Augusta parola del Re, il Governo attingerà le forze per fronteggiare le gravi difficoltà del momento; richiedendo lo sforzo massimo da tutti i cittadini, anche a sollievo delle patriottiche popolazioni delle terre invase, alle quali il Senato invia la parola di amore e di fede".

BELOW RIPRENDE L'OFFENSIVA


Tutto questo accadeva alla Camera e al Senato, dal giorno 10 al 14. E proprio il giorno 10, BELOW non aveva finito la sua missione, arrestandosi sulla sponda sinistra del Piave, anzi aveva appena iniziato la sua nuova offensiva.

DIAZ al suo primo giorno di comando, e con gli austro-tedeschi sul Piave, ebbe il suo primo dispiacere, ma non dai nemici, ma dai suoi Alleati. Mentre Below il 10 novembre dava inizio alla sua offensiva, l'11, Diaz s'incontrava con Foch e Wilson (capi delle forze francesi ed inglesi in Italia) per decidere il loro intervento effettivo sul fronte italiano. Non senza meraviglia Diaz si trovò di fronte al rifiuto dei due generali, che fra l'altro, così era stato convenuto negli incontri di Rapallo e Peschiera di pochi giorni prima, avrebbero i due generali dovuto attenersi alle sue disposizioni. Alla richiesta di spiegazioni, venne così a conoscenza di un accordo segreto stipulato fra Roma, Parigi, Londra, secondo il quale truppe anglo-francesi non potevano cimentarsi contro gli Austro-Tedeschi senza il consenso dei rispettivi governi.
E per il momento, gli alleati, giunti in Italia -strombazzando a quanto si legge ancora oggi in certe pubblicazioni d'oltr'Alpe- "per salvare l'Italia", rimasero semplici spettatori.

Solo il 24 novembre, gli Inglesi -commossi dal sublime spettacolo dei fanti italiani e la lotta epica che offrivano al mondo contro due Imperi (in 14 giorni tanti "leoni" ONIDA avevano fatto desistere Below a proseguire l'offensiva sul Piave, rimandandola alla primavera successiva), giudicarono poco dignitoso per loro rimanere nelle retrovie di Mantova e Brescia, e si offersero spontaneamente di entrare in linea. I francesi dimostrando una sensibilità meno pronta, dissero che sarebbero intervenuti, ma solo in riserva sul Brenta, salvo muoversi il 5 dicembre, dopo l'arrivo di un altro contingente.
Considerata la necessità assoluta di infoltire la prima linea, Diaz accettò questa soluzione.

Di questa eroica resistenza parleremo nel prossimo capitolo

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