LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1918

RIORGANIZZAZIONE ESERCITO ITALIANO
PICCOLE AZIONI - LA GRANDE ATTESA

RIORGANIZZAZIONE DELL'ESERCITO - COMBATTIMENTI NELLE ZONE DELL'ASOLONE E DEL SOLAROLO - LA BATTAGLIA DEI TRE MONTI - L'INVIO DI TRUPPE ITALIANE IN FRANCIA - LA CONQUISTA DEL MONTE CORNO - L'ATTIVITÀ DEGLI ARDITI - IL PROCLAMA DEL RE ALL' ESERCITO E ALL'ARMATA - VITTORIOSA OFFENSIVA NELLA ZONA DEL PASSO TONALE - PREPARATIVI NEMICI PER UNA GRANDE OFFENSIVA

 

RIORGANIZZAZIONE DELL'ESERCITO

I reparti dell'Esercito Italiano, non ancora del tutto organizzato, li avevamo lasciati il primo gennaio di questo 1918, mentre da circa cinquanta giorni (da quel fatidico 7 novembre) resistevano sugli Altipiani e sul Piave.
Nel frattempo l'esercito andava subendo dei mutamenti ed era completamente riorganizzato.
Con i Corpi VI e XXVIII della vecchia II Armata e con il XXV e XXX della III si costituì una nuova II Armata con sede a Lonigo (a sud di Vicenza, ad ovest di Padova); con il II e XIX fu formata una V Armata con sede a Borgo S. Donnino.
Il XXVII fu dato alla IV e più tardi con l'VIII formò l'VIII Armata del Pennella; col XIII e con il XX fu costituita una VI Armata sotto gli ordini del generale MONTUORI e con il III e il XII una VII comandata da TASSONI. Si migliorarono le condizioni di vita dei combattenti sia dal lato morale sia da quello materiale, fu curata la propaganda di guerra e si istituirono nuovi Reparti d'assalto, dandone uno in dotazione a ciascun Corpo d'Armata e costituendo, nelle immediate retrovie, scuole d'assalto, simili a quelle di Sdricca, e battaglioni arditi di marcia.

Il generale ARMANDO DIAZ fu molto più attento ai suoi soldati di Cadorna. Concesse dieci giorni di licenza in più, fu stipulata un'assicurazione gratuita sulla vita, ci si prese più cura delle esigenze delle truppe e dei loro familiari, furono (sull'ondata bolscevica) anche fatte promesse di "terre ai contadini" a guerra finita; ed anche se non venne meno la disciplina, le "decimazioni alla Cadorna" non ci furono più. Diaz non era una "nullità" come dicevano i suoi denigratori zelatori del vecchio militaresco stato maggiore, era sì un militare, ma era anche un uomo che nell'esercizio del comando insieme alla più rigida osservanza dei regolamenti, recava una nozione di umanità e di bonarietà propria dei napoletani e del tutta nuova nella tradizione militare, che era piemontese. Diaz procurò che a qualunque costo e in qualunque posto, il rancio arrivasse caldo mangiabile e in orario; che la posta arrivasse puntualmente; che i soldati avessero biancheria e vestiario a sufficienza; che si rispettasse i turni in prima linea; e volle persino che ogni soldato avesse nel suo corredo qualche ago e un po' di filo.
Piccole cose queste, ma c'erano anche quelle grandi; e la più grande era che Diaz era prudente e rifiutò sempre di mettere a rischio la vita dei suoi soldati se non era necessario. Persino alla fine del 1918, anche quando era evidente che l'Austria stava per crollare, fu riluttante a sferrare il famoso attacco che poi il 4 novembre portò l'esercito a Vittorio Veneto.

L'anno che iniziava doveva essere l'anno della riscossa, anche se molti erano pessimisti, e solo pochi erano ottimisti, indipendentemente dal colore politico; era la realtà oggettiva che dava poche speranze. Gli Austro-Tedeschi avevano sì abbandonata la grande offensiva di fine autunno, tenendo qua e là qualche reparto per rintuzzare o mantenere le posizioni conquistate, ma avevano tutte le intenzioni di riprenderla a primavera, dopo aver fatto convergere sul Friuli una massa imponente di uomini e mezzi, soprattutto dopo il disimpegno in oriente.
Le più nere previsioni erano, che avrebbero scatenato l'offensiva con circa 500.000 soldati. Furono poi 400.000, che era pur sempre il più grande esercito mai visto in Italia in tutti i tempi. Inoltre era un esercito invasore traboccante di tecnologia bellica; mitragliatrici, aerei, navi, sottomarini.
L'incognita era solo quando, in che mese e giorno, e quanti giorni avrebbe resistito l'esercito italiano al Piave e sugli Altipiani, prima di essere buttato oltre l'Adige, e forse oltre il Mincio.
In primavera, ci fu vera angoscia, quando si ebbe non la sensazione ma la certezza che il nemico stava preparando una grande offensiva. Infatti, le notizie che giungevano al Comando Supremo erano tutte concordi nel riferire che numerose truppe affluivano e si concentravano nelle valli e nei villaggi del Trentino, che artiglierie in gran quantità vi erano state portate da altri fronti e che vi erano stati istituiti grandi depositi di munizioni. E tutti questi movimenti erano circondati da gran mistero e questo era sufficiente indizio di non lontani e drammatici avvenimenti.
(questi grandi preparativi Austro-Tedeschi, ma anche le deficienze, li leggeremo nella prossima puntata)

Tuttavia il nuovo anno trovava gli italiani

"…sulla breccia, fieri e dignitosi anche nell'avversa fortuna, con in cuore un solo profondo desiderio: infrangere e ricacciare la marea, nemica e muovere alla riscossa".

Queste parole rivolgeva il primo giorno del 1918 il DUCA D'AOSTA alle sue truppe della III Armata e non faceva della retorica, perché dal comandante supremo all'ultimo fantaccino tutti i soldati ardevano della brama di ritornare sulle posizioni abbandonate, su quel Friuli e parte del Veneto che il nemico stava calpestando con un'arroganza inaudita, e con un tale ottimismo da far gridare agli austriaci "A Milano! A Milano!"
Ma la stagione era inclemente e non permetteva offensive Austriache. E anche l'Italia era ancora in un periodo di consolidamento delle posizioni del nuovo fronte e di riorganizzazione dei servizi e dell'esercito e non poteva pensare ad una prossima rivincita. Tuttavia la guerra non aveva soste. Quotidiane erano le azioni delle artiglierie contro le prime linee o le retrovie; sovente il nemico tentava con barche o passerelle da isolotto a isolotto di raggiungere la sponda destra del Piave provocando furiosi concentramenti di fuoco; frequenti erano gli scontri delle pattuglie in ricognizione e i tentativi di sorprendere un piccolo avamposto o di catturare quelle implacabile mitragliatrice nascoste nei cespugli degli isolotti dell'ansa.
Alcuni combattimenti, dopo una calma di un paio di settimane, si accesero verso la metà di gennaio.

Ed ecco il bollettino del 16 gennaio cosa riportava:

COMBATTIMENTI NELLE ZONE
DELL'ASOLONE E DEL SOLAROLO

"Nel pomeriggio del 14, nella regione dell'Asolone, le truppe italiane, efficacemente sostenute dalle artiglierie, avanzarono con grande bravura per rettificare la propria linea da nord di Osteria "Il Lepre" all'inizio della Val Cesella. Nonostante un'accanita resistenza e una vivace reazione nemica, notevoli vantaggi poterono essere conseguiti e gravissime perdite furono inflitte all'avversario. Catturammo 8 ufficiali, tra cui un tenente colonnello, e 263 uomini di truppa. Al saliente del Monte Solarolo reparti arditi, svolgendo un'efficace azione dimostrativa, penetravano fin dentro le trincee avversarie. Ad est di Capo Sile, con azione di sorpresa eseguita con mirabile slancio, ampliammo la testa di ponte, strappando alcune, trincee al nemico e respingendo poi i suoi ripetuti contrattacchi. Furono catturati 2 ufficiali, 43 uomini di truppa, 2 mortai da trincea ed alcune mitragliatrici".

"Nella stessa mattina del 14 il nemico, dopo un'intensa preparazione di fuoco, tentò di rioccupare le posizioni perdute nella zona del Monte Asolone ma non vi riuscì. Contrattaccò pure, nella notte ma fu respinto, ad est di Capo Sile. Qui, la mattina del 15, dopo un prolungato tiro di distruzione, tentò uno sforzo poderoso per ricacciare gli italiani dalle posizioni conquistate o difese il giorno precedente. IL bollettino del giorno 16 gennaio riportava:
"La lotta, estremamente violenta ed accanita, fu sostenuta con grande fermezza e valore dal 2° Reggimento granatieri e da reparti del l° e 7° battaglione bersaglieri ciclisti, magnificamente appoggiati da tutte le artiglierie del settore. Alle 11 l'avversario, stremato dalle perdite subite e sospinto dai contrattacchi dei nostri, dovette rinunciare all'azione e ripiegare sulle posizioni di partenza. Restarono nelle nostre mani 119 prigionieri, di cui 2 ufficiali. Sul luogo della lotta, coperto di cadaveri nemici, furono raccolti oltre 500 fucili, parecchie mitragliatrici ed altro materiale da guerra".

LA BATTAGLIA DEI TRE MONTI


Una decina di giorni dopo, sugli Altipiani, fu combattuta una grossa battaglia, quella chiamata dei "Tre Monti", il cui obiettivo era la conquista del Valbella, del Col del Rosso e del Col d'Echele. L'azione dell'artiglieria cominciò il 27 gennaio con un nutrito fuoco di pseudo-preparazione di grossi e medi calibri sul fronte Canove-Sisemol con finta apertura di varchi in corrispondenza di Canove, Ave, Zocchi e Stollar per attirare su questi punti l'attenzione e le forze del nemico; continuò con un tiro d'interdizione con granate a gas della durata di un'ora circa, all'alba del 28 gennaio, in Val Frenzela, in Valle Stenfle e al Buso e con granate scoppianti sulla linea Eck-Mosc, in Val Scura e in Val Fontana; proseguì con un fuoco intensissimo di distruzione a raffiche intervallate di mitraglia, eseguito da tutte le batterie di piccolo e medio calibro; e si concluse con un tiro di accompagnamento iniziato dopo l'apertura dei varchi e precedente di qualche centinaio di metri le truppe avanzanti.
All'azione dell'artiglieria italiana, che provocò una violentissima reazione da parte di quella nemica, presero parte un'ottantina di batterie campali leggere e da montagna, 48 batterie di calibro maggiore e 5 di bombarde.
Parteciparono alla battaglia che durò due giorni, il 28 e il 29 gennaio, il I e il II Reparto d'Assalto della II Armata, passati da circa un mese alle dipendenze della I Armata e ricostituiti a Longara e a Debba (a sud di Vicenza), al comando del maggiore GIUSEPPE AMBROGI e del capitano ABBONDANZA, con i resti dei sei (!) Reparti del colonnello BASSI; il IV, il XVI e il XXI Reparto d'Assalto; le brigate "Sassari" (151° e 152°, "Liguria" (157° e 158°) e "Bisagno" (209° e 210°), la 4° brigata bersaglieri (14° e 20°, il 5° reggimento bersaglieri e i battaglioni alpini "Bassano", "Val d'Adige", "Stelvio", "Monte Baldo" e "Tirano". Tutte queste forze erano agli ordini del generale SANNA, comandante la 33a divisione.

Azione dimostrativa furono compiute dagli alpini dal fondo della Val Brenta in direzione di Foza. Dimostrando grande valore e molta tenacia, dimenticando il carattere della loro azione, attaccarono a fondo, conquistarono la forte posizione di Croce, di San Francesco, presero d'assalto Cima Cornone (1048 metri), conquistarono la quota 1109 di Sasso Rosso e respinsero numerosi contrattacchi in forze sferrati dal nemico durante il giorno e nella notte.
L'azione principale fu quella contro il Valbella, Col del Rosso, e Col d'Èchele. Il Valbella fu attaccato frontalmente dal II Reparto d'Assalto, che con impeto, superata l'accanita resistenza nemica, in poco tempo conquistò la cima del monte; ma più tardi, per il mancato sopraggiungere di rincalzi e per il ritardo fatale della colonna che per quota 1200 doveva puntare sulle Portecche, le "Fiamme Nere" dell'Abbondanza, contrattaccate da forze fresche e otto volte superiori di numero, dopo una difesa leonina, dovettero ripiegare decimate verso le posizioni di partenza.
A sera la 4a brigata bersaglieri occupò i costoni occidentali ed orientali del Valbella e la mattina del 29, con il IV Reparto d'Assalto, conquistò la cima.

Col del Rosso e Col d'Èchele furono pure questi attaccati dal II Reparto d'Assalto, che aveva di rincalzo il 151° e il 152° reggimento fanteria e due compagnie di alpini. L'attacco degli arditi fu travolgente: sebbene il nemico contrastasse il terreno con grande accanimento e mandasse nella battaglia truppe sempre fresche e numerose, le "Fiamme Nere", ben assecondate dai fanti della "Sassari", superarono ogni difesa, respinsero sanguinosamente ogni contrattacco, presero d'assalto le posizioni nemiche e si spinsero fino a Stoccaredo e Zaibena.
Il giorno 29 gennaio il successo fu ampliato e le conquiste mantenute nonostante gl'immani sforzi fatti dal nemico per riprenderle.

Dal bollettino del 30 gennaio:

"Fortissime furono le perdite inflitte al nemico, che ebbe due divisioni quasi completamente distrutte; notevole il bottino di guerra, non del tutto calcolato, ma comprendente oltre 100 ufficiali e 2500 uomini di truppa prigionieri, sei cannoni di vario calibro, circa 100 mitragliatrici, numerosissime bombarde, parecchie migliaia di fucili, ingentissime quantità di munizioni e materiale di varie specie. Violenta fu la reazione dell'artiglieria nemica sulle posizioni conquistate; rapidi e potenti i concentramenti del nostro fuoco fin sui più lontani obiettivi; numerosi i tentativi di ricognizione e d'offesa dei velivoli nemici; pronta l'aggressività dei nostri e aggiustato il tiro antiaereo, che nelle due giornate abbatterono diciassette apparecchi avversari".

Era quella del 28 e del 29 gennaio la prima azione offensiva operata dalle truppe italiane dopo il ripiegamento al Piave.
Averla compiuta con un così brillante successo era, una prova dello spirito (rabbioso) elevatissimo dei nostri soldati, che prima… avevano dimostrato tutta la loro forza resistendo ai colpi di maglio del nemico ed ora iniziavano la riscossa con tutta la loro rabbia in corpo. Senza tante istanze patriottiche, ora c'era in gioco il proprio destino: quello delle famiglie, della casa, del lavoro e gli affetti oltre la propria esistenza. Iniziavano a fare la grande storia partendo ognuno dalla sua piccola individuale storia, di sentimenti e vicende personali. Ma che messe insieme era la prima vera acculturazione unitaria che non aveva precedenti come esperienza psicologica per qualità e quantità della nascente moderna società di massa attanagliata in un coinvolgimento emotivo, saltando tutti gli steccati di quella che era prima la gerarchia, l'inquadramento, la partecipazione militarizzata, quella politicizzata, o quella eroicizzata dagli intellettuali come il Marinetti, il D'Annunzio, il Boccioni, il Russolo ecc. ecc. La guerra non era bella, non era spettacolare, non era meravigliosa, la mitraglia non era un suono musicale, ma era sempre di più una grande faccenda sporca, nel freddo, nella fame, e nelle noiose lunghe ore d'attesa dentro una trincea; fossati di fango dove le preoccupazioni del tenente in quella sporca vita quotidiana erano identiche a quelle dell'ultimo fante. Reciprocamente acquisirono qualcosa; e questa sì fu una esperienza-avventura meravigliosa. Perché non era raro in quelle ore di immediati bisogni materiali e morali, che qualche fante bifolco "analfabeta", rincuorasse lo scoraggiato ufficiale "sapiente" che piangeva e tremava dalla paura come un bambino.

E il Paese? In quanto alle aspirazioni patriottiche com'era?
A parte cosa pubblicavano i giornali, la realtà delle spaventose ed orrende ecatombe, creavano sofferenze e tristezza. Nel maggio '17 i morti erano stati 35.000, nell'agosto circa 30.000, infine alla disfatta di Caporetto i numeri erano stati da capogiro, non si usavano più le decine di migliaia, ma le centinaia; tutte le cifre ufficiali erano (per il morale delle truppe, ma soprattutto per la "figuraccia" politica dell'Italia) inferiori al vero; la verità si fornì con il contagocce e non sempre -per non allarmare- veniva riportata dai bollettini e dagli organi d'informazione; inoltre si bluffava con le centinaia di migliaia di dispersi, catturati e inviati nei campi di concentramento in Austria o in Germania. Coloro non vedevano tornare a casa il proprio familiare o non avevano di lui più notizie si cullavano nella speranza di rivedere un giorno i propri cari. La serenità fiduciosa dell'attesa, era pur sempre meglio dell'angoscia disperata; e alla prima ci si appigliava.
Ma durante quelli che furono i due mesi più atroci della lunga tragedia, non passava giorno senza che l'annuncio ferale non giungesse a questa o a quella famiglia, gettandola d'improvviso nel pianto e non di rado anche nella squallida miseria. Dopo tre anni di conflitto, c'erano madri che apprendevano la morte anche del secondo figlio, partito per il fronte poco più che ragazzo.
Questa frequenza dei lutti, stringeva il cuore di quanti sapevano i propri figli ancora illesi, ma sapevano anche che erano in continuo pericolo, e che prima o poi…

Quindi non si poteva umanamente pretendere che il Paese: cioè i genitori, le spose, i figlioletti, fornisse prova di grandi entusiasmi per questa guerra che non finiva mai, e con la stessa guerra che tendeva ad acquistare il significato tremendo di una strage senza scampo, una fatalità ineluttabile. Tutti si rendevano conto che dopo Caporetto, con le precarie truppe, in piena crisi di sfiducia queste e i loro stessi comandanti, l'Italia era mutilata e minacciata dall'estrema rovina.
L'umile fante, ignaro di storia e geografia, comprendeva poco il dovere di battersi per la redenzione di Trento e Trieste; città prima sconosciute, ne ignoravano perfino il nome. E questo non era dovuto ad un'indolenza mentale, ma ad un sistema educativo, scolastico, non diffuso nelle classi abbienti. Che per la maggior parte era quel "popolo" che si trovava in trincea. Del resto l'irredentismo era un movimento intellettuale seguito soltanto dalle minoranze colte, dinamiche e soprattutto del settentrione.
Ma dopo Caporetto non fu più questione di storia, geografia, etnografia. Ora tutti sapevano di aver perduto due belle province, abitate da gente come loro; e con la minaccia che bastava ancora fare un passo indietro e avrebbe voluto dire la desolazione di altre città, altre miserie.
Ma oltre a questa concordia di animi, di volontà, d'intenti, di un popolo combattente a soffrire e di un Paese pronto a fare altri sacrifici, le sorti di una guerra sappiamo possono essere decise soprattutto da fatti e circostanze imponderabili. E uno di questi è racchiusi in una massima di Napoleone: "Non si è mai abbastanza forti là dove s'intende portare il colpo decisivo". Gli Austriaci, proprio loro, avrebbero dovuto saperlo, ma non ne tennero conto.
Vedremo nella successiva puntata come -con l'arroganza- si prepararono alla grande offensiva di primavera.
Noi qui nel frattempo seguiamo questi primi mesi del 1918.

Dal bollettino del 1° febbraio:

"Il 31 gennaio, dopo ripetuti e sempre vani tentativi di ritoglierci i progressi conseguiti nella regione di Sasso Rosso, il nemico iniziò un'azione più intensa per ributtarci dal Monte Valbella, donde nelle prime ore del giorno nostri reparti avevano raggiunto di slancio la testata della Val di Melago. Prima però che l'attacco riuscì a toccare le nostre linee, grazie all'efficace cooperazione dell'artiglieria, gli assalitori furono presi sotto un fulmineo e potente fuoco di sbarramento, che li costrinse a ripiegare sulle posizioni di partenza".


Dopo la battaglia dei Tre Monti, l'attività combattiva si limitò a duelli d'artiglieria, a brillamenti di mine, ad azioni vivaci di pattuglie, a colpi di mano nelle linee avanzate italiane e del nemico, a puntate di fanteria, e tentativi d'irruzione in trincee di vigilanza. Due attacchi nemici tentati contro le posizioni del Valbella, del Col del Rosso e del Sasso Rosso, il 10 e l'11 febbraio, fallirono; nella zona del Col Caprile, il 12 febbraio, un tentativo d'irruzione di fanterie avversarie, preceduto da intensa preparazione di fuoco, fu immediatamente soffocato dal fermo contegno dei Grigioverdi e dall'efficace intervento delle artiglierie. Fra Garda e Adige, gli "arditi", il 13, superati felicemente più ordini di reticolati nemici, raggiunsero di sorpresa in due punti la linea avversaria.
In fondo Val Brenta un riparto nemico che il 22 febbraio tentava impadronirsi di una piccola guardia, fu respinto dopo un vivace combattimento. A Capo Sile, il 24, nuclei avversari che su un largo fronte tentavano attaccare la testa di ponte italiana furono prontamente dispersi. Il 2 marzo, sulla sinistra della Val Frenzela, una puntata di fanteria nemica largamente appoggiata dal fuoco d'artiglieria fallì completamente sotto il tiro di sbarramento italiano.
Marzo trascorse tra quotidiani duelli d'artiglieria e continua guerriglia di pattuglie. Frequenti azioni di nuclei d'assalto e di esploratori e concentramenti di fuoco caratterizzarono il mese d'aprile.


L'INVIO DI TRUPPE ITALIANE IN FRANCIA

Il 18 aprile l'on. ORLANDO annunciò al Parlamento l'invia di truppe italiane in Francia, contro la quale, sulla fronte di Piccardia, si era scatenata una furibonda offensiva tedesca.

disse il presidente del Consiglio:
"In questo che è certamente il momento culminante del conflitto -non poteva mancare accanto ai suoi Alleati, non doveva mancare l'Italia. L'Italia, che pure avverte di essere l'estrema ala destra dell'unico esercito dei popoli liberi e che pertanto prevede di dovere essa stessa trovarsi impegnata direttamente nel gigantesco duello, ha sentito nondimeno che non poteva essere assente in quest'ora suprema della tormentata, gloriosa terra di Francia. Essa ha portato la sua tangibile solidarietà agli Alleati. Essa vi ha portato tutto quel concorso fervido e appassionato che le circostanze potevano consentire ...., bandiere di reggimenti italiani saranno spiegate al vento sui campi di Piccardia e di Fiandra insieme alle bandiere, alleate".

Quelle che partivano nell'aprile non erano le prime truppe italiane che andavano in Francia. In compenso delle divisioni francesi scese in Italia, il Comando Supremo Italiano aveva mandato 5 mila territoriali, che ben presto salirono a 70 mila e che furono non molto ben trattati.
Inoltre, sferratasi l'offensiva tedesca, rientrarono in Francia dal fronte italiano una divisione inglese e due francesi; e continuando l'offensiva, altre due divisioni francesi furono richiamate. Solo due divisioni francesi rimanevano in Italia quando mandò in aiuto degli Alleati il II Corpo d'Armata, comandato dal generale ALBRICCI.


LA CONQUISTA DEL MONTE CORNO
L'ATTIVITÀ DEGLI ARDITI


Nel maggio l'attività combattiva alla fronte italiano cominciò a farsi più intensa. Nella notte del 10 maggio, una compagnia del III Reparto d'Assalto, comandata dal tenente Sabbatini, rincalzata da una compagnia della brigata "Murge" (259° e 260°), dopo una vivace lotta condotta con grande ardimento, riprese al nemico l'aspra e ben munita cima del Monte Corno, catturando oltre 100 prigionieri, due cannoni, quattro mitragliatrici ed abbondante materiale.
La conquista del Monte Corno era importante oltre che per la fortezza della posizione, anche -pur con altre azioni di reparti di assalto e di pattuglie eseguite negli ultimi tempi- come un test della combattività e dell'efficienza delle truppe italiane.

- annotava un comunicato ufficioso:

"Oltre ai quotidiani, vivaci scontri, nei quali nuclei esploranti nemici sono costantemente messi in fuga con perdite, nelle ultime settimane sono state eseguite da pattuglie d'assalto nostre ed alleate numerose incursioni nelle linee avversarie, fra le quali debbono essere ricordati con un vivo compiacimento i colpi di mano del 2 aprile e sud di Marco, quello del 20 ad ovest di Mori, in Val Lagarina, del 17 e del 25 in Val Morbia, in Vallarsa, compiuti da elementi delle stesse unità che hanno ora conquistato Monte Corno; del 24 a Pedescala, in Val d'Astico; e del 13 e del 28 nella zona litoranea".

"Nei giorni seguenti, il nemico si accanì in tentativi di riprendersi il Monte Corno, ma fu sempre respinto. Da successo invece continuarono ad essere coronati i colpi di mano italiani: l'11, riportava il bollettino riassuntivo del 22 maggio "alcune pattuglie d'assalto irruppero in un posto nemico a Col dell'Orso, annientandone il presidio a colpi di baionetta e di bombe e catturando una mitragliatrice; misero in fuga un nucleo avversario in regione Solarolo infliggendogli perdite; si impadronirono di molto materiale bellico nella zona dell'Asolone.
Il 13, pattuglie nostre e britanniche irruppero nell'abitato di Pedescala (Val d'Astico) e nelle trincee di Ave (sud di Asiago) infliggendo numerose perdite all'avversario. Il 15, nuclei di fanteria e di assalto irruppero in due tratti delle linee nemiche dell'Asolone distruggendovi parte del presidio e mettendo in fuga il rimanente. Il 18, nostri arditi annientarono il presidio di un posto nemico sul Monte Mozzolo e fecero una sanguinosa incursione sul costone di Casa Tasson.
Il 20, a Capo Sile, un centinaio di "Fiamme rosse" attaccò e conquistò rapidamente tre successivi tratti di trincee, e sullo Spinoncia un nostro reparto eseguì con pieno successo un colpo di mano nelle ben munite posizioni avversarie annientandone il presidio ed altre truppe che erano corse a rincalzo. Reparti di arditi, il 21, catturarono una piccola guardia a nord est del Valbella e si spinsero nell'abitato di Stoccaredo, dove inflissero perdite al presidio nemico e fecero saltare un deposito di munizioni".


24 MAGGIO - IL PROCLAMA DEL RE ALL'ESERCITO E ALL'ARMATA


In mezzo a questa intensa e fortunata attività di nuclei d'assalto e di pattuglie italiane, terminava il terzo anno di guerra dell'Italia. Nella ricorrenza, il 24 maggio, il Re rivolgeva all'Esercito e all'Armata un ordine del giorno pieno di fieri propositi e di auguri:
"Soldati di terra e di mare ! Il quarto anno di guerra, oggi al suo inizio, vi trova sulla breccia, fieri delle dure prove che sapeste affrontare e che con mirabile somma di virtù superaste. Dinanzi al vostro fermo proposito di resistere il nemico fu obbligato ad arrestarsi, e voi in ardite magnifiche imprese, dimostraste più volte, con rinnovata coscienza di forza, lo spirito indomito
e la risoluta volontà di vincere onde siete animati. Queste preziose energie, ravvivate dalla fede con cui il Paese concorde vi segue, ingagliardite dalle ansie con le quali vi attendono i fratelli oppressi e spogliati dal nemico, varranno a ricondurvi sulla via della vittoria. Soldati di terra e di mare ! Con l'immagine sacra, della Patria interamente libera impressa nel profondo del cuore, con gli ideali di giustizia e di civiltà, dalla nostra guerra posti a suoi fini, vi accompagnerò nelle future lotte, certo che il premio all'instancabile opera da voi spiegata insieme con i valorosi Alleati non dovrà ancora molto tardare".


VITTORIOSA OFFENSIVA ITALIANA AL TONALE


Nella regione del Tonale l'alba del quarto anno della guerra italiana fu consacrata con la vittoria dagli assaltatori e dagli alpini, che combatterono in mezzo a difficoltà di terreno rese aspre dai ghiacci e dall'accanita resistenza nemica.

riportava il bollettino del Comando Supremo del 27 maggio

"L'operazione iniziata il giorno 25, è proseguita ininterrotta nella notte e nella giornata di ieri. La Cima del Zigolon (3040 metri) col sottostante Costone delle Marocche, la Cima Presena (3069 metri), quattro volte attaccata con estrema bravura, la Conca dei Laghi di Presena, il Passo del Monticello (2550 metri) e il costone ad oriente furono strappati al nemico e sono in nostro possesso. Le nostre truppe mostrarono tutte grande ardimento e valore meritano speciale menzione il III Reparto d'Assalto e i battaglioni alpini "Cavento", "Edolo" e "Mandrone". Le perdite inflitte all'avversario sono gravi. L'ammirevole cooperazione dell'artiglieria e lo slancio dell'attacco hanno reso assai lievi quelle subite da noi. Sono stati finora contati 870 prigionieri, tra i quali 14 ufficiali, 12 cannoni, 14 bombarde e mortai da trincea, 25 mitragliatrici, molte centinaia di fucili. Abbondante materiale è rimasto nelle nostre mani".

- riportava il bollettino del 27 maggio -

"In Vallarsa
nella notte del 26, l'avversario attaccò a fondo per ben due volte le nostre posizioni di Monte Corno. Il presidio, sostenuto dall'artiglieria, inflisse agli assalitori numerose perdite: passato poi al contrattacco, lo mise in fuga.
In Val Posina e sulle pendici meridionali del Sasso Rosso si ebbero azioni di pattuglie con esito a noi favorevole".

"A Capo Sile, nella notte del 27, nostri reparti d'assalto e di bersaglieri con perfetta cooperazione delle artiglierie ed efficacissimo ausilio di sezioni lanciafiamme, irruppero con grande ardire nelle linee nemiche antistanti il settore nord della testa di fronte, travolgendone le successive difese per una profondità di oltre 750 metri. Malgrado la violenta reazione avversaria le posizioni furono mantenute. Il nemico subì notevoli perdite; oltre la cattura di 7 ufficiali, 433 uomini di truppa, 4 bombarde, 10 mitragliatrici, molte centinaia di fucili, armi da trincea di vario tipo, abbondanti munizioni e materiali vari. Alla buona riuscita dell'azione; che ci costò perdite assai lievi, concorsero artiglierie della R. Marina. Sul rimanente del fronte l'attività combattiva fu assai moderata. Nuclei avversari furono respinti nella valle dell'Ornic e sul greto del Piave, di fronte a Nervesa. A Cortellazzo pattuglie di marinai penetrarono di sorpresa in una trincea".
A Capo Sile, la notte del 26, due violenti attacchi, appoggiati da intenso tiro di artiglieria, s'infransero dinnanzi alle nostre nuove posizioni; la notte del 30, il nemico rinnovò l'attacco all'ampliata testa di ponte di Capo Sile, ma fu ancora respinto; altri suoi tentativi sullo Spinoncia e ad ovest di Canove immediatamente soffocati dal fuoco".


PREPARATIVI NEMICI PER LA GRANDE OFFENSIVA


Avvicinandosi la fine della primavera, l'attività delle pattuglie si faceva sempre più intensa, e si aveva la sensazione che il nemico preparasse contro l'Italia una grande offensiva. Le notizie che giungevano al Comando Supremo erano tutte concordi nel riferire che numerose truppe affluivano e si concentravano nelle valli e nei villaggi del Trentino, che artiglierie in gran quantità vi erano state portate da altri fronti e che depositi di munizioni erano stati istituiti a ridosso dei confini. Ma i movimenti del nemico erano circondati da gran mistero e questo era un sufficiente indizio di non lontani e drammatici avvenimenti.

Lasciamo un attimo le operazioni militari italiane, e andiamo a curiosare cosa stavano preparando gli Austro-Tedeschi. E capiremo anche perché, gli eserciti di due Grandi Imperi, iiniziano ad andare incontro alla dissoluzione e alla disfatta.


I preparativi (e gli errori) del nemico

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