LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1918

I preparativi (e gli errori) del nemico
L'OFFENSIVA AUSTRIACA - LUDENDORFF
FATALI ANTAGONISMI

LA RIUNIONE DI BOLZANO - NASCONO GLI ANTAGONISMI FRA GENERALI
LA "FIGURACCIA" DELL'IMPERATORE CARLO I
L'OFFENSIVA TUTTA SCRITTA SUL "METICOLOSO LIBRETTO"

_________________________________

L'ATTACCO AUSTRIACO - LA DISFATTA - LE GIUSTIFICAZIONI

L'ESERCITO AUSTRIACO IN CAMPO - PRIMO GIORNO, PRIMA COCENTE SCONFITTA - LA DISPERAZIONE DI BOROEVIC - LA "GENIALITA' ISTINTIVA" DEGLI ITALIANI - LE GIUSTIFICAZIONI DEI GENERALI AUSTRIACI SULLA LORO DISFATTA.

QUI LA CARTINA GIGANTE TEATRO DELLE OPERAZIONI >>>>> >


ERICH LUDENDORFF (1864-1937)

Dopo lo sfondamento a Caporetto, dopo la travolgente avanzata nel Friuli, e dopo aver sospinto l'esercito italiano in rotta fino alla linea del Piave, gli Austro-Tedeschi, per l'avanzare della brutta stagione ma anche per aver logorato quelle divisioni che si erano spinte senza alle spalle una altrettanto tempestiva logistica, avevano non abbandonato, ma solo sospesa la grande offensiva. Rimasero alcuni reparti nei punti strategici per mantenere le posizioni conquistate, e si erano proposti di riprenderla a primavera, prendendosi quindi tempo per organizzarsi e far convergere sul Friuli una massa imponente di uomini e mezzi, soprattutto dopo il disimpegno in oriente.

Nella seconda metà di febbraio, convenivano a Bolzano le più alte personalità militari della Germania e della Monarchia danubiana.
ERICH VON LUDENDORFF, ARTURO VON ARZ, BOROEVIC VON BOJNA, i generali più noti alle folle tedesche, austriache ed ungheresi, oltre i capi ed i sottocapi di Stato Maggiore, e gli ufficiali dai nomi aristocratici al seguito dei comandanti di Gruppo o d'Armata, che animavano con la loro presenza la ridente città alto-atesina divenuta la sede di uno storico consiglio di guerra.
Gli oligarchi dei massimi Imperi d'Europa si riunivano per sentenziare la morte della odiatissima Italia traditrice, e tutti intenzionati di ripetere i fasti del 1849.
VON ARZ e i suoi giungevano però a Bolzano dopo aver riportato nelle settimane precedenti, fra 1'Astico e l'Adriatico una sconfitta tanto inattesa quanto clamorosa. Però, nonostante l'epica resistenza del Fante sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave, gli Austriaci li considerarono casi isolati che lottavano per la disperazione, e non avevano deposto la speranza di una seconda Caporetto. Anzi!

L'arrogante fiducia, la più insensata, animava i supremi condottieri degli Absburgo. A loro parere, una nuova offensiva contro i Grigioverdi li avrebbe dissolti definitivamente. Mete vicine dell'ideata aggressione potevano essere Vicenza e Treviso, Brescia e Padova, ma von ARZ già pensava a Milano e
non ne faceva mistero. Voleva forse ripetere le gesta di Radetzki.
Travolti i battaglioni di Armando Diaz, l'esercito di Carlo I si sarebbe spinto fin sulle Alpi Occidentali, a minacciare i Franco-inglesi alle spalle, a costringerli alla lotta lungo un altro fronte e quindi alla resa. La Monarchia avrebbe così vinto, ad uno ad uno, tutti i suoi nemici, compresa la Russia tanto temuta nei giorni tragici - ormai lontani delle fortunate offensive travolgenti del granduca Nicola e di Bruxiloff .
Non rimaneva che l'ultimo sforzo da compiere. Ritenuto non solo possibile ma semplice.
Raccogliendo tutti i battaglioni divenuti disponibili in seguito al crollo e alla scomparsa del colosso moscovita e dei Regni balcanici, il Comando Supremo di Baden contava di scagliar contro gl'Italiani non meno di 60 Divisioni, circa 400.000 uomini. L'Austria, non era mai stata così forte di uomini e di armi contro un solo nemico. VON ARZ, e non solo lui, erano sicurissimi di vincere quest'ultima partita.

Ma LUDENDORFF non partecipava all'entusiasmo del collega. Tedesco in tutto, il Generalissimo imperiale spesso palesemente disistimava le più recenti manifestazioni tedescofile degli austriaci, e non ci autorizzano a credere in un suo ravvedimento nemmeno tardivo tutto ciò che non era tedesco.
A suo parere, i soldati della Monarchia danubiana valevano ben poco e non c'era da attendersi prodigi da loro. Però, sempre secondo il parere illuminato del comandante in capo delle Armate imperiali d'occidente, neppure i Grigioverdi possedevano un'alta volontà combattiva.
Restava a vedere se le 60 Divisioni di VON ARZ bastavano all'attuazione dei suoi grandiosi disegni.
LUDENDORFF non confidava né sulla conquista di Milano, né tanto meno sulla marcia dell'esercito austriaco fino alle Alpi Occidentali. Egli aveva qualche fiducia, nondimeno (se non altro per il numero e le armi in dotazione) nella vittoria della Monarchia sull'Italia. Avessero dissolto o semplicemente battuto gli Italiani, al Generalissimo imperiale era più che sufficiente; bastava che gli Austriaci conseguissero il risultato di costringere gli Alleati a mandar truppe sul Piave o sull'Adige o al Mincio (dov'erano già alcuni reparti inglesi e francesi).
La "sua" Germania vedeva addensarsi in Francia una minaccia gravissima: l'esercito americano che vi stava sbarcando, ottimamente armato ed equipaggiato, di giorno in giorno diventava sempre più numeroso. Qualora la sconfitta italiana fosse stata così deprimente, e tale da costringere l'Intesa ad inviare in Italia i Sammies pronti per l'impiego in linea in occidente, Lundendorff non avrebbe chiesto, ne voluto, né sognato di più.
Animato dalla certezza di giungere a questo, l'alto condottiero prussiano, anziché dissuadere, incitò i consociati all'offensiva. E gli Austriaci impaziente non aspettavano altro.
Il consiglio di Bolzano si sciolse dopo aver deciso all'unanimità la futura aggressione all'Italia, da attuare dagli Austriaci con il totale delle proprie forze, senza il concorso delle armi imperiali. Lundendorff aveva altro da fare ad occidente contro inglesi e francesi.

Un lungo periodo di scarsa attività bellica - del quale ci sono già note le vicende - intercorse poi, fra lo storico raduno alto-atesino e l'inizio di quella che fu la battaglia del solstizio.
VON ARZ non poteva iniziare la marcia senz'aver confortato le proprie truppe con un vitto migliore del pessimo rancio, insufficiente ed insipido, che la Monarchia - nonostante le requisizioni feroci compiute nel Friuli e nel Bellunese- ridotta quasi all'indigenza doveva passare necessariamente, in mancanza di meglio, ai soldati deperiti e depressi.
Vienna contava sulle risorse dell'Ucraina, ma come sappiamo - le cose laggiù si trascinarono in lungo (L'Ucraina si proclamò indipendente e non solo, non aderì al governo degli Stati federali di Lenin, ma si mise a combattere il bolscevismo. Né firmò una pace con gli Imperi Centrali).

Alla fine, sebbene in misura minore di quanto si sperava, giunse il grano tanto atteso insieme con un po' di carne .... I prigionieri catturati dai Cosacchi tornavano a colmare i vuoti, ad ingrossar le riserve. Si reclutarono lavoratori civili, in verità ben pochi, nei territori russi occupati. Si requisirono però cavalli e veicoli per allestire la "grande offensiva".
Per un momento, subito trascorso, l'Austria ebbe una certa sufficienza di materiale umano e di viveri. Il colosso eterogeneo destinato a morire fra breve si animò di una vitalità effimera, ma apparentemente potente, se non altro per il numero di uomini e mezzi.
Frattanto, al Comando Supremo di Baden fervevano le discussioni riguardo al piano strategico dell'offensiva da condurre contro l'Italia.
Certo che la Monarchia non sarebbe stata in grado di resistere per lungo tempo alla dissoluzione interna, con ostili elementi stanchi di quattro anni di battaglie inconcludenti che però avevano prostrato il Paese. Tutti a Baden erano quindi del parere di tentare lo sforzo supremo, senza riserve, in cui si doveva giocare il tutto per tutto.

La vittoria avrebbe condotto alla pace trionfale; la sconfitta al "finis Austriae"; e di questo n'erano tutti coscienti, ecco perché non lesinarono mezzi.
Restava da stabilire il modo più conveniente secondo cui si sarebbe svolto lo sforzo, volutamente mortale per l'uno o per l'altro nemico. A questo punto, l'accordo iniziale, cessava, sopraffatto da una ridda d'opinioni in contrasto.

CONRAD VON HÓTZENDORF aveva studiato da lunghi anni il modo d'invadere l'Italia marciando attraverso gli Altopiani. Aveva tentato di tradurre in realtà il sogno lungamente cullato durante la vigilia astiosa, nella primavera del 1916 (Strafexspedition o Spedizione punitiva).
Dopo Caporetto, gli eventi gli erano sembrati maturi per un nuovo tentativo che non doveva fallire come il primo. Ora, 1'antico capo di Stato Maggiore di Francesco Giuseppe intendeva riprendere il disegno minuziosamente architettato e risolvere la lunga guerra mediante lo sfondamento fra l'Astico e il Brenta.
Le circostanze si prospettavano favorevolissime al piano di Conrad. La Spedizione punitiva e l'aggressione, per quanto fallite nel raggiungimento degli obiettivi lontani, avevano fatto arretrare l'Italia fin sull'ultimo gradino del baluardo montano (ricordiamo, che erano giunti ad Arsiero, quasi alle porte di Schio, affacciandosi sulla Pianura Padana vicentina).
Come affermava a Bolzano alla riunione, il feldmaresciallo canuto, l'Italia ora si trovava nella condizione disperata del naufrago abbrancato all'orlo della tavola galleggiante. Un'avanzata nemica di poche decine di chilometri - con quel piccolo progresso iniziale che tutte le offensive conseguono, anche quelle destinate a fallire - sarebbe bastata a rovesciare i Grigioverdi nella pianura, priva d'appigli difensivi; quindi facile poi al transito delle armate austriache, perché ricca di depositi immensi (Vicentino, Veronese, Padovano, Trevigiano, Veneziano).

A complemento dell'azione risolutiva da condurre con le proprie truppe, CONRAD VON HÓTZENDORF proponeva un atto dimostrativo simultaneo lungo il Piave, attuato dai battaglioni del suo collega generale BOROEVIC VON BOJNA.
Questo disegno - ottimo dal punto di vista dell'arte militare - aveva un difetto grave. La sua attuazione esigeva la rinuncia, da parte di BOROEVIC, ad una parte di primo piano nell'ultima battaglia intrapresa dalla Monarchia. Avesse ascoltato la voce del dovere, il famoso condottiero dell'Isonzo Armèe - tanto caro alle folle viennesi, tanto incensato dalla stampa ufficiale ed ufficiosa della Monarchia - si sarebbe piegato senz'altro ad un compito oscuro.
Chi dirige una serie d'operazioni dimostrative, si trova - al pari di qualunque altro capitano - nell'alternativa d'essere o avversato o favorito dalla sorte. Nel primo caso, il suo prestigio impallidisce nell'ombra della sfortuna. Nel secondo caso, gli mancano le masse di manovra necessarie a sfruttare il buon successo e quindi - pur comportandosi a meraviglia - non è in grado di rendere clamorosa o almeno appariscente la propria vittoria. Facilitare il trionfo agli altri richiede abnegazione, disciplina, volontà di sacrificio, giusto le virtù che mancavano a Boroevic, specie se doveva usarle a beneficio del suo rivale.

Difensore un tempo di Trieste, acclamato vincitore di formidabili battaglie sostenute in momenti nei quali la Monarchia versava in condizioni precarie, il comandante dell'Isonzo Armèe ambiva compiere l'opera, cingendo a Milano la corona di conquistatore dell'Italia.
Così invidioso del suo antico Generalissimo, BOROEVIC si mise lui a proporre un piano strategico che gli affidava la parte principale, lasciando a CONRAD il compito secondario.
Anziché tra l'Astico e il Brenta, lo sfondamento - secondo quest'altro disegno - doveva avvenire fra il Grappa e Capo Sile. Mentre sugli Altipiani si sarebbero svolte soltanto azioni dimostrative.
Accecato dalla propria ambizione, BOROEVIC non teneva conto delle maggiori difficoltà che avrebbe incontrato l'offensiva in pianura. Si trattava di superare un ostacolo idrico, d'importanza non trascurabile, per poi avanzare in un terreno coperto di fitta vegetazione, quindi favorevole alle sorprese. Soprattutto, si sarebbe dovuto tener presente che, passato il Piave, gli Austriaci il fiume lo avrebbero avuto poi alle spalle.
L'afflusso dei rincalzi, delle batterie, dei rifornimenti, rimaneva vincolato alla percorribilità dei ponti che le artiglierie italiane, i velivoli e le piene improvvise, potevano distruggere da un momento all'altro. Ostacolo tattico nel primo tempo della battaglia, il fiume sarebbe divenuto in seguito un notevole ostacolo logistico, efficace solo fino al trasporto sulla riva destra d'ogni cosa austriaca.
Né CARLO I, né ARTURO VON ARZ, possedevano l'energia
necessaria a risolvere l'antagonismo fra i sottoposti con una decisione ispirata alle convenienze d'indole strategica. Anzi !

Il Capo di Stato Maggiore dell'esercito austriaco, per non esser da meno, aveva anch'egli un suo piano da porre in discussione. CONRAD insisteva per lo sfondamento sugli Altipiani (Asiago); BOROEVIC intendeva sbrecciare il fronte fluviale italiano (Piave); VON ARZ caldeggiò l'invasione delle Giudicarie (con sbocco poi su Brescia). Calando giù dalle Prealpi, gli Austriaci avrebbero preso alle spalle le truppe italiane del Grappa e del Piave.
Avanzando oltre il fiume, Boroevic avrebbe fatto cadere lo schieramento montano. L'invasione del Tonale portava di logica quanto ineluttabile conseguenza - alla disfatta di tutt'intero l'Esercito italiano. Ma questo disegno si prospettava pertanto il più difficile, dati gli ostacoli orografici da superare, ma anche il più redditizio.
Il Comando Supremo di Baden si trasformò in un disputa bizantineggiante, dove - intorno al povero Imperatore inetto, risoluto a vincere, quanto mai irresoluto sul modo di vincere - s'incrociavano i pareri e i dispareri, le proposte e le controproposte, in un rondò ineluttabile d'intrighi. d'intromissioni oblique, di litigi astiosi.
Mancava soltanto la proposta - che non venne - dell'invasione per la via del mare. Ma anche l'ammiraglio HORTY, nuovo comandante in capo della K. K. Flotte, intendeva approfittare dell'occasione (della certissima vittoria) per togliere gli equipaggi all'inerzia che li rodeva e procurare alla sua Armata, prima della cessazione delle ostilità, un raggio di gloria.
Dopo un gran lavorio, si venne ad un compromesso tendente ad accontentare un po' tutti: ARTURO VON ARZ, CONRAD VON HÓTZENDORF, BOROEVIC VON BOJNA e anche l'ammiraglio HORTY.
Tale soluzione, appunto perché dovuta a manovre di corridoio e provocata da ragioni d'indole extra-militare, non poteva essere felice.

Si convenne che la grande offensiva contro l'Italia sarebbe incominciata sull'Adriatico. Una squadra poderosa, composta di grandi unità navali scortate dal naviglio leggero, doveva recarsi a distruggere lo sbarramento fisso del Canale d'Otranto. Il buon successo dell'impresa navale sarebbe valso - al tempo medesimo - a facilitare l'opera, degli affondatori subacquei, a risollevare l'animo depresso degli equipaggi austro-ungheresi, ad entusiasmare le truppe pronte a scagliarsi sui Grigioverdi.
Passando alle operazioni terrestri, era previsto che si aprissero con l'assalto nel settore delle Giudicarie - e più precisamente nella zona del Tonale - proposto dal Capo di Stato Maggiore (scendendo dal Passo della Mendola sopra Bolzano le divisioni avrebbero risalito Val di Sole, conquistato il Passo, per poi scendere a Edolo e infine se tutto andava per il meglio tentare di spingersi su Brescia)
Dopo questo diversivo, dovevano entrare in azione gli Altopiani, e lungo il Piave i Gruppi d'Armate comandati rispettivamente da CONRAD e da BOROEVIC. All'uno e all'altro furono assegnate parti di importanza eguale. E si prevedeva che lo sfondamento sarebbe avvenuto tanto sugli Altipiani, come lungo il Piave.
L' attuazione del piano strategico di tutto questi discorsi portava alla ripartizione uniforme delle forze disponibili lungo tutto il fronte dall'Astico all'Adriatico. Stante le scarse e difficili comunicazioni fra la montagna e la pianura, al Comando Supremo austriaco mancava la possibilità di spostare le riserve durante lo sviluppo della battaglia. Avvenuto lo schieramento, assegnate a Conrad e a Boroevic masse di manovra esattamente eguali, scagliate queste al primo impeto, non c'era più chi poteva regolare variamente, secondo le opportunità occasionali, la distribuzione del "materiale umano".

Ci troviamo di fronte ad una vera e propria abdicazione del massimo potere militare, ad una supervalutazione dei Comandi sottoposti.
Geloso delle proprie prerogative, Conrad non sarebbe mai giunto a tale rinuncia. E Arturo von Arz non possedeva la tempra del condottiero dinanzi al quale tacciono gli antagonismi e si piegano le velleità d'autonomia.
Era destino che la debole volontà del giovane Sovrano e l'insufficienza del suo Capo di Stato Maggiore riuscissero fatali alla Monarchia condannata.

La raccolta delle forze austro-ungariche da impegnare nella prova suprema incominciò alla fine di febbraio con l'arrivo di 4 Divisioni provenienti dallo scacchiere orientale.
La resa dei Bolscevichi e dei Romeni, consentì al Comando Supremo di Baden il trasporto di altri battaglioni alla frontiera bellica occidentale. A poco a poco - salvo i reparti composti di truppe anziane e scadenti rimasti nell'Ucraina e sul Danubio - tutto l'esercito austriaco, con tutti i propri mezzi, si riversò davanti alle linee italiane.
Lungo le strade fangose della pianura friulana, rovinate dal traffico intenso, era un passar continuo di reggimenti e di batterie. Dalla soglia delle case piene di tristezza, vuote di giovani, i contadini veneti assistevano alla sfilata odiosa, e i cuori si stringevano nel presagio dei nuovi giorni tragici. Spogliati di tutto, fin degli arredi metallici indispensabili, ridotte allo squallore, angustiate dalla difficoltà di soddisfare alle più elementari necessita della vita, le popolazioni dell'Udinese e del Bellunese soffrivano da mesi e mesi privazioni, tormenti e angherie d'ogni genere.
Fin dai primi giorni dell'occupazione, gl'invasori avevano messo le mani su tutto: sulle riserve di viveri, sperperate nelle orge; sulle lenzuola, trasformate in biancheria personale; sulle campane e perfino sulle inferriate tolte dalle finestre per finir nelle fonderie dove si fabbricavano cannoni e proiettili. Gli ordini di requisizione non ammettevano indugi. E' storico che nel giorno destinato alla raccolta degli oggetti metallici fu tolto il paiolo di rame dal focolare ad una massaia che stava cuocendo la tradizionale polenta.

L'eloquenza terribile delle cifre è la prova indiscutibile delle sofferenze inflitte a queste popolazioni, vittime innocenti dell'usurpazione. Negli anni antecedenti allo scoppio del conflitto, la mortalità nelle terre poi invase s'aggirava intorno al 18 per mille. Nel 1918, ascese, con un rapido crescendo sinistro, al 65 per mille!
Nella loro cupa amarezza, i miseri contadini del Friuli-Bellunese erano spettatori dell'ingrossarsi progressivo della marea umana venuta a portare un'altra volta in Italia la strage, la rovina, la più squallida miseria.
Rinsanguato via via, l'esercito degli Absburgo si preparava alacremente alla grande gloriosa avventura.
Al solito, la preparazione ebbe un doppio aspetto: tecnico e morale.
Per quanto riguarda l'istruzione degli ufficiali, dei Sottufficiali, dei soldati, molto probabilmente si è nel vero quando si afferma che non si diedero mai battaglie preparate con altrettanta cura in ogni particolare, perfino in quelli poco significativi.
Numerosissimi ufficiali austriaci rimasero per qualche tempo tra le file dell'esercito tedesco operante nello scacchiere orientale, per impratichirsi della tattica, ideata da Ludendorff. I Prussiani vollero che i loro discepoli si preoccupassero in specie di quanto riguardava l'azione balistica durante l'assalto. L'avanzata dei battaglioni dietro alle cortine mobili rinnovate ad ogni istante dalle batterie, il collegamento costante e perfetto tra fucilieri e artiglieri, lo spostamento rapido dei pezzi meno pesanti dopo il primo impeto delle ondate travolgenti, divennero i dogmi della nuova arte bellica anche per l'esercito di Carlo d'Absburgo.

 

Avvicinandosi il giorno prestabilito per l'inizio della grandiosa offensiva, il fuoco delle batterie nemiche contro le posizioni italiane si faceva via via più intenso. Senza prefiggersi scopi immediati, gli Austriaci tendevano ad inquadrare il tiro, per essere in grado - al momento opportuno-
di fulminare i reparti difensivi italiani con un bombardamento estremamente efficace.
Le truppe di BOROEVIC VON BOJNA, cui spettava di forzare la linea fluviale del Piave, si esercitarono per settimane e settimane al passaggio dei corsi d'acqua. Furono scelti alcuni tratti della Livenza e del Monticano che ripetevano, all'incirca le caratteristiche proprie del corso del Piave. Concentrato abbondantissimo materiale, regolamentare e di circostanza, i pontieri si addestrarono a traghettar soldati con i barconi, a gettar passerelle, a costruire passaggi di varia resistenza.
Anche l'aviazione partecipò intensamente al gran fermento della vigilia, che fu attivissima in tutti i settori.
Specie nelle prime ore del mattino, i piccoli Brandeburg da caccia agili e veloci si spingevano sulle linee italiane e le sorvolavano per qualche tratto. Una volta tanto, gli sparvieri dalle ali crociate non recavano il triste carico di bombe da gettare sulle popolazioni inermi delle città martoriate.
Gli aviatori nemici si preoccupavano soltanto di prendere fotografie e rilievi. Grazie alla loro operosità i Comandi in breve riuscirono a conoscere tutti gli apprestamenti difensivi, perfino nei minimi particolari.
(Narreremo in fondo cosa invece, con più fantasia, fecero gli italiani)

Frattanto si lavorava attivamente pure negli uffici, a raccogliere istruzioni per l'offensiva in un volume corredato di grafici, di piante topografiche, di carte geografiche, di tabelle d'insieme e tabelloni schematici.
L'opera davvero poderosa, fu stampata con tanto sfoggio di neretti e di corsivi da renderla un vero campionario di caratteri tipografici.
Fin dai primi giorni della battaglia, uno di questi volumi, catturando un ufficiale venne in possesso degli italiani che lo trasmisero senza indugi al Comando Supremo di Abano. L'esame di quei documenti, creati con una pazienza meticolosa, sbalordì gli esaminatori. Avevano pensato a tutto!
Questa era forse un'altra prova della mentalità burocratica imperante nei comandi austriaci i quali, a furia di disposizioni generali, particolari e particolarissime, pretendevano di trasformare un esercito che si batte, nell'uragano della guerra dove tutto si plasma, si dissolve e si riplasma ad ogni istante, in una gran macchina mostruosa dai congegni senz'anima spinti ad un moto regolare, come un orologio.

Gli avversari dei Grigioverdi avevano perfino previsto, per ogni settore, per ogni battaglia, due casi nell'evoluzione della loro offensiva, indicati rispettivamente con le maiuscole A e B.
Le istruzioni, perciò, erano doppie in tutto il testo. Il caso A presupponeva la quasi immediata resa degli Italiani senza combattere; il caso B prevedeva invece una breve resistenza dei Grigioverdi. Il fatto stesso di avere dedicato tanta fatica nel compilare queste accuratissime disposizioni, per stabilire ciò che si sarebbe dovuto fare qualora gli italiani avessero gettato le armi e si fossero arresi interi reggimenti, dimostra l'assoluta ignoranza da parte del Comando Supremo di Baden - delle condizioni morali dell'Esercito italiano, o anche il carattere dell'Italiano medesimo.

La Monarchia danubiana, fiduciosa di frantumare il giovane odiatissimo Regno in pochi mesi, sperava di avere ancora davanti a se i vinti di Caporetto, e che ora stavano fronteggiando in qualche modo, non del tutto "meticolosamente organizzati" le loro linee sul Piave o dall'Altopiano al Grappa.
La stessa cura posta nell'allenamento delle Truppe, fu dedicata dai Comandi austriaci alla preparazione morale dei soldati.
La propaganda assidua ed astuta non mancava di arti di indiscutibile efficacia. Agli inizi del 1916, come si ricorderà, Conrad dichiarava assolutamente necessaria di prendere la decisione di far finire il conflitto prima del terzo inverno di guerra, che si credeva di non poter sopportare.
Forzati dall'ineluttabile, i popoli della Monarchia danubiana avevano trascorso poi alla peggio, fra privazioni crudeli, il terzo ed anche il quarto inverno di guerra. Pure Vienna, nei mesi più duri, era, rimasta senza carbone e all'interno delle case il termometro scendeva spesso sotto lo zero. E i grandi caffè erano vuoti per mancanza delle materie prime: caffè, cioccolata e zucchero.

La mortalità causata dal freddo (un inverno dei più rigidi negli ultimi sessant'anni) era salita a cifre elevate, tanto più dolorose quando si pensi che le vittime erano soprattutto vecchi e fanciulli. I casi di suicidio e di pazzia, provocati dall'incapacità di sopportar le sofferenze atroci o di lenir quelle dei familiari, si erano fatti numerosi.
Nonostante la mitezza della stagione e gli avvenimenti di Russia, nella primavera del 1918 l'Austria continuava, a patire privazioni terribili. Il costo dei viveri aveva raggiunto cifre sbalorditive. Non si trovava, latte, né un uovo nemmeno per gli infermi, cui si dovevano somministrare surrogati invece dei medicinali opportuni. Perfino gli ospedali difettavano di lenzuola e di coperte. Le scarpe di cuoio erano divenute un ricordo d'altri tempi. Abiti e pane, biancheria e carne, frutta e sapone: tutto mancava agli abitanti delle città austriache ed ungheresi, privati di formaggio, dolciumi, gas illuminante, lana, zucchero, cioccolata, caffè...e di quant'era ormai indispensabile all'uomo incivilito nei climi meno favorevoli alla vita antropologica.
I soldati conoscevano le angustie delle famiglie lontane. Sapevano il tormento di ogni giorno, di ogni ora, affrontato dalle loro donne cenciose, dai figlioli affamati e seminudi. Non c'è marito, non c'è padre che non sia pronto a qualunque rischio pur di alleviare in qualche modo lo strazio dei congiunti.
Gli ufficiali però ricordavano ai soldati l'enorme bottino raccolto nella rapida marcia, attraverso il Friuli ed il Bellunese, e questo bastava a suscitare in tutti la speranza di procacciarsi con la vittoria, pane e companatico abbondante a se stessi ed agli inermi.

Una circolare distribuita alle truppe destinate alla nuova offensiva, diceva:
"Soldati! Mentre vi trovate in terra straniera, pensate sempre ai parenti ed ai concittadini rimasti in Patria.
Non distruggete nulla. Conservate tutto, raccogliete ogni cosa con cura! Si sono prese tutte le misure affinché vi sia riservata una parte del bottino e siano lenite ai vostri parenti le privazioni imposte dai tempi tristi che si attraversano".


E più oltre si diceva:
"Non sparate sulle botti di vino. Non lasciate spargere il vino od altre bevande dopo aver estinta la sete; non sventrate i sacchi di farina, di riso o di altre provviste; non distruggete il loro contenuto! Pensate che dopo di voi seguiranno i camerati e che con i vostri atti insensati andrebbero distrutti ingenti valori per voi, per la vostra Patria e per le vostre famiglie".

La circolare concludeva:
"Conservate specialmente tutti i generi che sono scarsi nel nostro Paese, siano essi derrate, articoli tecnici o altro. Chi non ha cura di conservare la roba e di usarla con parsimonia danneggia la sua Patria, la sua famiglia e se stesso"
.

Fu in questa occasione, e fra questi proclami, che MITTEREGER, rivolse agli uomini un rimprovero solenne accusando alcuni reparti di un ....
"...ripugnante contegno tenuto durante l'avanzata dell'autunno 1917; ubriacandosi con le botti sfondate e le cantine allagate, calpestando raccolti, sgozzando buoi e maiali per utilizzarne solo qualche parte, svaligiati depositi, magazzini, botteghe, distrutto fabbriche, mangiato e bevuto in abbondanza e per aver dato agli stessi animali grano invece che fieno, ecc. ecc. Grano, farina e pane che il prossimo luglio non avremo noi come rifornimento alle nostre spalle...ecc. ecc."
Dava così credito a quei giornali che avevano dipinto a tinte fosche la loro avanzata e la ritirata di Caporetto dell'esercito italiano.

La propaganda austriaca si rivolgeva alle necessità materiali ed agli affetti domestici dei combattenti. Tanto le une come gli altri sono profondamente sentiti da tutti gli uomini, anche dai primitivi. Appunto per questo, il seme cadeva sopra un terreno favorevole. Quando si considerino le condizioni in cui versava la Monarchia, si converrà che gli animatori della -poi detta- "offensiva della fame" avevano buon gioco. Le loro fatiche oratorie non potevano fallire lo scopo: eccitare al furto, al saccheggio, alla rapina. La guerra veniva ridotta alla sua espressione più elementare e più bestiale di lotta per il ventre. Così anche i più tardi, fra i combattenti dell'altra riva, acquistavano il senso preciso della sua necessità.
Ma insieme con il pane, l'Austria anelava pure la pace.

Solo un ultimo ostacolo separava la Monarchia dal raggiungimento della meta cui tendevano tutti gli angosciati. Fra lo Stato degli Absburgo trionfatore di quattro nemici, e la vittoria, non c'era di mezzo che la resistenza del Fante. Abbattere i Grigioverdi significava il ritorno a quei giorni sereni che ora sembravano tanto e tanto lontani ed erano ricordati come un'età paradisiaca dell'oro.

diceva, in un ordine del giorno del feldmaresciallo SORETIC alle sue truppe
"Difensori della Patria!" "Là, di fronte a voi, sui baluardi nemici, sul ciglio dei boschi che voi scorgete, vi attendono l'onore e la gloria, vi attendono un ottimo vino ed un magnifico bottino; oltre a ciò anche la pace!
Difensori della Patria, fate tutti il vostro dovere, non risparmiate il nemico maledetto, e con l'aiuto di Dio sopportate quest'ultimo sacrificio per la libertà della nostra bella Patria!"

La condotta politica della Monarchia successiva al periodo iniziale d'infatuazione bellica, poteva sembrar conciliante. In realtà, né Francesco Giuseppe, né Carlo I, ebbero mai l'intendimento di venire a quelle rinunce territoriali che sarebbero valse davvero a soddisfare le aspirazioni legittime dell'Italia e della Romania. In apparenza, però, tanto l'Imperatore defunto, quanto il suo successore inetto, si erano atteggiati a messaggeri di pace, intralciati nell'opera loro dalla tenacità dei nemici. Deformando il significato dei passi diplomatici compiuti in altri momenti dal Governo viennese, non riusciva difficile - alla propaganda austriaca. - riservar la colpa della continuità dello stato di guerra sull'Italia, l'antica alleata venuta meno ai suoi presunti doveri, sorda a tutte le proposte ragionevoli d'un accomodamento cordiale.
Si diceva ai soldati che, se non fosse stato per le ambizioni smodate dell'Italia, asservita alla Gran Bretagna, trascinata a combattere dai faccendieri senza scrupoli, il lungo conflitto orrendo sarebbe finito col trattato di Bucarest. Ciò infiammava l'odio del nemico e rendeva più energica la sua volontà di vincere.

Insieme con i proclami altisonanti, con le circolari che invitavano al saccheggio, con gli ordini del giorno che si rivolgevano agli istinti più bassi, con i discorsi e con la persuasione diretta promettenti il pane e la pace a breve scadenza, la propaganda austriaca impiegava le caricature, gli opuscoli, gli scritti giornalistici. Essa tendeva anche ad insinuarsi nell'animo delle popolazioni delle terre invase, cui si voleva togliere la certezza della liberazione.
Servendosi di palloncini portati dal vento, gli Austriaci inviavano alle truppe italiane sul fronte pacchi di stampati che esaltavano la potenza terrestre e subacquea degl'Imperi Centrali, proclamati vincitori su tutte i fronti. La speranza di non trovar davanti a loro un'efficace resistenza da travolgere, animava il Comando Supremo di Baden, per tentare di scuotere quella nuova determinatezza morale dei Grigioverdi.
L'Austria non aveva mai profuso tante menzogne e tante promesse. Suggestionati da quanto ascoltavano e leggevano, i soldati della Monarchia acquistarono la certezza del trionfo imminente. Gli ufficiali preparavano già i bauli e valigie da riempire a Treviso e a Venezia. Tutto l'esercito di Carlo I, roso dagli antagonismi nazionali, mal vestito e a corto di viveri, composto ormai d'elementi di scarto, ma potente di mezzi bellici e disciplinatissimo, vibrava d'entusiasmo. Una vampata d'odio infiammava il sangue dei combattenti dell'ultima offensiva, la cui bramosia pregustava già le nuove orge rallegrate dal vino d'Italia.
Per quanto le circostanze fossero tali da consigliare al Comando Supremo di Baden l'azione immediata, i preparativi austriaci andarono per le lunghe. Carlo d'Absburgo, Arturo von Arz ed i loro collaboratori, consci di giocare la carta decisiva della lunga partita, non intendevano lasciare nulla al caso. "L'offensiva della fame" doveva riuscire un capolavoro d'organizzazione preventiva i cui artefici non erano disposti ad ammettere manchevolezze di sorta. Capitava a loro come a certi artisti i quali, presi dal tormento della perfezione, dedicano tutta l'esistenza ad un'opera senza compierla mai.

C'era però chi mal tollerava indugi: ERICH VON LUDENDORFF, di giorno in giorno più preoccupato per gli sbarchi continui degli americani, pronti ad entrare in linea, quindi in linea con le loro prime Divisioni organiche.

chi era ERICH LUDENDORFF (1864-1937)

Entrato nell'Accademia nel 1893, prestò servizio nello stato maggiore dal 1904 al 1913 e allo scoppio della guerra, fu il più capace comandante tedesco. In coppia con il maresciallo Von Hinderburg (che aveva il comando formale, mentre Lunendorff esercitava di fatto il comando reale con l'incarico di Capo di Stato Maggiore) a fine agosto 1914 schiacciò con la VIII armata tedesca le forze russe penetrate nella Prussia orientale (battaglia di Tannenberg). Da quel momento assunse la responsabilità dell'intero fronte orientale tedesco, respinse la grande offensiva russa nell'autunno dello stesso anno, e nell'estate del 1915 determinò la sconfitta decisiva e la ritirata dalla Polonia dell'esercito russo. Nell'agosto del 1916 con il collega assunse il comando supremo dell'esercito tedesco, permettendo di respingere le grandi offensive francesi e inglesi del 1917 con importanti ma parziali vittorie.
Già nel 1916 i capi militari tedeschi diventarono per la prima volta i padroni incontrastati della Germania, non più subordinati all'imperatore, ancor meno tenuti a freno dal cancelliere. La chiave del successo politico era dunque affidata alle sole mani militari, cioè al Comando Supremo. I partiti del Reichstag e perfino i socialdemocratici si precipitarono sotto la guida di Ledendorff, che voleva fare "grande la Germania".

Di origine modesta, i generali e ufficiali superiori, ancora di origine Junker, avversavano buona parte della politica di Lunendorff; che era un buon generale, ma era privo di preparazione politica, e neppure aveva delle ambizione politiche. L'esercito non era più di contadini comandati da proprietari terrieri, e anche i nuovi ufficiali provenivano dalle classe medie. Per la popolarità, Lunendorff si ritrovò dittatore contro la sua volontà. La guerra era una guerra di popolo (così fu fatta credere fino all'ultimo -e la presenza dei socialisti ne era una conferma) e Lunendorff, il garante del successo, era sì un capopopolo ma privo di effettivo spirito demagogico. (A Monaco poi nel '23 si ritrovò fra i piedi un caporale che di demagogia ne aveva da vendere a iosa).

Lunendorff continuò a cercare le responsabilità della sconfitta nell'insufficiente coesione interna del Paese, accusando le forze popolari di tradimento; si avvicinò alla estrema destra revanscista, partecipando ad una serie di agitazioni e rivolte nazionaliste, tra cui l'insurrezione tentata da Hitler a Monaco l'8 novembre 1923. Ma fu il caporale e non il generale (che lo abbiamo detto non era né un politico né abbastanza demagogo) ad emergere. Lunendorff pur eletto deputato nel 1924, quando si presentò alle elezioni presidenziali come candidato dei nazionalsocialisti ottenne appena lo 0,60% e Hitler lo scaricò. Allontanatosi da lui nel 1926 fondò un altro gruppo, che però finì nell'anonimato. Fare politica non era insomma il suo mestiere. Morì 73 enne nel 1937. (Bibliografia: "Storia della Germania" di A.J.Taylor, Longanesi ed., 1945- 1971-1973)


LA GAFFE DELL'IMPERATORE CARLO I


Dal Comando Supremo imperiale cominciarono a partire sollecitazioni, richieste, incitamenti.
CARLO I, ben poco incline alla "fedeltà nibelungica", non rinunciava alle proprie velleità anti-prussiane ed alle speranze di una pace separata con la Francia. Ma le vicende del conflitto immenso si svolgevano in modo da non consentire il distacco di Vienna da Berlino, congiunte ormai per la buona e per la mala sorte - ambito dal giovane Imperatore, cui le tresche grossolane imbastite nel 1917 non mancarono di procurare grandi amarezze, ma anche poca fiducia del suo alleato tedesco.
Il 2 aprile del 1918, il conte CZERNIN teneva - alla delegazione del Consiglio., comunale di Vienna presieduta dal borgomastro Weisskirchner - un discorso sulla situazione politico-militare degl'Imperi Centrali.
Tra l'altro, il fido ministro di Carlo I dichiarava che ....

"...la Francia, prima dell'inizio dell'offensiva tedesca nello scacchiere occidentale, si era rivolta all'Austria con l'intendimento di entrare in trattative di pace"

Sempre secondo le affermazioni del conte, egli aveva opposto un netto rifiuto non appena gli era stata posta da condizione della cessione del1'Alsazia-Lorena, cui la Repubblica non intendeva rinunciare.
Ospitato dai giornali, il discorso di CZERNIN fu conosciuto il 3 aprile, da CLEMENCEAU, allora in visita alla fronte sconvolto dall'offensiva prussiana. Il premier francese dichiarò senza fare un giro di parole:
"Il conte Czernin, ha mentito".
Non solo, ma in risposta alle insinuazioni del ministro austriaco, il Governo della Repubblica decise di render nota la famosa missiva -fino allora tenuta segreta- di CARLO I per la pace separata con la Francia.
La pubblicazione avvenne il 12 aprile e fu come un sasso nel vespaio. Mai un retroscena politico suscitò un eguale clamore di commenti dei più disparati. A Berlino, si gridava al tradimento. A Vienna, un'ondata di freddezza passò anche sui cortigiani più devoti. L'aperta confessione però rinfrancava le speranze di quanti attendevano il "finis Austriae" e quindi la fine della nefasta guerra che aveva per la prima volta portato la miseria fra gli austriaci, compresa la stessa -una volta- opulenta e godereccia- Vienna.
Posto di fronte alla bile dei Tedeschi e dei suoi stessi partigiani, CARLO I tentò la propria salvezza ricorrendo ad una scappatoia meschina con l'animo di chi usa la menzogna. La stampa ufficiale della Monarchia pubblicò una nota che dichiarava apocrifo tutto ciò che vi era nella missiva sovrana.

Il Governo di Parigi ebbe buon gioco contro il basso espediente. Con prontezza immediata, CLEMENCEAU ribadiva le menzogne del suo avversario, asserendo:
"Vi sono coscienze putride. Nell'impossibilità di trovar la maniera di salvare la propria faccia, l'imperatore Carlo cade nelle balbuzie dell'uomo confuso. Eccolo ridotto ad accusare suo cognato di falso, in atto di fabbricar di sua propria mano un testo di menzogne. Il documento originale, il cui testo è stato pubblicato dal Governo francese, venne comunicato in presenza di Giulio Cambon, segretario generale al Ministero degli Affari Esteri e delegato del ministro, al Presidente della Repubblica, il quale, con l'autorizzazione del principe, ne trasmise copia al presidente del Consiglio. Con lo stesso Ribot, il principe s'intrattenne in proposito in termini che non avrebbero avuto senso se il testo non fosse stato quello pubblicato dal Governo francese".

La polemica volgeva a tutto danno dello scarso prestigio del giovane Sovrano. A questi non rimase altra risorsa fuorché il licenziamento del conte Czernin, cui fu addossata tutta la responsabilità della tresca così male ordita, per dissipare i malumori provocati dallo scandalo clamoroso.
Il 17 aprile, Carlo I richiamava alla Ballplatz il barone Burian, ungherese di nascita, nemico irriducibile dell'Italia, ma anche cosciente che l'Intesa, nonostante i propri antagonismi interni, non aveva che un volto solo contro il comune nemico. E quindi era più che mai necessaria l'intima solidarietà austro-tedesca.
Interprete di questa necessità, il barone Burian iniziò una politica di riavvicinamento fra Vienna e Berlino, tendente a dissipare i nuvoloni addensati dal maldestro Carlo nel cielo per nulla sereno della Quadruplice.
Appunto per questo che le sollecitazioni di LUDENDORFF di iniziare l'offensiva sull'Italia non caddero nel vuoto.

Sollecitato dal Comando Supremo Imperiale, VON ARZ decise d'iniziare l'ultima offensiva della Monarchia, il 1° giugno.
Però, passate in rivista le sue truppe, l'Imperatore non le giudicava ancora pronte. Fu perfino migliorato il rancio e si provvide ad ulteriori equipaggiamenti.
Come nuova data per l'inizio della marcia supposta trionfale, si stabilì il 10 giugno. Ma non mancarono altri contrattempi E possiamo immaginare quali, viste le premesse (gli antagonismi) dal febbraio in poi.

Finalmente l'esercito Austriaco seppe che era stato deciso che nelle prime ore del 15 giugno avrebbe attaccato dallo Stelvio all'Astico e contemporaneamente sul Piave.


Ma la baldanza fu subito stroncata il primo giorno

CONTINUA > > >

< < < INDICE


HOME PAGE STORIOLOGIA