MUSSOLINI E LA NASCITA DEL FASCISMO (1915-1921)

QUANDO IL DUCE CREO'
QUEL PARTITO SCHIZOPOLITICO

in fondo: DAL CROLLO DEI LIBERALI AGLI ANNI FASCISMO


di ALESSANDRO FRIGERIO

Se il ventennio fascista è a tutti ben noto nelle sue linee essenziali e nelle tragiche conclusioni a cui condusse il Paese, le sue origini continuano a restare poco chiare e sospese tra due estremi. Da un lato l'idea, creata dal regime, di una rivoluzione nazionale che tra il 1919 e il 1921 volle travolgere la vecchia Italia liberale e difendere il paese dal pericolo "rosso".
Dall'altra la vulgata, diffusa nell'ultimo mezzo secolo, di un manipolo di violenti squadristi che al soldo di industriali e agrari posero fine al cammino democratico del popolo.

"Il fascismo - scrisse Gobetti - è il legittimo erede della democrazia italiana, eternamente ministeriale e conciliante, paurosa delle libere iniziative popolari, oligarchica, parassitaria e paternalistica."
Ma questa ormai classica definizione si addice più che altro al fascismo maturo, ormai giunto al potere.

Negli anni della conquista il movimento delle camice nere era tutt'altra cosa. Meno "ministeriale e conciliante", il fascismo delle origini interpretò tra mille contraddizioni la rivoluzione e l'ordine, il progresso e la reazione, il repubblicanesimo e la fedeltà monarchica.

Il regista, il trascinatore, ma nei primi anni anche semplice comparsa, indecisa sul ruolo da interpretare, fu naturalmente Benito Mussolini. Delle tante definizioni sul primo Mussolini, che da emigrante in Svizzera ... (arrestato nel 1903 come agitatore socialista)

... torna in Italia e conquista in pochi anni la leadership dell'ala rivoluzionaria del PSI e poi la direzione dell'Avanti, una delle più calzanti l'ha scritta Pietro Nenni:
"Plebeo era, e pareva che volesse restare, ma senza amore per le plebi. Negli operai ai quali parlava vedeva non dei fratelli, ma una forza, un mezzo, del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo".

E il giudizio, ci pare, potrebbe estendersi a tutto il fascismo e alle sue velleità di rappresentare in un'unica vocazione il minestrone di partiti e ideali che serpeggiavano nel Paese, in una sorta di inestricabile guazzabuglio composto da Marx, Nietzsche, Sorel e D'Annunzio, tanto per citare i più abituali riferimenti politici e culturali dell'epoca.

Solitamente si fanno risalire le cause dell'affermazione del fascismo alla grave crisi politica ed economica seguita alla prima guerra mondiale. Ma ci sono anche studiosi che ne datano l'origine al 1915, alla "radiose giornate di maggio" in cui alcune minoranze chiassose e violente forzarono la mano al parlamento spingendo il Paese alla guerra. La verginità democratica dell'Italia liberale fu violata allora, spiegano, introducendo nella pratica politica l'idea del colpo di mano.

E in effetti è proprio il ruolo giocato da Mussolini, fulminato sulla via della guerra pochi mesi dopo gli spari di Sarajevo, ad avvalorare questa ipotesi. Dopo l'espulsione dal PSI (ottobre 1914) è ormai uno dei leader dell'interventismo democratico di sinistra e contribuisce in modo determinante, con Corridoni e De Ambris, due sindacalisti a forte vocazione sovversiva, alla creazione, tra il dicembre 1914 e il gennaio 1915, dei Fasci di azione rivoluzionaria.

Derivati dal preesistente Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista, si propongono di fondere sotto un'unica bandiera tutto l'interventismo di sinistra. Suscitando l'ingresso in guerra dell'Italia, i Fasci sperano di risolvere i problemi delle nazionalità, di cacciare i Savoia e di chiudere una volta per tutte i conti con il militarismo dei grandi imperi.
Mussolini allora era ancora ostile al nazionalismo: il confine al Brennero e l'annessione dell'Istria e della Dalmazia, come ebbe modo di scrivere sul
Popolo d'Italia, erano delle pretese assurde. Il confine al Brennero, scriveva ancora nei primi mesi del 1915, "implicherebbe l'annessione di 100 mila tedeschi", mentre la richiesta dei nazionalisti di escludere la Serbia dall'accesso all'Adriatico "sarebbe un atto di prepotenza, un atto assolutamente impolitico che avrebbe conseguenze dannosissime per l'Italia". Ma a parte questa moderazione di fondo, Mussolini e i Fasci erano ormai passati armi e bagagli dalla parte dell'intervento.

Il mito del protofascismo non era la guerra "sola igiene del mondo", ma, nel miglior solco della tradizione rivoluzionaria, il trampolino di lancio per un sovvertimento sociale suscitato dalle masse in armi. Non a caso Lenin, che di rivolgimenti era maestro, si lamenterà pochi anni dopo con il PSI perché si era lasciato sfuggire l'unico uomo capace di fare la rivoluzione in Italia.

Resta tuttavia il fatto che le origini del fascismo non possono essere capite prescindendo dalla crisi postbellica. "Ci pare ne sia eloquente conferma - ha scritto De Felice - il fatto che se il fascismo nacque subito all'indomani della fine della guerra (nel marzo 1919), esso divenne un fatto politicamente rilevante e assunse le caratteristiche grazie alla quali si affermò e che ne costituirono le peculiarità solo con la fine del 1920, parallelamente al concludersi della prima fase della crisi postbellica (biennio rosso). Sino a quel momento era stato un fenomeno politico e sociale trascurabile, difficilmente definibile e in ogni caso - nonostante alcuni eloquenti sintomi involutivi - sostanzialmente riconnettibili più al vecchio filone del sovversivismo irregolare che non agli orientamenti prevalenti nella borghesia che aveva fatto la guerra".

Concluso il conflitto Mussolini, che non è ancora il leader incontrastato del movimento, circondato com'è da futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari e sovversivi anarchici, crede di trovare nel concetto di sindacalismo nazionale (una curiosa mescolanza di operaismo e nazionalismo) una terza via tra il marxismo e il liberalismo, che sintetizzi due concetti tra loro lontanissimi come 'classe' e 'nazione'.
"Noi ci mettiamo sul terreno della nazione, che contiene la classe di tutte le classi, mentre la classe non contiene affatto la Nazione",
dirà con abile gioco di parole alla vigilia della fondazione dei Fasci di Combattimento.

Nei primi giorni del marzo 1919 dalle colonne del
Popolo d'Italia Mussolini convoca "un'adunata importantissima" di combattenti ed ex combattenti dove "sarà creato l'antipartito. Sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento, che faranno fronte contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra".

La necessità di tale incontro veniva spiegata in questi termini:
"Tenendoci fermi sul terreno dell'interventismo - né potrebb'essere altrimenti, essendo stato l'interventismo il fatto dominante della Nazione -, noi rivendichiamo il diritto e proclamiamo il dovere di trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana".

Gli obbiettivi però erano piuttosto confusi, e si alludeva genericamente a una "elevazione materiale e spirituale dei cittadini italiani". Il terreno e la prospettiva di sviluppo del movimento erano però ancora chiaramente di sinistra.

Alla riunione costitutiva del movimento, tenutasi a Milano il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro, nella sede dell'Alleanza Industriale e Commerciale, partecipano poco più di un centinaio di persone tra ex socialisti (Mussolini, Ferradini), sindacalisti (Bianchi, Giampaoli), futuristi (Marinetti) e Arditi (Vecchi, Meraviglia). Nel suo discorso, Mussolini, sensibilissimo agli umori della variegata folla, riuscì ad accontentare tutti quanti. Esaltò il concetto di produzione, reclamando tuttavia la confisca delle ricchezze accumulate illecitamente dai grandi gruppi industriali durante la guerra. Chiese l'abolizione del Senato e il voto per le donne, la convocazione di una assemblea per decidere la forma istituzionale del Paese nel quale i Fasci avrebbero preso posizione per la repubblica, e una rappresentanza politica basata non più sulle ideologie ma sulle corporazioni.

Pochi mesi dopo Mussolini tornerà ancora, con il solito piglio rivoluzionario, sul tema delle ricchezze illecite: "La nazione italiana è come una grande famiglia. Le casse sono vuote. Chi deve riempirle? Noi, forse? Noi che non possediamo case, automobili, banche, miniere, terre, fabbriche, banconote? Chi può, 'deve' pagare. Chi può deve sborsare... È l'ora dei sacrifici per tutti. Chi non ha dato il sangue, dia il denaro".

Ma l'adunata di piazza San Sepolcro, che in seguito gli Italiani dovranno festeggiare per tutto il Ventennio, si risolse sostanzialmente in un mezzo fiasco. Mussolini non ne uscì con l'investitura di capo, talmente vaghi erano i suoi propositi e variopinto l'uditorio. Per un certo tempo egli sembrò dimostrare scarsa fiducia nella sua creatura. Nei mesi successivi se ne disinteressò rituffandosi nell'alacre attività giornalistica di sempre e per lavorare al progettato blocco delle sinistre interventiste. In questo progetto i Fasci sarebbero tornati utili al massimo in un secondo momento, per presentarsi all'opinione pubblica con un minimo di retroguardia. Ancora nel luglio del 1919 Mussolini scriveva che
"il fascismo è un movimento di realtà, di verità [...] che non presume di vivere sempre e molto. Vivrà fino a quando non avrà compiuto l'opera che si è prefissa".
E già abbiamo visto su quali basi di vaghezza e confusione ideologica l'opera si fondasse.

Ma se il movimento non era ancora ben definito, i metodi di lotta erano chiari. Arditi e nazionalisti portarono al nascente fascismo più che un contributo di tipo ideologico quello della violenza di piazza. A Milano, nell'aprile del 1919 alcune squadre attaccarono la sede dell'Avanti provocando quattro morti nel corso di una intera giornata di tumulti. Dopo questa azione la strada per la conquista delle masse proletarie, tracciata da Mussolini meno di un mese prima a piazza San Sepolcro, veniva definitivamente preclusa.

Fallita ogni possibilità di riagganciarsi alla sinistra, Mussolini decise quindi di giocare la carta del nazionalismo. L'occasione propizia si presentò con l'avventura dannunziana di Fiume, nel settembre 1919. Ma dopo i primi giorni di entusiasmo, constatato che né l'Esercito né gli Italiani (a parte una esigua schiera di nazionalisti) dedicavano troppa attenzione alle esibizioni del Vate, Mussolini decise di prendere le distanze.
Restava ancora la carta delle elezioni per valutare l'effettiva consistenza dei Fasci. Ormai chiusi gli spazi a sinistra, sempre dominati dai socialisti, gli unici compagni di viaggio potevano essere ormai solo i futuristi, gli arditi e i reduci di guerra.

Ma nel novembre 1919 l'esito delle urne sembrò dover spazzare dalla storia italiana la meteora fascista. Alle elezioni politiche i Fasci di Combattimento, che si presentarono a Milano con una lista in cui era candidato anche Marinetti, non conquistarono alcun seggio. I veri vincitori furono i socialisti e i popolari. Pochi giorni dopo Mussolini finì anche in carcere (ma solo alcune ore) in seguito al ritrovamento di armi nel suo ufficio. Il fascismo, sconfitto e diviso, sembrava ormai prossimo all'estinzione. A fine anno in tutto il Paese erano poco meno di mille gli iscritti ai Fasci.

Ma è nella seconda metà del 1920, con il precipitare della situazione politica italiana, che il fascismo inizia a rompere i suoi legami con i temi delle sinistra rivoluzionaria e ad accentuare i toni nazionalistici. È da questo momento che il fascismo diventa poco a poco quello che sarà per tutto il Ventennio. Un movimento che brama il potere e che per conquistarlo/conservarlo è disposto a tutto: alla forza dei manganelli e alla violenza di piazza, così come al compromesso politico e al tradimento dei vecchi ideali. Del resto l'impalcatura ideologica del movimento fascista era così duttile che ognuno poteva trovarci quel che voleva: un elemento, questo, che si rivelerà estremamente utile nel conservare il regime per i due ulteriori decenni.
Ben pochi 'padri fondatori' di piazza San Sepolcro seguiranno il loro leader nelle successive capriole.

Il secondo congresso dei Fasci, che si tiene a Milano nel maggio del 1920 si sposta leggermente verso destra. Della vecchia direzione, tutta di sinistra, ne fu rieletta solo la metà. Mussolini, consapevole dell'impossibilità di strappare consensi ai due partiti più forti, quello socialista e quello popolare, sceglie di cavalcare il malcontento dei ceti medi. Quei ceti medi costituiti da piccoli e medi risparmiatori, piccoli proprietari terrieri, impiegati di stato e pensionati che non godettero dei prodigiosi arricchimenti portati dalla guerra a industriali, speculatori e commercianti, e che non poterono tuttavia beneficiare dei miglioramenti economici e normativi di contadini e operai (secondo Luigi Einaudi tra il 1919 e il 1920 operai e agricoltori ottennero aumenti salariali superiori all'aumento del livello medio dei prezzi).

Da qui lo sbandamento dei ceti medi verso i movimenti di destra, sbandamento che Einaudi definì come il "veleno" di quel biennio: "il veleno era morale ed operò per vie morali, che si chiamano invidia, odio, superbia, lussuria, rapina, miseria, vendetta, ignoranza...".

In singolare sintonia con Einaudi, anche Mussolini ricorderà a posteriori, nel 1939, la tensione spirituale che lo aveva condotto alla fondazione dei Fasci:
"Milano era ormai una piattaforma senza personaggi [...] Cercai il polso della folla e capii come, nel disorientamento generale, il mio pubblico ci fosse [...] I battuti dalla vittoria furono gli ufficiali inferiori, i sottufficiali cui alcuna guarentigia aveva conservato il posto di lavoro occupato quando la guerra non c'era. Gli sconfitti erano stati, per lo svilimento della moneta, i reddituari fissi, i piccoli risparmiatori, gli anticipatori allo Stato dei mezzi per fare la guerra, i sottoscrittori del debito pubblico, ossia. Un diritto alla vita era stato tradito. Qualcuno aveva mancato alle promesse giurate. La mia strada trovò da sola la giusta direzione".

Cediamo a questo punto la parola a De Felice, che sulla nascita del fascismo e sulla psicologia del suo fondatore ha scritto pagine illuminanti:

"Chi ripercorra oggi gli avvenimenti che portarono Mussolini alla fondazione dei Fasci di Combattimento e, più ancora in qua, al suo accordo con Giolitti dell'autunno 1920 non può non rilevare due fatti fondamentali. Primo: nei due anni che intercorsero tra la fine della guerra e l'accordo con Giolitti, Mussolini si mosse in una direzione sostanzialmente univoca, ma altrettanto sostanzialmente tracciata giorno per giorno, frutto non già di un piano e di una consapevolezza precisi, ma - al contrario - determinati da un successivo adeguamento e inserimento nella situazione in atto. Secondo: quando diede vita ai Fasci di Combattimento Mussolini non aveva la più pallida idea di dove essi lo avrebbero portato. [...] Si può dire che lo stesso Mussolini ad un certo punto si trovò ad essere uno dei grandi protagonisti della ribalta italiana quasi senza accorgersene, per successivi adeguamenti, per successivi compromessi. Giornalista appassionato e ormai giunto a piena maturità, aveva dato vita ai Fasci, aveva assunto certe posizioni soprattutto per portare avanti 'l'azienda' (il Popolo d'Italia, n.d.a.) e, in definitiva, per 'farsi una cuccia'; ad un certo momento si trovò alla testa di un movimento politico che aveva tirato su giorno per giorno con i suoi articoli e che improvvisamente gli si rivelò grande a condizione di seguirne la logica e di considerarlo la sua vera 'azienda'. Da qui la vera grande, definitiva svolta mussoliniana della fine del 1920..."

Agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all'occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo risponde con la violenza. Squadre composte da studenti e da Arditi intervengono per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti. A istigarli è Mussolini stesso, che dichiara di preferire di combattere i socialisti con la pistola piuttosto che con il voto. A novembre, in occasione dell'insediamento del nuovo sindaco di Bologna, un socialista di estrema sinistra, partono pistolettate e bombe a mano che provocano la morte di nove persone nella piazza, mentre un consigliere nazionalista viene ucciso in pieno Consiglio comunale.

Le spedizioni punitive estendono il loro raggio d'azione alla Toscana, al Veneto, alla Lombardia e all'Umbria. Vengono assaltate le Case del Popolo, le sedi delle amministrazioni comunali socialiste e le leghe cattoliche. In Venezia Giulia giovani squadristi assaltano e incendiano le sedi di associazioni e giornali sloveni. In Alto Adige simili attenzioni vengono rivolte alla popolazione tedesca, di cui si auspica una forzata italianizzazione ("dobbiamo estirpare il nido di vipere tedesco", disse Mussolini).

Prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tollerano e in alcuni casi agevolano le "operazioni" della squadre fasciste contro il 'sovversivismo rosso'.
"Sono dei fuochi d'artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente", disse Giolitti minimizzando il problema. Mai un pronostico si rivelò così incauto.

Sul finire del 1920 l'influenza dei sindacalisti, degli ex socialisti e dei futuristi all'interno del movimento fascista diminuisce ulteriormente a vantaggio degli elementi borghesi e reazionari. Ma il radicalismo degli anni passati non viene completamente abbandonato. Nonostante il movimento strizzi sempre più spesso l'occhio al grande padronato industriale e ai proprietari terrieri della bassa padana, Mussolini non rinuncia alle sue origini. Nel 1920 continua a dichiararsi risolutamente repubblicano, condanna l'occupazione delle fabbriche ma anche l'intransigenza dei padroni, esalta l'importanza storica dei Consigli di fabbrica e dichiara che il suo movimento non sarà mai il "cane da guardia del capitalismo".

È solo a partire dall'anno successivo che i toni rivoluzionari si smorzano. Anche se in modo non troppo evidente, se ancora all'inizio del 1921 Mussolini si lascia 'scappare' - per conquistare le masse contadine e in barba agli agrari che da mesi finanziano il suo movimento - che il "fascismo significa terra a chi la lavora".

L'evoluzione politica del fascismo è ancora una volta legata in modo inscindibile a quella del suo capo. Mussolini entra in contatto con Giolitti per trovare nuovi spazi di legittimità. Mette quindi la sordina alle aspirazioni rivoluzionarie del movimento per promuoverne una nuova immagine di forza politica responsabile, anche se con una malcelata vocazione a farsi giustizia da sé. Approva il trattato di Rapallo e si limita a qualche protesta di facciata quando D'Annunzio viene fatto sgombrare da Fiume. La ricompensa è l'ingresso del fascismo nel Blocco Nazionale giolittiano in vista delle elezioni del maggio 1921.
Le urne, com'è noto, confermarono le salde posizioni di socialisti e popolari e l'ingresso in parlamento della prima pattuglia comunista. Ma la grande novità è la presenza di 35 fascisti, con Mussolini alla loro testa. Per il nuovo Governo del solito Giolitti non è certo un alleato sul quale fare affidamento. A poco più di un mese dalle elezioni il vecchio statista cede definitivamente la mano, dimettendosi dalla politica attiva.

Nel frattempo Mussolini non poteva più rimandare il confronto con gli obiettivi e la vera natura del suo movimento. Troppo preso dagli avvenimenti politici e dalle trattative prima con D'Annunzio e poi con Giolitti aveva lasciato le redini del fascismo - ancora privo di una struttura organizzativa di tipo partitico - nelle mani dei vari ras locali. Arpinati a Bologna, Balbo a Ferrara, Farinacci a Cremona dettavano legge con le loro 'squadre' nelle piazze e nelle campagne.
Ma c'era il rischio che il tacito consenso di cui avevano goduto venisse meno. Tra la fine del 1920 e l'inizio del 1921 l'opinione pubblica aveva accettato con malcelata soddisfazione le violenze fasciste perché si rivolgevano contro il pericolo rivoluzionario "rosso". Ma verso la metà del 1921 la paura era stata superata e con questa la tolleranza verso le sopraffazioni fasciste. A luglio, la creazione degli Arditi del Popolo, un gruppo armato di stampo anarchico e comunista nato per difendere le associazioni proletarie, fece ritornare in auge i ras. Tuttavia il ruolo 'pacificatore' del fascismo sembrava esaurito anche per la stampa che fino a pochi mesi prima ne aveva esaltato le benemerenze.

Mussolini tenta allora un avvicinamento ai socialisti, ma la base squadrista si oppone con violenza e intensifica le violenze di piazza. Nella seconda metà del 1921 Mussolini sente di non avere più il controllo sulla base del movimento, sempre più orientato a ruolo di 'guardia bianca' degli agrari e del capitalismo. Invano convoca un consiglio nazionale a Roma per richiamare all'ordine le 'squadre' e ribadire i principi ispiratori del 1919. Le due anime del fascismo sono alla resa dei conti. Mussolini, nell'inedita veste di moderato, propone un patto di pacificazione tra fascisti e socialisti (popolari, repubblicani e comunisti non vorranno partecipare) per porre fine al clima di reciproche intimidazioni. L'iniziativa verrà contestata dalla base e indurrà Mussolini al gesto clamoroso delle dimissioni dal movimento, respinte però a fine agosto dal Consiglio nazionale di Firenze.

La maschera di uomo d'ordine, capace di tenere a bada le diverse anime del fascismo, Mussolini la indossa definitivamente il 7 novembre 1921 all'Augusteo di Roma, nel corso del congresso che trasforma il movimento in partito. L'opposizione di Grandi e Farinacci viene liquidata senza troppi problemi, nominando alle cariche più importanti personaggi facilmente manovrabili (Starace su tutti). La componente nazionalista e quella di sinistra vengono assorbite e stemperate. La via rivoluzionaria è praticamente finita. Il fascismo imbocca la strada del parlamentarismo e della conquista legale del potere.

Fin qui la cronaca degli avvenimenti che portarono alla nascita del fascismo. E che pochi mesi dopo condussero alla marcia su Roma, al Governo Mussolini e alla successiva dittatura. Resta da chiedersi con quali occhi i contemporanei guardassero al fascismo, quali ipotesi formulassero sulla nascita di un movimento che, nato dal basso e svezzato al mito della rivoluzione, era approdato nel volgere di poco tempo alla stanza dei bottoni.

La pubblicistica e il giornalismo degli anni 1921-22 era pressoché unanime nel riconoscere sostanzialmente tra i due tipi di fascismo visti sopra, quello del 1919-20, che si collegava direttamente all'interventismo rivoluzionario del 1914-15, e quello successivo alla fine del 1920, quando si ebbe lo sviluppo del fascismo agrario emiliano-romagnolo. Il più pericoloso era naturalmente il secondo. Scriveva nell'agosto del 1921 il periodico comunista Ordine Nuovo, che "il fascismo come organizzazione generale e generica dei reduci di guerra non è quello che interessa; l'importanza del fascismo data dall'epoca del suo sviluppo come arma antiproletaria degli agrari emiliani".

Il fascismo dei primissimi anni Venti appariva ai contemporanei come una reazione borghese al biennio rosso e al bolscevismo. Naturalmente c'era chi valutava questa reazione in modo positivo e chi negativamente, ma ciò non toglie che l'immagine di partito pienamente inserito in una stagione di lotte di classe non trovasse d'accordo sia i fiancheggiatori che gli oppositori di Mussolini. Quale fosse poi la vera natura del fascismo non era ancora chiaro un anno dopo la marcia su Roma. Forse non lo sapeva lo stesso Mussolini, che dimostrò fiuto politico, grande opportunismo e una estrema abilità nel navigare a vista tra i marosi della politica italiana dell'epoca:
"Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente".

Non sorprende quindi che a risultare spiazzati nel definire il movimento fascista fossero anche gli antifascisti più attenti e tenaci. Scrisse nel 1923 Piero Gobetti che
"l'interpretazione comune (reazione ai miti patriottici e alle ebbrezze rivoluzionarie) ha un valore pratico ed è parsa sin qui destinata a far fortuna, ma non presenta alcun significato in sede politica dove gli interessi e la retorica dovrebbero trasformarsi in situazioni storiche. Anche l'interpretazione marxista (reazione borghese) è insufficiente e spiega solo poche situazioni sociali".

Ed è forse proprio a causa di questo dubbio gobettiano irrisolto che ancora oggi ci interroghiamo su quella deriva violenta e autoritaria che pochi seppero intuire e arginare. La maggior parte degli Italiani disapprovò i metodi degli squadristi. Ma tra di loro una fetta consistente non rinunciò a riconoscersi negli obiettivi e negli ideali del fascismo.
ALESSANDRO FRIGERIO
DAL CROLLO DEI LIBERALI
AGLI ANNI FASCISMO

di CLAUDIO MARTINELLI
Nel Giugno del 1920 veniva formato l’ultimo gabinetto presieduto da Giovanni Giolitti. Egli fu appoggiato, oltre che da liberali di tutte le tendenze, anche dai cattolici nonostante i suoi pessimi rapporti personali con Don Sturzo. Con un discorso tenuto a Dronero, che qualificava a Sinistra il programma del Governo, Giolitti si era assicurato la "non ostilità" dei socialisti, ma ancora una volta non fu possibile andare oltre poichè Turati si vide costretto a rifiutare l’offerta di partecipazione diretta al Ministero, condizionato dalla base del partito. La larga maggioranza ottenuta non gli fu tuttavia sufficiente per riuscire a ricomporre il sistema politico prebellico: erano sorti nuovi raggruppamenti con i quali doversi confrontare, la proporzionale aveva distrutto l’Italia dei notabili, il movimento fascista imperversava nelle piazze mediante l’uso della violenza. Come già aveva fatto con socialisti e cattolici, Giolitti tentò di sfiatare il movimento inglobandolo nelle strutture dello Stato liberale. Così va letta la sua mossa di inserire nelle sue liste alle elezioni del ‘21 rappresentanti del Partito Fascista. Ma questa volta il responso delle urne non gli fu favorevole.
I deputati del "blocco nazionale", l’unione delle liste da lui capeggiate, non furono il numero previsto ed inoltre i deputati fascisti si rivelarono ben presto dei "cani sciolti", confermando l’impossibilità di imbrigliarli nel sistema democratico. Se si considera poi il fatto che questi ultimi avvenimenti avevano inasprito non poco i rapporti con le opposizioni socialiste e cattoliche, comprendiamo quanto fosse delicata la situazione parlamentare; ed infatti di lì a poco le cose precipitarono.
Nel breve volgere di pochi mesi, mentre il paese era nel caos e sull’orlo di una guerra civile, si succedettero i deboli Governi presieduti da Bonomi e Facta. Giolitti intanto continuava a pensare che per non peggiorare una situazione già di estrema gravità non si dovesse procedere allo scontro frontale con i fascisti e così avviò con loro trattative per la formazione di un nuovo Governo che lo vedesse presidente e con la partecipazione di ministri fascisti. Contattò prima D’Annunzio e poi Mussolini ma anche questo estremo tentativo di salvare il salvabile non andò a buon fine. La democrazia liberale era sconfitta, la marcia su Roma un’amara realtà. Lo Stato liberale entrò in crisi e chiuse la sua esperienza a causa dell’incapacità di capire da parte di quella classe politica che il mondo andava avanti e che le masse non erano riconducibili a quel tipo di sistema politico basato sui notabili.
Il futuro di tutte le democrazie continentali era nei partiti, con tutti gli elementi positivi e negativi che questo fatto porta tuttora con sè. E’ però forse ancor più importante cercare di capire perché la fine dello Stato liberale in Italia sfociò nella formazione di una forma di Stato autoritario. E’ quindi necessario analizzare i passaggi attraverso i quali il fascismo da movimento-partito si trasformò in regime. Va preliminarmente ricordato come tutti i diversi passaggi istituzionali che caratterizzarono questa evoluzione furono possibili a causa del carattere flessibile della Carta costituzionale vigente all’epoca, vale a dire lo Statuto Albertino. Le norme contenute in questa Carta, a differenza di quelle della Costituzione repubblicana del 1947, non possedevano una forza giuridica superiore rispetto alle norme di una qualsiasi legge ordinaria e quindi fu possibile per il regime entrante fare piazza pulita delle istituzioni democratiche senza una formale abrogazione della Carta fondamentale dello Stato liberale.
Questo percorso può essere grossomodo diviso in tre periodi.

1) 1922 - 1925 - questa prima fase può essere definita, da un punto di vista istituzionale, come pseudo-parlamentare: le istituzioni tipiche del periodo statutario continuavano a sopravvivere ma perdevano sempre più le loro funzioni ed il loro ruolo di baluardo della democrazia. Vennero gettate le basi per una repentina evoluzione del fascismo in regime; basti pensare alla legge "Acerbo", la nuova legge elettorale che prevedeva l’acquisizione dei 2/3 dei seggi alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti validi, o fatto ancora più clamoroso, l’assassinio del deputato socialista Matteotti che in parlamento aveva osato denunciare le irregolarità della consultazione del 1924.

2) 1925 - 1929 - In questa seconda fase il fascismo si trasformò definitivamente in un regime autoritario. Il punto di svolta fu rappresentato dal discorso che Mussolini tenne in parlamento il 3 gennaio 1925, nel corso del quale Mussolini rivendicò la responsabilità morale e politica del delitto Matteotti ed il diritto-dovere di condurre il Paese con i metodi della repressione. Nei giorni successivi l’applicazione pratica di questi intendimenti non si fece attendere. I circoli politici vennero chiusi, i giornali di opposizione imbavagliati, molti rappresentanti delle opposizioni incarcerati.
Nel dicembre del ‘25 fu approvata la legge che poneva formalmente fine al governo parlamentare, con la previsione, da un lato, della cessazione di ogni rapporto fiduciario e responsabilità politica del governo nei confronti delle Camere, e dall’altro, della completa subordinazione del Parlamento all’attività direttiva del Governo.
E’ invece del gennaio del ‘26 la legge sul potere normativo del Governo, che consentiva all’Esecutivo una amplissima possibilità di avvalersi di strumenti come i decreti-legge, le leggi delegate o i regolamenti governativi. Vi fu poi una legge dell’aprile del ‘26 che riservò ai soli sindacati fascisti la competenza a stipulare contratti collettivi obbligatori per un’intera categoria di lavoratori. Questi ed altri provvedimenti testimoniano di come sia stata chiara e irrefrenabile l’evoluzione verso un sistema autoritario che poi avrebbe fatto scuola anche per altri Paesi come la Germania nazista, la Spagna franchista ed il Portogallo di Salazar.
3) Dal 1930 inizia poi la fase di consolidamento del regime e soprattutto della sua personalizzazione nella figura del Duce. Mussolini spesso riservava a se stesso, oltre alla carica di capo del Governo e di Duce del Fascismo, anche alcuni Ministeri chiave, il Re era sempre costretto ad avallare qualsiasi sua decisione, ed il suo rapporto con le masse era sempre più stretto. Va infatti sfatata l’idea che il fascismo sia consistito in un regime dittatoriale che vessava una popolazione anelante la democrazia, la libertà e la difesa del Diritto.
La realtà è che la grande maggioranza del popolo italiano del ventennio era consenziente o, per lo meno, non contraria al tentativo di risolvere gli endemici problemi nazionali con la scorciatoia del totalitarismo: le folle oceaniche che acclamavano il Duce in Piazza Venezia non erano solo fatti propagandistici, ma la spettacolarizzazione di un consenso di cui il popolo italiano dovrà di lì a poco amaramente pentirsi. La parabola del regime era destinata a raggiungere il suo apice fra il ‘36 ed il ‘38, in coincidenza con la vittoria nella guerra d’Etiopia e la conseguente retorica dell’Impero. In quegli anni inoltre Mussolini raggiunse anche un prestigio internazionale (basti pensare alla cosiddetta "pace di Monaco" ) che contribuì non poco a consolidarne il carisma interno.
Ma con lo scoppio della guerra iniziò quella catena di errori che porteranno Mussolini, nel breve volgere di pochi anni, dai fasti di una macchiettistica riedizione dell’Impero romano al macabro spettacolo di Piazzale Loreto.
Non fa certamente parte dell’oggetto di questo scritto l’analisi dei fatti e dei motivi che condussero al crollo del fascismo, tema su cui gli storici si sono a lungo cimentati. Basterà qui ricordare che i passaggi fondamentali furono la risoluzione del 25 luglio ‘43 con la quale il Gran Consiglio del Fascismo (organo di partito istituzionalizzato da Mussolini negli anni della identificazione dello Stato con il Regime), a seguito dei negativi eventi bellici, destituì Mussolini dalle proprie cariche; l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, che segnò il cambio di alleanza del nostro Paese. Iniziava così quel periodo conosciuto con il nome di resistenza, che alla nostra trattazione interessa per le implicazioni che avrà il Comitato di Liberazione Nazionale (organismo che raccoglieva al proprio interno i partiti antifascisti) sugli sviluppi del sistema politico del periodo repubblicano. Il CLN era un organismo che si riprometteva di costituire un coordinamento dei gruppi partigiani impegnati nella lotta contro i nazisti ed i fascisti di Salò.
Entrarono a farvi parte tutti i partiti antifascisti allora presenti sulla scena. Ciò fu evidentemente un fatto straordinario: comunisti e liberali, azionisti e cattolici, socialisti e conservatori, tutti uniti contro la tirannide straniera e domestica.
Questo spirito unitario ebbe poi delle conseguenze notevoli anche sugli assetti politici dell’immediato dopoguerra, nel senso che, pur in presenza di contrasti profondissimi dal punto di vista ideologico, le forze politiche riuscirono a far prevalere un comune intento di rifondazione istituzionale dello Stato. Infatti, nell’assemblea costituente eletta a suffragio universale il 2 giugno 1946 (unitamente al referendum istituzionale su monarchia o repubblica), la ricerca di un alto compromesso costituzionale fece premio su qualsiasi diatriba riguardante la gestione politica ordinaria, che pure doveva anche in quel periodo essere assicurata, ed il risultato che ne scaturì, cioè la Costituzione repubblicana, nonostante le parole che spesso a sproposito si sentono pronunziare, rappresenta tuttora, sotto molti aspetti, una delle Carte più moderne e avanzate del mondo.
Il punto di svolta che segna il passaggio dalla fase costituente a quello di un asperrimo scontro politico, fu costituita dalle elezioni del 18 aprile 1948. In quella campagna elettorale l’Italia era di fatto spaccata fra coloro che si riconoscevano nel sistema di valori della civiltà occidentale, e coloro che invece propugnavano la costruzione di una società nuova, basata sui dettami dottrinari della filosofia Marxiana e sulla pratica rivoluzionaria di matrice bolscevica.
Non si può certamente dimenticare che sullo sfondo (o forse sarebbe meglio dire sopra) di questo epico scontro vi erano gli accordi di Yalta e gli equilibri internazionali che da quegli accordi erano stati prodotti, ma ciò nondimeno se quella consultazione elettorale avesse sortito la vittoria del blocco socialcomunista la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale sarebbe stata certamente più problematica, e soprattutto sarebbero state adottate scelte di politica economica che difficilmente avrebbero consentito al nostro Paese l’eccezionale sviluppo economico che conobbe negli anni della ricostruzione post-bellica.
Il sistema politico di quel periodo è dunque caratterizzato da un "bipolarismo" imperniato, da un lato, sulla Democrazia Cristiana ( il partito dei cattolici impegnati in politica che riprese la tradizione del Partito Popolare dell’epoca pre-fascista), che allora poteva contare su di un leader di statura internazionale come Alcide De Gasperi, e, dall’altro, dal Partito Comunista, guidato, a sua volta, da un capo carismatico come Palmiro Togliatti. Secondo alcuni studiosi, il fatto che la neonata democrazia italiana fosse egemonizzata da un partito comunista ( con tutti i legami con Mosca che all’epoca erano intrecciati) e di uno cattolico (che, come vedremo, dovrebbe essere considerato forse più come una federazione di partiti che non come un unico raggruppamento viste le profonde divisioni che ne caratterizzarono sempre la vita) costituisce la vera anomalia italiana rispetto alle grandi democrazie occidentali.
La presenza a Sinistra del più forte Partito Comunista dell’occidente rendeva molto difficile la possibilità di un’alternativa credibile al potere democristiano, dato il radicale cambiamento che avrebbe comportato. D’altra parte il fatto che il fronte moderato avesse come indiscussa guida la Democrazia Cristiana, causa una quantità di voti enormemente superiore rispetto ai suoi alleati centristi (liberali, repubblicani e socialdemocratici), rese più difficile la crescita di una moderna borghesia laica che facesse dell’efficienza del mercato la sua bandiera. Questo assetto politico si protrasse per tutti gli anni ‘50, passando attraverso scelte di portata epocale. Piano Marshall, adesione al Patto Atlantico, liberalizzazione degli scambi, impulso alla costituzione delle comunità europee, furono tutte decisioni prese dai governi centristi di De Gasperi.
Lo statista trentino, però, nonostante fosse saldamente alla giuda del governo, non è che fosse particolarmente amato all’interno del proprio partito, in particolare dalle correnti più di sinistra. La DC fu fin dalla nascita caratterizzata dalla divisione in gruppi e sottogruppi, chiamati appunto correnti. Talvolta, nei casi più nobili, esse rappresentavano legittime aspirazioni ideali, visioni diverse dell’impegno dei cattolici in politica, una divergente concezione del rapporto fra il partito, il Vaticano ed il mondo cattolico.
Troppo spesso però esse nascevano e si sviluppavano più per ragioni di potere, riconducibili esclusivamente alle alchimie interne ai notabili che di volta in volta guidavano il partito, dediti più all’occupazione delle poltrone che ad una effettiva azione di sviluppo del Paese. Questa complessa rete di rapporti, congiure, doppigiochi e bizantinismi, fini così per avere il sopravvento anche su una figura come quella di De Gasperi che la Storia si sarebbe poi incaricata di onorare come il più importante e decisivo statista dell’Italia Repubblicana. Alla metà degli anni ‘50 la DC era un partito ormai nelle mani delle correnti e dei loro capi.

Le maggioranze centriste, pur continuando a governare il Paese fino ai primi anni ‘60, cominciarono ad entrare in crisi, in primo luogo per una perdita di leadership che le sapesse di nuovo compattare attorno a grandi obbiettivi comuni. Nel ‘53 De Gasperi aveva provato a dare nuova linfa a questa formula politica con la cosiddetta "legge-truffa", cioè con una riforma elettorale che garantisse un rilevante premio di maggioranza alla coalizione che avesse vinto le elezioni superando una determinata soglia di suffragi.
Il premio non scattò per pochissimi voti, e da allora il nostro Paese rinunciò per molti decenni ad utilizzare una qualsiasi riforma elettorale come cura al proprio endemico male: l’instabilità politica. Questa instabilità però è sempre stata paradossalmente accompagnata da un elemento che apparentemente può essere considerato il suo esatto opposto, e cioè la costante presenza al governo e quindi al potere della DC, attorno alla quale dal dopoguerra fino alla sua liquidazione si facevano e disfacevano maggioranze e governi.
Come si spiega questo apparente paradosso? Si spiega con una considerazione alla quale già accennavamo in precedenza. L’egemonia a Sinistra di un partito così antisistema, che propugnava l’edificazione di una società così radicalmente diversa non poteva fare altro che spaventare anche quei ceti sociali che non arano certo entusiasti di dare il proprio consenso ad un partito per tanti versi discutibile e controverso, portatore talvolta anche di una visione clerical-conservatrice della società italiana (basti pensare alla vicenda della legge sul divorzio).
L’impossibilità di un’alternativa credibile e praticabile, fu quindi fin dall’inizio della storia repubblicana uno dei tratti distintivi della democrazia italiana. Sulla fine degli anni ‘50 il quadro politico era dunque quanto mai stagnante e privo di prospettive. Fu così che all’interno della DC, e anche in alcuni esponenti di area laica come il repubblicano La Malfa, cominciò a farsi largo l’idea che l’unico sblocco possibile per una situazione il cui stallo taluni ritenevano persino pericoloso per la democrazia (portando ad esempio il Governo Tambroni del 1960 appoggiato dai missini), fosse l’ingresso nella maggioranza e nella compagine governativa dei socialisti. Nacque così una formula politica destinata a caratterizzare lunga parte della vita politica italiana: il centro-sinistra. Anche questa formula però, nonostante avesse introdotto elementi di fortissima novità nel quadro politico, fu ben lungi dal risolvere l’annoso problema dell’instabilità. Nel giro di pochi anni infatti si succedettero diversi governi, le cui sorti venivano determinate soprattutto dai rapporti di forza fra le correnti interne alla Democrazia Cristiana. Le linee programmatiche di fondo di quell’esperienza erano comunque tutte volte ad una più ampia ingerenza dello Stato nell’economia, e questo spiega la forte avversione dei liberali.
L'obbiettivo venne perseguito attraverso le nazionalizzazioni ( per esempio dell’energia elettrica), l’aumento della spesa pubblica e l’impostazione, forse più teorica che pratica, di una politica di programmazione economica. Insomma quella stagione fu caratterizzata dal tentativo di mettere in pratica le linee tipiche di una politica economica Keynesiana.
L'apertura a sinistra non riuscì però ad impedire l’esplosione anche nel nostro Paese della contestazione giovanile del’68, di cui ci occuperemo nella puntata di quegli anni.
CLAUDIO MARTINELLI
Bibliografia
Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, di R. De Felice, Einaudi, 1965
Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, di R. De Felice, Einaudi, 1966
L'Italia in camicia nera, di I. Montanelli, Rizzoli, 1976
L'Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, di C. Seton-Watson, Laterza, 1973
Le origini del fascismo in Italia, di G. Salvemini, Feltrinelli, 1961
Le interpretazioni del fascismo, di R. De Felice, Laterza, 1969
Nascita dell'ideologia fascista, di Z. Sternhell, Baldini&Castoldi, 1989

Questa pagina (concessa solo a Storiologia) è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net
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