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NIETZSCHE - Al di là del Bene e del Male
(opera integrale - nella sua prima stesura in italiano)

Nietzsche sulla composizione di questa sua opera, in un abbozzo (poi abbandonato) di prefazione così scrive: "Questo libro è composto di annotazioni da me fatte durante la nascita di "Così parlò Zarathustra", o - più esattamente - durante gli intermezzi di quella nascita, sia per ristorarmi sia anche per interrogare e giustificare me stesso nel pieno di un'impresa estremamente ardita e densa di responsabilità..."

E proprio come in "Zarathustra" (l'opera più celebre del Nostro), anche in quest'opera N. continua a condurre le sue micidiali aforistiche scorribande di nomade negli ambiti della morale, qui crudelmente dissezionata, della psicologia, della storia e della cultura. Ripercorrendo tutti i temi fondamentali della sua maturità filosofica è considerato uno dei testi fondamentali della filosofia del XIX secolo. E come dice il suo sottotitolo un "Preludio di una filosofia dell'avvenire".

"Nel leggere " Al di là del Bene e del Male", ciascuno reagisce secondo il suo temperamento, molti si cavano dall'imbarazzo semplicemente buttando via il libro (o nel nostro caso spegnendo il computer). Ma molti non possono farlo, o perchè l'attrazione supera la repulsione, o perchè sono vincolati in qualche modo a dare il loro giudizio. E così si ingrossa il fiume delle interpretazioni di Nietzsche".
(G. Colli, "Al di là del bene e del male", nell'edizione Adelphi - 1979)

Anche se alcuni aforismi risalgono al 1881, la stesura organica e definitiva dell'opera, si colloca tra la primavera del 1885 e l'inverno 1885-1886. Alla metà di quest'ultimo anno, il libro - non trovando disponibile un editore - vide la luce a spese dello stesso autore. Come del resto - l'anno prima - anche "Così parlò Zarathustra", fu dato alle stampe da N. a proprie spese, in quaranta esemplari destinati agli amici.

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BUONA LETTURA ! (?)

* PREFAZIONE
* CAPITOLO PRIMO - Dei pregiudizi dei filosofi
* SECONDO - Lo spirito libero
* TERZO - La mania religiosa
* QUARTO - Aforismi ed interludi
* QUINTO - Per la storia naturale della morale
* SESTO - Noi dotti
* SETTIMO - Le nostre virtù
* OTTAVO - Popoli e patrie
* NONO - Che cosa è aristocratico?
* Dall'alto dei monti. Epodo


Sils-Maria, Engadina sup., giugno 1885.

PREFAZIONE

"Supposto che la verità sia femmina - ebbene non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s'intendessero poco delle donne? Che la spaventevole serietà, l'indiscrezione indelicata con cui sinora erano abituati ad affrontare la verità non erano che dei mezzi grossolani e poco adatti, per cattivarsi una femmina? Quello che vi è di certo è che essa non sI è lasciata sedurre - e i dogmatici d'ogni specie se ne stanno tristi ritti innanzi a noi e scoraggiati."

"Se del resto può dirsi che stiano ancora in piedi! Vi sono dei burloni che pretendono esser la dogmatica caduta irremissibilmente, anzi che sia agonizzante. Parlando sul serio c'è buon motivo di sperare che in filosofia il dogmatizzare, quantunque abbia fatto sciupìo di frasi solenni ed apparentemente inoppugnabili, non sia stato che una nobile fanciullaggine di dilettanti; e forse è prossimo il tempo in cui si comprenderà sempre più quanto meschine sono le basi degli edifici sublimi ed in apparenza incrollabili, eretti dai filosofi dogmatici, - qualche superstizione risalente ad epoche preistoriche (come superstizione dell'anima che oggi ancora continua ad essere fonte di guai con la superstizione del « soggetto » e dell' « io »), forse qualche gioco di parole, qualche equivoco grammaticale, oppure qualche audace generalizzazione di fatti molto ristretti, molto personali e molto umani, anzi troppo umani".

"La filosofia dei dogmatici è stata, lo vogliamo sperare, unicamente una promessa per parecchi millenni di là' da venire, come nei tempi ancor più remoti lo fu l'astrologia, nel cui servizio si spesero più denaro, lavoro, perspicacia e pazienza di quanto sinora siasi speso per una scienza positiva qualsiasi - all'astrologia ed alle sue aspirazioni soprannaturali noi dobbiamo in Asia ed in Egitto lo stile grandioso dell'architettura. Sembra quasi che tutte le cose grandi per potersi imprimere a caratteri indelebili nei cuori umani, debbano prima passare sulla terra sotto l'aspetto di caricature mostruose e spaventevoli : una simile caricatura mostruosa era la filosofia dogmatica: ad esempio la dottrina dei Vedi in Asia, il platonismo in Europa.
Noi siamo ingrati verso di loro, quantunque sia necessario confessarci che il peggiore, il più pertinace, il più pericoloso di tutti gli errori fu quello dI un filosofo dogmatico e precisamente l'invenzione platonica del puro spirito e del bene per sè stesso.
Ma oggi che l'abbiamo superato, che l'Europa respira sollevata da un tale incubo e che per lo meno può dormire d'un sonno più salutare, siamo noi, il cui compito è unicamente d'esser desti, siamo noi gli eredi di tutta la forza, accumulata dalla lunga lotta contro quell'errore".

"Bisognerebbe proprio capovolgere la verità, rinnegare la prospettiva, la condizione fondamentale della vita, per parlare dello spirito del bene come ne parla Platone; anzi, come medico, si potrebbe chiedersi « donde una tale malattia nel prodotto più bello degli antichi tempi, in Platone? Sarebbe forse vero che Socrate l'abbia corrotto? Dunque Socrate sarebbe stato davvero il corruttore della gioventù? Avrebb'egli davvero meritato la sua cicuta? ». Però la lotta contro Platone, o, per dirlo in modo più intelligibile e popolare, la lotta contro la millenaria oppressione clericale cristiana - giacchè il Cristianesimo è un platonismo « pel popolo » - ha prodotto in Europa una meravigliosa tensione degli spiriti quale forse mai s'è avuta sinora sulla terra; con un arco talmente teso si può mirare alle mète più lontane. E' bensì vero che per l'europeo questa tensione è una causa di malessere; e due volte digià si tentò in grande di allentare l'arco, una prima volta col gesuitismo, la seconda con la propaganda delle idee democratiche".

"Coll'aiuto della libertà della stampa e della lettura delle gazzette arriveremo a tanto, che lo spirito non sentirà più l'incubo di sè stesso. (i Tedeschi hanno inventato la polvere, facciamo loro di cappello; ma - hanno inventato la stampa e con ciò han fatto patta!). Ma noi che non siamo nè gesuiti, nè democratici e nemmeno abbastanza tedeschi, noi altri buoni europei e spiriti liberi, ma molto liberi -- noi sentiamo ancora tutta l'oppressione dello spirito, possediamo tutta la tensione dell'arco! E forse anche la freccia, il compito, e chi lo sa? La mèta".

Sils-Maria, Engadina sup., giugno 1885.

 

CAPITOLO PRIMO
Dei pregiudizi dei filosofi

1

La volontà di conoscere il vero, che ci sedurrà ancora a molti cimenti, quella famosa volontà della veracità di cui ancora tutti i filosofi hanno parlato con venerazione, quali questioni non ci ha di già proposte! Quali questioni strane, pericolose, problematiche! È una storia già molto lunga - eppure, non sembrerebbe datasse da ieri? Quale meraviglia, se alfine diventiamo diffidenti, se perdiamo la pazienza, se ci vogliamo sfiduciati? Se abbiamo imparato da codesta Sfinge a proporre anche noi delle questioni?
Ma chi è mai che ci interroga? Qual' è quella parte di noi stessi che tende alla verità? -. In realtà, noi abbiamo fatto una lunga sosta dinanzi alla questione: qual'è la causa di questa volontà sino a tanto che fummo costretti a fermarci tutto a un tratto dinanzi ad una questione, ancor più importante. Ci siamo chiesti quale si fosse il valore di questa volontà.

Ammesso pure che noi vogliamo la verità: ma perché non piuttosto la menzogna? o l'incertezza? o persino l'ignoranza? Ci si è fatto innanzi il problema del valore della verità - o forse siamo andati noi in cerca di tale problema? Chi di noi è qui Edipo, chi la Sfinge? Sembra un convegno di interrogazioni e di punti interrogativi. - Eppure, chi lo crederebbe, quasi quasi ci sembra che il problema sinora mai sia stato ancor proposto - che sia stato intraveduto da noi per la prima volta, per la prima volta ponderato, affrontato. E per affrontarlo ci vuole un'audacia della quale non v'ha forse la maggiore.

2
In qual modo una cosa potrebbe aver origine del suo contrapposto? Per esempio, la verità dall'errore, oppure, la volontà del vero della volontà dei falso? Oppure, un'azione disinteressata dall'interesse.? Oppure, la contemplazione ascetica del saggio dalla concupiscenza?
Una tale origine è impossibile: chi la sogna è un pazzo, anzi qualche cosa di peggio: le cose che hanno un valore supremo, devono avere un'altra origine propria --- è impossibile derivarle da questo mondo miserabile, passeggero, seduttore ed ingannatore, da questo labirinto di follie e di bassi appetiti! In seno all'essere, nell'imperituro, nel dio nascosto, nella « cosa in sè » -- là sta la sua origine e non altrove? Questo metodo di giudicare ci presenta il pregiudizio tipico, che ci permette di ravvisare i metafisici di tutti i tempi; questo metodo d'apprezzamento forma la base di tutti i loro processi logici; partendo da questo punto, dalla loro « fede », cercano di arrivare alla « conoscenza », a qualche cosa infine cui dànno il nome di « verità ». La credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nei contrapposti dei valori.

Anche ai più prudenti tra loro non venne mai in mente di sostare dubbiosi sulla soglia, dove il dubbio s'imponeva maggiormente: anche quando si erano proposti fermamente « de omnibus debitandum ».
E' lecito cioè dubitare in primo luogo se i contrapposti proprio esistono, eppoi se siffatti apprezzamenti volgari, siffatti contrapposti di valori, su cui i metafisici hanno impresso il loro suggello, non siano forse degli apprezzamenti preliminari, prospettive provvisorie, prese forse da un qualche angolo, o dai basso in alto, prospettive da rane, come usano esprimersi i pittori?
Per quanto grande possa essere il valore della verità, del disinteresse, potrebbe darsi cionondimeno che all'apparenza, alla volontà del falso, all'interesse ed alla cupidigia bisognasse ascrivere un valore superiore e più fondato per tutto ciò che si riferisce alla vita. Sarebbe persino possibile, che ciò che costituisce il pregio delle cose buone e venerate consistesse proprio in ciò che possiedono un'affinità compromettente con le cose cattive ed apparentemente opposte, che anzi nell'essenza sono alle medesime quasi uguali. Forse ! - Ma chi mai vorrà prendersi cura di tali « forse » tanto pericolosi?

Perché ciò avvenga, é d'uopo attendere una nuova specie di filosofi, i quali abbiano delle inclinazioni e dei gusti diametralmente opposti a quelli degli attuali. Filosofi del pericoloso « forse » in tutti i sensi. E parlando con tutta serietà -- io vedo l'avvento di tali nuovi filosofi.

3.
Dopo avere assai lungamente letto i filosofi tra le righe, dopo averli osservati attentamente, io mi dico: bisogna ancora collocare la maggior parte del pensare consciente, e perfino il pensare filosofico tra le attività dell'istinto: bisogna cominciare ad imparare da capo come si è fatto a proposito dell'atavismo e dell'« ereditarietà ». Come l'atto della nascita per sé stesso non può esser preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, così del pari la « coscienza » non può venir contrapposta in senso decisivo all'istinto. Quasi tutto il pensare cosciente del filosofo é diretto segretamente dai suoi istinti ed é costretto a prendere una via determinata. Anche dietro la logica e le sue mosse, in apparenza splendidamente indipendenti si celano apprezzamenti di valore, o, per parlare più chiaramente, postulati fisiologici per la conservazione d'una data specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia maggior pregio dell'indeterminato, che all'apparenza valga meno della « verità » : cotali apprezzamenti, per quanto possa essere la loro importanza regolatrice per noi, non sono che apprezzamenti soggettivi, una specie di « niaiserie », la quale può essere necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. Sempre ché non debba esser proprio l'uomo " la misura delle cose "

4.
La falsità d'un giudizio non può servire a noi d'obiezione contro il medesimo. La questione é di sapere quanto tale giudizio possa giovare a favorire, a conservare la vita, la specie, quanto possa essere necessario per la loro evoluzione; e per principio noi siamo disposti a sostenere che i giudizi i più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici « a priori ») sono per noi maggiormente indispensabili, che non lasciando valere le finzioni logiche, che non misurando la realtà alla stregua del mondo puramente immaginario dell' incondizionato, che senza falsare costantemente il mondo mediante il numero, l'uomo non potrebbe vivere - che il rinunziare ai giudizi falsi equivarrebbe al rinunziare alla vita, al rinnegare la vita.
Ammettere la menzogna quale condizione della vita, ciò sarebbe certamente un ribellarsi in modo pericoloso agli usuali sentimenti di valore, ed una filosofia che ardisca far ciò, si colloca perciò stesso oltre i confini del bene e del male.

5.
Quello che c'induce a riguardare un po' diffidenti, un po' con aria di scherno tutti i filosofi, non si é già perché ripetutamente abbiano avuto campo di convincerci della loro ingenuità dei granchi che prendono tanto di sovente e colla massima leggerezza bensì perché non sono dei tutto onesti ; mentre essi uniti strettamente mandano alte strida di virtù, quando si osa toccare, il problema della realtà, vorrebbero darci, ad intendere, che le loro opinioni sono il risultato di una dialettica fredda, pura, olimpicamente indifferente, da loro scoperta ed ottenuta (per distinguer sé stessi dai mistici d'ogni classe, i quali, più onesti, ma più imbecilli, parlano di « ispirazione »); mentre in fondo una frase colta a volo, un' idea stravagante, una suggestione, un desiderio reso astratto e debitamente filtrato, é quanto essi difendono con ragioni faticosamente cercate: in fondo sono tanti avvocati, che non vogliono sentirsi chiamare tali, astuti difensori dei loro pregiudizi, che essi vogliono far passare per « verità » - e sono molto lontani da quella forza d'animo, che di tutto ciò particolarmente sa rendersi e si rende ragione, molto lontani dal buon gusto del coraggio, che tutto ciò proclama altamente sia per metter in guardia i nemici e gli amici, sia per orgoglio, od allo scopo di beffarsi di sé stessi.
La tartuferia altrettanto rigida quanto virtuosa del vecchio Kant, con la quale egli ci attira nei sentieri più sdrucciolevoli della dialettica, e che devono condurci o piuttosto sedurci al suo « imperativo categorico » - é uno spettacolo che fa ridere noi, malavvezzi, noi che non sentiamo piacer maggiore di quello di metter a nudo i raggiri dei vecchi predicatori di morale.

Così ci fa ridere quel giuoco di bussolotti che é la forma matematica di cui Spinoza ha recinto come d'una corazza la sua filosofia, o, a dir meglio, - l'amore della propria sapienza - onde disaminare fin da principio chiunque s'attentasse di guardar in faccia quell'invincibile Pallade Atenea : quanta timidezza e debolezza ci rivela quella mascherata di un infermo solitario.

6.
Un po' alla volta sono arrivato a farmi un'idea di ciò che é la grande filosofia: null'altro che la professione di fede del suo autore, quasi sue memorie ch'egli scrive involontariamente. Così pure, che il fine morale (o immorale) costituisca il vero nocciolo vitale d'ogni filosofia, dal quale poi si é sviluppata la pianta tutta intera.
Difatti é cosa consigliabile e prudente il domandarsi, allorquando si vuole spiegar come abbiano avuto origine le affermazioni metafisiche più strane di tale o tal altro filosofo: a quale morale tende questa filosofia (questo filosofo)?
Perciò io non credo che un « impulso verso la coscienza » sia il padre della filosofia, ma piuttosto che un altro impulso, qui come in altri casi, si sia servito dell' istrumento conoscenza (ed anche ignoranza). Ma chi considera fino a qual punto gli istinti fondamentali dell'uomo possono essere stati in giuoco, qui soprattutto, come genii ispiratori (forse demoni o folletti), riconoscerà ch'essi hanno tutti almeno una' volta praticato la filosofia, e che ciascuno di essi vorrebbe presentarsi come la ragione ultima dell'esistenza, come sovrano legittimo di tutti gli altri impulsi. Poiché ogni impulso tende alla dominazione; e come tale tende a filosofare. Ed invero nei dotti, negli uomini di scienza propriamente detti, la cosa' può essere diversa, migliore, se vogliamo - può darsi benissimo che in essi entri anche qualcosa che possa chiamarsi l'impulso verso la coscienza, qualche piccolo meccanismo indipendente, il quale, caricato a dovere, possa lavorare di per sé valorosamente, senza che gli altri impulsi dello scienziato vi siano essenzialmente cointeressati. Perciò i "reali interessi" dello scienziato sono collocati, di solito, del tutto altrove, nella famiglia, nel lucro, nella politica; di modo che é quasi indifferente che il piccolo meccanismo sia applicato ad uno o ad un altro ramo della scienza, e che il lavoratore di belle speranze formi di sé stesso un buon filologo, un conoscitore di funghi od un chimico non é già quel tale meccanismo che gli presti il carattere per diventare questo o quello. Viceversa, nel filosofo nulla c'é d'impersonale ; ed anzitutto la sua morale attesta in modo decisivo chi egli sia - vale a dire in qual modo siano tra di loro coordinati o subordinati i suoi istinti naturali.

7.
Quanto sanno essere maliziosi i filosofi ! Non conosco nulla di più velenoso dello scherzo che si fece lecito Epicuro verso Platone ed i platonici; egli li dominò: Dionysiokolakes. Etimologicamente questa parola significherebbe: adulatori di Dionisio, dunque vili cortigiani dei tiranni; ma ben di più intese dire Epicuro con quell'appellativo; esser coloro altrettanti commedianti, nei quali nulla havvi di vero (Dionysiokolax era una denominazione popolare del commediante). E in quest'ultimo significato sta la malizia lanciata da Epicuro contro Platone; egli si sentiva indispettito della maniera grandiosa dall'effetto scenico, di cui sapevano valersi Platone ed i suoi discepoli - - mentre Epicuro non se ne intendeva! lui, il vecchio maestro di scuola di Samo, nascosto nel suo giardinetto in Atene, dove scrisse trecento volumi chi lo sa? forse per odio od invidia di Platone? Ci vollero cento anni perché la Grecia giungesse a comprendere chi fosse stato quel dio degli orti, Epicuro. -- Se pure essa giunse mai a comprenderlo...

8.
In tutte le filosofie c'é un punto in cui la < convinzione del filosofo ,> si presenta sulla scena, o, per dirla col linguaggio di un antico mistero medioevale.

adventavit asinus
pulcher et fortissimus.

9.
Volete voi vivere « secondo natura » ? Oh, nobili stoici, quale inganno di parole! Immaginatevi un essere, quale si é la natura prodiga senza misura, senza misura indifferente, senza intenzioni né riguardi, senza pietà e senza giustizia, sterile e feconda insieme, e in pari tempo incerta; immaginatevi l'indifferenza divenuta potenza - come mai potreste vivere a seconda di questa indifferenza?
Vivere non significa ciò forse voler essere qualche cosa di diverso da quello che é una simile natura? Vivere - non significa forse valutare, preferire, essere ingiusti, limitati, differenti? E supposto che il vostro imperativo "vivere secondo la natura" significhi, in fondo, " vivere secondo la vita" come potreste non farlo? Perché fare un principio di ciò che siete voi stessi, di ciò che dovete essere? - In realtà la cosa sta altrimenti: mentre ci date ad intendere estatici che nella natura decifraste i canoni della vostra legge, voi mirate a qualche cosa d'opposto, voi, strazi commedianti ed ingannatori di voi stessi ! Il vostro orgoglio vuole prescrivere, incorporare alla natura, financo alla natura, la vostra morale, il vostro ideale; voi pretendete ch'essa divenga una natura « secondo la Stoa » e vorreste informare tutta la vita alla vostra propria imagine -- vorreste farne una mostruosa e perenne glorificazione e generalizzazione dello stoicismo? Con tutto il vostro amore per la verità, vi sforzate si a lungo, si costantemente, con tale rigidezza ipnotica a vedere la natura falsa, vale a dire stoica, che infine non siete capaci di vederla sott'altro aspetto - ed un inconcepibile orgoglio v'infonde persino la sperazza insensata, che perché voi stessi sapete tiranneggiarvi stoicismo equivale a tirannia di sé stessi -- anche la natura si lasci tiranneggiare: lo stoico non ' é forse - una particella di natura?... Ma questa é una storia vecchia: ciò che in altri tempi é avvenuto degli stoici, avviene ancor oggi, non appena una filosofia cominci a credere in sé stessa.

Essa crea sempre il mondo a propria imagine, e non può fare diversamente; la filosofia non é altro che questo istinto tirannico la più spirituale volontà della potenza, della «creazione del mondo » della « causa prima ».


10.
Lo zelo e la finezza, starei per dire l'astuzia, di cui oggidì in tutta Europa ci si vale per affrontare il problema « dei mondo reale e del mondo apparente », dà a pensare, fa tender l'orecchio; e chi in fondo non ci vede che la « volontà di conoscere il vero » e nient'altro, non può vantarsi d'aver buone orecchie. In singoli casi molto rari può ammettersi che una tale volontà di conoscere il vero, che un coraggio cieco e avventuroso, un orgoglio di metafisico agli avamposti vi abbiano parte, e preferiscano una manciata di « certezza » ad un vagone carico di belle possibilità; ammetto pure che ci siano dei puritani fanatici della conoscenza, i quali preferiscano morire sulla fede di un nulla assicurato piuttostoché sulla probabilità di qualche cosa d'incerto. Ma questo é nichilismo e indizio di un'anima disperante e mortalmente stanca per quanto possa essere valorosamente ammirabile l'atteggiamento d' urla simile virtù. Ma i pensatori più forti e pieni di vitalità ed ancor assetati di vita sembrano pensarla diversamente: mentre pigliano partito contro l'apparenza e pronunciano di già con ironia la parola "prospettico" mentre giudicano il proprio corpo tanto poco degno di fede, quanto l'illusione ottica che dice « la terra non si muove », e mentre così con apparente gaiezza rinunziano al possesso più sicuro (imperocché che cosa si ritiene oggidì più sicuro del proprio corpo?), chi lo sa, se in fondo non intendano riconquistare qualche cosa che in altri tempi si é posseduto ancor più sicuramente? qualche cosa dell'antico possesso fondamentale della fede d'altri tempi, forse dell' « anima immortale » dell' «antico Dio » ; in breve, di quelle idee che permettevano di vivere meglio, vale a dire più sicuramente e più lietamente, che non lo consentano « le idee moderne » ?
In essi si riscontra una certa diffidenza verso le idee moderne, un'incredulità contro tutto ciò che ieri ed oggi fu edificato, frammista forse ad una specie di leggera sazietà, di scherno, di tutto ciò che si ribella al bric-à-brac di concetti delle origini più svariate, qual sono quelli che oggidì esibisce in vendita il cosiddetto positivismo, in essi si riscontra forse la nausea d'un gusto raffinato, prodotta dalla chiassosa esposizione da fiera di tanti filosofastri realisti, e nella quale il chiasso delle parole é l'unica novità.

In ciò, a mio avviso, si dovrebbe dar ragione a questi scettici antirealisti e analizzatori microscopici della scienza odierna quel loro istinto, che li allontana dal realismo moderno, é incontrastabile. - Che cosa importa a noi che se ne allontanino per le vie tortuose del regresso ! L'essenziale in loro si é non già che vogliano tornare indietro bensì che vogliano andarsene. Un po' più .di forza, d'ispirazione, di coraggio, di sentimento artistico, ed invece di ritornare indietro - tenderebbero ad innalzarsi.
11.
Mi sembra che ora si sia generalmente intenti a ritorcere gli sguardi dalla vera influenza esercitata da Kant sulla filosofia tedesca, e particolarmente a sorvolare prudentemente sul valore, che egli stesso si riconobbe. Kant era anzitutto ed in primo luogo orgoglioso della sua Tavola delle categorie; egli diceva, con quella Tavola alla mano; questa é la cosa più difficile che poté essere intrapresa a scopo metafisico.
Si noti codesto « poté essere »: egli andava -orgoglioso d'avere scoperto nell' uomo una facoltà nuova, quella dei giudizi sintetici a priori.
Ammesso pure che si sia ingannato, lo sviluppo, e la rapida fioritura della filosofia tedesca sono dovuti a codesta scoperta figlia dell'orgoglio ed al gareggiare di tutti i giovani nella ricerca di scoperte ancor più superbe, vale a dire di nuove facoltà nell'uomo! -- Ma ragioniamo, ché ne sarebbe tempo. « Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? » si chiese Kant e che cosa risponde egli in fondo? « Col mezzo di un mezzo »; purtroppo egli non lo dice, con queste poche parole, bensì con un'esposizione tanto circostanziata e venerabile, con tanto sfoggio di contorni e di profondità germanica, che non si poté a bella prima afferrare la niaiserie allemande che si cela in quella risposta. Si era fuor di sé per la scoperta di quella nuova facoltà, ed il giubilo non conobbe più limiti allorché Kant v'aggiunse una nuova scoperta, la «facoltà morale» dell'uomo: giacché a quei tempi ì tedeschi erano ancora moralisti, e niente affatto peranco realisti-politici.
Sorse allora la luna di miele della filosofia tedesca: tutti i giovani teologi del seminario di Tubinga partirono per la caccia - in cerca di nuove facoltà. E che cosa non si trovò mai a quei bei tempi d'innocenza di rigogliosa gioventù dello spirito tedesco, baciato ancora dal soffio della maliziosa fata del romanticismo, a quei tempi in cui « trovare ed inventare avevano lo stesso significato !
Anzitutto una facoltà pel « soprannaturale » ; Scheggino la battezzò per « intuizione intellettuale » e con ciò venne incontro all'intimo desiderio dei suoi buoni tedeschi, che hanno un fondo di bigottismo. Non si può far maggior torto a codesto movimento giovanilmente insolente e sentimentale, per quanto si sia compiaciuto di concetti misantropi e decrepiti, che prendendolo sul serio ed occupandosene con indignazione morale: comunque sia s'invecchiò - e il sogno disparve.
Sopraggiunse un tempo in cui s'incominciò a stropicciarsi gli occhi: lo si fa ancor oggidì. Era stato un sogno: -- chi fra tutti aveva sognato per il primo, era stato il vecchio Kant « Col mezzo di un mezzo », aveva detto, o per lo meno inteso dire. Ma è questa una risposta? una definizione? O non é forse una ripetizione della domanda: - Perché l'oppio fa dormire? Per mezzo di un mezzo, vale a dire grazie alla sua « virtù dormitiva :>, come risponde quel medico d'una commedia di Moliére: Quia est in eo virtus dormitiva Cuius est natura sensus assoupire.
Ma simili risposte sono possibili in una commedia, ed é tempo finalmente di sostituire la proposizione Kantiana « come sono possibili giudizi sintetici a priori? » con un'altra « perché necessario di credere in tali giudizi? - e di comprendere che per lo scopo della conversazione d'esseri della nostra specie simili giudizi devono essere ritenuti per veri : ciò non esclude che possano essere anche falsi ! Oppure, a dirla più francamente, giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto esser « possibili >> : noi non abbiamo alcun diritto ai medesimi, in bocca nostra divengono altrettanti giudizi falsi. Ora con ciò non si nega, che il credere nella verità dei medesimi sia un bisogno, che sia necessaria una tale credenza fondamentale e dettata di sensi, che fa parte dell'ottica delle prospettive della vita. -- Ed ora, se si pensa all'immenso effetto esercitato sulla "filosofia tedesca" (si comprenderà, lo spero, che abbia un diritto ad essere sottolineata?) in tutta Europa, non é lecito dubitare, che a tale effetto non abbia in parte contribuito una certa « virtus dormitiva ».
Si era proprio incantati di possedere, in un mondo di nobili fannulloni, di tartufi, di mistici, di artisti, di cristiani da tre quarti, e di carneadi politici, nella filosofia tedesca un controveleno contro il sensualismo ancor strapotente tramandatoci dal secolo scorso --- in breve il modo di - sensus assoupire.
12.
In quanto all'atomistica materialistica, essa appartiene alle teorie che meglio furono confutate, e forse oggi non havvi in Europa scienziato alcuno che sia tanto ignorante, da attribuirle una seria importanza (eccetto che per l'uso casalingo, vale a dire quale mezzo molto comodo per esprimersi) - e ciò grazie anzitutto al polacco Boscovich, il quale, insieme a Copernico, é stato il maggiore e più vittorioso avversario dell'apparenza. Vale a dire mentre Copernico ci ha indotti a ritenere contrariamente ad ogni evidenza dei sensi, che la terra non é immobile, Boscovich c'insegnò e rinnegare le fede nell'ultima cosa, che della terra stava ancor ferma, vale a dire la fede nella «materia», nell' « atomo », e questo fu il massimo trionfo sui sensi, che sinora sia stato riportato.
Ma bisogna andare ancor più innanzi, e dichiarare la guerra anche al cosiddetto «bisogno atomistico» che ancor vive d'una vita clandestina ma pericolosa, là dove meno lo si aspetterebbe; unitamente all'altro bisogno « metafisico » - una guerra al coltello, senza remissione; bisogna far anche la guerra a quell'altra atomistica più fatale, che meglio e più a lungo d'ogni altra, fu insegnata dal cristianesimo, I' «atomistica dell'anima».
Con questa espressione mi sia lecito significare quella credenza che ammette esser l'anima qualche cosa d'indistruttibile, d'eterno, d'indivisibile, una monade, un atomo: questa credenza si deve fare scomparire dalla scienza! Non é, sia detto tra noi, per nulla necessario di sbarazzarsi perciò dell' « anima » e di rinunziare con ciò ad una delle più antiche e venerabili ipotesi ; come ciò accade al naturalista inesperto, al quale, appena s'azzarda di toccare "l'anima" questa gli sfugge di tra le dita. Ma ci é schiusa la via a nuove configurazioni e sottilizzazioni dell'ipotesi dell'anima: e concetti simili ad « anima mortale » ed « anima quale pluralità del soggetto » ed « anima quale sistema sociale degli istinti e degli affetti », pretendono aver quindinnanzi diritto di cittadinanza nella scienza.
Lo psicologo moderno, che estirpa i pregiudizi sinora pullulanti come la lussuriosa vegetazione dei tropici intorno al concetto dell'anima, si troverà certamente trasportato in un nuovo deserto e getterà intorno a se uno sguardo sfiduciato - forse i psicologi antichi avevano un compito più facile e più divertente - ma infine anche il moderno sa che é condannato ad inventare e chi lo sa? - fors' anco a trovare.
13.
I fisiologi dovrebbero rifletter bene prima di ammettere l'istinto della propria conservazione quale istinto cardinale degli esseri organici.
Anzitutto un essere vivente intende manifestare la propria forza - la vita é per sé stessa la volontà di potere -: la propria conservazione ne é soltanto la conseguenza indiretta ed assai frequente.
In breve, tanto qui come dappertutto, guardiamoci dai principi teologici superflui ! tra i quali é anche quello dell'istinto della propria conservazione (che noi dobbiamo all'inconseguenza di Spinoza). Così lo esige il metodo, che dev'essere anzitutto metodo d'economia di principi.
14.
In cinque o sei teste forse incomincia ora ad albeggiare l'idea che anche la fisica non sia altro che un' interpretazione del mondo a seconda dei nostri desideri od anche (sia lecito dirlo) un adattamento dell'universo ai medesimi, e non già una spiegazione dello stesso; però, sino a tanto che si fonda sulla fede nei sensi, essa ha un valore maggiore e per molto tempo conterrà di più, vale a dire come una spiegazione. Per essa attestano gli occhi e le dita, l'evidenza e la palpabilità ; e tutto ciò affascina, persuade, convince un'età di gusti fondamentalmente plebei - perché segue istintivamente il canone della verità d'un sensualismo eternamente popolare. Qual cosa é chiara? qual cosa « spiega » ? soltanto ciò che si può toccare e vedere spiega ed é chiaro - sino a tal punto bisogna spingere ogni problema. Viceversa precisamente nella ripugnanza contro la caducità dei sensi consisteva il fascino della filosofia platonica, la quale era una filosofia aristocratica, -- forse in mezzo ad uomini i quali potevano vantarsi di sensi ancor più vigorosi e più raffinati dei nostri contemporanei, ma che riguardavano siccome il maggior trionfo quello di rendersi padroni dei medesimi: e ciò col mezzo di una rete di idee pallide, fredde e grigie, ch'essi gettarono sul vorticoso turbinio dei sensi, - « sulla turba dei sensi », come diceva Platone. C'era un godimento di ben altra specie in quell'assoggettamento del mondo, in quella interpretazione secondo Platone, ben diversa da quella che ci offrono i fisici d'oggidì che insieme a loro, i darwinisti e gli antiteleologici tra i fisiologi col loro principio della « forza possibilmente minima » e della stupidità possibilmente massima. "Dove all'uomo più nulla resta a vedere ed a toccare, egli non ha più nulla a cercare". Questo imperativo é certamente ben diverso da quello di Platone, ma per una generazione rude e lavoratrice di meccanici ed ingegneri dell'avvenire, i quali non hanno da compiere che un lavoro grossolano, sarà forse il solo imperativo vero.
15.
Per fare della fisiologia con tutta coscienza, bisogna anzitutto aver presente, che gli organi dei sensi non sono fenomeni nel senso della filosofia idealistica; come tali non potrebbero essere delle cause! II sensualismo per lo meno quale ipotesi direttiva, se non si vuole ammetterlo come principio euristico! E come? e v'ha chi asserisce essere il mondo esteriore l'opera dei nostri organi? Ma allora anche il corpo nostro, parte integrante di quel mondo esteriore, sarebbe l'opera degli organi nostri ! Ma in tal caso i nostri organi stessi sarebbero l'opera dei nostri organi. Questa sarebbe, mi pare, una radicale reductio ad absurdum: posto che il concetto causa sui sia qualche cosa di completamente assurdo. Di conseguenza, il mondo esteriore non è l'opera dei nostri organi?
16.
Vi sono ancor sempre dagli ingenui osservatori del proprio essere, i quali credono che possono esistere delle certezze immediate, come ad esempio « io penso »:, oppure, secondo la superstizione dello Schopenhauer « io voglio », come se fosse possibile afferrare puro e nudo l'oggetto, « quale cosa in sé », e né dalla parte del soggetto né dalla parte dell'oggetto la visione fosse falsata. Ma che la « certezza immediata » al pari della « nozione assoluta » e la « cosa in sé » racchiudano una « contradictio in adjecto », lo ripeterò cento volte; sarebbe ora di sottrarsi al fascino delle parole! Lasciate credere al popolo che sapere equivalga a conoscere a fondo; il filosofo deve dire a sé stesso: se io decompongo il procedimento espresso dalla frase, io penso, otterrò una serie d'audaci affermazioni di cui mi riuscirà difficile e forse impossibile provare il fondamento: ad esempio, che proprio « io » pensi, che in generale ci debba esistere qualche cosa che pensi, che il pensare sia un'attività, l'effetto d'un essere considerato come causa, che esista un « io » infine, che si sia bene stabilito che cosa debba intendersi per pensare, che io sappia che cosa sia pensare. Che se io non fossi già ben deciso in tale proposito, come mai potrei arguire che quello che in un dato momento avviene, non sia piuttosto un « volere » od un « sentire » ! In breve, la frase « io penso » presuppone che io confronti il mio stato attuale con altro stato che io già conosco, per poter determinarlo; ma, un tale riferimento ad altro stato da me conosciuto, non può ancora esser considerato da me quale una « certezza immediata ». In luogo di questa « certezza immediata », nella quale, nel caso menzionato, potrà credere il volgo, il filosofo si trova dinanzi una serie di questioni metafisiche, veri casi di coscienza dell'intelletto, come: « Donde ho tolto il concetto pensare? Perché credo alla causa ed all'effetto? Che cosa mi conferisce il diritto di parlare d'un « io », e meglio ancora « d'un io che é causa » ed infine d'un « io causa di pensieri? »
Chi avesse l'audacia di richiamarsi ad una specie d'intuizione per rispondere sul momento a tali questioni, come fa colui che dice " io penso e so che almeno questo é vero, reale, certo " leggerebbe nel volto d'un filosofo l'oggidì un sorriso e due punti interrogativi. « Signor mio », gli farebbe forse capire il filosofo, « é improbabile che voi non vi inganniate; ma perché volere poi la verità a tutti i costi? »


17.
Per ciò che concerne il pregiudizio dei logici, non mi stancherò mai di far risaltare un breve fatto che codesti superstiziosi ammettono malvolentieri vale a dire, che un pensiero, viene, quando « esso » vuole, non quando « io » voglio : sicché sarebbe un falsare la verità del fatto asserendo: il soggetto « io » é la condizione del predicato « penso », « esso » pensa, ma che questo « esso » debba essere proprio il famoso antico « io » non é, -per adoperare un'espressione blanda che una supposizione, un'affermazione, ma anzitutto non é una « certezza immediata ». E persino quell' « esso » é non poco compromettente, giacché quell' « esso » contiene in sé un' interpretazione del fenomeno di pensare e non appartiene al fenomeno stesso. Si conclude in forza dell'abitudine grammaticale « il pensare é un'attività », per ogni attività ci vuole « qualcuno che sia attivo », di conseguenza.... Secondo questo schema all'incirca l'atomistica d'altri tempi ricercava in aggiunta alla « forza efficiente » il granellino di « materia » , in cui essa risiede e dal quale s'irradia la sua attività, l'atomo; le teste più serie appresero di fare a meno anche di quest'ultimo « avanzo terrestre » e forse un bel giorno ci si abituerà, anche da parte dei logici, di fare a meno di quel meschino « esso » (nel quale si é volatilizzato l'onesto « io » d'una volta).

18.
Di una teoria non é certo l'attrattiva minore, quella di prestarsi alla controversia; appunto per ciò essa alletta le intelligenze più sottili. Sembra che la teoria, cento volte confutata, del « libero arbitrio » non sussista che in forza di tale attrattiva: - c'é sempre qualche nuovo arrivato che si sente la forza di confutarla.

19.
I filosofi sogliono parlare della volontà come se fosse la cosa meglio conosciuta del mondo; anzi Schopenhauer ci diede ad intendere che la volontà sola ci è conosciuta, ma conosciuta, completamente, senza sottrazioni né aggiunte. Eppure mi sembra che anche in questo caso Schopenhauer sia proceduto secondo il metodo di tutti i filosofi; cioè, che abbia fatto suo un pregiudizio popolare, esagerandolo. Volere, anzitutto m'appare come qualche cosa di complicato, qualche cosa che soltanto quale parola rappresenti un'unità, e precisamente nell'unità dei vocabolo ha le sue radici il pregiudizio popolare, che ritrae profitto dall'eterna mancante di circospezione dei filosofi. Dunque siamo una buona volta più guardinghi, meno filosofi, - e diciamo: in primo luogo ogni volontà comprende una pluralità di sensazioni, vale a dire, la sensazione d'uno stato, dal quale, si vorrebbe allontanarsi, quella d'uno stato nel quale si desidererebbe ritrovarsi, la lotta tra queste due sensazioni, di più una sensazione muscolare, la quale anche sente che agitiamo « gambe e braccia » per una specie di consuetudine, non appena « vogliamo » diviene attiva. Siccome dunque il sentire e precisamente un sentire molteplice deve riconoscersi quale ingrediente della volontà, così in secondo luogo anche il pensare: in ogni atto della volontà c'è un pensiero imperante; e non bisogna credere che si possa staccare questo pensiero dal « volere » ché allora nulla resterebbe della volonta! In terzo luogo la volontà non é solamente. un complesso di sensazioni e di pensieri, ma anzitutto anche una tendente, e precisamente quella del comandare.
Ciò che si chiama « libero arbitrio » é essenzialmente il sentimento di superiorità rispetto e colui che deve obbedire: « io sono libero, egli deve obbedire » - questa cosciente si trova in ogni volontà, e così pure la tensione dell'attenzione, lo sguardo diritto, che prende di mira una sola cosa, la valutazione immediata « adesso fa bisogno questo e non altro » l'intima certezza che si troverà obbediente, infine tutto ciò che é proprio dello stato in cui si trova chi comanda. Un uomo che vuole - comanda a qualche cosa in se stesso, che obbedisce o che almeno egli ritiene obbediente.

Ma ora si consideri ciò che v'ha di più strano nella volontà, in questa cosa molteplice per la quale il volgo non ha che una parola: siccome in un dato caso noi siamo contemporaneamente quelli che comandano e quelli che obbediscono, ed obbedendo proviamo le sensazioni, della costrizione, dell'oppressione, della resistente che sogliono seguire l'atto della volontà; siccome d'altra parte siamo avvezzi a passarci sopra, ad illuderci su questo dualismo in forte del concetto sintetico « io », al "volere" s'è attaccata tutta una catena di conclusioni sbagliate e di valutazioni false della volontà, - di modo che chi vuole, in buona fede ritiene che la volontà basti all'azione. Siccome nella maggior parte dei casi non si è « voluto » che allorquando poteva attendersi un effetto dal comando, vale a dire l'obbediente, l'azione, l'apparenza si é tramutata nel sentimento della necessità dell'effetto; in breve; chi vuole, crede, con un sufficiente grado di certezza, che volontà ed azione siano una cosa sola, - egli attribuisce la riuscita, l'esecuzione del suo volere alla volontà stessa per cui s'accresce in lui quel sentimento gaudioso del potere, che nasce dal successo.

« Libero arbitrio - è la parola che esprime il complesso di sensazioni aggradevoli di colui che vuole, che comanda e che s'unifica con colui che eseguisce --- e che come tale divide la gioia del trionfo sulle resistenze, giudicando nel suo interno chela sua volontà le abbia superate.
In tal modo colui che vuole confonde le sensazioni aggradevoli, particolari allo stato di chi comanda, con quelle degli istrumenti che eseguiscono con successo, delle tante volontà o anime sottomesse che stanno al suo servizio, -- giacchè il nostro corpo non è che un'associazione, una colonia d'anime.
L'effet c'est nani : avviene qui come in una comunità bene ordinata e prosperante dove la classe dominante s'identifica col buon successo della cosa pubblica. Tutte le volte che si vuole, si tratta di comando e di obbedienza sulla base, come ho detto poc'anzi, d'una colonia di "anime" per cui un filosofo dovrebbe avocare a sé il diritto di considerare di già il volere per sè stesso dal punto di vista della « morale »; della morale quale dottrina dei rapporti di dominio ed obbediente, dai quali ha erigine il fenomeno « vita ».

20.
Che i singoli concetti filosofici non siano arbitrari, non siano cosa che nasce di per sé, bensì crescano in correlazione ed affinità tra di loro, che essi, per quanto nella storia del pensiero facciano la loro comparsa improvvisamente e senza motivazione, appartengano ad un sistema, al pari dei singoli membri della fauna d'una data parte del mondo, questo si manifesta precisamente nella sicurezza con cui i filosofi delle scuole più svariate sanno riempire un certo schema fondamentale delle filosofie possibili. Come attratti da un fascino invisibile essi ripercorrono sempre la stessa orbita: si sentano pure indipendenti tra di loro per la volontà critica o sistematica; c'é qualche cosa in loro che li guida, che li spinge a muovere con passo cadenzato uno dietro all'altro, e questo é precisamente la sistematica innata, l'affinità dei concetti.
Il loro pensare in fin de' conti è molto meno uno scoprire, che un ravvisare un rimembrarsi, un ritorno ad una lontana, antichissima economia complessiva dell'anima, dalla quale quei concetti ebbero nascimento: -- il filosofare é in tale riguardo una specie d'atavismo d'ordine assai elevato.
La strana rassomiglianza che hanno tra di loro tutte le filosofie indiane, greche e germaniche è facile a spiegarsi. Precisamente là dove sussiste una affinità di linguaggio, è assolutamente inevitabile che, grazie alla comune filosofia della grammatica intendo dire grazie all'incosciente direttiva di uguali funzioni grammaticali --, a priori tutto sia predisposto per uno sviluppo analogo dei sistemi filosofici: nello stesso modo che la prospettiva di altre interpretazioni possibili dell'universo sembra ostinatamente chiusa.
I filosofi del territorio linguistico uralo-altaico (nel quale il concetto del soggetto ha avuto il minore sviluppo) con molta probabilità vedranno le cose del mondo molto diversamente dagli indo-germani e dai musulmani: il fascino esercitato da certe funzioni grammaticali é in fine de' conti la causa di valutazioni fisiologiche e di condizioni di razza. - Questo per confutare la superficialità del Locke circa all'origine delle idee.

21.
La causa sui (ovvero il meccanismo di causa effetto che e' logico, noto ed evidente "entro la nostra realta' concreta"; non e' detto che tale meccanismo possa (e, tantomeno, debba!) essere meccanicisticamente estesa a tutto cio' che non noto o solo parzialmente noto esiste o "puo' esistere" - Ndr) é la più bella contraddizione che sia stata escogitata, una specie di stupro della logica, qualche cosa di contro natura: ma l'uomo é stato condotto dal suo orgoglio smisurato ad avvolgersi profondamente e terribilmente in questa assurdità.
li desiderio della « libertà del volere » nell'intelletto superlativamente metafisico che regna purtroppo ancor sempre nelle teste dei semidotti; il desiderio di portare tutta intera la responsabilità dei propri atti e d'esonerarne Dio, il mondo, gli antenati, il caso, la società, non è infine nient'altro che il desiderio di essere la « causa sui » e di sollevare sé stessi per i capelli, con un'audacia più che münchhauseniana, dalla palude del nulla nell'esistenza delle cose.
Posto che qualcuno si accorgesse della semplicità contadinesca del famoso concetto del « libero arbitrio » e lo cancellasse dalla sua testa, io lo pregherei d'avanzare ancora d'un passo e di cancellare dalla sua testa anche il concetto opposto; io parlo del «determinismo » il quale non è altro che un abuso di causa ed effetto. Non bisogna commettere l'errore di render condizionati la causa e l'effetto, come fanno i naturalisti (e chi oggidì nel pensare segue il loro metodo) secondo la cretineria meccanistica in voga, la quale vuole che la causa spinga e prema sino a tanto che produca un «effetto» ; é d'uopo servirsi della « causa » e dell' « effetto » quali puri concetti, cioè di finzioni convenzionali comode per l' indicazione e la nomenclatura, ma non già per «spiegare».
Nell' « in se» nulla havvi di « nessi causali », di « necessità », di «servitù psicologica », l' « effetto » non é una conseguenza della « causa », nessuna « legge » impera. Noi, noi soli abbiamo inventato le cause, le successioni, la relatività, la costrizione, il numero, la legge, la libertà, il motivo, lo scopo; e se noi frammischiamo alle cose questo mondo di segni « per se » convenzionali, noi continuiamo a fare della mitologia, come abbiamo fatto sempre sino ad ora: nella vita reale non esistono che volontà forti e volontà fiacche. Quasi sempre è un sintomo di ciò che manca ad un pensatore, allorquando egli in ogni « nesso causale », in ogni « necessità psicologica » sente e vede una costrizione, un bisogno, un dovere d'obbedienza, una pressione, una mancanza di libero arbitrio.

Questo modo di sentire - tradisce l'indole dell'individuo che pensa. E in generale, se ho osservato giustamente, la « servitù della volontà » viene sempre presa di mira quale problema da due punti opposti, ma sempre in modo profondamente personale gli, uni non vogliono a nessun costo fare a meno della propria « responsabilità », della fede in « se stessi », gli altri del loro diritto personale ai propri « meriti .» (a questi ultimi appartengono le razze vanitose); gli altri all'incontro non vogliono risponder di nulla, respingono ogni propria parte di colpa, e domandano, mossi da un tal quale intimo disprezzo del proprio essere, di scaricare ogni responsabilità altrove.
Questi ultimi oggidì quando scrivono dei libri, avocano a sé la difesa dei delinquenti: una specie di compassione socialista é la loro maschera più gradita. Ed infatti il fatalismo dei fiacchi di volontà s'abbellisce meravigliosamente, quando sa spacciarsi per la « religion de la souffrance humaine » ; é questo il suo « bon goût ».

22.
Si perdoni ad un vecchio filologo, se non può rinunciare alla malizia di mettere a nudo certe cattive ed artificiose interpretazioni: ma quel conformarsi della natura alle sue leggi , di cui voi fisici parlate con tanto orgoglio, come se.... non esiste che in grazia della vostra interpretazione e della vostra cattiva «filologia » - non è un fatto positivo, non é un « testo », ma unicamente un adattamento ingenuamente umanitario, un'alterazione del senso, con cui cercate precorrere agli istinti democratici dell'anima moderna! « Uguaglianza universale dinanzi alla legge », la natura in ciò non si trova in condizioni migliori; « un grazioso pensiero », sotto cui si nasconde una volta di più l'avversione plebea contro tutto ciò che vi ha di privilegiato e d'indipendente, e che serve a mascherare una specie d'ateismo più raffinato.
«Ni dieu ni maître » - ecco quello che volete; per cui « evviva la legge naturale » ! non è vero? Ma, come s'è già detto questa é interpretazione, non é testo; per cui potrebbe capitare benissimo qualcuno il quale con intendimenti ed artifizi d'interpretazione opposti ai vostri, da quella medesima, natura, e dai medesimi fenomeni sapesse derivare precisamente il trionfo tirannico ed inesorabile della forza; - un interprete il quale vi dimostrasse con tale evidenza la volontà del dominare esser la regola assoluta e senza eccezione, che tutti i vocaboli, e persino la parola « tirannia », diverrebbero impropri e sembrerebbero blande metafore troppo umane; il quale interprete poi giungerebbe alle stesse vostre conclusioni, vale a dire che questo mondo segue un corso « necessario » e « calcolabile », ma non già, perché é retto da leggi, ma bensì perché le leggi vi difettano assolutamente, ed ogni dominazione in ogni momento sa tirarne le ultime conseguenze.
E supposto che anche questo « testo » non sia che un'interpretazione - e voi vi affretterete a farmi questa obiezione, nevvero? - ebbene, tanto meglio.

23.
Tutta la psicologia s'è trovata imbarazzata sinora dai pregiudizi e dalle appressioni morali: non ha osato discendere nelle profondità. Concepirla quale « Morfologia ed evoluzioni dei voler dominare » come io la comprendo - a nessuno é passato per la mente nemmeno in sogno, per quanto, beninteso, da ciò che sinora fu scritto, si possa farci un'idea di tutto ciò che fu taciuto. L'autorità dei pregiudizi morali é penetrata profondamente nel mondo il più intellettuale, il più freddo e più spregiudicato in apparenza - e come é facile comprendere, in modo da guastare, reprimere, accecare e falsare le idee. Una vera fisio-psicologia deve lottare con resistenze radicate nel cuore stesso dell'investigatore, essa ha per avversario « il cuore » : di già una dottrina della reciproca condizionalità dei « buoni » e dei » cattivi » istinti, é penosa e ripugnante ad una coscienza ancora robusta e coraggiosa, che la considera quale un'immoralità raffinata; - tanto più lo sarà una dottrina che fa derivare tutti i buoni istinti dai cattivi. Ma posto che taluno giungesse al punto di considerare i singoli istinti dell'odio, dell'invidia, della cupidigia, del desiderio di dominazione quali istinti essenziali alla vita, come qualcosa che deve esistere necessariamente in principio ed in essenza dell'economia universale della vita e che perciò e suscettibile d'una potenzialità ancora maggiore colui soffrirebbe d'un tale indirizzo nel suo giudizio, come del mal di mare. Eppure anche questa ipotesi non è ancora la più penosa e la più strana in questo regno infinito e quasi inesplorato di nozioni pericolose: - ed infatti vi sono cento buone ragioni perché ciascuno se ne tenga discosto quanto lo può. D'altra parte: se la nostra nave fu sospinta sin là; ebbene, tanto meglio avanti! serrate i denti ! aprite bene gli occhi! la mano salda al timone! - la nostra nave passa oltre la morale, noi calpestiamo, distruggiamo forse le ultime vestigia della nostra propria moralità, ed osiamo - ma che importa di noi! Mai ancora un mondo più profondo s'è rivelato agli sguardi attoniti dei viaggiatori intrepidi e degli avventurieri : e lo psicologo che s'accinge a tale «sacrificio» - il quale non é « Il sacrificio dell'intelletto», tutt'altro ! potrà pretendere per lo meno che alla psicologia sia nuovamente riconosciuto il primo posto tra le scienze, e che queste servano ad essa di preparazione. lmperocché la psicologia é ormai nuovamente la strada che conduce alla ricerca dei problemi fondamentali.

segue:

CAPITOLO SECONDO
Lo spirito libero > >

H.P. STORIOLOGIA