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CAPITOLO SESTO
Noi dotti

 

204.
A rischio che il moralizzare si dimostri anche qui per quello che è sempre stato vale a dire un modo coraggioso di "montrer ses plais" come dice Balzac -- vorrei osare di oppormi ad uno spostamento di grado funesto e sconveniente, che inavvertitamente ed apparentemente in buona coscienza, minaccia oggidì di manifestarsi tra la scienza, e la filosofia. Io sono d'avviso che per propria esperienza e a me pare che esperienza significhi sempre triste esperienza si debba avere il diritto di poter permettersi una parola in merito ad una questione così elevata come quella del grado: onde non dover parlare, come i ciechi dei colore, o allo stesso modo delle donne e degli artisti, contro la scienza (ah ! quella cattivaccia di scienza), gemano nel loro istinto e nel loro pudore, essa riesce a scoprire in ogni cosa ciò che si nasconde. La dichiarazione d'indipendenza dell'uomo di scienza, la sua emancipazione dalla filosofia, é uno degli effetti più delicati dell'ordine e del disordine democratico. La glorificazione di se stesso, e la presunzione del dotto sono oggi dovunque nel pieno fiorire di lor primavera --- ciò che non vuol dire che in questo caso la lode di sé stesso abbia un profumo assai delicato. - Giù i padroni! - così richiede anche qui l'istinto plebeo; e dopo che la scienza ha saputo difendersi col miglior successo dalla teologia, della quale troppo a lungo era stata la « serva », ora nella sua baldanza ed irragionevolezza vorrebbe dettar legge alla filosofia, e far anche lei da padrona, ma che dico mai - da filosofessa.

La mia memoria - la memoria di un uomo di scienza, con licenza parlando, - pullula di orgogliose ingenuità a proposito della filosofia e dei filosofi, ingenuità che ho udito esprimere da giovani naturalisti e da vecchi medici, senza parlare dei più dotti e più presuntuosi tra i dotti, i filologi e i pedagoghi, che per la loro professione sono obbligati ad esserlo. Talvolta era lo specialista, I' uomo dell'orizzonte limitato, che si metteva in guardia istintivamente contro tutti i compiti e le facoltà sintetiche; tal altra il lavoratore diligente che aveva fiutato un odore d'olium e di aristocratico viver molle nell'economia della anima filosofica e che con ciò riteneva pregiudicato e rimpicciolito sé stesso. Talvolta era il daltonismo dell' utilitario, che null'altro scorge nella filosofia sennonché una serie di sistemi confutati ed uno spreco, che non va a « beneficio di nessuno. Talora si rivelava la paura d'un misticismo mascherato a d'una limitazione - della conoscenza, tal altra volta la disistima per alcuni filosofi, che poi degenero in disistima della filosofia stessa. Ma più spesso riscontrai nei giovani dotti, sotto l'altezzoso disprezzo della filosofia, l'effetto deleterio dell'opera d'un qualche singolo filosofo, al quale si aveva bensì ricusato l'obbedienza, senza però emanciparsi dal disprezzo ch'egli aveva saputo ispirare verso gli altri filosofi, - e da ciò risultava una specie d'aborrimento della filosofia in generale).
Tale mi sembra essere l'effetto ultimo dello Schopenhauer nella Germania moderna: - grazie alla sua inintelligente esasperazione contro Hegel egli é giunto a tagliar fuori la più recente generazione tedesca da ogni nesso con la coltura germanica, la quale coltura, a giudicar bene, rappresenta l'apice di un affinamento divinatorio del senso storico, ma Schopenhauer in questo riguardo era povero, insensibile, antitedesco sino alla genialità). Generalmente prendendo le cose così all' ingrosso, può darsi che sia umano, troppo umano, in breve la miseria dei filosofi moderni abbia contribuito più d'ogni altra cosa a scemare il rispetto per la filosofia e spalancato le porte agli istinti plebei. Si abbia il coraggio di confessare a sé stessi, sino a qual punto il nostro mondo moderno si risenta della mancanza di filosofi quali Eraclito, Elatone, Empedocle o comunque abbiano avuto nome quei sublimi solitari dei pensiero: e quanto a buon dritto di fronte a certi rappresentanti della filosofia a che oggidì sono di moda - in Germania per esempio i due lions di Berlino, l'anarchico Eugenio Duhring e l'amalgamista Edoardo d'Hart mann -- un valentuomo dedito alla scienza si possa sentire migliore. Particolarmente la vista di quei filosofi confusionisti che si nominano filosofi realisti o positivisti é in grado di generare una diffidenza pericolosa nell'anima di un giovane dotto ambizioso. Poiché ancor essi nelle migliori ipotesi non sono che scienziati e specialisti, è facile il convincersene! - Sono dei vinti, che forzatamente ritornano sotto la signoria della scienza, perché hanno chiesto a se stessi qualche cosa di più senza aver diritto a quel "di più" né alla responsabilità ch'esso importava - e i quali poi, onestamente, ma pieni di collera di sete di vendetta, rappresentano con le parole e coi fatti I' incredulità nella funzione direttiva e nel diritto di predominio della filosofia.
Infatti, come potrebbe esser diversamente! La scienza oggi é in fiore e dimostra sinceramente in viso la buona fede da cui é animata, mentre quella cosa, che rappresenta il graduale avvilimento della filosofia, quell'avanzo di filosofia che oggi ci rimane non può che generare sfiducia e malumore, se non muovere a scherno od a compassione. Filosofia ridotta alla "teoria della conoscenza" ma di fatto nient'altro che una timida epochistica, una dottrina dell'astinenza: una filosofia che non sa varcare la soglia e che meticolosamente ricusa a sé stessa il diritto di entrare - ma questa é una filosofia agonizzante, qualche cosa che muove a pietà! E come mai una simile filosofia potrebbe - dominare!

205.
I pericoli che la formazione e lo sviluppo del filosofo odierno devono sfidare sono tanto molteplici da dover dubitare, se un simile frutto possa giungere a maturazione. La scienza abbraccia una cerchia mostruosamente vasta e con ciò é cresciuta anche la probabilità, che il filosofo si stanchi sin dai primordi, del suo studio e s'indugi a specializzare in qualche parte; dimodoché non possa arrivare all'altezza agognata, che gli permetterà di guardare al di sopra, al di sotto ed intorno a sé. Oppure che ad essa arrivi troppo tardi, quando avrà già sprecato il suo miglior tempo, le sue forze migliori, o vi arrivi avariato, appesantito, degenerato, di modo che il suo giudizio complessivo dei valori non avrà che una importanza mediocre. Appunto la finezza della sua coscienza intellettuale lo rende titubante e lo fa indugiare per via;
egli teme le seduzioni del dilettantismo, che si prova in tutte le cose, egli sa troppo bene che chi ha perduto la considerazione di se stesso, anche arrivando alla conoscenza più non può comandare, non più guidare: tutt'al più dovrebbe rassegnarsi ad essere un gran commediante, una specie di Cagliostro, un accalappiatore degli spiriti in breve un seduttore. In ultima analisi ciò é una questione di gesto: quand'anche non fosse una questione di coscienza.

Ad aumentare ancora le difficoltà fra cui si dibatte il filosofo si aggiunge, che questi chiede a se stesso un giudizio, un sì od un no, non già sulla scienza, ma bensì sulla vita e sul valore della vita. Egli si persuade difficilmente che ha un diritto anzi un dovere a questo giudizio, ed, esitante, dubbioso ed interdetto, egli é ridotto a cercar la sua via verso questo diritto e questa credenza, aiutandosi unicamente colle più vaste esperienze, talora le più confuse e le più violenti. Di fatti il volgo si è ingannato a lungo sul conto del filosofo, l'ha misconosciuto, scambiandolo sia coll'uomo della scienza e con il dotto idealista, sia con il sentimentalista, che vive fuori dei sensi e del mondo, inebriato dalla divinità; e se oggidì si sente lodare taluno perché vive « saviamente » e da « filosofo » ciò vuole significare unicamente, che vive prudentemente ritirato ».

La saggezza, nell'idea del volgo è una specie di fuga, un mezzo, un artificio per cavarsela a buon mercato dall'imbarazzo; ma il vero filosofo - così almeno sembra a noi, non é vero, amici miei? - vive "antifilosoficamente", «contrariamente alla saggezza », ed anzitutto imprudentemente e sente il peso ed il dovere di innumerevoli tentativi e tentazioni della vita: - egli arrischia se stesso costantemente, gioca il gran gioco.

206.
Di fronte ad un uomo di genio, vale a dire un essere il quale crea o feconda, ambedue queste espressioni prese nel loro senso più lato, - il dotto, l'uomo di scienza comune ha in sé sempre alcunché della vecchia zittella : giacché al pari di questa esso non ha nessuna idea di queste due funzioni, le più importanti dell'uomo. Di fatti, ad ambedue, tanto ai dotti che alle vecchie zitelle, si riconosce quasi a modo di compensazione la rispettabilità ed in tali casi anzi la si sottolinea - provando un certo dispetto persino nel sentirsi obbligati a fare una tal concessione.
Guardiamo più da vicino, che cosa é I' uomo di scienza? Anzitutto una specie d'uomo senza nobiltà, con la virtù di un essere senza nobiltà, vale a dire non dominante, non esercitante l'autorità, e nemmeno bastante a se stesso; egli possiede la laboriosità, la pazienza di classificare ed ordinare le cose, il senso della regolarità e della misura nelle sue facoltà e nei suoi bisogni, l'istinto proprio ai suoi pari dei bisogni che hanno i suoi pari, ad esempio di quel tanto di indipendenza, di quel tanto di verde pascolo, senza il quale un lavoro tranquillo riesce impossibile, d'una certa pretesa agli onori ed alla considerazione (che soprattutto suppone che si riconoscano i suoi meriti, e ch'egli é capace di farli riconoscere), questo raggio di sole della fama, questa costante ratificazione del proprio valore, della propria utilità, onde poter domare l'interna sfiducia, ingenita a tutti gli uomini dipendenti ed aggregati. Il dotto possiede anche, com'è ben naturale, le morbosità, ed i difetti di una razza senza nobiltà: abbonda di bassa invidia, e possiede un occhio di lince per i più lievi difetti delle nature superiori. Egli si mostra familiare, ma come chi si dà volontariamente e non si lascia trascinare dalla corrente; e precisamente di fronte all'uomo della grande corrente egli rimane freddo e racchiuso in se stesso, - il suo occhio rassomiglia allora ad un lago liscio, antipatico, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori e più pericolose delle quali é capace un dotto gli provengono dall'istinto della mediocrità della propria specie; da quel gesuitismo della mediocrità che inconsciamente lavora alla demolizione dell'uomo non ordinario e tende a spezzare ogni arco teso o meglio ancora ad allentarne la tensione.

Tutto ciò, intendiamoci, coi dovuti riguardi, delicatamente: ecco la vera arte del gesuitismo, che ha saputo sempre farsi gabellare per la religione della pietà.

207.
Per quanto grande possa essere la gratitudine che si deve provare per lo spirito oggettivo - e chi mai non avrebbe avuto occasione di sentirsi almeno una volta stanco del soggettivo in
generale della sua maledetta ipsissimosità - bisogna nondimeno andare cauti anche con la propria gratitudine e guardarsi dall'esagerazione, che nella rinunzia all'indipendenza ed alla personalità dello spirito scorge uno scopo in sé, una redenzione ed una trasfigurazione; come ciò avviene principalmente nella scuola pessimistica la quale del resto ha i suoi buoni motivi per decretare i massimi onori alla «conoscenza disinteressata ». L'uomo oggettivo, che non bestemmia ed ingiuria, come il pessimista, il dotto « ideale » in cui l'istinto scientifico dopo innumerevoli tentativi andati a male riesce a farsi strada ed a svilupparsi, sono per certo tra gli strumenti più preziosi che possono darsi; ma hanno bisogno d'essere maneggiati da un braccio più potente. Essi non sono che uno strumento, anzi uno specchio non già scopo a se stessi.
L'uomo oggettivo è difatti uno specchio: abituato a prostrarsi dinanzi a tutto ciò che domanda d'essere conosciuto, senza altri desideri, all'infuori di quelli che concede il conoscere, il « rispecchiare - egli attende sempre che qualche cosa sopravvenga ed allora si distende delicatamente in tutta la sua larghezza, affinché anche le tracce di passi leggeri, le orme dei fantasmi s'imprimano sulla sua superficie e nella sua epidermide.
Ciò che ancor gli - rimane della < persona > gli sembra essere qualche cosa di casuale, molte volte d'arbitrario, ancor più sovente d'importuno; talmente é divenuto a sé stesso un oggetto attraverso il quale passano, in cui si riflettono immagini e avvenimenti a lui estranei. Egli dura fatica ad aver la coscienza di sé stesso, e talvolta l'ha in un modo falso; egli scambia facilmente sé stesso con un altro, misconosce i propri bisogni, e soltanto in ciò é indelicato e trascurato. Forse lo tormentano la salute, le piccole miserie della vita, l'atmosfera pesante che divide con la moglie, con l'amico, oppure la mancanza di compagni, della società, -- ma sì; per quanto si sforza di pensare alle sue miserie, tutto è invano! Di già il suo pensiero é volato lontano, a generalizzare il caso, e domani saprà ancor meno di oggi, quale medicina gli faccia bisogno. Egli ha disimparato a prendersi sul serio, egli non ha più tempo per sé stesso; egli é lieto, non già perché non abbia delle pene, bensì perché gli mancano le dita per toccarle. La consueta condiscendenza, la ospitalità serena ed aperta con cui accoglie ogni avvenimento, la sua benevolenza senza limiti, la sua pericolosa noncuranza del sì o del no; oh in molti casi egli deve pagar ben care queste sue virtù! -- e poi come uomo specialmente egli diventa facilmente il «caput mortuum » di cotali virtù. Se gli si domanda amore ed odio (intendo amore ed odio, come lo comprendono Dio, la donna ed il bruto), egli farà quello che può, e darà quanto può. Ma non bisogna far le meraviglie, se non può dar molto -- se precisamente qui egli si dimostra un essere falso, fragile, equivoco, e roso dal tarlo. Il suo amore é voluto, il suo odio artificiale, e piuttosto un « tour de force» da uomo vanitoso, un'esagerazione. Egli non é sincero, che quando ed in quanto può essere oggettivo; soltanto nel suo sereno « totalismo » egli é ancora « natura » e « naturale ». La sua anima rispecchiante e sempre liscia non sa più affermare, non sa più negare: egli non comanda e nemmeno distrugge. «Je ne méprise presque rien » - dice col Leibnitz: si noti la portata di questo « presque! ». Egli non é neppure un uomo modello: non precorre nessuno, nessuno segue : egli si colloca a una distanza troppo grande, per poter prendere le parti del bene o del male. Se per tanto tempo lo si è scambiato con il filosofo, con l'imperioso domatore, con l'uomo strapotente della civiltà: ebbene, gli si è reso troppo onore e non si é veduto l'essenziale in lui, -- egli é uno strumento, una specie di schiavo, sia pure d'una schiavitù delle più sublimi, ma nulla per sé stesso - presque rien!
L'uomo oggettivo e uno strumento, uno strumento da misurare prezioso, che si guasta facilmente, uno specchio artistico che facilmente s'intorbidisce, che bisogna maneggiare con cura, che si deve tener in onore: ma non é uno scopo, un punto di partenza, di salita, non è un uomo complementare, in cui il resto dell'esistenza si giustifica, non é una conclusione - e meno ancora un principio, una generazione, una causa prima, qualche cosa di primitivamente massiccio, solido, che stia di per sé, che voglia dominare. - È piuttosto un vaso, delicatamente lavorato, dai contorni sottili e movimentati, che deve attendere la venuta di un contenuto qualsiasi per conformarvisi. È ordinariamente un uomo senza contenuto alcuno, un uomo « senza essenza propria ». In conseguenza un non-valore per la donna. Questo tra parentesi.

208.
Se oggidì un filosofo vuole far credere di non essere uno scettico, -- spero che lo si sarà indovinato dalla precedente definizione dello spirito oggettivo? --- una tale confessione desterà un mal umore generale; lo si guarderà in tal caso con un certo timore dubbioso, gli si vorrebbe domandare tante cose, ma tante ... anzi, dai più timidi, da coloro che tendono l'orecchio, e ce ne sono molti, ma molti, lo si proclamerà un essere pericoloso. A loro sembra, udendolo rinnegare lo scetticismo, quasi di sentire da lontano un rumore minaccioso, come se si stesse facendo degli esperimenti con qualche nuova sostanza esplosiva, con qualche dinamite spirituale, qualche « nichilina» russa, di recente scoperta, d' intravedere un pessimismo « bonae voluntatis », il quale non soltanto dice di no, vuole il no, ma orribile a pensarsi, opera il no. Contro codesta specie di « buona volontà » -- volontà della rinnegazione reale, effettiva della vita --- non vi è miglior antidoto, miglior calmante dello scetticismo, del dolce scetticismo che addormenta, e persino Amleto è prescritto dai medici contemporanei contro lo « spirito » ed il suo sotterraneo rumoreggiare.
« Non abbiamo già pieni gli orecchi di pericolosi rumori di ogni fatta? » dice lo scettico, nel suo amore per la quiete, come un poliziotto che deve vigilare sulla pubblica sicurezza, « codesto no sotterraneo é terribile. Fate silenzio una buona volta, o voi talpe di sotterra! :». Gli é che lo scettico, quest'essere delicato, prende paura troppo facilmente: la sua coscienza é pronta a sussultare ad ogni no ed anche persino da un troppo deciso, e ne risente una specie di morso. Si e no ! ma ciò a suo vedere va contro la morale: egli ama invece far festa alla sua virtù con una nobile astensione, per esempio dicendo col Montaigne: « che ne sono io! » oppure con Socrate: « io so di non saper nulla », oppure: "qui non mi ci fido, perché non vedo alcuna porta aperta e supposto che fosse aperta, perché entrare subito ? Oppure: « a che giovano tutte le ipotesi precipitate? L'astenersi da fare delle ipotesi in generale potrebbe essere indizio di buon gusto. Siete forse obbligati a raddrizzare ciò che e curvo? A turare ogni buco con uno stoppaccio qualsisia ? Non vi e forse tempo per ciò ? Ed il tempo non ha tempo ? Ma siete indiavolati, che non volete ASPETTARE? Anche l'incerto ha le sue attrattive, anche la Sfinge e una Circe, anche Circe era una filosofessa ».

Queste sono le consolazioni dello scettico; e bisogna concedere che ne ha proprio bisogno. Lo scetticismo é l'espressione la più spirituale per un certo stato fisiologico complicato, che in lingua povera si nomina debolezza di nervi e morbosità, la quale si manifesta ogni qualvolta delle razze o delle classi lungamente divise tra loro s'incrociano in modo decisivo e repentino. Nella nuova generazione, che ha ereditato, per così dire, differenti misure e valori, tutto e inquietudine, turbamento, dubbio, tentativo; le migliori, forze agiscono in senso impediente, le virtù stesse non permettono reciprocamente d'accrescersi e di rafforzarsi, al corpo ed all'anima mancano l'equilibrio, la forza di gravità, la sicurezza perpendicolare. Ma ciò che in tali nati da razze incrociate é, più d'ogni altra cosa, ammalata e degenerata, si é la volontà: a loro é affatto ignota la indipendenza che sta nella risoluzione, la sensazione valorosa, la soddisfazione del volere, dubitano del « libero arbitrio » persino nei loro sogni. La nostra Europa odierna, teatro d'un tentativo insensatamente repentino di mescolamento radicale di classi, e conseguentemente di razze, e perciò scettica in alto e in basso, di quello scetticismo mobile talora, che salta impaziente ed avido di ramo in ramo, tal altra tetro come una nube pregna di punti interrogativi, - e bene spesso mortalmente sazio del proprio volere! Paralisi della volontà: dove mai non si ritrova oggidì codesto essere rachitico! E talvolta in quale abbigliamento di lusso per giunta! E in quale* abbigliamento seducente ! Codesta malattia indossa le più sontuose vesti della menzogna, e così, ad esempio, tutto ciò che oggidì fa pompa di sé col nome di « oggettività », di « filosofia scientifica », di « art pour l'art », di « conoscenza pura e indipendente dalla volontà », altro non é scetticismo, che paralisi della volontà acconciati pomposamente, -- di questa diagnosi della malattia europea me ne faccio garante io. La malattia della volontà é diffusa in modo disuguale in Europa: si manifesta con più forza e sotto gli aspetti più vari là dove la coltura é da maggior tempo acclimatata, essa tende invece a sparare nella misura in cui il « barbaro » riesce a mantenere - o a rivendicare - i suoi diritti sono i negligenti indumenti della civilizzazione occidentale.

Perciò é nella Francia odierna che la volontà, come é facile accorgersene e toccare con mano, é maggiormente ammalata: e la Francia, che fu sempre maestra nell'abilità di render seducenti ed attraenti anche i mutamenti più fatali del suo spirito, appare oggi propriamente all'Europa nell'accesso della sua cultura quale vera scuola, quale esposizione dello scetticismo in ciò ch'esso ha di più attraente. La forza del volere, e di volere a lungo, é già più accentuata in Germania ed al nord di più che al centro; considerevolmente maggiore in Inghilterra, nella Spagna, in Corsica, lassù condizionata dalla flemma, laggiù dalle teste quadre dei suoi abitanti - senza parlare dell'Italia la quale é ancor troppo giovane, perché possa già sapere quello che vuole, e deve ancor dimostrare se sappia volere - ma maggiormente e più meravigliosamente é sviluppata in quell'impero di mezzo, dove l'Europa si congiunge all'Asia, vale a dire in Russia. Là la forza del volere, fu a lungo trattenuta ed accumulata, là la volontà sta in attesa - incerta ancora se sarà una volontà negativa od affermativa - in attesa minacciosa di potersi scaricare, per adoperare un vocabolo prediletto dai fisici moderni. Non ci sarà soltanto bisogno di guerre e di complicazioni nelle Indie, perché l'Europa sia liberata dal più grande pericolo che le incombe, bensì di rivoluzioni interne, d'un disaggregamento dell'impero in tante piccole parti ed anzitutto dell'introduzione dell'assurdità parlamentare, coll'obbligo a ciascuno per giunta di leggere a colazione il proprio giornale. lo dico ciò non come persona che lo desideri; anzi il contrario andrebbe più a seconda del mio intimo desiderio, - vale a dire un tale crescendo nel minacciare della Russia, che l'Europa si dovesse risolvere a farsi ancor essa egualmente minacciosa, cioè ad unirsi in una volontà unica col mezzo d'una nuova casta dominante nell'Europa, in una volontà, durevole, terribile, speciale, la quale per millenni potesse prefiggersi una méta: acciocché finalmente la commedia, troppo a lungo durata, della sua divisione in staterelli, della pluralità di volontà dinastiche e democratiche possano una buona volta cessare. Il tempo della politica piccina é passato: già il prossimo secolo ci promette la lotta per il dominio del mondo, la necessità di fare la politica grande.

209.
Sino a qual punto la nuova epoca bellicosa, nella quale evidentemente siamo entrati noi Europei, possa essere forse favorevole allo sviluppo di una nuova specie di scetticismo più robusto, io non potrei per ora esprimere che col mezzo di una similitudine, che sarà comprensibile a chi si é dilettato di storia tedesca. Quel re di Prussia, ardente entusiasta dei bei granatieri dalla figura alta e slanciata, il quale diede la vita ad un genio militare e scettico -- e in fondo anche al nuovo tipo, or vittoriosamente affermatosi, del tedesco, - il padre bizzarro e matto del grande Federico possedeva ancor egli il colpo d'occhio e l'artiglio fortunato del genio: egli sapeva di che cosa abbisognasse allora la Germania, più urgentemente, ad esempio, che di una coltura o di forme sociali - la sua antipatia per il giovane Federico proveniva dall'angoscia d'un istinto molto profondo. Mancavano gli uomini ed egli con suo amaro dispetto sospettava che suo figlio ancor lui non fosse sufficientemente uomo. In ciò s'ingannava: ma chi al posto suo non si sarebbe ingannato? Egli vide suo figlio cadere in balìa dell'ateismo, dell' "esprit", della vita tutta sensuale dei francesi di spirito: ---- egli intravedeva nel fondo il grande vampiro scetticismo, egli presagiva il tormento incurabile d'un cuore incapace a resistere al male ed anche al bene, d'una volontà spezzata che più non comanda, più non sa comandare.
Ma frattanto in suo figlio si radicava una nuova specie di scetticismo, più pericoloso e più tenace -- forse fomentato dall'odio paterno e dalla melanconia glaciale di una volontà formatasi nella solitudine, - lo scetticismo dell'audace virilità, che e il più affine al genio della guerra e della conquista e che sotto le spoglie del grande Federico fece in Germania il suo primo ingresso.
Un tale scetticismo disprezza eppure attira a sé; scava e allarga il suo possesso; non crede, ma con ciò non perde sé stesso; concede allo spirito una libertà pericolosa, ma tiene a duro freno il cuore; é questa la forma tedesca dello scetticismo, il quale, sotto la forma di un fredericianismo crescente, arrivato al suo grado supremo di spiritualizzazione; ha tenuto lungamente
l'Europa sottomessa allo spirito germanico ed alla sua differenza critica e storica.
Grazie al carattere indomabilmente forte e tenace dei grandi filologi tedeschi e dei critici storici (i quali, a guardarli bene, furono in complesso artisti della demolizione e della decomposizione) s'affermò un po' per volta, malgrado l'indirizzo romantico nella musica e nella filosofia, un nuovo concetto dello spirito tedesco, nel quale spiccava risolutamente la propensione allo scetticismo virile, sia ad esempio, nell' impavidità dello sguardo, sia nel coraggio e nell'inflessibilità della mano che seziona, sia nella tenace volontà di scoperte perigliose, spedizioni polari temerarie, sotto cieli minacciosi e desolati. Ci dev'essere il suo buon motivo, se uomini umanitari, ardenti o superficiali sono partiti in guerra contro uno spirito siffatto ; « cet esprit fataliste, ironique, mephistophelique » lo chiama, non senza rabbrividire, il Michelet.
Ma se si vuol comprendere quanta distinzione ci sia in codesta paura dell' « uomo » secondo lo spirito tedesco, mercè il quale l'Europa fu destata dal suo « letargo dogmatico » basta rappresentarsi alla mente l'antico concetto che dovette esser vinto e superato, basta ricordarsi che in un'epoca non molto lontana una virago nella sua sfrenata presunzione osò raccomandare i tedeschi come altrettanti esseri balordi, inoffensivi, bonari, privi di volontà e sentimentali, alle simpatie dell'Europa. Si intuisca infine profondamente come si deve lo stupore di Napoleone quando ebbe occasione di vedere il Goethe : ciò serve a spiegare l'idea che per tanti secoli si aveva avuto. dello « spirito tedesco ». « Voilà un homme: > - Ciò significa: « Ma costui é un uomo! Ed io m'attendevo di vedere soltanto un tedesco! ».

210.
Supposto dunque che nell'immagine dei filosofi dell'avvenire un qualche tratto possa lasciar indovinare com'essi debbano forse essere scettici, nel senso da noi ultimamente accennato, con ciò non si farebbe che spiegare una parte del loro essere - e non già loro stessi. Con il medesimo diritto si potrebbe chiamarli critici: ed in ogni caso saranno gli uomini che sperimenteranno. Nel nome con cui osai battezzarli, ho sottolineato espressamente il tentare e il diletto che provano nel tentare: forse perché essi, critici per l'anima e per il corpo, amano valersi degli esperimenti in un senso nuovo, forse più lato, forse più pericoloso?
Sono essi forse costretti dalla brama di conoscere che li tormenta d'andar più lontano con i loro tentativi audaci e dolorosi, di quanto lo comporti il gusto effeminato d'un secolo democratico? - E' fuor di dubbio che quelli che stanno per venire non potranno assolutamente fare a meno di quelle qualità serie e profonde che distinguono il critico dallo scettico, quali sarebbero la sicurezza nella misura dei valori, il maneggio cosciente d' un' unità di metodo, il coraggio riflessivo, il sentimento d'essere soli, di poter giustificarsi, sì essi concederanno di provar diletto a dire di no, a smembrare, a possedere una tal quale crudeltà ragionante, che sa maneggiare il coltello con sicurezza e delicatezza, anche allorquando il cuore sanguina. Essi saranno più duri (e forse non sempre soltanto contro se stessi) di quanto certi umanitari potrebbero desiderare, essi non accosteranno la verità, allo scopo ch'essa lor « piaccia » e che li « innalzi » e li « entusiasmi « ; - anzi saranno molto lontani dal credere che la verità riserbi tanti gaudi. Essi sorrideranno, quegli spiriti severi; quando uno dirà innanzi ad essi: « Codesta idea mi innalza; come mai non - potrebb'essere vera? » Oppure: « Quell'opera mi rapisce; come mai non dovrebb'essere bella?». Oppure: « quell'artista mi esalta: come mai non dovrebb'essere grande? » - Forse non si limiteranno ad un sorriso, ma sentiranno nausea d'un simile sentimentalismo, di sentimenti talmente idealistici, femminei, ermafroditi, e chi potesse seguire il loro pensiero sino nelle tenebre più intime del cuore vi troverebbe difficilmente l'intenzione di riconciliare i sentimenti cristiani col « gusto antico », e tanto meno col « parlamentarismo moderno » (ciò che, per quanto si afferma, nel nostro secolo molto instabile nelle sue idee e per conseguenza molto proclive alla conciliazione, succede persino a certi filosofi).
Disciplina critica e tutto ciò che possa abituare ad un pensare puro e rigoroso, i filosofi dell'avvenire non soltanto pretenderanno da se stessi, ma anzi ne faranno pompa come d'un grande ornamento; - ma con tutto ciò non vorranno ancora esser chiamati col nome di critici. Ai loro occhi sembra non piccola vergogna il sentenziare, come si ama fare oggidì: « La filosofia in sé stessa é critica e scienza della critica - e nient'altro! ». Questo ap
prezzamento trovi pure il plauso dei positivisti francesi e tedeschi (e potrebbe darsi che avrebbe trovato anche il gradimento del Kant, basta ricordare i titoli delle sue opere più importanti), i nostri nuovi filosofi diranno cionondimeno; i critici sono gli strumenti del filosofo, ed appunto per essere strumenti, molto lontani dall'essere filosofi essi stessi! Anche il grande chinese di Konisberga non era in fondo che un grande critico.

211.
lo persisto a chiedere che si finisca una buona volta di confondere sempre gli operai filosofi, ed in generale gli uomini della scienza - coi filosofi, e che ad ognuno sia dato rigorosamente ciò che gli appartiene, né più né meno. Può darsi che per l'educazione del vero filosofo sia necessario che egli percorra tutti i gradi, nei quali i suoi servi, gli operai-scenziati- della filosofia si sono arrestati e debbano rimaner fermi ; forse egli stesso dev'essere stato e critico e scettico e dogmatico e storico, e per giunta poeta e raccoglitore e viaggiatore e indovinatore di sciarade e moralista e veggente e < spirito libero >, tutto insomma per poter percorrere la cerchia dei valori umani, dei sentimenti di valore e poter spaziare uno sguardo di molteplici occhi e di molteplici coscienze dalle più eccelse sommità negli abissi, dalle bassure verso l'alto. Ma tutto ciò non é che una condizione preliminare del suo compito, il compito stesso esige ben altra cosa -- la creazione di valori.
Gli operai della filosofia secondo il nobile modello di Kant e d'Hegel hanno per compito di stabilire l'esistenza di fatto di certi apprezzamenti di valori - vale a dire di antiche supposizioni e creazioni di valori, che col tempo divennero dominanti, di costringerle in date formule, sia nel regno della logica, sia della politica (o morale) o dell'arte. A codesti-investigatori spetta il compito di render chiari, intelligibili, palpabili tutti gli avvenimenti, tutti gli apprezzamenti verificatisi sino ad ora, d'abbreviare tutto ciò che é lungo, persino il « tempo » e di rendersi assoluti padroni del passato; un compito immenso ed ammirabile, nel quale ogni orgoglio delicato, ogni volontà tenace possono trovar soddisfazione. Ma i veri filosofi sono dominatori e legislatori: essi dicono « così dev'essere », essi prestabiliscono l'indirizzo e la metà dell'uomo e nel far ciò usufruiscono dei lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i dominatori del passato. Essi spingono nell'avvenire la mano creatrice, e tutto ciò che é e che fu, diviene per loro un mezzo, uno strumento, un martello. il loro < conoscere > equivale a creare, il loro creare ad una legislazione, il loro volere la verità al volere il dominio. Esistono oggidì simili filosofi? Ce ne furono? Non é forse necessario che ci siano di tali filosofi?

212.
Quasi sempre più inclino a credere che il filosofo, l'uomo necessarlo dell"indomani e del posdomani, si sia sempre trovato ed abbia dovuto trovarsi in contraddizione con la sua epoca; il suo nemico fu sempre l'ideale dell'oggi. Sinora tutti codesti favoreggiatori dell'uomo che si nominano filosofi, - i quali per sé stessi raramente ebbero il sentimento d'essere gli amici della sapienza, ma piuttosto dei pazzi molesti e dei punti interrogativi pericolosi -- hanno trovato il loro compito puro, non voluto, ingrato impreferibile; ma del quale riconobbero la grandezza nel rappresentare la cattiva coscienza dei tempi in cui vissero. Coll'applicare il coltello del vivirettore al petto delle virtù dell'epoca essi lasciarono trapelare il proprio segreto ; quello cioè di conoscere una nuova grandezza dell'uomo, di cercare una via nuova inesplorata per raggiungere una tale grandezza. Tutte le volte essi smascherarono l'ipocrisia, la comodità, il lasciare andare, il lasciarsi cadere, insomma tutta la menzogna che si celava nel tipo maggiormente rispettato della morale della loro epoca, rivelarono al mondo quanta virtù era sopravvissuta a se stessa: tutte le volte essi dissero: « noi dobbiamo riuscire là, dove voi avete minore dimestichezza ». Di fronte ad un mondo delle idee moderne » che dovrebbe confinare ognuno in un angolo « speciale » un filosofo, se oggidì potessero esistere dei filosofi, sarebbe costretto a contrapporre la grandezza dell'uomo, il concetto della « grandezza » per se stesso in tutta la sua estensione, nella sua molteplicità, nella sua integrità, nella pluralità; anzi egli determinerebbe il valore ed il grado a seconda di quanto uno può portare e prendere su di sé, a seconda della tensione di cui é capace la sua responsabilità.

Oggidì il gusto del giorno indebolisce ed assottiglia la volontà, nulla é più moderno della debolezza della volontà; per cui nell'ideale dei filosofo, nel concetto « grandezza » dovranno comprendersi appunto la forza della volontà, la forza di resistenza la capacità di prendere delle durevoli risoluzioni; e con ciò ugual diritto, come la dottrina e gli ideali opposti di una umanità saviamente rinunziante, rassegnata, umile ed altruistica erano adatti ad un'epoca che era il contrario della nostra, ad un'epoca che come il secolo decimosesto soffriva sotto il pondo dell'energia della volontà accumulata e dell'irruenza selvaggia dei suoi sentimenti egoistici. Ai tempi di Socrate, tra gli uomini dell'istinto fiaccato, tra i vecchi ateniensi conservatori, che si lasciavano andare -- « verso la felicità » come dicevano, ma nel fatto unicamente ai loro piaceri -- ed avevano cionondimeno la bocca sempre piena di magnifiche espressioni, alle quali la loro vita non dava più alcun diritto, forse l'ironia era necessaria alla grandezza dell'animo, era forse necessaria quella sicurezza socratica e maligna del vecchio medico o del plebeo, che sezionavano senza pietà la carne propria, com'eran usi a fare della carne; o del cuore degli « aristocratici », con uno sguardo che diceva francamente « non fingete dinanzi a me! -- qui - noi siamo uguali! ».

All'opposto oggidì in Europa, dove soltanto gli animali da gregge mietono gli onori, e li distribuiscono, dove l' « uguaglianza dei diritti » per poco non si tramuta nell'uguaglianza dell'ingiustizia: intendo dire nel far comune guerra a tutto ciò che é raro, strano, privilegiato, all'uomo superiore, all'anima superiore, al dovere superiore, alla responsabilità superiore, all'impero della forza creatrice - oggi l'essere aristocratici, l'essere per sé stessi e diversamente dagli altri, l'essere soli e vivere per sé soli sono attributi della « grandezza » ; e il filosofo lascerà intravedere il suo ideale quando decreterà: « quegli sarà il più grande, che saprà essere il più solitario, il più misterioso, il più diverso tra gli uomini, quegli che si sarà collocato oltre i confini del bene e del male, che sarà il dominatore delle proprie virtù, che sarà traboccante di volontà; ecco ciò che si dirà grandezza; l'esser molteplici e in pari tempo uno, l'accoppiare la massima estensione al contenuto massimo ».
E domandiamo un'altra volta: la grandezza é oggi possibile ?

213.
Che cosa sia un filosofo é difficile ad imparare, unicamente per ciò che non é possibile insegnarlo, bisogna « saperlo », per esperienza, oppure bisogna essere tanto orgogliosi da non voler saperlo. Ma il vezzo che tutti hanno oggigiorno di parlar di cose delle quali non hanno alcuna esperienza, ha di mira di preferenza il filosofo e le cose filosofiche: - un numero molto limitato di persone é in grado di conoscerle, e tutte le opinioni popolari su tale proposito sono false.
Così, ad esempio, quella consistenza prettamente filosofica di una spiritualità impertinentemente audace, che va in tempo di « presto », e di una dialettica rigorosa e necessaria, che non ammette alcun passo falso, é affatto sconosciuta per esperienza alla maggior parte dei pensatori e dei dotti, per cui non é degno di fede, se taluno di loro ne parla. Essi si raffigurano ogni cosa necessaria come un bisogno, come un'argomentazione penosa, alla quale si è costretti necessariamente, e lo stesso pensare appare loro come qualcosa di lento, di stentato, di penoso e ben spesso « degno dei sudore degli uomini migliori », - ma giammai, come qualcosa di leggero, divino e prossimamente affine alla danza, agli entusiasmi giovanili! « Pensare » e prender una cosa sul « serio », con « gravità », per costoro forma una cosa sola; questo soltanto insegna loro l'esperienza. -- Gli artisti a questo riguardo hanno già l'odorato più fine: essi che sanno molto bene, che precisamente allorquando non sta più in loro « arbitrio » di fare una cosa, bensì si sentono costretti a farla, i loro sentimenti di libertà, di finezza, di pieni poteri, del predisporre, disporre e tradurre in realtà le loro creazioni, raggiunge il massimo grado dell'elevatezza, - in breve, che allora la necessità si confonde in una cosa sola col « libero arbitrio ».

Esiste infine un ordine per gradi degli stati dell'anima, al quale è conforme l'ordine per gradi dei problemi ; ed i più alti problemi respingono senza pietà chiunque osi avvicinarsi a loro senza essere predestinato per l'elevatezza e la potenza della sua intellettualità, a poterli risolvere. Che cosa giova, se taluni abili saccentoni buoni a tutto o dei goffi artigiani od empirici fanno ressa, nel loro orgoglio plebeo come sì di frequente accade oggi intorno a tali problemi, come se si trovassero alla « corte delle corti »! Ma su tappeti simili non devono imprimersi le impronte di piedi grossolani : a questo fu già provveduto dalla legge più primitiva delle cose: per codesti sfacciati le porte restano chiuse, ed essi invano cercano di sfondarle con la testa. Per ogni mondo elevato bisogna esser nati : o per dirlo con maggior chiarezza, bisogna essere stati allevati : un diritto alla filosofia - prendendo la parola nel senso più ampio non si ha che in grazia alla propria origine; gli antenati, « il sangue », decidono anche qui. Molte generazioni devono aver preparato l'avvento del filosofo: ciascuna delle sue virtù dev'essere stata acquistata, coltivata ereditata ed incorporata; non soltanto il flusso leggero e delicato dei suoi pensieri, ma bensì ed anzitutto la sincera disposizione alle grandi responsabilità, l'imperiosità degli sguardi, il sapersi separati dal volgo, dai suoi doveri e dalle sue virtù, la protezione, e la pronta difesa di tutto ciò che è male interpretato, ch'è calunniato, sia Dio o sia il Diavolo; la propensione e l'ammirazione per la grande giustizia, l'arte del comandare; la vastità della volontà, la lentezza dello sguardo, che raramente ammira, raramente si innalza, ed ama raramente.

segue:

CAPITOLO SETTIMO
Le nostre virtù > >

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H.P. STORIOLOGIA