HENRI SANSON - "LE MEMORIE DEI CARNEFICI DI PARIGI"

AL LIBRO SESTO
LA MESSA ESPIATORIA

( da pag. 221 a pag. 277 )

Il tribunale rivoluzionario
Prime esecuzioni
Carlotta Corday
La Regina
I Girondini
Il Terrore
Dal giornale di Carlo Enrico Sanson

Carlo Enrico Sanson era il degno nipote di Marta Dubut. Imbevuto fin dalla più tenera età delle idee e dei principi di sua nonna, egli credeva alla legittimità della sua funzione, alla sua missione sociale: egli si considerava investito di una magistratura temuta, grave ad esercitarsi, ma necessaria al mantenimento delle leggi e dell'ordine in ogni società civile. In questo convincimento aveva egli dovuto attingere il coraggio e la forza di compiere i crudeli doveri che ripugnavano senza dubbio alla sua naturale sensibilità.

Fino alla morte di Luigi XVI egli aveva dimostrato un carattere inflessibile in quanto toccava a ciò che era da lui denominato l'onore della sua professione: fede nella pena di morte, rispetto alla dignità dell'esecutore, guerra ad oltranza al pregiudizio che tacciava d' infamia questo funzionario.
Il sangue che la Convenzione lo condannava a spargere cominciò ad apirgli gli occhi. Vedendo crollare a pezzo a pezzo tutto un edificio sociale ch'egli era abituato a venerare, egli si domandava ciò che vi fosse di certo e di sacro sulla terra : se fosse ancora possibile di credere al patibolo dopo aver veduto cadere il trono; se in una società dove ogni cosa è concatenata, la distruzione della monarchia non mettesse in questione il boia, e infine
se la sua missione continuasse a essere provvidenziale e d'ordine divino il giorno in cui essa consisteva nel far cadere la testa dell'unto del Signore.

Mia nonna mi raccontò spesso che nei tredici anni che egli sopravvisse al martire regale, Carlo Enrico Sanson non potè staccarsi dallo spirito l'immagine di quell'augusta vittima nei suoi estremi momenti. Essa lo perseguitava perfino nel sonno, e agitava i suoi sogni con penose visioni.
Il 21 gennaio 1793, mio nonno, abitualmente così sedentario, non comparve che per qualche istante sotto il tetto domestico. Dopo l'esecuzione del re l'abbraccio di sua moglie e di suo figlio, lo ricevette tremando come se non ne fosse più degno: poi si sottrasse alle loro consolazioni e scomparve per non rientrare che a tarda notte.
Mia nonna, che non sarebbe andata a letto senza averlo veduto, incominciava a esser presa di una mortale inquietudine, quando il nostro Chesneau, che era piuttosto un amico e un confidente che un servo, le disse alcune parole rassicuranti
- Non temete di nulla, signora; credo sapere dov'egli è andato.
- Dove può essere andato, mio Dio, in un simile giorno?
- Il padrone m'ha domandato da poco uno dei miei secreti, e non ho esitato a confidarglielo: l'indirizzo della povera casa dove si nascondono un vecchio prete e due religiose, per le quali gli avevo pregato qualche soccorso.
Mia nonna tacque e sperò. Ella conosceva la pietà del marito, e non dubitò che malgrado le difficoltà e i pericoli dell'avventura, egli non avesse cercato quel giorno di calmare la sua turbata coscienza presso un ministro del Dio misericordioso.

Carlo Enrico Sanson tornò fra un'ora e le due dei mattino, sempre fosco, ma più calmo; e poichè per discrezione non lo si interrogava
- Chesneau - egli disse - ha veduto i vostri protetti; l'inverno è duro; bisognerà far portare loro della legna domani mattina, e qualche provvista che poi rinnoveremo fra alcuni giorni.
Il viso di Chesneau già appariva tutto contento.
- Ma sopra tutto che ciò non abbia l'aria di venire direttamente da qui. Non voglio che essi conoscano l'origine di questi aiuti; quella povera gente non vorrebbe forse accettarli. Vi sono due religiose che mi sono sembrate ben prive di tutto, mia buona Maria - soggiunse egli volgendosi verso mia nonna; se tu potessi procurar loro un po' di biancheria e qualche vestito, mi faresti un gran piacere.
Dopo queste brevi parole - scambiate coi suoi, mio nonno si ritirò, ben sicuro che i suoi desideri sarebbero stati compiuti. Egli raccontò l' indomani a mia nonna che egli sì era difatti portato alla Villette, in una povera casuccia che serviva da rifugio a un prete non giurato, sfuggito al massacro dei Carmini, e a due monache cacciate dal loro convento; che egli aveva ottenuto dalla carità del prete la celebrazione d'una messa, ben meno per il riposo dell'anima del re, a cui il martirio aveva senza dubbio aperto la porta della beatitudine eterna, che non per la pace della sua propria coscienza, oppressa dalla gravità dell'atto che egli era stato costretto a commettere.

Il segreto di questa messa espiatoria fu religiosamente serbato durante la vita di mio nonno; ma dopo la sua morte, mia nonna e mio padre trovando che questo tratto faceva onore alla sua memoria, non poterono astenersi dal raccontarlo ad alcuni amici. Esso venne così a conoscenza di un celebre scrittore, Balzac, che volle sentirlo confermare della bocca stessa di mio padre, e conoscerne tutti i particolari. Questi soddisfece la sua curiosità, e da quella conversazione furono tratti gli elementi d'una narrazione che servì da proemio alle Memorie apocrife di Sanson pubblicate sotto la Restaurazione.
IL TRIBUNALE RIVOLUZIONARIO
Quando si riconduce il pensiero ai massacri giudiziari dei quattordici mesi che stanno per seguire, si prova un sentimento meglio di stupefazione che d'orrore; si crede di essere sotto l'impero d'un terribile incubo. Pare impossibile che settant'anni soltanto ci dividano da quella lamentevole epoca.
Giacché bisogna pure riconoscere che nel corso degli ultimi settant'anni, gli istinti popolari si sono profondamente modificati. Noi siamo oggi ben più lontani dai costumi dei nostri nonni che questi non fossero dai costumi, degli uomini della notte di San Bartolomeo.
La fulgida civiltà del secolo XVII e del XVIII non aveva sorpassato gli strati superiori della società; essa era perfino esagerata alla superficie, ma le masse erano rimaste così ignoranti, così grossolane, così feroci, come quelle dove si erano trovati i massacratori della notte del 24 agosto 1572.
Io credo che l'atteggiamento degli spettatori che circondano un patibolo fornisca una sicurissima diagnosi della situazione morale d'un popolo. Quando io esercitavo il mio ufficio, ho avuto anche troppe occasioni di studiare le fisionomie di quegli amatori di forti emozioni che vedevo accalcarsi intorno a noi. Per lo più esse recavano l' impronta di una curiosità imbecille; di solito riflettevano il terrore e il disgusto; ma non mai ho visto esprimersi in esse quell'avidità selvaggia, quel delirio di bestie feroci, quell'ebrezza della morte che mio padre aveva notato tante volte in coloro che gli facevano corteo.

II 21 gennaio era stato una data sinistra insieme e miserabile.
Le considerazioni con le quali ogni rappresentante del popolo, quando fu pronunciato il giudizio contro Luigi XVI, si credette obbligato a motivare il suo voto, valsero definitivamente a popolarizzare l'opinione che la repubblica non avrebbe potuto trovare fondamenta più solide che nel mucchio di cadaveri dei suoi nemici. Il sangue del martire reale aveva consacrato il patibolo: la rivoluzione lo accettò come un altare; e il fanatismo dei nuovi settari, fatto incandescente dalle predicazioni di un insensato, esigette con alte grida le ecatombi, delle quali supponevano il loro dio altrettanto geloso che le antiche divinità dei Druidi.

Il suolo di Piazza della Rivoluzione era ancora tiepido del sangue del re, quando i clubs e le camere presero a domandare imperiosamente il supplizio degli amici della monarchia.
Il tribunale del 10 agosto, aveva compiuto la sua missione. Il tribunale criminale mandava con lunghi intervalli alla ghigliottina certi oscuri individui, colpevoli per lo più del crimine di falso, o convinti d'aver spacciato falsi assegnati.

Anche all'indomani della morte del re, si giustiziò un disgraziato mercante di ferrivecchi, un tale Durand, il cui abbattimento e la cui disperazione formavano strano contrasto con la rassegnazione e la fermezza del monarca. Il giovedì 24 cinque teste rotolarono sul patibolo, e fra queste una di donna: i reati erano quelli che ho menzionato or ora. In questa circostanza si rivelarono per la prima volta le sciagurate che dovevano poi guadagnarsi una celebrità sì odiosa sotto il nome di « furie della ghigliottina. » Da cinque a sei donne (non erano di più in quel tempo), collocatesi in prima fila svillaneggiarono i condannati.
Dopo quel giorno, la ghigliottina si riposa, come se avesse bisogno di riprendere forze per il lavoro terribile che le prepara l'effervescenza popolare.

Questa effervescenza ingrossa di giorno in giorno. Le lotte intestine che straziano la Convenzione si riflettono sulla piazza, e scindono la Francia repubblicana in due campi. Il paese é in preda alla fame; il popolo di Parigi, che più di quello della campagna soffre dei rincaro delle derrate, incomincia a domandare quelle leggi calmieratrici che gli si dipingono come una panacea infallibile. Il 25 febbraio esso si abbandona al saccheggio, e prende ciò che non può comperare. I due partiti si rigettano reciprocamente la responsabilità di questi eccessi. La Gironda li attribuisce al machiavellismo d'una municipalità demagogica; i Giacobini ne accusano la viltà e l'impostura dei loro avversari, accusati di abbandonare la nazione disarmata ai suoi nemici. Questi nemici, alcuni giornali incominciano a designarli alle vendette del popolo: si pubblica "lo stato" dei detenuti chiusi nelle prigioni.

Gli avvenimenti, la fatalità vengono in aiuto a quelli che tentano di spingere il paese su queste vie sanguinose. I volontari di Jemmappes e di Valmy si erano demoralizzati nella vittoria, e la loro indisciplina moltiplicava i rovesci militari; si era scoperta la cospirazione di Rouerie, primo boato del vulcano vandeano; Lione preludeva con l'agitazione alla sommossa; la situazione era più minacciosa che un anno prima. La Repubblica chiamò tutti i suoi cittadini alla difesa della patria. L'entusiasmo non fu meno grande che nel 1792; ma come nel 1792, vi furono uomini implacabili che decisero di sfruttare questo entusiasmo a vantaggio dei loro appetiti sanguinari, e per la seconda volta, lo slancio sublime di un popolo fu macchiato dall'assassinio e dalla proscrizione.

La patria in pericolo del 1792 aveva generato le giornate di settembre; la leva in massa del 1793 ci diede il tribunale rivoluzionario.
Il 9 marzo, Chaumoette, procuratore generale della Comune, viene alla Convenzione a render conto della leva dei cittadini di Parigi; chiede soccorsi per le famiglie di quelli che partono, e un tribunale senza appello per contenere e giudicare i cattivi cittadini. « Senza questo tribunale, dicevano le sezioni di cui egli era il portavoce, voi non potrete mai vincere la durezza degli egoisti che non vogliono nè combattere nè aiutare quelli che combattono per loro. »

Quegli che doveva fare il più spaventevole uso di queste leggi d'eccezione, Carrier, converte la domanda in mozione, e insiste perchè all'indomani sia già presentato un progetto d'organizzazione del tribunale rivoluzionario. Invano Lanjuinais vuole emendare questo progetto, che egli chiama una calamità pubblica; la mozione di Carrier è messa ai voti e adottata.
L' indomani, due progetti di legge sono all'ordine del giorno: quello sul tribunale rivoluzionario e un altro sull'organizzazione dei Ministeri. La Montagna freme d'impazienza quando Buzot propone di dare la precedenza al secondo sul primo.

Alcuni membri dell'Estrema Sinistra, meno acciecati dalle passioni che i loro colleghi, Cambon, Barrère, segnalarono gli inconvenienti di una legge che avrebbe messo un popolo intero e la sua rappresentanza a discrezione di nove individui, e chiesero almeno, per il Tribunale rivoluzionario, la garanzia di una giuria. La Gironda era costernata; essa capiva che il centro, trascinato da Cambacères, uno dei suoi membri più influenti, l'avrebbe abbandonata nella battaglia dello scrutinio. La Convenzione deliberava sotto la pressione della minaccia dei demagoghi che già tentavano di organizzare l'insurrezione, alla quale bisognavano ancora due mesi per essere matura.

Nell'intervallo fra due sedute, il 10 marzo, Danton fece avvertire i suoi vecchi amici che le loro vite erano in pericolo. Difatti, i capoccia di alcuni clubs avevano proclamato l' insurrezione; essi tentavano di far marciare le sezioni contro la Convenzione e parlavano di scannare i membri della Destra; ma pioveva, e il tempo di pioggia non è tempo da movimenti popolari. Tuttavia queste voci sinistre trattennero a casa parecchi rappresentanti. La sera, quando l'
assemblea riprese la seduta, i banchi della Gironda erano deserti, e la legge che stabiliva un tribunale eccezionale fu votata a grande maggioranza.

Il tribunale, secondo il progetto definitivo, doveva comporsi di dieci giudici eletti dalla Convenzione nazionale e divisi in due sezioni, di un accusatore pubblico e due aggiunti nominati pure dalla Convenzione, e di una giuria scelta fra i giurali dì Parigi e dei vicini dipartimenti.
Il 28 marzo, su proposta di Chazal, la Convenzione emanò un decreto che ordinava l'immediato funzionamento del Tribunale rivoluzionario, benchè incompleto, e il 16 aprile, mio nonno eseguiva la prima sentenza dell' istituzione che, con insensato accoppiamento di parole, si chiamava "giustizia rivoluzionaria".
PRIME ESECUZIONI
Dal 25 gennaio al 6 aprile, la ghigliottina stette eretta in permanenza, ma una sola testa cadde sotto il coltello quella di un disertore passato al nemico, certo Bukals, fatto prigioniero pochi giorni dopo la sua fuga. Ma la fede nell'estremo supplizio era così penetrata in tutti gli spiriti che lo spaventoso vocabolario della morte era sempre sopra ogni bocca e sorgeva sotto tutte Ie forme della minaccia.
« Immoliamo gli scellerati --- diceva la moltitudine con Marat --- e avremo la calma, la pace, la felicità nella repubblica trionfante. »
La carestia era sempre la piaga viva del momento; non c'era cittadino che non ne soffrisse; il popolo giungeva a credere che l'annientamento dei nemici dell'eguaglianza fosse il solo specifico che gli potesse procurare il pane a buon mercato.
Quegli a cui era riservato l'onore di aprir la strada a tanti martiri era un gentiluomo del Poitou, un emigrato di nome Guyot-Desmoulans. Era un uomo di quaranta anni, dal tipo militare, dal viso maschio e risoluto. Quando la carretta si fu fermata davanti al patibolo, egli lo considerò un momento con un'attenzione singolare, e in quel momento una viva commozione succedeva alla calma della sua fisionomia. Carlo Enrico Sanson si trovava accanto al condannato. Guyot-Desmoulans gli chiese :
- E' lo stesso che si è adoperato per il re? -
Carlo Enrico gli rispose che solo il coltello era stato cambiato; allora Desmoulans salì rapidamente i gradini che conducevano alla piattaforma, s'inginocchio, e baciò religiosamente il punto che Luigi XVI aveva bagnato del suo sangue. Mentre egli stava per alzarsi, gli aiutanti s'impadronirono di lui e lo distesero sull'asse mobile.

Il 10 aprile, il Tribunale mandava alla morte un secondo condannato. Era un povero diavolo, ex granatiere, di nome Nicola Luther, un povero alienato per eccessi nel bere, dicevano gli uni, per esaltazione di sentimenti monarchici, dicevano gli altri. La sentenza lo condannava a morte per aver detto che egli aveva un'anima, che quest'anima apparteneva al suo re, il quale l'avrebbe pagata; che questo re era morto, ma esisteva ancora e sarebbe ricomparso ben presto.

Il luogotenente generale Filiberto Francesco Rouxel, marchese di Blanchelarde, fu giudicato il 15. Governatore delle Isole Sottovento, aveva spiegato una grande energia nella repressione dei torbidi che seguirono all'emancipazione degli uomini di colore; gli si rimproverava anche di aver favorito il partito controrivoluzionario autorizzandolo a portare la coccarda bianca. Fu condannato a morte. Egli andò al supplizio col sorriso sul labbro; il suo stoicismo irritò la folla, che lo coperse d'ingiurie e scoppiò in applausi al cader del coltello.

Da allora, benchè il Tribunale fosse ben lungi dall'essere così spietato come si dimostrò poi, la ghigliottina non ebbe più riposo. Tuttavia, si lamentava generalmente la oscurità dei condannati. Non erano i grandi colpevoli, contro i quali sembrava che il Tribunale fosse stato istituito. II 20 la ghigliottina si rialzò un poco nella pubblica stima: essa riunì nella morte due gentiluomini e un prete. Poi si tornò agli umili.
Il 27 fu giustiziato un tale Margot, cocchiere di vettura cittadina, di appena 21 anni, raccolto dalle guardie in stato di ubriachezza. Furioso, egli aveva detto che un partito "di cui egli era il capo", avrebbe messo ben presto ordine a tutto ciò. L'ubriachezza non costituiva attenuante più che la demenza : egli fu ghigliottinato.

Il 30 aprile fu tolta la vecchia ghigliottina, e sostituita con una nuova, nella quale Carlo Enrico Sanson aveva fatto introdurre tutte le modifiche richieste per potervi compiere parecchie esecuzioni successive.
Il 12 luglio, dopo molte condanne a morte, il tribunale iniziò il processo degli assassini di Leonardo Bourdon.
Quest'affare aveva fatto gran rumore nel precedente marzo. Dopochè uno di loro, Lepelletier, era stato assassinato, alcuni rappresentanti del popolo vedevano dovunque pugnali; il minimo pretesto bastava loro per posare a martiri della libertà.

La Commissione aveva mandato nel Giura due dei suoi membri, Leonardo Bourdon e Prost, per attuare il reclutamento; i due rappresentanti s'erano fermali ad Orleans, e di là il primo scrisse all'Assemblea che lui pure aveva pagato il suo tributo alla patria e che il suo sangue era colato per questa.
Secondo lui, nel momento in cui egli e il suo collega si recavano al Municipio, il posto di guardia nazionale di fazione si sarebbe precipitato su loro gridando : « Ecco questi scellerati! ». Egli sarebbe stato afferrato, colpito, trascinato nella corte, gli si sarebbero tirati parecchi colpi di fucile, ma senza ferirlo, gli si sarebbero lacerati gli abiti a colpi di baionetta, ed egli avrebbe dovuto la vita soltanto al comandante Dulac, che gli avrebbe fatto scudo del suo corpo.
La Convenzione, indignata dell' attentato contro uno dei suoi membri, aveva tratto alla sbarra tutto il Municipio d'Orleans.
I rilievi dei magistrati ridussero di molto i pericoli di cui Leonardo Bourdon andava sì fiero; secondo loro il premeditato assassinio si sarebbe ridotto a un incidente fortuito, in seguito a un alterco da osteria.

Leonardo Bourdon, tornando a casa da un pranzo patriottico accompagnato da libazioni copiose, si sarebbe trovato in compagnia d'un tale che, nel passare davanti al Municipio, insultò la sentinella. Dalle ingiurie si venne alle mani; le guardie erano uscite dal posto, prendendo partito per il loro camerata; la mischia era divenuta generale; il rappresentante aveva ricevuto nel parapiglia un leggero colpo di baionetta al braccio e una contusione alla testa.
Ma la Convenzione non accettò questa versione. Orléans era segnalata per il suo moderatismo; il governo credeva necessario reprimere quelle velleità di resistenza; il Municipio fu sospeso, e tutte le guardie nazionali del posto furono arrestate e tradotte dinanzi al tribunale, dove nove di esse, benchè non cessassero di protestare della loro innocenza, furono condannate a morte.

Il carnefice aveva ricevuto gli ordini relativi da Fouquier-Tinville; ma il sentimento pubblico inchinava con tanta unanimità alla clemenza che Carlo Enrico Sanson era il primo a non credere all'esecuzione. I parenti dei condannati avevano portato una petizione alla sbarra dell'Assemblea. La vista di quelle donne, di quei fanciulli piangenti, di quegli uomini che supplicavano, produsse una commozione profonda; grida di grazia partirono dalle tribune, così poco abituate alla clemenza. Ma la Convenzione fu inflessibile.
Alle tre del pomeriggio, i nove orleanesi furono condotti al supplizio; essi vestivano la camicia rossa dei parricidi; parecchi di loro erano molto abbattuti, ma gli altri andarono alla morte con grande coraggio.
CARLOTTA CORDAY
Il 13 luglio, nel momento stesso che i cadaveri delle nove vittime della furfanteria di Leonardo Bourdon, s'avviavano verso il cimitero della Maddalena, un altro rappresentante del popolo era colpito da una pugnalata.
Il rappresentante era Marat; l'omicida era Carlotta Corday.
Nel 1792, la provincia, l'opinione pubblica, accoglievano la declamazione di Marat con disgusto più che con collera, con disdegno più che con odio. Molla gente si rifiutava a prender sul serio questo feroce convulsionario, le cui elucubrazioni avevano del buffonesco quanto del sinistro. La Gironda, muovendo all'attacco contro di lui, metamorfosò questo pigmeo in gigante: essa soccombette nella lotta, e Marat si inalzò di cento cubiti quando i cadaveri dei grandi oratori abbattuti gli servirono da piedistallo. Da un eccesso di disprezzo, si passò senza transizione a un eccesso di terrore. La gente per bene, i patrioti sinceri, guardarono a Marat come a una specie di Vecchio della Montagna, di cui ogni parola comandava un assassinio.

C'era allora a Caen una giovane, la cui anima virile ed entusiasta si famigliarizzava ogni giorno con l'eroismo, leggendo ella assiduamente i grandi storici dell'antichità. Si chiamava Maria Anna Carlotta de Corday d'Armont; era nata alle Ligneries, piccolo villaggio dei dintorni d'Argentan; suo padre, di nobiltà povera, aveva tra gli antenati Pietro Corneille. Morta la madre, ella visse solitaria e raccolta nel convento dell'Abbaye-aux-Dames, dove suo padre la collocò a quattordici anni. Le frivolezze bacchettone e mondane dovevano aver poca presa su questo spirito assetato del sublime. Gli eroi di Plutarco erano i suoi soli amici, il midollo di leone che la nutriva.

Entusiasta dei principi della Rivoluzione, ella ne salutò con impeto l'aurora. Gli eccessi della Rivoluzione stessa, il trionfo di quelli che essa considerava i peggiori nemici dell'adorata Repubblica, la costernarono; ma in un cuore di così solida tempra, l'abbattimento diveniva rapidamente risoluzione. Persuasa che Dio avesse riservato una seconda volta a una donna la gloria di liberare il suo paese, ella cercò chi dovesse colpire.

Come ho appena mostrato, l'importanza rivoluzionaria di Danton e di Robespierre era, per i provinciali, offuscata dalla sinistra personalità di Marat, il cui nome si vedeva associato a tutti i fatti di sangue, a tutti i saccheggi. La giovane patriota sentiva che non soltanto Marat sgozzava la Repubblica, ma che egli la disonorava: era lui l'uomo designato dal cielo al suo pugnale.
Ella resistette alla tentazione di vedere i suoi amici, i Girondini, applaudire il suo glorioso disegno : questo disegno lo chiuse in sè come in una tomba. Ella lasciò Caen per andar a chiedere la benedizione di suo padre, e il 3 luglio salì sulla vettura che doveva condurla da Argentan a Parigi.
Scese qui all'albergo della Provvidenza; stanca delle quarantotto ore di viaggio, ella non lasciò la sua stanza, si addormentò alle cinque e non si svegliò che l'indomani alle otto del mattino.

Barbaroux le aveva dato una raccomandazione per il suo collega Duperret; questi non essendo in casa, ella passò la giornata a leggere Plutarco; lo trovò la sera, ed egli le promise di condurla all'indomani al Ministero dell' Interno dove ella voleva rinnovare una sollecitazione per un'amica, la signorina de Forbir.
Il sabato, prima di recarsi al convegno con Duperret, ella scrisse a Marat un biglietto in cui gli chiedeva un abboccamento, e lo mise alla posta; quindi, accompagnata da Duperret, ella si recò al Ministero, dove egli, in cattivo odore per le sue relazioni coi proscritti, non potè ottener nulla per lei. Rimasta sola, ella entrò da un coltellinaio dove acquistò un lungo ed acuminato coltello dal manico d'ebano: poi tornò all'albergo, dove sperava trovare la risposta di Marta.

Marat era ammalato. La continua febbre che gli bruciava il sangue degenerava in una sorta di orrenda lebbrosità, contro la quale erano inutili le risorse dell'arte medica; da qualche giorno egli non andava più alla Convenzione. Carlotta Corday non poteva più colpirlo al sommo della Montagna, come aveva concepito; ella doveva andarlo a cercare nel suo antro. Il sabato 13, verso le undici, ella si presentò a casa di Marat una prima volta, e non fu ricevuta: tornò all'albergo e preparò, per il caso che fosse respinta una seconda volta, un biglietto così concepito
« Al cittadino Marat,
Vi ho scritto questa mattina, Marat. Avete ricevuto la mia lettera? Non posso crederlo, poichè mi si è chiusa la vostra porta. Posso sperare un minuto d'udienza? Vi ripeto, arrivo da Caen. Vi ho da rivelare i segreti più importanti per la salute della Repubblica. Del resto io sono perseguitata per la causa della libertà; io sono infelice basta questo perchè io abbia diritto alla vostra stima.
CARLOTTA CORDAY ».

Ella mise in saccoccia questo biglietto, nascose il coltello nel seno, prese una vettura, si fece condurre alla porta di Marat, che abitava al numero 20 di Via dei Cordelieri. Ella era vestita di una vesticciuola bianca a disegni scuri; portava un cappello alto circondato di tre giri di nastro e ornato d'una coccarda nera.
Marat era custodito meglio che dalle guardie: Caterina Eward, e la sorella di lei, Simona, vegliavano su lui con la doppia sollecitudine dell'amore e del fanatismo. La prima rifiutò nettamente l'ingresso alla giovane Normanna, che parlamentò a lungo con lei. Marat, sentendo una voce fresca e femminile e riconoscendo in lei la donna che gli aveva scritto il mattino, ordinò a Caterina Eward d'introdurla.
Marat era nel suo bagno, con la testa avviluppata in un fazzoletto; un sudicio panno ricopriva la vasca; davanti a lui c'era un'asse che gli serviva da scrivania e sulla quale stava scrivendo.
Egli volle sapere ciò che avveniva a Caen; chiese a Carlotta i nomi dei deputati rifugiati in quella città e quelli degli amministratori dei dipartimenti del Calvados e dell'Eure. Man mano che ella parlava, egli scriveva, e quando ella ebbe finito, esclamò:
- Fra pochi giorni andranno alla ghigliottina!
Questa minaccia richiamò Carlotta Corday alla sua missione, che la pietà e l'orrore dell'omicidio le facevano forse dimenticare: ella si avvicinò al bagno, e tratto il suo coltello lo immerse nel petto di Marat.
Il colpo era inferto con mano così ferma che l'arma penetro fino al manico e tagliò la carotide. Marat chiamò aiuto e spirò.
Al suo grido, un fattorino di nome Lorenzo Basse, che piegava giornali in una stanza vicina, Caterina Eward e sua sorella, si precipitarono nella stanza. Carlotta Corday era in piedi davanti alla finestra, immobile, e non faceva il minimo tentativo di fuggire. Il fattorino la colpì con una seggiola e la gettò a terra. Ella si rialzò; ma Basse afferrandola alla vita, la scaraventò di nuovo al suolo e la tenne sotto le sue ginocchia, mentre le Eward ed altre vicine, aiutate da un chirurgo che era fra i casigliani, trasportarono Marat sul suo letto.
Ai rumore, alle grida delle donne, accorsero i vicini, e ben presto anche alcune guardie nazionali del prossimo posto, che arrestarono Carlotta Corday. Solo a notte fatta, per salvarla dalla folla che l'avrebbe
voluta a pezzi, la si riuscì a condurre con una vettura alla prigione dell'Abbave, dove i membri del Comitato di sicurezza generale la interrogarono parecchie volte, senza che mai si smentisse la sua fermezza.

Ella comparve il 17 luglio dinanzi al tribunale rivoluzionario. I giornali della Montagna, tra le loro imprecazioni, lasciano intravedere l'impressione che la fermezza dolce e fiera di Carlotta Corday produsse sui giudici e sugli spettatori. « Si è notato - disse il suo avvocato Chauveau-Lagarde - che essi avevano l'aria di prendere lei stessa per un giudice che li avrebbe chiamati al suo tribunale supremo ».

Carlo Enrico Sanson non incominciò regolarmente il diario dei suoi ricordi che verso la fine del gennaio 1793; ma, egli ci ha lasciato sulla morte di Carlotta Corday una nota più particolareggiata, più estesa che non quelle delle quali si son serviti i narratori della prima fase della Rivoluzione.
« Questo mercoledì 17 luglio - egli scrive - l'anno primo della Repubblica una ed indivisibile, fu giustiziata la cittadina Corday, di Caen, cospiratrice e assassina del cittadino Marat, deputato alla Convenzione.
« Questo mercoledì 17 - come ho detto --- alle dieci del mattino, andai a prender gli ordini dal cittadino Fouquier. Il cittadino Fouquier era in seduta; mi fece rispondere che avessi ad attenderlo e a non allontanarmi. Ridiscesi e andai a prendere un boccone dal cittadino Fournier. Verso un'ora dei pomeriggio un cittadino che scendeva dal Tribunale ci disse che la giovane era condannata. Allora mi portai là e mi trovai nella camera dei testimoni quando il cittadino Fourquier vi passava col cittadino Montanè. Egli non mi vide poichè disputava molto vivamente col suddetto Montané, che egli accusava di essere stato favorevole all'imputata. Essi restarono chiusi più di un'ora nel gabinetto. Uscendo, il cittadino Fouquier mi vide e mi disse incollerito: « Tu sei ancora qui?» Gli osservai che non avevo ricevuto ordini. Il cittadino Frabricius entrò con la minuta e con la copia della sentenza, che fu firmata; e scendemmo alla Conciergerie. Parlai col cittadino Richard, e parlandogli vidi la cittadina sua sposa che era tutta pallida e pareva tremante. Le domandai se fosse malata. Mi rispose : « Aspettate un poco, e forse il cuore vi mancherà più che a me ». Il cittadino Richard ci condusse alla camera della condannata. I cittadini Tirrase e Monnier, uscieri del tribunale, entrarono primi; io rimasi sulla porta.

« C'erano nella stanza della condannata due persone, un gendarme e un cittadino che faceva il suo ritratto. Ella era seduta sopra una seggiola e scriveva sul dorso di un libro. Ella non guardò gli uscieri, bensì me, e mi fece cenno d'aspettare. Quando ella ebbe finito, i cittadini Tirrase e Monet cominciarono la lettura della sentenza, e durante quel tempo, la cittadina Corday piegò in forma di lettera la carta che ella aveva scritta e la consegnò al cittadino Monet pregandolo di farla avere al cittadino deputato Pontécoulant. Allora ella trasse la sua seggiola in mezzo alla stanza; sedette, si tolse la cuffia, sciolse i suoi capelli color castano chiaro, che erano molto lunghi e molto belli, e mi accennò di tagliarli.

" Dal tempo del signor de la Barre non avevo incontrato tanto coraggio a morire. Quando i suoi capelli furono tagliati, ella ne diede una parte al cittadino pittore che l'aveva ritratta e consegnò il resto al cittadino Richard per la sua sposa. Io le diedi la camicia rossa che ella infilò e si aggiustò da se. Ella mi domandò, quando io mi accingevo a legarla, se ella doveva conservare i guanti, poichè quelli che l'avevano legata il giorno del suo arresto, l'avevano stretta con tanta forza che gliene rimanevano le cicatrici ai polsi. Io le dissi che ella poteva fare ciò che desiderava, ma che la precauzione era inutile poichè io avrei saputo legarla senza farle alcun male. Ella disse sorridendo: - Difatti, essi non ci hanno la vostra abitudine - e mi tese le sue mani nude.

« Salimmo nella carretta. C'erano due sedili; io la invitai a sedere, ella rifiutò; le dissi che aveva ragione e che in tal modo le scosse del veicolo l'avrebbero meno stancata; ella sorrise ancora, ma senza rispondermi. Fermin, che era seduto dietro la vettura, volle prendere lo sgabello; ma io glielo tolsi, e lo misi davanti alla cittadina perché ella potesse appoggiarvi un ginocchio; piovve e tuonò, nel momento che noi arrivammo al fiume, ma il popolo, che era molto numeroso al nostro passaggio, non si disperse come di solito. Si era gridato molto nel momento che noi uscivamo dall'Arcata; ma più procedevamo, e meno numerosi erano i gridatori. Soltanto quelli che camminavano vicino a noi insultavano la condannata e le rinfacciavano la morte di Marat. A una finestra della Via Sant'Onorato riconobbi i cittadini Robespierre, Camillo Desmoulins e Danton, deputati alla Convenzione.

Il cittadino Robespierre pareva molto animato e parlava molto ai suoi colleghi; ma questi, e particolarmente il cittadino Danton, avevano l'aria di non ascoltarlo, tanto guardavano fissamente la condannata. lo stesso, ogni momento mi voltavo per guardarla, e più la guardavo, più avevo voglia di vederla. Non era tuttavia a motivo della sua bellezza, per quanto grande essa fosse; ma mi sembrava impossibile che ella rimanesse fino alla fine così dolce e coraggiosa come la scorgevo; volevo assicurarmi che ella avesse la sua debolezza come gli altri; ma non so perché, ogni volta che volgevo gli occhi verso di lei, tremavo che questa debolezza si mostrasse. Tuttavia ciò che consideravo impossibile è avvenuto. Nelle due ore che ella fu accanto a me, le sue palpebre non hanno avuto un tremito, non ho sorpreso un movimento di collera o d' indignazione sul suo viso.

« C'era tanta gente sulla strada che noi avanzavamo ben lentamente. Poiché ella aveva sospirato, credetti di poterle dire:
- Trovate che si va a lungo, é vero? - Ella mi rispose: - Bah! siamo sempre sicuri d'arrivare - e la sua voce era tanto calma e modulata come nella prigione. Nel momento che arrivammo sulla Piazza della Rivoluzione, mi alzai e mi collocai dinanzi a lei per impedirle di vedere la ghigliottina. Ma ella si sporse innanzi per guardare, e mi disse:
- Ho bene il diritto dì essere curiosa: non l' ho mai veduta! -
Credo tuttavia che la sua curiosità la facesse impallidire; ma questo non durò che un momento, e quasi subito il viso di lei riacquistò il suo colorito, che era molto vivace.

« Nell' istante che noi scendevamo dalla carretta, mi accorsi che degli sconosciuti si erano mescolati ai miei uomini. Mentre mi rivolgevo ai gendarmi perchè mi aiutassero a sgombrare il posto, la condannata era salita agilmente sul patibolo. Giunta appena sulla piattaforma, dopoché Fermin le ebbe levato prestamente il suo fisciù, ella si precipitò da sè sull'asse mobile e vi fu assicurata con le cinghie. Benché io non fossi al mio posto, pensai che sarebbe stato barbaro di prolungare un attimo di più l'agonia di questa coraggiosa donna, e feci segno a Fermin, che si trovava presso l'asta di sinistra, di far scendere il coltello.
Mi trovavo ancora ai piedi del patibolo, quando uno di coloro che avevano voluto immischiarsi di ciò che non li riguardava, un carpentiere di nome Legros, il quale nella giornata aveva lavorato a riparare la ghigliottina, avendo raccolto la testa della cittadina Corday, la mostrò al popolo. Io son pure abituato a questa sorte di spettacoli, e tuttavia ebbi paura. Mi pareva che quegli occhi semiaperti fossero fissi su me e che io vi ritrovassi ancora quella dolcezza penetrante e irresistibile che mi aveva tanto stupito. Talchè io gli ripresi la testa. Furono soltanto i mormorii che sentii intorno a me a farmi apprendere che lo scellerato aveva schiaffeggiato la testa; furono gli altri ad assicurarmi che essa aveva arrossito sotto questo insulto.

Quando tornai a casa, la predizione della cittadina Richard si avverò. Nel momento che sedevo a tavola, mia moglie mi disse:
- Che hai, e perchè sei così pallido?.».
Mio nonno protestò presso i giornali che avevano attribuito ad uno dei suoi aiutanti l'oltraggio dello schiaffo alla testa. II Tribunale rivoluzionario fece arrestare il carpentiere Legros e gli rivolse una pubblica e severa rimostranza.
LA REGINA
Dopo la morte di Luigi XVI, pareva che si fossero dimenticati i prigionieri reali della prigione del Tempio. L'odio del popolo parigino per Luigi XVI era stato tutto politico, si rivolgeva più al re che all'uomo. L'odio che questo popolo nutriva contro Maria Antonietta era invece ad un tempo politico e personale. I rivoluzionari avevano indovinato in lei una volontà ben altrimenti energica che quella del debole Luigi XVI; essi avevano compreso che, se vi fosse una resistenza contro i loro disegni, questa resistenza sarebbe stata l'opera di Maria Antonietta, e l'avevano rappresentata come la più accanita avversaria della libertà, come il vampiro della Francia e la complice dello straniero. Parecchie volte già il nome della regina era risuonato alla tribuna della Convenzione in tono di rimprovero alle commissioni esitanti; ma per lo più questo rimprovero era un'arma destinata a colpire gli uomini della Destra anzichè un indizio di reale sete del sangue di Maria Antonietta. Ma alfine la Montagna non poté negare al partito di Hébert la testa che esso, sulla piazza, chiedeva con grandi grida.
Il 1° agosto la Convenzione decretò che Maria Antonietta fosse tradotta dinanzi al Tribunale rivoluzionario. Il 2 agosto, alle due del mattino, questo decreto fu significato alla regina; ella ne ascoltò la lettura senza commuoversi, fece un pacchetto delle sue vesti, abbracciò sua figlia (dal 3 luglio le si era tolto il Delfino) raccomandò i suoi figliuoli alla cognata Elisabetta, e seguì a piè fermo le guardie municipali. Passando sotto una saracinesca, ella dimenticò di abbassare la testa e vi battè tanto violentemente da ferirsi a sangue. Il municipale Michonis le domando se si fosse fatta male; ella rispose :
- No, ormai nulla mi fa più male...

I portieri del carcere della Conciergerie erano quei Richard sui quali Carlotta Corday aveva prodotto una così forte impressione; essi ricevettero la regina col rispetto e la compassione dovuta a una così grande sventura.
L'istruttoria si trascinò a lungo. Più si approfondivano i fatti rimproverati alla regina, meno si trovavano le prove dei reati dei quali si appariva tanto convinti. FouquierTinville ci perdeva il sonno, e la redazione dell'atto d'accusa gli diventava un problema insolubile.

Tuttavia alcuni uomini di cuore erano risoluti a salvare la regina: disgraziatamente il terrore li condannava all'isolamento. Uno dei servitori della monarchia caduta, il cavaliere di Rougeville, penetrò nella cella di Maria Antonietta per l'intermediario del municipale Michonis: egli le presentò un garofano che portava all'occhiello. Questo garofano conteneva una carta nella quale egli offriva i suoi servizi alla regina. Questa, non dubitando che il coraggioso giovane non trovasse modo d'introdursi di nuovo presso di lei, e non volendo esporre la vita di nessuno per salvare una vita a cui assegnava sì poco valore, stava pungendo con l'ago una risposta negativa su quella carta, quando uno dei gendarmi che la vigilavano, entrato all'improvviso, s'impadronì del biglietto. Denunciata dal gendarme, Maria Antonietta fu interrogata da alcuni membri del Comitato di sicurezza generale; si gettarono in carcere Richard, sua moglie, un tale Fontaine e il municipale Michonis; si tolse alla regina la donna che fino allora l'aveva servita, e la si trasferì in una stanza dove le vigilanza divenne più rigorosa.

Questo incidente fornì un elemento all'accusa, che si completò coi documenti che il Comitato di sicurezza generale aveva scelto tra le carte raccolte alle Tuileries.
Un gentiluomo aveva tentato di salvare la regina: due avvocati, Chauveau-Lagarde e Tronsan-Ducoudray, rivendicarono l'onore di difenderla: onore che non era senza pericolo, ma che associava nell'avvenire il loro nome a questa grande tragedia.
Il 13 ottobre (22 vendemmiale) la si avvertì che all'indomani ella sarebbe comparsa davanti ai suoi giudici.
Il decreto dei 1° agosto, con cui si decideva di trarre Maria Antonietta davanti al tribunale rivoluzionario, ordinava che le spese dei Capeti fossero ridotte allo stretto necessario. Le vesti di lutto che si erano accordate alla regina cadevano a pezzi. Lo spettacolo della regalità ridotta agli stracci doveva commuovere e poteva riuscir toccante; ma Maria Antonietta disdegnò questo appello alla pietà dei suoi nemici e all'indignazione della gente dabbene e consacrò laboriosamente la notte a rammendare e a ricucire la sua veste nera.

L' indomani alle dieci la si venne a prendere. Ella portava alta la testa, il suo contegno era pieno di dignità. Nel viso non traspariva turbamento nè intenzione di sfidare i giudici; ella era fredda, calma, quasi indifferente; i suoi capelli bianchi, le rughe che le solcavano la fronte, quelle che accusavano più fortemente la piega del labbro inferiore, il largo cerchio rossastro che circondava i suoi occhi, il suo sguardo a volte atono, attestavano le torture morali subite, ma quel viso impassibile sembrava essersi appropriata la rigidità del marmo.
Ella sedette sopra una poltrona, dirimpetto al tribunale; Transon-Ducoudray e Chauveau-Lagarde si collocarono al suo fianco.
I l presidente Herman rivolse all'accusata le domande di rito
- Come vi chiamate?
- Maria Antonietta d'Austria-Lorena.
- Il vostro stato?
- Vedova di Luigi, già re dei Francesi.
La vostra età?
- Trentasette anni.
Dopo la lettura dell'atto d'accusa, si procedette all'audizione dei testimoni.
Il primo depose sulla fuga a Varennes; il secondo accusò la regina di aver dato da bere agli ufficiali degli Svizzeri nella giornata del 10 agosto 1791, e riferì chiacchiere udite su immense somme che l'accusata avrebbe mandato a suo fratello l'imperatore; il terzo testimonio chiamato fu Hébert. La sua deposizione è rimasta come un monumento di mostruosa assurdità e di impudente cinismo.

Ecco questa deposizione, come fu raccolta dal Moniteur
« Giacomo Renato Hébert, sostituto del Procuratore della Comune, depone che nella sua qualità di membro della Comune del 10 agosto, egli fu incaricato di parecchie missioni importanti che gli hanno provato la cospirazione d'Antonietta: e precisamente un giorno, al Tempio, egli ha trovato un libro da messa, appartenente a lei, nel quale stava uno di quei simboli controrivoluzionari consistenti in un cuore infiammato, trapassato da una freccia, con la scritta : Jesù, miserere nobis.
« Un'altra volta egli trovò nella camera di madama Elisabetta un cappello che fu riconosciuto essere appartenuto a Luigi Capeto; questa scoperta non gli permise più di dubitare che tra i suoi colleghi esistevano uomini capaci di degradarsi al punto da servire la tirannide. Egli si ricordò che Toular era entrato un giorno col cappello nella torre, e che ne era uscito a testa nuda, asserendo di averlo perduto.
« Aggiunse che Simon avendogli fatto sapere di aver qualche cosa d'importante da comunicargli, egli si recò ai Tempio accompagnato dal maire e dal Procuratore generale della Comune. Essi vi ricevettero una dichiarazione da parte del ragazzo Capeto, dalla quale risulta che all'epoca della fuga di Luigi Capeto a Varennes, La Fayette e Bailly erano tra coloro che più si erano prestati a fàcilitarla; che essi avevano a quest'uopo passato la notte al castello; che durante il loro soggiorno al Tempio, le detenute non avevano cessato per molto tempo d'essere informate di ciò che avveniva fuori; si facevano passar loro delle corrispondenze negli stracci e nelle suole.
« Il piccolo Capeto nominò tredici persone come adoperatesi in parte a mantenere queste intelligenze; che una di queste avendolo chiuso con sua sorella nel vano di una torricella, egli sentì che la persona menzionata diceva a sua madre : « Vi procurerò ogni giorno il modo di saper notizie, mandando uno strillone a gridare presso la torre i giornali della sera. »
« Infine il piccolo Capeto, la cui costituzione fisica deperiva di giorno in giorno, fu sorpreso da Simon intento a polluzioni indecenti e funeste per il suo temperamento; quegli avendogli domandato chi gli aveva insegnato quel delittuoso maneggio, rispose che doveva a sua madre e a sua zia la conoscenza di questa viziosa abitudine.
« Dalla dichiarazione, osserva il testimonio, che il giovane Capeto ha fatto in presenza del maire di Parigi e del Procuratore, risulta che queste due donne lo facevano spesso dormire in mezzo a loro; che ivi si commettevano atti della più sfrenata licenza; che non c'era nemmeno da dubitare, a quanto si rilevò dal giovane Capeto, che vi fosse stata un'azione incestuosa tra madre e figlio.
« Si ha motivo di credere che questo criminoso suggerimento non fosse suggerito da carnalità, ma dalla speranza politica di snervare il fisico di cotesto ragazzo, il quale piaceva ancora raffigurarsi destinato a occupare un trono, e su cui si voleva assicurarsi con tale manovra il diritto di dominarne il morale; che per la stanchezza nervosa a lui procacciata, si è stati costretti a mettere al fanciullo un apparecchio medico, e che da quando egli non e più con sua madre, egli va riacquistando un temperamento robusto e vigoroso ».
Questa infame deposizione era stata pronunciata in mezzo a un cupo silenzio. Quando Htébert ebbe terminato, un fremito d'orrore corse nell'uditorio. Per quanto l'odio di tutti i presenti fosse implacabile, esso a questo punto cadeva e si rivoltava contro il miserabile. Maria Antonietta parve insensibile all'oltraggio; essa lo ascoltò senza lasciar cadere uno sguardo sull'autore di siffatta atrocità.
Il presidente chiese all'accusata:
- Che avete da rispondere alla dichiarazione del testimonio?
L'accusata:
- Non ho alcuna conoscenza dei fatti di cui parla Hebert; mi consta soltanto che il cuore, di cui egli dice, fu regalato a mio figlio da sua sorella; riguardo al cappello, fu un presente fatto a madama Elisabetta dal fratello ancora vivo.
Il presidente:
- Gli amministratori, Michonis, Jobert, Marino e Michel, non conducevano persone con loro quando venivano da voi?
L'accusata:
- Sì, non venivano mai soli.
Il presidente:
- Appartenevano anche queste persone all'amministrazione?
L'accusata:
- Lo ignoro.
Il presidente:
- Non avete trasalito di gioia, vedendo entrare con Michonis, nella vostra stanza alla Conciergerie, un privato che portava un garofano?
L'accusata:
- Essendo chiusa da tredici mesi senza vedere alcuno che conoscessi, ho trasalito per il timore che egli non si compromettesse per riguardo a me.
Il presidente:
- Questo privato non era uno dei vostri agenti?
L'accusata:
- No.
Il presidente:
- Non avete avuto un colloquio con Michonis? Non gli avete detto che temevate egli non fosse rieletto al nuovo Consiglio municipale?
L'accusata:
- Sì.
Il presidente:
- Quale motivo avevate di temer ciò?
L'accusata:
- Lo dissi perchè egli era dolce e umano coi prigionieri.
Un giurato:
- Cittadino presidente, vi invito a osservare all'accusata che ella non ha risposto intorno al fatto di cui ha parlato il cittadino Hébert, riguardo a ciò che è avvenuto tra lei e suo figlio.
Il presidente fa la domanda.
L'accusata:
- Se non ho risposto, si è che la natura si rifiuta a una simile colpa fatta a una madre. (Qui l'accusata pare vivamente commossa). Me ne appello a tutte quelle che si trovano qui.

Rilevando la commozione della regina, il Moniteur e i giornali del tempo si guardano bene d'aggiungere che questa commozione fu condivisa dal pubblico.
Il presidente Herman si affrettò a chiamare altri testimoni. Essi furono numerosissimi. Tra questi l'ex calzolaio Simon, che il presidente nemmeno interrogò intorno ai fatti di cui Hébert asseriva che egli fosse il principale testimonio. Maria Antonietta ebbe almeno la consolazione di vedere i suoi stessi giudici riconoscere l' infamia dell' oltraggio recato ai suoi sentimenti di madre.
I quesiti sottoposti ai giurati, dopo gli eloquenti discorsi dei difensori, ascoltati in religioso silenzio, riguardavano i due primi il crimine d'intelligenza col nemico, i due ultimi quello di complotto e cospirazione.
I giurati li affermarono tutti, e Maria Antonietta fu condannata a morte.
Herman aveva raccomandato all'uditorio il rispetto della sventura, che doveva provare all'universo la dignità d'uomini liberi di quanti assistevano al giudizio. Ma' per quanto una moltitudine sia docile, essa non si lascia mai imporre l'ipocrisia. I risentimenti che le erano stati ispirati contro la regina erano troppo violenti per potersi nascondere sotto la maschera di una generosità menzognera. Nel momento che Maria Antonietta abbandonava il pretorio, l'odio traboccò in applausi furiosi, salutanti la prossima morte.
La lunghezza dei dibattimenti aveva esaurito le forze della regina. Ella dormì per tre quarti d'ora, di un sonno placido e calmo. Poi chiese di scrivere, e scrisse una lunga lettera destinata a madama Elisabetta, ma che questa principessa non ricevette mai. Il portinaio, a cui l'aveva consegrata perchè la recapitasse, gli rispose che l'esaudirla non dipendeva da lui; egli era costretto a rimettere la lettera a Fouquier-Tinville, il quale si sarebbe incaricato di mandarla a destinazione.
La regina rimase muta; ella appoggiò il viso sulle mani che riposavano sulle sue ginocchia e restò lungamente in quell'atteggiamento.
Dopo l'allontanamento dei Richard, era la figlia maggiore dei nuovi portinai quella che aveva cura del vitto, della biancheria e delle vesti di Maria Antonietta. Ella entrò in quel momento; era così turbata che si lasciò cadere sopra una seggiola, mezzo soffocata dai singhiozzi che si sforzava invano di contenere. Uno dei gendarmi la ingiuriò brutalmente. La regina la consolò con bontà e le fece osservare sorridendo che ella aveva dimenticato l'oggetto più importante.
Era questo un abito bianco che ella aveva portato dal Tempio e che desiderava vestire per andare al patibolo.
Mentre la ragazza usciva per andare a cercare la veste, Maria Antonietta la pregò di portar pure un paio di forbici. Quest' ultima domanda sollevò difficoltà; i gendarmi non volevano permettere che si consegnasse alla condannata uno strumento che nelle sue mani poteva divenire un'arma. Fu convenuto che la figliuola del portinaio avrebbe tagliato i capelli della regina in presenza del padre e dei due guardiani.
Carlo Enrico Sanson non ci ha lasciato della morte della regina una relazione completa come della morte del re; i particolari che ho raccontato e che racconto son desunti da note da lui lasciate e dai ricordi di mio padre e di mia madre.
Mio nonno aveva passato la notte al tribunale rivoluzionario; all'uscita della seduta egli stava alla porta del gabinetto di Fouquier; questi, avvertito della sua presenza, gli fece dire d'entrare. C'erano là il presidente Herman e parecchi magistrati. Fouquier chiese subito a mio nonno se le disposizioni per la « festa » fossero compiute; di questa parola si servì.
Avendogli Carlo Enrico Sanson risposto che a lui incombeva aspettare le decisioni del tribunale e non prevenirle, Fouquier lo trattò brutalmente con la sua solita violenza e gli disse tra altre cose che forse egli avrebbe rimpianto un giorno di non aver prevenuto una decisione che concerneva certo cattivo patriota di sua conoscenza. Il colloquio volgeva male; per mettervi fine, mio nonno sollecitò l'ordine di requisire una vettura chiusa, simile a quella che aveva condotto il re al patibolo. Questa domanda mise Fouquier-Tinville fuor dei gangheri; egli rispose a Carlo Enrico che aveva meritato di andar lui stesso alla ghigliottina per aver osato fare una simile proposta: una carretta era ancora troppo buona per condure a morte l'Austriaca.

Ma altri presenti osservarono che prima di decidere su cosa tanto importante sarebbe stato pur buono sentire l'opinione di qualche membro del Comitato. Dopo tre quarti d'ora si ebbe la risposta di Robespierre e di Collot; entrambi dichiararono che la cura di queste disposizioni spettava soltanto a Fouquier-Tinville. Restò dunque deciso che la regina non avrebbe goduto del privilegio di Luigi XVI, e che sarebbe andata al patibolo con la carretta dei criminali ordinari.
Erano le cinque del mattino quando mio nonno lasciò il palazzo, e già si sentiva da tutte le parti lo strepito dei tamburi che chiamavano le sezioni sotto le armi.

Alle dieci, quando egli si partì alla Conciergerie insieme con mio padre, il carcere era già tutto circondato d'armati. La regina era nella sala dei morti, seduta sopra un banco, la testa appoggiata contro il muro; vestiva tutto di bianco, tranne un nastro nero alla cuffia. Vedendo mio nonno e la sua scorta, ella si levò e fece un passo per andare incontro agli esecutori; ma si fermò un istante per abbracciare teneramente la figliuola del portinaio. Mio nonno e mio padre s'erano tolto il cappello; molti dei presenti salutarono.
Prima che alcuno di loro avesse il tempo di prender la parola, Maria Antonietta si avanzò e disse con una voce breve che non tradiva alcuna emozione:
- Sono pronta, signori; possiamo partire.
Carlo Enrico Sanson le fece osservare che era necessario che certe precauzioni fossero prese; Maria Antonietta si voltò, e mostrandogli la nuca da cui erano stati tagliati i capelli
-- Va bene così? - domandò.
E gli porse le mani perchè le legasse.
Mentre mio padre disimpegnava questo compito, un prete giuratario, l'abate Lothringer, entrò nella sala dei morti e chiese alla regina il permesso di accompagnarla. Ella lo aveva già respinto al pari di due altri, considerandoli, perché giuratari, « ministri di un'altra religione che la sua ». L'insistenza di Lothringer le parve visibilmente sgradevole; tuttavia ella rispose
- Fate come vi piace, signore.
Il corteo si mise immediatamente in cammino. Le porte s'apersero, la regina di Francia apparve sulla carretta in mezzo alla sua scorta sinistra, e subito la moltitudine ammassata sulle rive della Senna e sui ponti ondeggiò come un torbido mare, gettando mille grida di maledizione e di morte.

Tanto compatta era la folla che il cavallo non poteva avanzare. Vi fu un momento di confusione così terribile che mio nonno e mio padre, i quali stavano sul sedile anteriore della carretta si levarono in piedi e si collocarono a difesa di Maria Antonietta. Alcuni furiosi, su due o tre punti, avevano rotto il cordone della scorta, e la maggior parte dei gendarmi invece di respingerli o di calmarli, mescolavano le loro ingiurie alle vociferazioni di costoro. Il figlio di Nounv-Granmont, che comandava la scorta, ufficiale nell'esercito rivoluzionario al pari di suo padre, ebbe la viltà di tendere il pugno chiuso verso il viso della regina. L'abate Lothringer lo spinse indietro e gli rinfacciò con molta vivacità l'atto ignobile.

La scena durò due o tre minuti. Mai, mi ha ripetuto più volte mio padre, Maria Antonietta s'era mostrata più degna del suo altissimo grado. Nell'abiezione in cui la si era ridotta, ella giungeva con la sola forza della sua anima a comandare il rispetto a cuori incapaci di ogni pietà.
Quando la carretta si fu rimessa in movimento, i clamori s'acquietarono. A quando a quando si udivano ancora delle grida di "Morte all'austriaca! Morte a madame Veto!" tra la folla che stava dinanzi; ma quando il veicolo arrivava all'altezza dei vociferatori, questi facevano silenzio.
Man mano che il popolo si calmava, gli occhi della regina perdevano alcunché della loro luce lampeggiante; ella li posava con indifferenza sulla folla e sui monumenti.
Quando si ebbe passato il palazzo Egalité, ella parve inquieta; guardava i numeri delle case con un'espressione in cui c'era più che semplice curiosità.

La regina aveva preveduto che non si sarebbe permesso a un prete della Chiesa romana di portarle i supremi conforti della religione; di ciò si era preoccupata, e un membro non giurato del clero, l'abate Magnier, che fin dai tempi di Richard era riuscito a penetrare alla Conciergerie, le aveva promesso di trovarsi il giorno del supplizio in una casa del sobborgo Sant'Onorato e di far cadere sulla sua testa quell'assoluzione in extremis, per cui la chiesa rimette ogni suo potere nel più umile dei suoi ministri. Il numero della casa era stato indicato a Maria Antonietta, e questo ella cercava; lo trovò, e allora ad un segno che ella sola poteva comprendere, avendo riconosciuto il prete, ella abbassò la fronte, si raccolse e pregò; poi un sospiro di sollievo le colmò il petto, e si vide un sorriso sulle sue labbra.
Giungendo sulla piazza della Rivoluzione, la carretta si fermò proprio dinanzi al grande viale delle Tuileries; per qualche istante la regina rimase sprofondata in una contemplazione dolorosa; ella ebbe un grande pallore, i suoi occhi s'inumidirono, e la si sentì mormorare con voce sorda
- Mia figlia! figliuoli miei!
Nel momento che ella pose piede a terra, sostenuta da mio nonno e da mio padre, Carlo Enrico Sanson, chinandosi verso di lei, le disse a bassa voce
- Coraggio, signora.
La regina si volse bruscamente, e quasi stupita di trovare un accento di pietà in colui che doveva metterla a morte, gli rispose:
-- Grazie, signore, grazie.
Il tono non era alterato, la parola rimaneva ferma e vibrante.
Mio padre voleva continuare a sorreggerla nei pochi passi che la separavano dalla ghigliottina; ella rifiutò dicendo
-- No; avrò la forza, grazie a Dio, di andare fin là.
E mosse con un passo uguale, senza precipitazione nè lentezza, e salì i gradini con tanta maestà come se fossero stati i gradini della grande scalea di Versailles.

Il suo presentarsi sulla piattaforma produsse un istante di confusione. L'abate Lothringer l'aveva seguita fino a quel momento con le sue esortazioni inutili; mio padre lo respinse dolcemente per abbreviare alfine lo straziante supplizio.
Gli aiutanti s'impadronirono allora della vittima. Mentre la attaccavano sull'asse mobile, ella alzò gli occhi verso il cielo e gridò a voce alta
- Addio, miei figliuoli; vado a raggiungere vostro padre.
Ella aveva appena pronunciato queste parole, che già l'asse mobile era messa in posizione e il coltello precipitava sulla sua testa.
Grida di « Viva la Repubblica! » risposero allo scatto della lama: grida circoscritte alla immediata vicinanza del patibolo. Allora Grammont, che agitava la spada come un energumeno, ordinò ripetutamente a Carlo Enrico Sanson di mostrare la testa al popolo. Uno degli aiutanti fece il giro del patibolo con quell'orrendo trofeo, in cui le palpebre erano ancora agitate da un fremito convulsivo.
Il corpo della regina fu chiuso in una rozza cassa di legno bianco e consumato nella calce del cimitero della Maddalena; le sue vesti furono distribuite ai poveri degli ospizi.
I GIRONDINI
Al processo della regina succedette quello degli abitanti d' Armentières, accusati d'intelligenza col nemico, e più precisamente di aver formato un complotto per aprirgli le porte della città. Sei dei prevenuti furono assolti; ma quattro furono condannati a morte, e giustiziati il 27 vendemmiale.
M a già la prima sezione del Tribunale s'era accinta a un processo ben altrimenti importante: quello dei Girondini.
Questo processo era reclamato dai clubs e dalla Comune altrettanto imperiosamente quanto quello della regina: ma l'atto d'accusa dei deputati, arrestati fin dal 31 maggio, era difficile da formulare. I girondini che non si erano sottratti con la fuga all'arresto, non avevano commesso atti che si potessero incriminare: bisognava fare il processo alle opinioni, e cercare il crimine nelle tendenze federaliste che si supponevano in loro.

Ventun deputati comparvero davanti il Tribunale il 3 brumaio; Gorsas era già stato giustiziato. La maggior parte dei testimoni uditi furono precisamente quelli che avevano diretto il movimento del 31 maggio, e l'inimicizia dei quali contro coloro che avevano fatto arrestare, sarebbe stata in altri tempi motivo di ricusa della testimonianza.
In una loro seduta del 7 brumaio i Giacobini accusarono il Tribunale di lentezza e decisero che una deputazione sarebbe stata mandata alla Convenzione per domandarle di sollecitare la punizione dei traditori.
Nello stesso tempo Fouquier comunicava le sue inquietudini a Robespierre e, per istigazione di questo, egli indirizzava alla Convenzione una lettera confessando la sua impotenza e quella di Herman a dirigere i dibattimenti, e concludendo ch'era necessario di liberare il tribunale dalle forme imposte dalla legge.
Fatti due decreti speciali, il capo della giuria dichiarò che i giurati si trovavano sufficientemente illuminati; allora Herman pronunciò la chiusura dei dibattimenti, i giurati si ritirarono nella camera del consiglio, e ne uscirono portando un decreto affermativo per tutti gli imputati. Il pubblico accusatore domandò l' applicazione della pena di morte.
In quel momento un grande movimento si manifesta fra tutti i Girondini condannati. Brissot lascia cadere la testa sul petto; Gensonnè domanda la parola sull'applicazione della legge; Boileau getta il cappello in aria gridando « Muoio innocente! »; Sillery getta via le sue grucce, e dice:
- Questo é ii più bel giorno dalla mia vita;
Boyer-Bonfrède abbraccia Ducos, suo amico d'infanzia a suo cognato, dicandogli :
- Amico mio, sono io che ti uccido!
Poi tutti si lavano con uno scatto simultaneo, gridando :
- Siamo innocenti! Viva la Repubblica!
In questo momento un grido di morte domina tutto il tumulto; una voce ha detto : « lo muoio! » Era Dufriche-Valazè, che s'era immerso un pugnala nel patto.
Questa scena indescrivibile aveva scombussolato tutti. Camillo Desmoulins, cha assisteva alla seduta, era fuggito nascondendosi il viso tra la mani, e gridando : « Gli infelici! Sono io che li uccido! » Il capo dei giurati, Antonnelle, ara più pallido di uno spettro. Il solo Fouquier rimase impassibile; con un'ombra appena di commozione nella voce, agli ordinò che il cadavere di Valazè «fosse collocato nella carretta cha avrebbero trasportato i suoi complici par essere inumato, dopo la loro esecuzione, nella stessa sepoltura dei datti condannati, suoi complici ».
Appartiene ad altra panna che la mia il raccontare ciò cha accadde alla Conciergerie in quella notte dal 30 ottobre, cha la storia a la pittura hanno ugualmente celebrato.
Tutta quella spaventevole notte risuonò dai loro canti - scrive uno storico - e se s'interrompevano talvolta era per discorrere dalla patria o per qualche scappata di Ducos. Era la prima volta cha si massacravano in massa tanti uomini straordinari ».
Fin dall'8 febbraio, Fouquier aveva avvertito ufficiosamente mio nonno cha egli dovesse provvedersi d'aiutanti supplementari. Par un contrasto bizzarro, in quell'epoca in cui il popolo sembrava animato da una rabbia sanguinaria, a benchè si soffrisse terribilmente della mancanza di lavoro e dal rincaro della derrata, era molto difficile il reclutare qualcuno par il servizio del patibolo. Mio nonno ebbe gran fatica a completare il numero di dodici inservienti cha Fouquier gli aveva detto necessari.
La mattina dal 30 ottobre, di buon'ora, mio nonno passò in rivista il suo personale. Esso consisteva quel giorno di dieci aiutanti e cinque carrettieri con cinque equipaggi.
Il cittadino Nappier fece l' appello dai condannati; a ogni nome che egli pronunciava, il chiamato rispondeva « Presente! », a parecchi vi aggiungevano qualche parola ironica. Ad appello finito, tutti gridarono con lo stesso entusiasmo : « Viva la Repubblica! ». Molto spesso mio padre, raccontandoci questi particolari, m'ha ripetuto che nessuna esecuzione l'ha mai commosso così profondamente.
Il contegno dei condannati non ebbe un momento di debolezza. Sillery fu il primo a comparire sulla piattaforma. Egli ne fece il giro, salutò la folla, che assisteva al supplizio con una silenziosa curiosità senza passione, e ripetè il saluto da tutta le quattro parti dal patibolo. Egli soffriva dai postumi d'un attacco di paralisi, e camminava con alquanta difficoltà. Uno degli aiutanti avendogli detto di spicciarsi, egli risposa :
- Non puoi aspettare? Aspetto pure io che ho più premura di te.
A ogni caduta del coltello, il canto dai condannati raddoppiava di forza. Carlo Enrico Sanson dirigeva l'esecuzione. Il primo aiutante, Fermin, era allo scatto; mio padre sorvegliava lo sgombero dai cadaveri, che a due a due si gettavano nei panieri preparati dietro la ghigliottina. Ma quando sei teste furono cadute, i panieri e la stessa asse mobile si trovarono talmente inondate di sangue che il contatto di qual sangue appena sparso doveva sembrare più orribile cha la morte stessa a quelli che dovevano seguire. Carlo Enrico Sanson ordinò a due aiutanti di gettare secchi d'acqua e di passare la spugna sulla macchina dopo ogni supplizio.

Il vuoto incominciava a farsi tra i condannati. Il loro canto diminuiva d'intensità senza perdere di vigore; fra tutta quelle voci maschie a sicura si distingueva quella di Lehardy, che dominava ogni altra.
I due ultimi vivi erano Vergniaud e Vigée. Alcuni storici hanno fatto morire Vergniaud per ultimo; é un errore. Si sperava che alcuni dei Girondini avrebbero smentito nell'ora suprema l'energico coraggio che metteva un'aureola alla loro fama. Data anzi da quest'epoca, si assicura, il divieto di dare alcun cordiale ai condannati. L'eroica falange attinse invece dalla comunione dei sentimenti la comunione del valore, i più forti e i più timidi furono uguali nel loro entusiasmo della morte. Quando Vergniaud e Vigée si trovarono soli, la voce di quest'ultimo che s'aspettava di sentirsi chiamato, divenne meno percettibile; Vergniaud gli gettò uno sguardo, e tosto egli riprese con veemenza il canto della Marsigliese.
Allora l'usciere chiamò Vergniaud. Egli credeva senza dubbio, che, privo del sostegno del suo amico, Vigée avrebbe perduto la sua costanza, e che la paurosa ecatombe sarebbe finita con un atto di debolezza. Questo non fu. Quando il cadavere di Vergniaud fu andato a far cumulo con gli altri, Vigée si presentò agli esecutori con la fierezza di un trionfatore. Attaccato sull'asse mobile, chiusa la testa nella lunetta, egli cantava ancora; quando cessò il canto, l'ultimo dei ventuno era morto.
Quarantatre minuti erano bastati perché la Repubblica fosse vedova dei suoi fondatori e perché la Francia portasse il lutto dei suoi figli più generosi.
IL TERRORE
Dopo l'esecuzione dei Girondini, i morti s'incalzano e si moltiplicano; il vero regno del Terrore é incominciato; fino a quel momento esso non era stato che l'aspirazione del fanatismo di alcuni forsennati; esso diventa il meccanismo normale del Governo.
II 13 brumaio il Tribunale mandava a morte una donna che il suo coraggio più che il suo ingegno aveva reso celebre, Olimpia de Gouges. Poiché i giornali si rifiutavano a pubblicare i violenti attacchi che ella dirigeva contro i governanti, Olimpia era ridotta a farli attaccare come affissi sui muri di Parigi. Incarcerata per questo, ella rimase in prigione cinque mesi. Davanti al Tribunale, sorse in lei un rimpianto per la vita; ella sperò prolungarla, dichiarandosi incinta. La perizia medica, al contrario di quello che si è detto, non contraddisse l'affermazione dell'accusata; essa si limitò a dichiarare l'impossibilità di stabilire se ella fosse incinta o no. Fouquier rispose che i regolamenti della prigione dove ella era chiusa da cinque mesi s'opponevano a che alcuna comunicazione potesse esistere fra uomini e donne. Condotta al patibolo, ella pianse durante il percorso, e parlò degli avvenimenti con voce febbrile e con accento declamatorio; le sue forze si sfasciarono del tutto sulla Piazza della Rivoluzione.

Il 14, montò nella fatale carretta Adamo Lux, inviato dalla città di Magonza per sollecitare l'annessione alla Francia. Era un sognatore entusiasta. Era venuto, in tutta fretta, a chiedere il suo posto al banchetto della fratellanza umana. Ohimé, la tavola del banchetto era un patibolo, già rosso del sangue dei più puri e dei migliori. Un'apparizione, quella di Carlotta Corday, salvò il sognatore dal suicidio e lo riservò alla morte dei forti. Pieno di fede nella sua strana passione per colei che non era più se non un fantasma, egli non aspirava che a consumare nella morte la sua unione con la fidanzata eroica, e per affrettar l'ora, egli teneva testa ai tiranni e sfidava i loro carnefici.
Davanti al Tribunale, Adamo Lux non si mostrò indegno dell'intrepida Carlotta. Condannato a morte, egli esclamò: « Finalmente sarò dunque libero! »
Egli si vestì con molta cura per andare al patibolo, come se avesse sperato che l'incantevole fantasma lo aspettasse all'appuntamento. Prima di lui fu decapitala una donna, certa Coutelet, che egli aveva incoraggiato durante il percorso. Il cadavere non era stato ancora rimosso, che già egli scalava il patibolo; si slanciò da sé sull'asse mobile; nel momento che gli aiutanti attaccavano le corregge lo sentirono mormorare : « Finalmente! »
II 16 brumaio vedeva perire uno dei più famosi iniziatori della Rivoluzione, Luigi Filippo Giuseppe d'Orleans. Invano aveva egli scambiato il suo titolo col nome significativo di Egalité, invano aveva egli dato alla Rivoluzione un pegno ben altrimenti terribile col votare la morte del suo re e suo parente: egli non era giunto a far dimenticare i torti della sua nascita e delle sue immense ricchezze. I Girondini si rifiutarono a credere che il patriottismo fosse stato il sole motivo dell'opposizione di quel primo principe del sangue alla corte, e non avevano cessato mai di trattarlo da pretendente. La Montagna, da parte sua, si era accorta che la presenza di un Borbone nelle sue file sarebbe stata ai suoi nemici un pretesto eterno di sospetto. Essa non esitò a sacrificarlo alla prima occasione. La defezione di Doumriez le offerse l'occasione cercata. Arrestato il 7 aprile e detenuto per sei mesi a Marsiglia, lo si ricondusse a Parigi il 2 brumaio, e fu chiuso alla Conciergerie.
La morte di questo complice importuno era tanto ben decisa anticipatamente, che Fouquier non gli fece l'onore di un atto d'accusa, e si servì di quello contro i Girondini.
- Ciò ha l'aria d'uno scherzo! - proruppe egli, quando si sentì accusare d'essere un « brissottino », lui che tante volte aveva sentito domandare il suo arresto proprio da Brissot. Ma la sua morte, come ho detto, era considerata necessaria, ed egli ascoltò con molto sangue freddo la sua condanna.
Il duca d'Orleans era un po' pallido, ma non lasciava trapelare alcuna emozione, quando mio nonno gli si presentò. Il generale Coustard, suo aiutante di campo, era stato condannato contemporaneamente a lui. La seduta era cominciata la mattina; tornando alla Conciergerie, il Duca
d'Orleans s'era lagnato di aver fame; gli si erano servite delle ostriche e un pollo, ed egli aveva invitato Coustard, ma invano, di dividerle con lui. Egli stesso aveva pregato di non aspettare il domani per giustiziarlo. Col Duca e con Coustard, tre altri condannati dovevano salire alla ghigliottina.
Il capo della scorta fece fermare le carrette dinanzi al palazzo Egalité, sulla facciata del quale si leggeva a grandi lettere : "Proprietà nazionale". Il Principe non ebbe dubbi sull'intenzione che aveva dettato quella sosta. Egli guardò un istante la dimora dei suoi padri, senza che fosse possibile cogliere i sentimenti che gli agitavano l'anima; poi distolse gli occhi con disdegno.
Il signor de Laroque, un venerabile vecchio di settanta anni, fu giustiziato per primo : egli mise una certa affettazione nel dire addio ai suoi compagni, evitando di rivolgere la parola al Duca d'Orleans.
Questi fu l'ultimo a morire. Egli vide cadere le quattro teste senza emozione; salì il patibolo alla sua volta, e guardò con un piglio fiero ed altero, alzando le spalle, la folla che lo bersagliava delle sue invettive; forse si ricordava che erano quegli stessi parigini che nell'89 avevano portato in trionfo il suo busto coronato d'alloro.
Dopo averlo spogliato del suo frac, gli aiutanti vollero levargli gli stivali; egli si svincolò dalle loro mani, e s'avanzò spontaneamente verso l'asse fatale, dicendo loro:
- Non perdete tempo; mi scalzerete più comodamente da morto: spicciamoci.
Un momento dopo, la testa del disgraziato cadeva, tra gli applausi feroci di una cieca moltitudine, che salutava l'espiazione come aveva salutato il delitto.

II 18 brumaio comparve dinanzi al Tribunale rivoluzionario, madama Roland, arrestata dopo il 31 maggio. Ella era stata l'anima della Gironda; l'elevatezza del suo carattere, la grazia del suo spirito, la superiorità delle sue vedute, le avevano assicurato una seria influenza, non solo sul marito, ma sugli uomini illustri che si riunivano nel suo salotto. Questo intervento di una donna nella politica aveva sollevato molte collere e nella stampa e nel seno stesso della Convenzione; l'umor caustico di madama Roland, la sua legittima noncuranza dalle ambiziose mediocrità, avevano ingrossato il numero e ingrandito l'odio dei suoi nemici.
L'atto di accusa era quasi interamente fondato sulle sue relazioni coi Girondini. Madama Roland era rassegnata alla propria sorte; ma non poteva, senza fremere, sentir oltraggiare i nonni dei suoi amici, e ne fece l'elogio davanti al Tribunale rivoluzionario.
Condannata al patibolo, ella ascoltò la lettura della sentenza con ammirabile serenità, e rivolgendosi al Tribunale, disse con una voce pura e melodiosa, che Riouffe paragonava al suono d'uno strumento musicale
-- Voi mi giudicate degna di dividere la sorte dei grandi uomini che avete assassinati. Cercherò di portare sul palco il coraggio che essi hanno mostrato.
" Dopo la condanna - raccontano le "Memorie d'un detenuto" - essa tornò in carcere con una leggerezza in cui pareva sentire la gioia. Ella ci indicò con un segno dimostrativo, che era condannata a morte."
Come il Duca d'Orleans, ella fu giustiziata il giorno stesso. La si accompagnava a Simone Francesco Lamarche, già direttore della fabbrica degli assegnati, comparso dopo di lei al Tribunale rivoluzionario.
Ella aveva bellissimi capelli neri, dei quali si dovette tagliare una parte, ciò che la afflisse molto, poichè ella insisteva per conservarli. Mio nonno esitava e, con ogni specie di circonlocuzioni, cercava di farle comprendere che, arrendendosi al suo desiderio, l'avrebbe esposta a un'orribile tortura. Ella disse con un sorriso, parodiando una celebre frase di Molière:
- Dove dunque l'umanità è andata a rifugiarsi!

E mentre si immergevano le forbici nella sua folta capigliatura, ella portò con molta vivacità le mani alla testa, esclamando:
- Lasciatene almeno tanti da poter mostrare la mia testa al popolo, se esso vuole vederla!
Ebbe qualche istante di abbattimento, o almeno di raccoglimento, quando la ebbero legata; pensava forse a sua figlia e a Roland, che sapeva deciso a non sopravviverle; poi rialzò il capo, e da quel momento la sua energia non si smentì più.
Lamarche che doveva morire con lei, era ben lunge dall'avere il suo coraggio. Durante tutto il percorso della carretta, ella non cessò di consolarlo, di dargli forza. Affettò una gaiezza che non poteva essere nel suo cuore di madre e di sposa, ma che agli occhi di Lamarche doveva mascherare l'orrore del supplizio che lo sbigottiva. Nè la Regina, né Carlotta Cordav, né i Girondini, furono oggetto di furore della plebaglia come madama Roland. Alle invettive ella rispondeva talvolta con facezie, che finirono col trionfare del terrore del suo compagno.
Sulla Piazza della Rivoluzione, Lamarche non conservò quella specie di rassegnazione cupa che madama Roland era giunta a ottenere da lui; il suo viso era divenuto livido, tutte le sue membra tremavano, agitate da un fremito convulsivo; un aiutante fu costretto a sostenerlo. Madama Roland lo guardava con un'espressione di profonda e sincera pietà. Ella gli disse:
--- Non posso che risparmiarvi l'orrore di veder colare il mio sangue. Andate primo, mio povero signore.
Dopo la morte dei Girondini, l'accusatore pubblico determinava l'ordine in cui i condannati dovevano essere giustiziati. Essere la prima, non dover sopportare la vista del supplizio del compagno, non udire il rumore lugubre del coltello, era un privilegio che madama Roland aveva ottenuto per ragione di sesso. Quando ella annunciò a mio nonno che ella cedeva a Lamarche il suo triste primato, egli le rispose che ciò era impossibile, poiché egli aveva ordini precisi.
- No, no - replicò Madama Roland sempre sorridente - io sono certa che non vi si é dato l'ordine di rifiutare a una donna l'esaudimento della sua ultima preghiera.
Infatti, Carlo Enrico non ebbe il coraggio di opporsi. Si portò Lamarche già mezzo morto sul patibolo; madama Roland vide cadere la sua testa senza fremere, e subito si fece avanti verso la piattaforma. I suoi occhi si fissarono sulla statua della Libertà eretta in mezzo alla piazza; si vide un sorriso amaro sfiorare le sue labbra, ed ella disse con voce alta e sicura
-- O Libertà, come ti si é ingannata!
Gli aiutanti la sospingevano verso l'asse; ella s'inchinò davanti alla statua; un momento dopo, aveva cessato di vivere.
Le vittime illustri si succedevano senza tregua; il 21 brumaio è ancora contrassegnato dalla morte di uno dei fondatori della libertà : Bailly.
L'illustre scienziato, presidente dell'Assemblea nazionale, sindaco di Parigí all' indomani della presa della Bastiglia, aveva compreso il suo destino già quando lo si era fatto comparire come testimonio al processo della Regina. La sentenza contro di lui portava che Bailly sarebbe stato giustiziato sul Campo della Federazione, dove egli aveva commesso il delitto di reprimere una sommossa popolare. Soltanto due ore prima dell'esecuzione Carlo Enrico Sanson ricevette l'ordine di smontare la ghigliottina e di portarla al luogo assegnato. L'operazione non era finita quando la carretta era già in moto. Alcune travi della ghigliottina furono collocate sulla carretta stessa, ciò che dava grande incomodo al povero Bailly. Mio nonno gli propose d'andare a piedi, ed egli accettò.

La folla, che già lo aveva coperto di vituperi, circondò la scorta da ogni parte, imprecando con un furore che diveniva demenza; un cattivo soggetto di quindici anni afferrò il vestito che Bailly s'era gettato sulle spalle, e glielo strappò. La scossa fu così violenta che il disgraziato cadde all'indietro. In un istante il vestito fu lacerato in mille pezzi, e i forsennati tentarono di impadronirsi del condannato, che era attorniato soltanto dall'esecutore e dai suoi aiutanti. Egli stesso dovette consolare Carlo Enrico che irritava contro la folla.
- Sarebbe doloroso -disse - di aver saputo vivere cinquantasette anni con onore, e di non sapere morire con coraggio in un quarto d'ora.
Ma quando furono sul Campo della Federazione, alcuni individui circondarono mio nonno, e uno di essi gli dichiarò che l'esecuzione non si sarebbe fatta colà, poiché il sangue d'uno scellerato non poteva macchiare la piazza consacrata dal sangue del popolo. Mio nonno obiettò gli ordini ricevuti.
- Gli ordini - disse uno di quegli uomini - te li dà soltanto il popolo sovrano, tuo padrone; obbedisci.
Dopo molti parlamentari, durante i quali Baillv era svillaneggiato e malmenato dalla folla nel modo più atroce, si convenne che egli stesso avrebbe dovuto scegliere il luogo del suo supplizio. L'idea era stata' accolta con entusiasmo e il gruppo si pose in via. Un generoso cittadino, Beaulieu, teneva un braccio del condannato, Carlo Enrico Sanson teneva l'altro.; i gendarmi e gli aiutanti li seguivano da vicino.
E falso che Bailly sia stato costretto a portare sul dosso le travi della ghigliottina. La macchina fu smontata dagli 'operai di mio padre aiutati da popolani. E vero che alcuni uomini, e principalmente alcuni ragazzacci, ci misero una marioleria mezzo feroce e mezzo infantile a caricarsi sulle spalle i pezzi più caratteristici della ghigliottina e ad attraversare la folla con quello spaventevole fardello, ma tutte le travature furono trasportate colle due carrette che si trovavano li.
Nei tre quarti d'ora che corsero prima dell'esecuzione,
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Bailly dovette subire ancora ingiurie crudeli; ma l'aggressione brutale non si rinnovò più. Egli era stato condotto all'estremità sinistra del Campo della Federazione, verso il fiume; e lì, dopo lunghe discussioni, il patibolo fu eretto nel fossato che cingeva le mura.
Cadeva una pioggia d'autunno fine e ghiacciata. Bailly non aveva più sul corpo che la sua camicia fatta a brani, che lasciava scorgere qua e là le carni violacee. Egli rabbrividiva; si sentiva lo sgretolio dei suoi denti. Fu in quel momento che da uno dei più vicini gli fu detto
- Tu tremi, Bailly.
Egli diede la risposta rimasta celebre
- Amico mio, gli è che ho freddo.
La semplicità e la dolcezza con cui egli pronunciò queste parole erano ancora più sublimi che la risposta.
Ma evidentemente, se il coraggio non era scosso, le sue forze s'affievolivano. Soccombeva quella forte anima nella lotta? Si rifiutava alla volontà il povero corpo esausto dalla fatica, paralizzato dal freddo? Bailly rovesciò la testa all' indietro, i suoi occhi si chiusero, ed egli si lasciò cadere, quasi svenuto, nelle braccia del gendarme e dell'esecutore, mormorando più volte:
- Datemi da bere.
Qualcuno -- io non so dare un appellativo a un simile mostro -- gli gettò del fango liquido sulla faccia. Questa azione risvegliò la sensibilità umana; sorse un grido generale d'indignazione. Uno degli spettatori corse al patibolo, e ne portò una bottiglia dove c'era un po' di vino, che valse a rianimare Bailly. Egli disse grazie, e sorrise. Un sorriso, diceva mio padre, che veduto una volta, non si dimentica più.
Durante il deliquio di Bailly, i furori popolari si erano calmati; si manifestarono ancora una volta nel momento che lo si fece discendere nel fossato dove sorgeva orinai la ghigliottina, ma con molto minore intensità.
Bisognò sostenere Bailly perché potesse ascendere i gradini del patibolo; quando fu in alto, un sospiro di sollievo gli gonfiò il petto, ed egli disse a Carlo Enrico
-- Presto, presto, finite presto, signore, ve ne supplico.
Ma ohimè, nemmeno quest' ultimo voto potè essere esaudito. Si dovette prima, conforme alla sentenza, bruciare una grande bandiera rossa che era stata portata sulla carretta. Ciò richiese del tempo, poiché la fiamma non prendeva.
Il paziente intanto s'indeboliva sempre più; pareva stesse per venir meno una seconda volta. Tutte le disposizioni della sentenza essendo compiute, mio nonno si riavvicinò al condannato; questi comprese che era giunto alla fine dei suoi mali, e parve rianimarsi. Carlo Enrico lo diresse verso l'asse mobile, e aiutò ad attaccarlo; mentre stringeva le cinghie, gli disse:
- Coraggio! coraggio, signor Bailly!
L'illustre martire appoggiò la sua testa a destra, disse con voce perfettamente distinta:
- Ah, ora arrivo in porto, e....
Il movimento dell'asse, che l'aiutante abbassava, non gli permise di terminare.
DAL GIORNALE DI CARLO ENRICO SANSON
" 27 brumaio. I falsari continuano a darci lavoro: ne ho condotto ancora due sulla piazza della Rivoluzione. E? una disgrazia alla quale sono esposti molti innocenti : i contraffattori sono così abili che la cattiva carta-moneta si distingue difficilmente dalla buona, e molta gente che è stata ingannata non resiste alla tentazione di scaricare su altri la perdita che bisogna subire. Ho incontrato questa sera, nella via de la Tixeranderie, una brigata di donne che si recavano alla Comune; esse portavano quasi tutte berretti rossi; gran folla di popolo le seguiva con applausi che potevano sembrare anche scherni; ho fatto come gli altri; ho camminato dietro a loro, poichè ero curioso di sapere il motivo della loro dimostrazione. Avendo incontrato il cittadino Leliévre, questi mi introdusse nella Casa comune. Le donne v'erano già. Ma né il loro costume né la loro manifestazione furono trovate di suo gusto dal cittadino Chaumette, che rivolse loro un discorso molto sensato e le rimandò alle loro case.
" 28 brumaio. Siamo stati questa mattina alle Conciergerie; mentre mi trovavo nell'anticamera della cancelleria, due cittadini che eran condotti all'interrogatorio sono passati di là: uno di essi, che mi si disse essere il cittadino Boisguyon, un militare, mi si avvicinò, e mi disse con la più perfetta cortesia
- Ho ben l'onore di parlare col cittadino esecutore, è vero? Vorrei assicurarmi, cittadino, che presso di voi avviene quello che avviene al ballo: appena si é a posto, i violini, voglio dire il coltello, attaccano la musica in tal maniera che non si ha il tempo di dire più di due parole.
Risposi che era proprio così.
Allora, volgendosi al suo camerata, egli disse
- Vedete, Dupré, che io avevo ragione, e che voi avete rappresentato abbastanza male il vostro personaggio. Decisamente, bisognerà domandare a Fouquier di permettere al cittadino di venir a dirigere le nostre prove.
I gendarmi li trassero via, ma si sentivano le loro risate mentre se ne andavano. Colui aveva fatto allusione a una parodia del supplizio che è divenuta la grande distrazione dei prigionieri. La gaiezza di questa gente mi spaventa.
" 1 brinaio. Siamo andati oggi a prendere il povero cittadino Boisguyon, che s'era tanto divertito della ghigliottina. Quando lo si trasse fuori, egli mi disse
- Oggi si fa sul serio; voi sarete stupito di vedere come io so la mia parte.
Con lui c'era Girey-Dupré, complice di Brissot nella redazione del Patriote francais. Un condannato del tribunale criminale, Colombier, un campagnolo, fabbricatore di falsi assegnati, doveva morire con loro. Il contadino era molto costernato; egli cercava di provare al cittadino Boisguyon che egli non era colpevole. Questi si provava a consolarlo, e gli disse
-- Se morendo due volte potessi salvarti, io ben volentieri mi presterei all'esperienza, poichè ora che ci sono, ciò mi sembra veramente un'inezia; ma dacchè la cosa é impossibile, serba le tue ragioni per il buon Dio, davanti a cui ci troveremo in meno di due ore.
Mentre passavamo per la via Honorè, due donne si fecero vedere alla finestra della casa dove abita il cittadino Robespierre. Girey-Duprè, che stava mostrando questa casa a Boisguyon, le ebbe appena vedute, che incominciò a gridare con tutta la forza
- Abbasso il Cromvell! Abbasso il dittatore, il tiranno!
Juglet, ufficiale dei gendarmi, volle farlo tacere, ma non ci riuscì.
Colombier fu giustiziato per primo, Boisguyon venne dopo : egli fu tranquillissimo sino alla fine. Quando Girey fu sulla piattaforma, egli volle parlare al popolo. Ma avevamo ordine d'impedirlo; bìsognò afferrarlo per poterlo legare! Egli gridò parecchie volte : Viva la Repubblica!
" 9 brinaio. Oggi cinque teste cadute: due erano di uomini celebri : quella di Barnave, ex deputato, che il giorno del ritorno del re, avevo veduto nella vettura reale a fianco di Maria Antonietta, e quella di Dupont du Tertre, che era stato ministro della giustizia. Si è detto che il cittadino Danton aveva cercato di salvare Barnave; ma con la legge che si é fatta, la denunzia d'un fanciullo basta per mandare un uomo al patibolo, e la volontà del primo cittadino della repubblica non basterebbe a liberarlo. L'esecuzione doveva farsi ieri, ma la seduta è finita tardi e il tempo era così cattivo che si dovette rinviarla a questa mattina. I condannati devono al gelo di essere vissuti un giorno di più.
Barnave e du Tertre erano molto coraggiosi, e del tutto tranquilli. Il primo mi é venuto incontro, e mostrandomi le mani mi ha detto
- Lega queste mani che sono state le prime a firmare la dichiarazione dei Diritti dell'Uomo.
C'erano due carrette. I cittadini ex deputati montarono con me nella prima; i tre altri nella seconda con Enrico. Durante il percorso, i due condannati continuarono a conversare; essi parlavano della Repubblica e pretendevano che la sua prossima rovina avrebbe travolto con sè la libertà. Non mancarono le grida intorno alle carrette. Ci fu taluno che disse in tono canzonatorio
- Così giovane, così eloquente, così coraggioso, davvero è peccato!
E Barnave rispose con molta fierezza:
- Voi l'avete detto.
Una condannata, la Vervitch, fu giustiziata per prima; la si è portata sul patibolo mezza morta di paura. Poi si è ghigliottinato suo fratello, un curato, poi Benoit Grandel che piangeva, quindi Dupont du Tertre, e Barnave per ultimo. Egli guardò la ghigliottina con molta attenzione e disse
-- Ecco quella che ricompenserà i servizi da me resi alla libertà.
" 10 brinaio. Ho condotto questa mattina due carrette dalla Conciergerie alla Piazza della Rivoluzione. Non avevo, come ieri, di quei grandi cittadini che ci vuole una vettura per loro soli; ma la quantità poteva indennizzare i curiosi, poiché erano cinque nell'una e quattro nell'altra, nove in tutto. Tra altri, una madre e un figlio; bisognò separarli a viva forza per legarli, tanto si tenevano strettamente abbracciati.
Ella fu giustiziata per prima, e sulla piattaforma mi diceva
- Non é vero che la sua grazia verrà?
Credo che ella fosse persuasa che suo figlio fosse stato condotto colà soltanto per ridurla alla disperazione, ma che egli non sarebbe stato giustiziato. Non ho avuto il cuore di contraddirla. Egli era tanto giovane : ventitrè anni.
"17 brinaio. La signora Dubarry é stata condannata iersera e giustiziata questa mattina. Noi eravamo al tribunale secondo l'ordine, già alle nove, ma si é dovuto aspettare perchè la condannata era chiusa col giudice Denizot e il cittadino Royer, i quali registravano le sue rivelazioni. Alle dieci furono condotti lì i cittadini Vandenoyer, che erano tre, il padre e due figli, tutti complici della signora Dubarry, e due altri condannati per falsificazione d'assegnata. Mentre si faceva la toilette di costoro, é giunta la signora Dubarry. Ella camminava reggendosi al muro, poiché le gambe le si piegavano sotto. Da vent'anni non la vedevo, e non l'avrei riconosciuta: ella era sfigurata tanto dalla pinguedine quanto dai tormenti dell'angoscia. Quando mi vide dietro gli altri condannati già legati, ella gettò un grande ah! nascondendosi gli occhi sotto il fazzoletto, e si lasciò andar ginocchioni gridando
- Non voglio! Non voglio!
Si rialzò quasi subito e disse
- Dove sono i giudici? io non ho dichiarato tutto, non ho confessato tutto.
I cittadini Denizot e Royer erano dai Ricard, insieme con due o tre deputati curiosi di veder passare la povera donna: essi arrivarono quasi subito, ma rifiutarono di rientrare nella cancelleria e le imposero di parlare senz'altro. Ella denunziò allora alcuni oggetti preziosi che erano nascosti nella sua casa di Lucienne o confidati a diversi privati; ma si interrompeva ad ogni momento per lamentarsi, e parecchie volte divagò come se il suo spirito si smarrisse nella febbre. Il cittadino Royer, che teneva la penna, le diceva allora: - E' qui tutto? - e cercava di farle firmare il processo verbale; ma ella respingeva la carta, assicurava di aver qualche cosa da aggiungere; si vedeva che ella cercava nella sua memoria. Forse ella credeva che per quelle somme da lei abbandonate alla confisca le si sarebbe concessa la grazia, e mai, nei suoi tempi felici, ella non aveva così ardentemente desiderato le ricchezze come ora che ella sacrificava per guadagnare qualche minuto sulla morte. Alfine, i cittadini Denizot e Royer si alzarono, e le dissero con molta durezza che bisognava sottomettersi ai decreti dalla giustizia e riscattare col coraggio l'ignominia della propria vita passata. Ella rimase come annientata sulla sua seggiola. Un aiutante si avvicinò, credendo buono il momento per tagliarle i capelli; ma al primo colpo di forbici ella si alzò e lo respinse; ci vollero due altri uomini per aiutarlo a legarla. Allora ella lasciò fare; soltanto piangeva come non ho mai visto piangere. C'era lungo il fiume tanta gente come per la uscita della Regina e dei deputati girondini. Si gridava, ma gli strilli della vittima superavano sempre tutte le grida del popolo. Dopo un centinaio di passi, non si sentiva più che lei. Ella diceva:
- Buoni cittadini, liberatemi, sono innocente! vengo dal popolo come voi; buoni cittadini, non mi lasciate morire!
Nessuno si moveva, ma cittadini e cittadine abbassavano la testa e non le scagliavano più ingiurie. Mai non avevo visto il popolo così mansueto. Non riconoscevo più gli spettatori della ghigliottina, e tuttavia erano gli stessi che avevo visto così duri per il cittadino Bailly, tanto coraggioso. A momenti, ella smetteva di gridare; da violetto che era, si vedeva il suo viso divenire tutto bianco. Ella s'abbandonava agli sbalzi della carretta come morta; ne era gettata di qua, di là; sarebbe caduta dieci volte se mio figlio non l'avesse sostenuta. Talvolta ella si rivolgeva a me, dicendomi:
- No, non è vero che voi non mi farete morire?
I suoi denti battevano, e la voce le veniva rauca e secca dalla gola. lo mi sentivo voglia di piangere come gli altri, e più amaramente degli altri, poichè l'avevo conosciuta in gioventù, e avevo conosciuto suo padre. Malgrado ogni mio sforzo per vincere la commozione, mai il tragitto m'era sembrato così lungo. Una volta la consigliai di pregare, ché ciò l'avrebbe certamente confortata. Le preghiere non le tornarono più alla memoria; ella diceva :
- Mio Dio! Mio Dio! - senza trovar altro.
Allora ella ricominciava le sue implorazioni ai cittadini. L'ordine era di giustiziarla per ultima; ma quando discesi, il cittadino usciere mi disse di governarmi come credevo meglio. Poiché al vedere la ghigliottina ella aveva avuto un deliquio, dissi di farla salire subito; ma appena ella si senti le mani addosso, riprese i sensi e, sebbene legata, rigettò gli aiutanti gridando:
- Non ora, non subito; ancora un momento, signori boia; ancora un momento, ve ne prego!
Fu trascinata; ma ella si dibattè e cercò di mordere. Era forte, quanto corpulenta, giacchè, sebbene fossero quattro, gli aiutanti impiegarono più di tre minuti a farla salire. E se ella non li avesse riscaldati malmenandoli, non so se ne sarebbero venuti a capo, tanto erano costernati. E popolo altrettanto : nessuno diceva parola; e molti si sbandavano da ogni parte, come in rotta. In alto, la cosa ricominciò; ella urlava; si doveva sentirla dall'altra parte del fiume; ella era spaventevole a vedersi; infine essi riuscirono a stringerla nelle cinghie, e fu fatto. Poi si giustiziarono gli altri.
" 31 brinaio. Mentre passavo oggi davanti al caffè di Chrétien, sono stato veduto dal cittadino Guffrov, deputato alla Convenzione e giornalista. Credo che egli fosse molto ubriaco; difatti, uscito, egli mi teneva dietro gridando e mi mostrava ai cittadini:
- Ecco l'uomo che batte duro! Quando costui vi rade un aristocratico, state sicuri che non gli rispunta il pelo. Ecco il più solido lavoratore della Repubblica; finchè egli avrà lavoro tutto camminerà!...
Egli voleva che andassi a bere con lui da Chrétien; ma io ho avuto vergogna per lui e mi sono messo in salvo.
" 2 nevoso. Oggi una sola esecuzione.
" 3 nevoso. Pare che Collot d'Herbois, in missione a Lione, abbia destituito la ghigliottina, che ha il torto di ucciderne solo uso alla volta, e che egli faccia mitragliare i condannati. Una deputazione di cittadini lionesi è venuta a denunziare questi fatti alla Convenzione; ma la loro protesta, un po' fiera per una città che fino all'altro giorno era in stato di ribellione, ha eccitato grandi mormorii.
" 15 nevoso. Ho pagato trenta soldi un numero dei Vieux Cordelier, dal cittadino Desmoulins. E il quinto. I fattorini del cittadino Desenne non bastano a distribuirlo. Hébert ha trovato chi gli fa la lezione: tutti ridono della scarica di legnate che gli é appioppata da Camillo Desmoulins. Da quando un patriota inattaccabile come questo ha osato parlar di clemenza, pare che i visi di quanti s'incontrano siano meno lunghi e meno foschi. Si è sicuri che Danton, l'amico di Camillo, sia dietro di lui, e che essi sapranno aver ragione, loro due soli, di quelli che vogliono ogni mattina il battesimo della Repubblica sotto la ghigliottina. Bisogna ora sapere se Robespierre vorrà lasciar loro il beneficio di una così grande popolarità.
" 23 nevoso. Adriano Lamourette, vescovo costituzionale di Lione, ha subito il supplizio. Lo si è molto svillaneggiato durante il tragitto, ed egli benediceva i suoi insultatori senza che il suo viso tradisse la più piccola emozione. In memoria del suo discorso del luglio 1792, gli si gridava:
- Bacia Carletto, Lamourette; andiamo, bacia Carletto!
Senza essere per nulla confuso, egli mi disse
-- Sì, bacierò in te l'umanità che, per quanto folle e furiosa divenga, è sempre l'umanità.
E difatti, nel momento che si stava per chiuderlo nelle cinghie, egli mi baciò.
" 16 pluvioso. Mai si è stati così sprezzanti della vita. ln altri tempi, quando mi presentavo in una prigione, facevo paura ai più spavaldi; oggi, dei prigionieri che incontro nei corridoi, nella cancelleria della Conciergerie, non ce n'è uno che sembri pensare alla possibilità che io venga domani per lui; ve ne sono di quelli che mi sorridono; questi sorrisi mi fanno un effetto singolare. Ho potuto abituarmi all'orrore che noi eccitiamo; ma abituarsi a condurre alla ghigliottina persone che s'affrettano a dirvi "grazie", é cosa ben altrimenti difficile. In verità, a vederli tutti, giudici, giurati, prevenuti, li si crederebbe malati di un male che bisognerebbe chiamare il delirio della morte. Dove e quando ciò finirà? Un prigioniero chiedeva l'altro giorno a Toustin; - Che potrei fare per essere ghigliottinato subito? -- Questi impazienti non sono forse i più coraggiosi; ce ne sono altri che rimangono calmi, freddi e metodici, come se cento anni dovessero scorrere dall'oggi al domani: i più forti temperamenti sono questi.
" 15 ventoso. Nella loro seduta di iersera, i Cordelieri hanno proclamato l'insurrezione. Recandomi alla Conciergerie, non ho notato alcun sintomo di commozione: i gruppi non erano nè più numerosi ne più rumorosi degli altri giorni. Se la giornata é stata tutta simile al mattino, il « Père Duchesse » potrebbe bene imparare a proprie spese se il rasoio nazionale ha decisamente il filo, come esso diceva. Intanto però il popolo della ghigliottina, cioé proprio il popolo dei Cordelieri, era tutto riscaldato dai discorsi che aveva udito. Mai i condannati sono stati assaliti con tanta vivacità; lungo il fiume si è gridato « In acqua gli aristocratici! » ciò che ancora non si era fatto, e si è tentato di forzar la mano ai gendarmi.
" 20 ventoso. Il partito di Ronsin e di Hèbert ha tentato di sollevare la Comune. Essi hanno domandato che la dichiarazione dei Diritti restasse velata finchè il popolo avesse sterminato i suoi nemici. Li si è ascoltati, ed é stato tutto: nessuno si è mosso, nemmeno Chaumette che è uno dei loro! Da questa mattina li si diceva arrestati; la voce è falsa. Siamo stati in Piazza della Rivoluzione per un solo condannato, il che disgraziatamente è divenuto un caso molto raro.
" 24 ventoso. La notte scorsa Ronsin, Vincent, Hébert, Momoro, Laumur, Ducroquet, Ancard sono stati arrestati. I particolari della cospirazione fanno fremere; si dice che essi avevano formato il disegno di ricominciare le giornate di settembre, e che dovevano saccheggiare la Zecca e il Tesoro pubblico. Però il discorso del cittadino Saint-Just, e soprattutto il decreto della Convenzione che punisce come complice ogni individuo che nasconderà presso di sè o altrove i condannati posti fuori della legge, ha messo un po' di nero nella gioia cagionata dall'arresto degli arrabbiati.
" 1 germinale. Il processo dei Cordelieri, Vincent, Hébert e compagni, é incominciato questa mattina. Tornando dalla Piazza della Rivoluzione, dove avevamo avuto due giustiziati, il cittadino Fouquier avendomi ordinato di rimanere in permanenza finché durasse il processo, sono entrato nella sala delle udienze. Erano venti sul banco. Hébert era pallidissimo, e molto abbattuto: parlava balbettando; Ronsin e Momoro avevano l'aria di sfidare i giudici; quel piccolo scellerato di Vincent si agitava come un diavolo. Riviére mi ha raccontato che i primi giorni essi litigavano tra loro, accusandosi vicendevolmente della propria perdita. Fu Anacarsi Clootz a far loro comprendere che queste recriminazioni non servivano che a rendere più miserabile la loro sorte.
" 3 germinale. Clootz era oggi triste al processo, ma serbava molta calma e molta dignità. Egli aveva fatto un opuscolo, La Repubblica universale, dove si dichiarava nemico personale del buon Dio e sosteneva che al suo posto si dovesse mettere il popolo, sovrano del mondo; che l'universo si sarebbe riunito al popolo francese, che era il popolo-dio, per formare la sua grande Repubblica; gli si è amaramente rimproverato questo scritto, e Renaudin ha preteso che egli lo aveva composto soltanto per dare un pretesto alle coalizioni di teste coronate contro la Francia. Clootz gli rispose:
- Non mi si può sospettare di essere partigiano dei re; sarebbe cosa straordinaria che l'uomo meritevole del rogo a Roma, della forca a Londra, della ruota a Vienna, fosse ghigliottinato a Parigi.
Clootz è un pazzo in buona fede, che merita una doccia d'acqua fredda, ma non una doccia di ferro. Se le sue messe della Dea Ragione erano uno scandalo, almeno egli non era sanguinario come gli altri, e non ha fatto male a nessuno. E poi, bisogna dirlo, i procedimenti del tribunale sono così singolari, che trovano qualche cosa d' interessante per tutti quelli che ci vengono dinanzi; ho sentito rimproverare a Clootz d'essere nato prussiano e ricco; é tanta ingiustizia diventa una bestialità.
" 4 germinale. L'esecuzione si é fatta oggi. Diciannove accusati erano stati condannati; uno solo assolto, il cittadino Laboureau, studente di medicina. La cittadina Giovanna Latreille, moglie del defunto generale Quétineau, aveva fatto dichiarazione di gravidanza, e aveva ottenuto la sospensione.
Ronsin è arrivato per primo; il suo passo era libero e fiero, come se avesse ancora i suoi perdigiorni dietro di lui. Clootz aveva pure tutto il suo sangue freddo; egli continuava la sua missione d'apostolo e predicava ai suoi camerati, esortandoli a non smentire i loro principi. Essendosi Descombes raccolto un istante. Clootz suppose che egli pregasse e gli rimproverò molto vivacemente la sua viltà. A Hébert non restava nemmeno la forza d'alzar le gambe; i suoi piedi si trascinavano; era vestito con eleganza, come ne aveva l'abitudine, con un orologio in ciascun taschino; ma le sue vesti erano in disordine, il viso livido come se il ferro della ghigliottina fosse già passato per il suo collo; egli piangeva, il sudore gli colava a grosse gocce dalla, fronte. Tanta viltà doveva impietosire, ma essa eccitava la collera di Ronsin : egli si rivolse a Momoro, che era lui pure alquanto abbattuto, e gli disse:
- Noi avevamo messo le nostre teste come posta del giuoco; abbiamo perduto la partita: bisogna pagare da uomini di fegato.
Quello che è abbastanza strano, i vagabondi e le donnacce che formano la nostra scorta consueta, e ai quali i progetti della banda Hébert non potevano spiacere, si sono mostrati i più accaniti contro di lui. Gli gridarono:
- Fuma dunque la tua pipa, père Duchesne; se l'hai dimenticata sul tuo fornello, ne chiedi in prestito una a Sanson; ma sopra tutto sta attento a non rompergliela.
- Eh, père Duchesne, tu vai a guardare dalla lunetta; ci dirai domani sul tuo giornale ciò che si vede.
- Tu prendevi dodici soldi per i salassi, père Duchesne; Carletto è più generoso di te, e ti salasserà per nulla.
Tanto valeva insultare un cadavere: Yébert non doveva sentir più nulla; i suoi occhi erano torbidi come gli occhi d'un morto. Quando lo si fece discendere dalla carretta si dovette metterlo a sedere sul lastrico, poiché era stabilito che egli fosse giustiziato per ultimo. Fouquier, forse per compassione di Clootz, aveva ordinato che egli salisse primo; egli rifiutò; voleva - così disse -- vedendo cadere la testa dei suoi compagni, fortificarsi nella sua incredulità all'altra vita e metterli in impegno di fare come lui. Ci fu una discussione tra lui e me. Ma il cittadino usciere mi fece segno di acconsentire, ed io cedetti. Descombes fu giustiziato per primo; poi gli altri. Il coraggio di Ronsin non si smentì un solo minuto. Quando non rimasero più che Clootz e Hébert, dissi a quelli che erano giù di condurre quest'ultimo. Nel suo annichilamento, egli comprese tuttavia che era la morte; ricuperò la parola, e disse:
- Non ancora! -
Clootz lo sentì, e si slanciò verso la scala, gridando:
- Viva la fratellanza di popoli! Viva la repubblica del mondo!
Si fece salire per ultimo Hébert, che fu assicurato sull'asse; egli era come svenuto. Feci segno a Larivière, che stava alla molla; ma, sia che egli non avesse veduto, sia piuttosto che volesse lusingare la rabbia del popolo contro il Père Duchesse, egli non mi obbedì. Mi slanciai allora da quella parte, e sciolsi io stesso la corda che tien sospeso il coltello.

AL LIBRO SETTIMO - DANTON > >


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