le PRINCIPESSE SABAUDE

nelle corti d'Europa

5a PARTE:
periodo
1756-1944


MARIA TERESA, Contessa d'Artois
CAROLINA, Principessa di Sassonia
MARIA FRA.CA ELISABETTA, Arciduchessa d'Austria
MARIA ANNA CAROLINA, Imperatrice d'Austria
ALTRE PRINCIPESSE in breve, fino a MAFALDA

MARIA TERESA DI SAVOIA
Contessa D'Atois ( 1756 - 1805 )

Sorella della Contessa di Provenza, essa pure entrò nella Casa di Francia, ove non doveva essere felice, nè come sposa, nè come madre.
Maria Teresa di Savoia, Contessa d'Artois, la quale, se fosse vissuta, sarebbe diventata Regina, era nata a Torino, il 31 gennaio 1756 da Vittorio Amedeo III, Re di Sardegna, e da Maria Antonia Fernanda di Spagna, la quale aveva sangue italiano nelle vene, essendo figlia di Elisabetta Farnese. Ricevette nell'austera Reggia di Torino, una buona educazione, che la finezza dei modi e l'eleganza del parlare, facevano ancor più risaltare. In famiglia la chiamavano col diminutivo di « Teza » : era ancora una bambina, allorchè si cominciò a parlare del suo accasamento con vari principi italiani e stranieri. Quando, nel 1771, la di lei sorella maggiore Maria Giuseppina, - sposò il Conte di Provenza, dicono ch'essa ne invidiasse la fortuna: il suo turno non doveva mancare. Infatti circa due anni dopo Luigi XV, visto fallire un progetto di matrimonio per il suo terzo abbiatico Carlo Filippo di Borbone Conte d'Artois con la principessa Luisa di Condè, chiedeva la di lei mano. Vittorio Amedeo III era stato sul punto di rifiutare; riteneva che la Casa di Savoia fosse già sufficientemente imparentata con quella di Francia. Tuttavia aveva finito per accondiscendere (marzo 1773).
L
e nozze per procura venivano celebrate il 16 settembre seguente.
Si fecero le stesse feste, che erano state fatte per la Contessa di Provenza, indi Maria Teresa, della quale La Rocheterie ci lasciò un ritratto fisico poco lusinghiero, partiva per la Francia ricevuta a Chamberì dal marchese di Brancas, Inviato speciale del Re Luigi.
A Nemours s'incontrò con la Contessa di Provenza, la quale, aiutata dal duca d'Aiguillon, dalla contessa Du Barry, e dal conte Della Marmora, Ministro sardo a Parigi, aveva avuto una parte preminente nella conclusione di questo matrimonio.
Per la via di Choisy, la principessa sabauda giungeva a Fontainebleau il 14 novembre, ove ad accoglierla si trovava il Re con tutta la Corte. Per lo sposo Conte d'Artois, più giovane di lei di quasi due anni, bello, spensierato e gaudente, tutto dedito a facili amori, Maria Teresa non era la moglie ch'egli avrebbe desiderata, tuttavia se ne dimostrò contento.
Benedisse le nozze a Versailles il Cardinale De la Roche-Aymon, Arcivescovo di Reims, Grande Elemosiniere di Francia; dopo la messa solenne, gli sposi ricevettero infiniti regali, fra i quali una artistica cassetta dal Re, piena di gioielli. Nel pomeriggio dello stesso giorno vi fu gioco nella galleria del castello, nella quale si pigiava una folla enorme venuta da Parigi. Dalla stessa città a complimentare il Conte e la Contessa era giunta una Commissione di deputati, la quale oltre che presentare doni, aveva l'incarico d'invitare gli sposi a nome del municipio, presieduto dal duca di Brissac, ad un grande ballo mascherato.
Questo ebbe luogo infatti il 25 seguente, e per l'occasione narra Hardy, vennero distribuite doti a orfane della capitale. La festa era stata preceduta da una visita di tutta la famiglia reale, a S. Dionigi, ove in un monastero della città, viveva nella penitenza e nella preghiera, Madama Luisa di Francia, figlia di Luigi XV.

S
ubito dopo la celebrazione dello sposalizio, Maria Teresa ebbe rango a Corte ed una casa composta di quasi 250 persone, per l'installazione della quale si spesero tre milioni. Terminate le feste, essa faceva, col marito, l'ingresso ufficiale, nella capitale, recandosi a rendere grazie a Santa Genoveffa, patrona della città. Il Bachaumont, afferma che essa non fece alcuna impressione sul popolo, che perciò le fu avaro di battimani e di applausi: alla Corte non aveva suscitato che una mediocre simpatia, pur essendo di carattere gioviale, ricca di motti spiritosi, ed avendo, come dice Madama Campan, nelle sue Memorie, « un très beau teint, un visage gracieux » e una bocca con una bella dentatura. La baronessa di Oberkirch, che l'avvicinò sovente, ce la descrive a sua volta «piccola di statura, dolce di carattere, ingenua, generosa e dotata delle più ammirevoli qualità. Aveva una bella carnagione, ma con un naso troppo grosso».
Il Turquan aggiunge ch'essa era intelligente, ma che non sapeva due parole di francese, affermazione quest'ultima che stentiamo a credere, dato che alla Corte di Torino, la lingua francese era di uso corrente.
La fresca e sfavillante bellezza di Maria Antonietta d'Austria, moglie del Delfino, eclissava d'altronde tutto il mondo femminile della Corte.
Maria Teresa aveva trovato a Versailles, oltre la sorella, anche una cugina: Maria Teresa di Savoia Carignano, principessa di Lamballe, con la quale tuttavia non ebbe mai grande dimestichezza.
Timida, ma altera nello stesso tempo, non volle mai rivolgere la parola alla favorita del Re, la contessa Du Barry, la quale pure aveva contribuito a fare riuscire il di lei matrimonio col Conte d'Artois. Dicono le cronache del tempo che lo facesse per ubbidire ai suggerimenti delle figlie di Luigi XV, e di Maria Antonietta, quantunque la Contessa di Provenza la consigliasse in senso contrario, onde non irritare il Sovrano. Da Torino veniva ugualmente spronata ad essere meno rigorosa, per non farsi una nemica dell'onnipotente favorita.

La Corte del vecchio e dissoluto Luigi XV non era certamente una scuola di morale: dalla Reggia severa di Torino, alle frivolezze galanti di Versailles, quale differenza ! La giovane Principessa che non aveva neppure molta confidenza con la sorella maggiore, si trovò dapprima come sperduta in un ambiente così vasto, saturo di cabale, di pettegolezzi e di maldicenza. Essendo sposa del terzogenito di Casa Reale, e quindi lontana dal trono, non aveva nessuna influenza a Corte, e tanto meno sul marito, giovane di distintissimi modi, ma leggero, spensierato all'eccesso, spaventosamente prodigo, tanto che si calcola a cento milioni la somma da lui spesa, in feste e in regali alle favorite, dall'epoca del suo matrimonio al 1789. Con la sua condotta dissoluta egli seminava la rivolta a piena mani: l'imperatore Giuseppe II, allorchè venne a Versailles, lo aveva
definito un "flagello" !
Maria Teresa, pure prendendo parte a tutti i divertimenti di Versailles, « mena la vie plus modeste et la plus effacés » : è il Reiset che lo afferma. Abitava l'antico padiglione detto dell'Elettore Palatino e qui sovente amava dimenticare l'etichetta.
* * *

Dopo la morte del Re (10 maggio 1774) la sua posizione migliorò notevolmente: con la sorella Contessa di Provenza s'interessò molto alla conclusione del matrimonio di suo fratello, Carlo Emanuele con la Principessa Clotilde di Borbone sorella del nuovo Re Luigi XVI. Nè la Regina Maria Antonietta nè la sorella, avendo dati eredi alla corona, su di essa che, nel breve svolgere di pochi anni, aveva avuto quattro figli, due maschi il Duca d'Angouléme e il Duca di Berry, e due bambine, morte queste ultime in tenera età, si fissarono le speranze della Corte e della nazione. Intorno a lei crebbe il favore, fino al 1781, nel quale anno nacque il Delfino, essa ebbe un partito detto piemontese, dei quale conduceva le fila il conte di Viry, Ambasciatore sardo a Parigi. Le sue relazioni piuttosto fredde con Maria Antonietta, divennero da questo momento quasi ostili.
Il marito, pure seguendo in sordina questa politica, con essa non aveva quasi più nessun rapporto coniugale. Vivace ma debole, di carattere turbolento, egli era il Galaor della Corte, ove le donne non vivevano che per esibirsi agli uomini. I di lui legami scandalosi con la contessa di Contat, con la De Guiches, con le artiste Duthé e Lange ed infine con Lady Barrimore e con la contessa di Polastron, formavano l'argomento, si può dire quotidiano, delle chiacchiere della Corte. Per queste due ultime favorite, da qualcuna delle quali ebbe anche dei figli, egli profondeva somme fantastiche. Nel suo castello di Bagatelle, le orgie non avevano limite e suscitarono scandalo enorme.
Maria Teresa tentò prima di reagire contro l'indifferenza e l'abbandono del marito, ma dopo il clamoroso duello di lui col Duca di Borbone, avvenuto per futili motivi di donne in un ballo mascherato all'Opera, aveva finito per appartarsi lentamente dalla Corte, ove non faceva che rare apparizioni in occasione di qualche cerimonia solenne. Profondamente offesa da tanta condotta del consorte, si consacrò unicamente all'educazione dei figli, suo unico conforto.
Allorchè egli visitò la Francia e fu anche nelle Fiandre, non volle con se la moglie; dopo lo scandalo del duello col Duca di Borbone, si era recato in Spagna all'assedio di Gibilterra contro gli inglesi (1782). Di ritorno in patria riprese l'antica vita di prima, vivendo separatamente dalla moglie, alla quale abbandonò la cura dei figli.
Quando sul finire del 1788, si trattò di un matrimonio fra il suo primogenito e la Principessa Adelaide d'Orleans, diede il proprio consenso con entusiasmo. Queste trattative vennero però troncate, dall'opposizione della Regina Maria Antonietta, la quale desiderava il Duca d'Angoulème per sua figlia Maria Teresa.
Malgrado la riservatezza che la Contessa d'Artois metteva in ogni sua azione, la calunnia non la risparmiò. I nemici della monarchia erano legioni, e non avevano riguardi per nessuno: basta pensare a quante se ne dissero e stamparono sul conto della Regina.
Si disse dunque e si pretese che la Contessa avesse, per vendicarsi del marito, preso per amante il Des Granges, capitano dei corazzieri della guardia del Conte. Chi raccolse questa infame diceria fu il Kagenaeck, quello stesso, che nella sua corrispondenza, parlando alla Principessa, l'aveva descritta timida al punto di « nascondersi dietro la cortina del letto, allorchè doveva vestirsi davanti a parecchie persone ». Quando il Des Granges, un millantatore per eccellenza, venne arrestato per ordine del Re, preso da rimorso, smentì nel modo più formale la vile calunnia, che fu tuttavia ripetuta tanto dal Gen. Thiebault quanto dalla Contessa di Boigne nelle loro Memorie.
Mentre tutti alla Corte andavano a gara nel divertirsi e nel commettere errori sopra errori, follie sopra follie, che dovevano poi espiare terribilmente, la rivoluzione si avanzava formidabile a spazzare via il trono.
Maria Teresa, apparve in pubblico, credo per l'ultima volta il 4 maggio 1789, con tutta la famiglia reale, alla processione solenne che precedette a Versailles, l'apertura degli Stati Generali.
Il giorno dopo la presa e la distruzione della Bastiglia, per opera del popolo in rivolta (14 luglio) Luigi XVI, sapendo quanto il fratello Conte d'Artois, fosse malvisto da tutti per gli scandali della sua vita privata, gli ordinò di recarsi a fare un viaggio all'estero. Partì da Versailles infatti nella notte dal 17 al 18 luglio col principe di Henin, capitano delle sue guardie, col Principe di Condè e con numerosi gentiluomini; i figli che erano in educazione a Beauregard, lo raggiunsero a Valenciennes col loro precettore il duca di Serent. La comitiva prese la via di Bruxelles e di là per la Germania, ove il Conte s'incontrò con la sua bella amica, la contessa di Polastron, si portò in Italia: Vittorio Amedeo III, di lui suocero gli offrì un conveniente asilo in alcune case presso il Castello di Moncalieri. Il giorno 20 settembre, giungeva pure a Moncalieri Maria Teresa, alla quale il padre aveva scritto in precedenza invitandola ad unirsi al marito ed ai figli.
In Piemonte, tanto il Conte che la Contessa, furono accolti con grandi dimostrazioni di affetto da tutta la famiglia reale, vennero ossequiati da Choiseul, ministro di Francia e da pochi emigrati che li avevano preceduti. Il loro seguito si componeva di ben 85 persone tutti sprovvisti di mezzi, per cui il Re, per fare fronte ai loro bisogni, dovette prendere denaro a prestito da alcuni banchieri genovesi.
Col sopraggiungere dell'inverno la Corte faceva ritorno a Torino ove la Principessa che era amicissima della cognata Maria Clotilde di Francia, si diede a condurre vita ritirata. La misera donna era così ulcerata dalla condotta del marito, il quale non si occupava che della contessa di Polastron giunta essa pure a Torino, che minacciò di ritirarsi in un monastero. Ci volle l'intervento del Re, della Principessa Maria Clotilde e dell'Arcivescovo di Torino, per dissuaderla da simile proposito.
Vittorio Amedeo III, era indignato egli pure oltre ogni dire del modo di vivere del genero; era poi inquieto delle controversie degli emigrati francesi, i quali tenevano un contegno, che era oggetto di riprovazione da parte della cittadinanza. Unica consolazione per il vecchio sovrano erano i nipotini Angoulème e Berry, i quali frequentavano con profitto la scuola d'artiglieria di Torino. Entrambi intelligenti e studiosi, il primo era di carattere piuttosto malinconico, mentre il secondo era sempre d'umore gaio.
Il Conte d'Artois, dopo di essere stato a Venezia con la Polastron, aveva cercato un rifugio in Spagna, che gli era stato rifiutato (1790): l'anno seguente era andato a ricevere le zie Vittoria e Adelaide anch'esse fuggiasche, e nel giugno si era portato nel Belgio, ad incontrare il fratello Conte di Provenza, fuggito con la consorte da Parigi, ove la loro vita era minacciata.
Si era rivolto pure per aiuto ai sovrani d'Europa, e per quanto si fosse anche abboccato con l'Imperatore a Mantova, non aveva ottenuto che vaghe promesse.
Per potere meglio sorvegliare gli avvenimenti che si svolgevano in Francia, si era infine diretto a Coblenza, presso lo zio l'Elettore Arcivescovo Clemente di Sassonia; fu durante il suo soggiorno in questa città, che dal fratello Conte di Provenza, proclamatosi Reggente di Francia, dopo la morte di Luigi XVI, veniva nominato Luogotenente Generale del Regno.
Nel maggio dell'anno seguente giungeva a Torino Maria Giuseppina di Savoia: le due sorelle si rivedevano in un ben triste stato. Tutte e due povere e trascurate dai rispettivi mariti e senza mezzi di sussistenza; gli splendori di Versailles erano tramontati per sempre. La Contessa d'Artois non aveva nemmeno il conforto di avere vicino i figli, che il marito aveva voluti con se per arruolarli nell'esercito di Condè: essa non doveva rivederli che assai raramente.
I vittoriosi eserciti della repubblica francese erano intanto giunti intanto alle porte del Piemonte: Vittorio Amedeo III, era morto a Moncalieri il 16 ottobre 1796, ed il suo successore Carlo Emanuele IV, privo di energia e senza alcun prestigio sui soldati, non era tempra da sapere fronteggiare con successo la marea rivoluzionaria, che rumoreggiava intorno a lui. Tradito da una parte del popolo e dell'esercito, ed avendo il gen. francese Joubert, che aveva occupato Torino, puntati i cannoni contro la Reggia, aveva preferito abdicare, vista l'impossibilità di difendersi, e prendere la via dell'esilio. Alle dieci di sera del 9 dicembre 1798, la Famiglia Sabauda, lasciava il palazzo reale dirigendosi verso la Toscana, in cerca d'un porto ove potersi imbarcare per la Sardegna.
La Contessa d'Artois, che aveva preso il titolo ufficiale di « Madama » era rimasta ancora un giorno a Torino : nessuno le mancò di rispetto e quando partì il colonnello francese Allix, le diede una scorta di militari per accompagnarla sino alla frontiera; la misera donna non sapeva dove andare era sola, ed abbandonata da tutti, sua sorella la Contessa di Provenza avendo da circa due anni lasciato Torino.
Il marito, dopo di avere peregrinato per tutta l' Europa con la Polastron, perseguitato dai creditori, si era finalmente stabilito in Inghilterra, ove quel governo gli passava una pensione mensile di 500 sterline. Tutti i suoi tentativi per ottenere soccorsi finanziari, e pure quelli fatti per rientrare in Francia a mano armata erano falliti meschinamente. Maria Teresa, decise di ritirarsi a Merano, ma i francesi avendo minacciato d'invadere anche questa regione si trasferì a Klagenfurth in Carinzia (1799). Quando vi giunse, come si legge in una memoria dell'epoca, essa era «denuée de tout »! Era sprovveduta d'ogni cosa, di vestiario e di denaro e per di più senza credito. Fu tuttavia assai ben ricevuta dal principe Hohenlohe, governatore della città e dal Vescovo Principe di Salm, i quali fecero il possibile per renderle men dura l'esistenza. Dato che il consorte non poteva provvedere al suo sostentamento, per poter vivere decorosamente, dovette fare appello alla generosità dell'Imperatore d'Austria e dell'Elettore di Sassonia, i quali le vennero signorilmente in aiuto con denaro, mettendo inoltre, il primo, a sua disposizione la casa prepositurale. Anche il Re di Spagna, suo cugino, commosso dalle ristrettezze nelle quali versava, le aveva fissato una piccola pensione. Visse a Klagenfurth sotto il nome di Marchesa di Maisons, avendo con sé la duchessa di Lorge, sua dama di compagnia, il marchese di Clermont-Saint Jean, suo scudiero, Bertrando du Cremaux, suo medico, l'abate di Pons, suo confessore, madamigella Du Ponceau, sua lettrice, il Conte e la Contessa di Verac, Claudio du Fresne, vicario del Vescovo di Laon e pochissima servitù.
Nel suo isolamento, erano per lei una consolazione ed una distrazione le lettere che le giungevano dai figli e dalla sorella, la quale stabilita a Mittau in Curlandia, col marito, portava il titolo di Regina di Francia. Il Conte di Provenza infatti, dopo la morte del nipote l'infelice Duca di Normandia; aveva preso il titolo di Luigi XVIII. Egli aveva presso di sé la Principessa Maria Teresa, figlia superstite di Luigi XVI e di Maria Antonietta, alla quale aveva dato per sposo il Duca d'Angoulème. Madama, madre dello sposo aveva già dato sin dal 1796 il suo consenso a questa unione, che si era celebrata a Mittau il 10 giugno 1799, benedetta dal Cardinale di Montmorency-Lavai. Essa peraltro avrebbe preferito, per nuora come si è accennato, la principessa Adelaide d'Orleans, sorella del futuro Luigi Filippo Re dei francesi.
Con la sua malferma salute non potè assistere alle nozze e nemmeno vi assistettero il Conte d'Artois ed il Duca di Berry: mandò in dono agli sposi un servizio per toeletta in argento. Era tutto quanto poteva fare.
Nell'aprile 1800 essendo stato l'esercito di Condè nuovamente riordinato, il Duca d'Angoulème, che ne faceva parte, venne a Pontebba a prendere il comando di un reggimento di cavalleggeri. Trovandosi non molto lontano dalla madre, che non vedeva da qualche anno, egli si recò a riabbracciarla; l'incontro fu commovente ed il distacco doloroso. E anche il Duca di Berry, suo secondogenito, non mancò di andarla qualche volta a trovare.
Le vicende della guerra l'obbligarono a cercarsi un'altra residenza: respinta da Wiener-Neustadt, ove desiderava di stabilirsi, chiese ospitalità ai cittadini di Gratz che furono onorati di concederla. Lasciò Klagenfurth l'11 ottobre 1804, col suo seguito assai ridotto, composto del generale Du Cayla, di Choiseul, di Auteuil e di pochi altri, andando a prendere alloggio in una palazzina della Flengenplatz (piazza delle Mosche). L'abate Pons, che faceva parte della sua casa, dovette peraltro andarsene, non essendogli stato permesso di rimanere con la sua augusta padrona per ragioni politiche. Poveri e ricchi della città si fecero un dovere di andare ad ossequiarla, mentre della famiglia il solo, che si recasse qualche volta a farle visita era il Duca di Berry; questo Principe che doveva poi morire nel 1820, assassinato da Louvel, aveva una fisionomia dolce ed aristocratica, un temperamento un po' esuberante, ma profondamente buono. Tutti i leggittimisti francesi di passaggio per Gratz, si recavano pure loro a riverirla e queste visite erano per lei di grande sollievo.
L'unica persona, che non si curasse dalla sua sorte era il marito, il quale non volle mai che lo raggiungesse in Inghilterra. Quando il 27 marzo 1804 morì la contessa di Polastron a Londra, Maria Teresa sperò un istante ch'egli la chiamasse presso di sè. Vana speranza ! Continuò perciò a vivere nell'isolamento e nell'abbandono, finchè la morte la colse il 2 giugno 1805, per esaurimento.
Morì, ancora giovane, in età di 49 anni e 4 mesi ed ancora oggi a Gratz indicano al forestiero la casa da lei abitata. Dopo i funerali, che furono splendidi, il suo corpo venne sepolto nella Chiesa del Mausoleum dell'Imperatore Ferdinando, ove una lapide con iscrizione latina ricorda la sua memoria.
Parlando del decesso della pia e sfortunata donna sabauda, la « Graetzer Zeitung » dell'8 giugno 1805, scriveva che la sua morte aveva commosso l'intera cittadinanza, « il suo spirito religioso, le sue virtù, la rassegnazione con la quale aveva sopportato tante sofferenze ed il bene ch'essa aveva fatto ai poveri, le hanno acquistato la venerazione e la riconoscenza di tutto il popolo ».
Per testamento Maria Teresa volle che il suo cuore, rinchiuso in una urna d'argento, fosse trasportato a Napoli e deposto accanto alla salma della cognata Maria Clotilde, alla quale l'univa una sincera affezione. Il di lei figlio, il Duca d'Angoulème, molti anni dopo ne eseguì la volontà.
Il Conte d'Artois visse in Inghilterra coi figli sino alla caduta dell'impero napoleonico: rientrato in Francia nel 1814 dieci anni dopo, in seguito alla morte del fratello Luigi XVIII, saliva al trono col nome di Carlo X. Perdette la corona nel 1830, dopo la promulgazione delle famose « Ordinanze » che provocarono la rivoluzione e morì di colera a Gorizia, ove si era ritirato col figlio e la nuora, il 6 novembre 1836.



CAROLINA DI SAVOIA
Principessa di Sassonia ( 1764 - 1782 )
Popolarissima, i buoni torinesi, la chiamavano « la bela Carolin » ed una canzone del tempo,- oggi ancora in voga nel vecchio Piemonte, la ricorda con questi versi:
La bela madamin, la volo mandé
a' l Duca di Sassonia i la volo fé spusé ...
Era « un amore », per cui tutta la cittadinanza la vide partire con grande rimpianto per Dresda, allorchè andò sposa al Principe Antonio Clemente, figlio di Federico Cristiano Elettore di Sassonia e di Maria Antonia di Baviera.
Nata il 17 gennaio 1764, era la quarta figlia di Vittorio Amedeo III, Re di Sardegna, e di Maria Antonia Fernanda di Spagna; numerosa famiglia, quella dei Savoia, unita, tranquilla, e tutta dedita ad una vita intima, sebbene regolata da una rigida etichetta. Non era certamente una Corte gaia quella di Torino: parate militari, cerimonie religiose e qualche rara partita di caccia, erano gli unici svaghi, che ne rompessero la monotonia.
Purtuttavia la giovane Principessa, affezionatissima ai genitori ed ai fratelli, non avrebbe mai voluto sposarsi per non abbandonarli: le rincresceva lasciare Torino, ove tutti l'adoravano, quasi fosse presaga della fine immatura, che l'attendeva nella sua nuova patria.
Allorquando nell'agosto 1781 il Re le partecipò d'averla destinata sposa al Principe Antonio Clemente, scoppiò in dirotto pianto, che diceva chiaramente a Vittorio Amedeo, la riluttanza dell'animo suo per il matrimonio. Il Sovrano rimase un istante perplesso e commosso, ma poi la ragione di Stato la vinse sul proprio sentimento di padre: d'altra parte, giudicò le lacrime della figlia una semplice prevenzione di fanciulla timida, che l'affetto e le premure del futuro sposo, avrebbero dissipate.
Ormai era impegnato con la Casa di Sassonia in modo definitivo, ed un rifiuto all'ultimo momento, avrebbe creato fra le due Case Sovrane, un incidente diplomatico, che era meglio evitare.
A Vittorio Amedeo, d'altronde, premeva assai la conclusione di questa alleanza dinastica, per motivi politici: il Principe Antonio Clemente, rappresentava un magnifico partito sotto tutti gli aspetti; un giorno egli poteva essere chiamato a succedere sia al trono di Sassonia, sia a quello di Polonia, e sua figlia occupare di conseguenza una situazione di primo ordine in Europa, con grande vantaggio per la sua Casa.
Volle anzi, che le nozze si celebrassero con lo stesso sfarzo e col medesimo fastoso cerimoniale usato per le altre sue figlie, Maria Giuseppina, sposata al Conte di Provenza, Maria Teresa sposata al Conte d'Artois, e Maria Anna sposata allo zio, Benedetto Maurizio di Savoia, Duca di Chiablese.
Il Conte Felice Crovetta di Villanovetta, Gran Maestro delle Cerimonie della Corte, ci ha lasciato una descrizioneassai curiosa particolareggiata delle feste celebrate in questa occasione, dalla quale abbiamo spigolato più d'una notizia. Il 22 Settembre 1781, il Conte Marcolini, Inviato Straordinario dell'Elettore di Sassonia, fratello dello sposo, si recava in grande pompa a Moncalieri, ove soggiornava la Famiglia Reale, a fare la domanda ufficiale della mano della Principessa Maria Carolina, per il Principe Antonio Clemente. Risultata gradita la domanda, l'Inviato presentò alla sposa vari regali fra i quali due « manigli » d'oro tempestati di preziose gemme. Alla sera, tutta la Corte assistette ai fuochi d'artificio, ed il Re donò al Conte Marcolini, quale pegno della sua soddisfazione, il proprio ritratto in miniatura, guarnito di brillanti.
Il giorno seguente, il Re diede offrì alla nobiltà ed ai ministri esteri un grande ballo, ed il 25 una festa a Stupinigi, pure con ballo nel salone « delle delizie ». Il 27, vi fu concerto musicale e ricevimento nella Galleria, con baciamano di tutti gli invitati: alla sera fantastica illuminazione del Castello.

Il 28 firma del contratto nuziale: dall'articolo terzo, si rileva che la dote assegnata alla Principessa fu di L. 420 mila, in moneta di Piemonte, oltre al ricchissimo corredo, alle gioie, ai mobili, ecc. Di tutto l'Ambasciatore Marcolini, rilasciò regolare e particolareggiata ricevuta. (Dopo la morte della Principessa, il Principe Antonio Clemente, restituì a Vittorio Amedeo L. 320 mila).
La mattina del 29, Maria Carolina ricevette i complimenti del Corpo Diplomatico nel Castello di Moncalieri, indi l'Arcivescovo di Torino, assistito da due Vescovi, e da un numeroso clero celebrò il rito nuziale per procura, lo sposo essendo rappresentato dal Principe di Piemonte. La cerimonia fu quanto mai splendida: oltre ai Reali ed alla Principessa di Piemonte assistevano la Principessa Carlotta di Carignano, il Cardinale Marcolini, il Balìo Marcolini, fratelli dell'Inviato Straordinario, il Principe di Salm-Salm, il principe di Masserano, il Conte Von Hasse, tutti i dignitari della Corte, gli Ambasciatori esteri e molti invitati.
Narrasi che al momento di pronunziare il « si », la Principessa impallidisse, vacillasse e rivolgesse uno sguardo supplichevole ai genitori. Ma incontrati gli occhi del Re che la fissavano severamente e la dominavano, proruppe in « tre si », che fecero ridere tutta l'assistenza !

Pronunziato il fatale assenso, cercò con ogni mezzo di protrarre la partenza per la Sassonia, partenza che doveva avvenire subito dopo la cerimonia. Solo dopo molte preghiere il Re accordò ventiquattro ore di permanenza a Torino. Ne approfittò Maria Carolina, per recarsi ad adorare la Santa Sindone, e salutare il popolo della Capitale, che non si stancava di fare voti per la sua felicità. E per bocca della vecchia e commovente canzone, la Principessa prendeva commiato dagli affezionati torinesi, con queste parole (l'ultima un triste presagio)
Fratei dei miei fratei, tuche-me un Po' la man,
Che mi vad an Sassonia, ch'a l'è tan luntan,
Tuche-me un Po' la man amis, me car amis, l
L 'è cum la fiur del liri arrvedsse an Paradis !
Finalmente il 30 settembre dovette partire: Carolina aveva allora 17 anni; il viaggio fu triste come un convoglio funebre, malgrado i ricevimenti, le feste, i regali ricevuti. In suo onore gli Accademici di Fossano, pubblicarono saggi letterari, ed il poeta Stefano Gandolfi le dedicò un'ode. Sul suo passaggio le città e borgate, accorrevano ad acclamarla, a gridarle auguri, a presentarle omaggi di devozione: sino a Vercelli venne accompagnata dal Re, dalla Regina e dai Principi di Piemonte, coi quali si recò a venerare il corpo del Beato Amedeo IX, sepolto nella Cattedrale.
Qui, preso commiato dai parenti, proseguì per Milano, Rovereto, Innsbruck, giungendo ad Augusta il 14 ottobre, ove era ad attenderla il Conte Marcolini. Egli era partito subito dopo la celebrazione del matrimonio, per prepararle in questa città un degno ricevimento, ed accompagnarla a Dresda, con numerosa scorta civile e militare. Facevano parte del corteo della Principessa, il marchese di Brianze, suo primo scudiero, la marchesa di Cinzano, sua dama d'onore, la Contessa di Salmour, la marchesa di Verolengo, l'uditore Borsetti, parecchi altri gentiluomini, e le persone del suo servizio particolare.
Il principe Antonio Clemente, nel frattempo aveva scritto a Vittorio Amedeo III, questa bella ed affettuosa lettera : « il en coutera sans doute à la sensibilitè de madame la Princesse de s'éloigner de ses illustres Parents, et d'une famille qui doit lui étre chère. Mais je metterai tana d'attentioni à faire diversion à ses soucis et à m'attirer sa confiance et son estime, que je me flatte de lui adoucir l'amertume de cette séparation ».
L'ingresso in Dresda, rimase lungamente memorabile negli annali della città, per il fatto che l'Elettore, non aveva badato a spese, pure di fare alla cognata un'accoglienza, che mettesse in rilievo la grandezza della sua Casa e la deferenza verso quella Sabauda.
Il 24 ottobre, alle ore sette e mezzo della sera, nella Cappella di Corte, veniva celebrato il matrimonio ufficiale, in forma solenne: Casa di Savoia era rappresentata all'atto dal suo Incaricato d'affari, Cavaliere Salomone. Il 25, l'Elettore dava a Vittorio Amedeo III immediato avviso dell'avvenuta celebrazione, con una lettera latina, nella quale era chiamato « Signore e cognato carissimo ».
Le feste durarono parecchi giorni, e malgrado la stagione piuttosto fredda, esse furono assai sontuose, e richiamarono una folla enorme di gente dalle città e campagne vicine curiose di vedere la principessa italiana.
Il Principe Antonio Clemente, maggiore di lei, di nove anni (26), si manifestò subito un ottimo sposo, affettuoso e cortese, soddisfatto della moglie, alla quale faceva premurosa compagnia e che cercava di compiacere in ogni occasione; egli scriveva il 17 marzo 1782, alla Regina Maria Fernanda « Aussi tous mes desirs, ne tendront-ils qu'à me rendre digne des bontés d'une Princesse, qui réunit, aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes Parents ».
Suo desidero era di renderle piacevole la vita di Dresda ove la Corte, brillante per antiche tradizioni artistiche e culturali, offriva distrazioni e divertimenti d'ogni genere. Concerti musicali, accademie letterarie, rappresentazioni di opera italiana, di drammi e commedie, si susseguivano incessantemente.
L'Elettore Federico Augusto, che aveva molta stima per la giovane e leggiadria cognata, non tralasciava circostanza per procurarle svaghi, con passeggiate, balli, riunioni campestri, cacce, ecc.
Egli aveva sposato Maria Amalia, Principessa Palatina dei due Ponti, la quale, il 21 giugno 1782, lo aveva reso padre di una bambina di nome Maria Augusta, nascita che aveva dato luogo a luminarie e cortei popolari, alle quali la Principessa sabauda non aveva mancato di partecipare.
Fra le due cognate regnava la migliore armonia, e la Corte di Dresda, a somiglianza di quella di Torino, presentava l'esempio di una famiglia vivente in pieno e perfetto accordo.

Mentre più rosee fiorivano le speranze intorno a Maria Carolina, essa veniva nella notte dal 14 al 15 dicembre 1782, improvvisamente colpita dal vaiuolo, questa terribile malattia, che nel Secolo XVIII fece tante vittime.
Malgrado le pronte ed assidue cure apprestatele dai più illustri medici della città chiamati immediatamente, lo stato della Principessa andò aggravandosi rapidamente ed il 28 dello stesso mese, alle cinque del mattino, essa chiudeva, tra grandi spasimi, la sua breve e candida vita.
Le vennero fatte solenni esequie, e il suo corpo esposto al pubblico, fu visitato da tutto il popolo commosso, che ne compianse l'immatura fine; in un solo anno di residenza, essa, con la sua bontà, aveva saputo conquistare il cuore e le simpatie dei sassoni pure così riservati per carattere e poco espansivi.
Come già la sua illustre prozia, la Duchessa di Borgogna alla Corte di Versailles, essa aveva portato a quella di Dresda una nota di serena gaiezza. Il Principe Antonio Clemente, benchè passato cinque anni dopo a seconde nozze, nel 1787, con la Principessa Maria Teresa di Toscana, portò lungamente nel cuore l'immagine della bella e dolce sua prima consorte, e mantenne sempre con la Casa di Savoia, anche nei momenti più difficile, rapporti cordiali e costanti, specialmente con la Principessa Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia, sua cugina germana, sposata nel 1797 a Carlo Emanuele di Savoia Carignano e madre di Carlo Alberto.
Salito al trono nel 1827, per la morte del fratello Federico Augusto, egli moriva a Pillnitz il 6 giugno 1836, lasciando la Corona reale ad un nipote.
De « la Bela Carolin », non rimangono a ricordarla, che alcuni versi composti per la di lei morte dal padre Pietro Savi, gesuita, ed una medaglia - che riproduciamo sopra - disegnata dal Lavy ed incisa da Federico Schmidt. Detta medaglia porta sul «recto », le teste di Maria Carolina e di Antonio Clemente, con la leggenda : «Sacro nuptiali Foeder. M. Carola R. F. Antonio Sax. Pr. Iuncta MDCCLXXXI ); sul «verso» si vede il ritratto di Vittorio Amedeo III.
Ma più che la medaglia la centenaria canzone piemontese, ne perpetua, meglio d'ogni altra cosa, la memoria, e non è raro il caso, di udirla cantare oggi, ancora su di un'aria di melope, da qualche vecchio campagnolo dei dintorni di Torino.


MARIA FRANCESCA ELISABETTA DI SAVOIA
Arciduchessa d'Austria ( 1800 - 1856 )
Intorno alla figura di Maria Francesca Elisabetta di Savoia Carignano, Vice-Regina del Lombardo-Veneto, gli storici del Risorgimento non danno che scarse notizie: qualche cenno fuggevole si riscontra bensì nelle pagine di alcuni scrittori milanesi, ma sono informazioni inconcludenti senza alcun valore. Anche gli storici austriaci, di solito così prolissi ed elogiativi, allorchè parlano di personaggi della Famiglia Imperiale, non ci hanno lasciato di lei, che notizie prive d'interesse biografico.
Come Principessa di Casa Savoia, per giunta sorella di CARLO ALBERTO, che all'Austria diede solo dei grattacapi, ella non fu amata, e ciò spiega forse, in parte il silenzio che su di lei si è fatto. Questo però non si comprende negli storici italiani, perchè il suo matrimonio con l'Arciduca Ranieri, fu un atto politico di grande importanza, che ai suoi tempi, ebbe una larga eco di commenti nei due paesi, per così dire, già fieri avversari.
Riteniamo che uno dei motivi, per cui non se ne occuparono, vada ricercato nella nessuna influenza da lei esercitata sugli avvenimenti, che si svolsero a Milano, durante i ventotto anni circa, nei quali, salvo brevi assenze, vi soggiornò.

Comunque, esponiamo ora, quanto intorno ad essa siano riusciti a raccogliere, frutto di pazienti ricerche; non intendiamo peraltro, con queste brevi note biografiche, di avere colmato una lacuna. Nostro scopo è quello di avere tolto da un ingiustificato oblio, una Principessa di Savoia la cui esistenza, non fu scevra di drammatiche vicende.
Nel 1814, caduto il Regno Italico, la Reggenza Provvisoria di Lombardia, mandò a Vienna una deputazione della quale faceva parte il conte Federico Confalonieri, per ottenere dall'Imperatore d'Austria Francesco I, garanzie di automia amministrativa.
Ricevuta cortesemente ed udito lo scopo della missione, il Sovrano rispondeva cinicamente: «Lo veggo, avete bisogno di una Corte; vi manderò un Arciduca, sarà ammogliato». A parte la meschinità della risposta, passarono quattro anni prima che la promessa imperiale avesse effetto.
Il 7 marzo 1816 era bensì stato nominato Vice-Re del Lombardo Veneto l'Arciduca Antonio Vittorio, Gran Maestro dell'Ordine Teutonico, ma questi aveva rifiutato l'onorifica investitura. Finalmente, nel febbraio 1828, giungeva da Vienna la notizia, che a Milano sarebbe venuto quale Vice-Re l'Arciduca Ranieri fratello dell'Imperatore, nominato con decreto del 3 gennaio.
Il nuovo Vice-Re, destinato a continuare la tradizione di Eugenio di Beauharnais, era nato a Firenze il 30 settembre 1783, da Leopoldo II Granduca di Toscana, poi Imperatore d'Austria e da Maria Luisa di Borbone, ed era anche conosciuto a Milano, ove aveva soggiornato nell'autunno del 1816. Gli austriacanti lo dicevano di «animo leale e benefico» affabile e dotato di capace intelligenza; i nemici del nuovo regime, sussurravano invece che era corto d'ingegno, sordidamente avaro, e non adatto all'alto compito affidatogli. Cosa quest'ultima che si verificò purtroppo !

Egli aveva l'ordine perentorio di fare dimenticare ai lombardo-veneti, la dominazione francese, quasi che la semplice volontà di un uomo potesse cancellare venti anni di storia.
Il 12 maggio egli era a Monza, ed il 24 faceva il suo ingresso nella capitale, accolto nè bene nè male, benchè le ipocrite muse si fossero sfiatate a cantarne le lodi. La parte eletta della popolazione, si tenne prudentemente da parte, sapendo che egli non avrebbe potuto fare la felicità del Lombardo-Veneto, ridotto, malgrado il titolo pomposo di Regno, a due Province qualunque, sottoposte al beneplacito di Vienna. Il Sandonà osserva giustamente che era « una carica rappresentativa, sorta da elementi negativi, tutt'altro che onorifica » per colui che doveva coprirla, benchè il Cotta Morandini, asserisca, che il Vice-Re si poteva considerare come il moderatore e il sorvegliante due Governi che componevano il regno Lombardo-Veneto, e fosse il mezzo di comunicazione fra i predetti governi, i dicasteri aulici e il Sovrano.
Dal rescritto imperiale del 2 maggio, contenente le istruzioni imperiali, non si riesce però a comprendere esattamente quale fosse il suo potere: egli non poteva neppure impartire ordini ai due governatori di Milano e di Venezia. La sua posizione fu dunque delle più strane, e ciò spiega a sufficenza la nessuna autorità, di cui godette durante i lunghi e burrascosi anni del suo Vice-Regno.
Appena giunto a Milano, prese ad orientarsi ed annodò relazioni con quella parte dell'aristocrazia e della borghesia, disposta ad appoggiare la dominazione austriaca.
Per affezionarla totalmente, occorreva però una Corte, dare feste da ballo, pranzi, ricevimenti, cacce, concerti, ecc., con distribuzioni di cariche effettive e onorifiche. Fu allora che da Vienna si pensò a dare moglie al Vice-Re ; egli stesso ne aveva grande desiderio e fretta, cosa che fece dire al Principe di Metternich, che egli avrebbe sposato « anche un canapè » pure di avere una consorte, che però voleva fosse molto bella.
Date così buone disposizioni l'Imperatore incaricava lo stesso Metternich di cercargli una sposa, possibilmente bella, onde accontentare l'Arciduca e fare impressione sui sudditi italiani. L'astuto principe che voleva legare al carro della politica austriaca la Casa di Savoia, e particolarmente il ramo di Carignano, destinato alla successione al trono, pose gli occhi sulla Principessa Maria Francesca Elisabetta, sorella di Carlo Alberto, nata il 13 aprile 1800 a Chaillot, presso Parigi, dal Principe Carlo Emanuele di Savoia Carignano e da Albertina di Sassonia Curlandia.
Da giovane il padre di Francesca e di Carlo Alberto, era stato un ardente liberale, prima ancora che le truppe francesi invadessero il Piemonte e costringessero all'abdicazione il Re Carlo Emanuele IV. Le sue convinzioni rivoluzionarie, condivise pienamente dalla moglie, mentre lo avevano messo in cattiva luce presso la famiglia reale, non lo avevano salvato dalle ire e dai sospetti dei giacobini imperanti a Torino. I suoi beni furono sequestrati ed egli con la famiglia veniva condotto in Francia, ove moriva povero e deluso il 24 luglio 1800, in una modesta casa di Chaillot, poco più di tre mesi dopo la nascita della figlia.
Rimasta vedova, in condizioni finanziarie miserissime, senza appoggi di sorta, essendosi alienate le Corti di Savoia e Sassonia, la Principessa Albertina si trovò in una situazione dolorosa, non avendo mezzi, onde provvedere al sostentamento dei due figli entrambi in tenera età: Carlo Alberto e Maria Elisabetta.
Fu allora che un gentiluomo piemontese del vecchio stampo, il conte Alessandro di Saluzzo, a proprio carico, si prese cura di loro e della madre.
Furono anni di dolore e di amarezze, che durarono sino al 1810, nel quale anno la Principessa avendo contratto un matrimonio segreto col conte Massimiliano Thibaut di Montléart, le cose si misero un po' meglio. D'allora in poi, o meglio - sino al 1814 - la Principessa trascinò la sua esistenza in Francia, in Svizzera, in Germania, mentre suo figlio Carlo Alberto, creato Conte di Carignano da Napoleone I, faceva la vita di guarnigione in un reggimento di dragoni.

Avvenuta la Restaurazione, il Principe Carlo Alberto ottenne bensì di essere reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni, ma non ottenne la fiducia del Re Vittorio Emanuele I, nemmeno nel 1817, allorchè sposò la Principessa Maria Teresa di Toscana. Quantunque vivesse a Torino con la giovane consorte, egli era tenuto in disparte dalla Corte ove si temevano le sue idee liberali e la sua popolarità.
In quanto alla madre, il suo matrimonio col Montléart, non essendo stato riconosciuto dalla Casa di Savoia, non si voleva addirittura saperne di lei a Torino. Vittorio Emanuele I, pure fissandole una decorosa pensione, non le permise di farsi vedere a Corte. Chiamò a sè invece Maria Elisabetta, che gli fece buona impressione e l'avrebbe tenuta volentieri, ma Albertina scrisse che la figlia la voleva presso di sè e fu giocoforza rimandargliela. Per desiderio del Re, si stabilirono entrambe a Dresda, accolte onorevolmente dal Re Federico Augusto III e da tutta la famiglia reale di Sassonia, con le quali si ristabilirono subito buoni rapporti di parentela.
Tranquilla oramai dal lato finanziario, lieta dell'accasamento del figlio, la Principessa pensò al collocamento della figlia fattasi nel frattempo leggiadrissima, rassomigliante assai alla nonna materna, la famosa contessa Francesca di Cervice Krasinska, donna di « rara bellezza ». Finchè durò l'Impero Napoleonico, essa non aveva mai osato sperare, per questa sua figlia diletta, un grande partito, ma ora le cose erano mutate, ed essa intravedeva la possibilità di darla a qualche principe tedesco o spagnolo. D'altronde pur di accasarla bene era disposta a fare qualunque sacrificio. I candidati non mancarono, e fra i tanti, sono da ricordarsi l'ex Re d'Etruria, il principe Lobkowitc, figlio del principe Ferdinando duca di Randwitc e di Gabriella di Savoia, sorella del padre di Maria Elisabetta; quest'ultimo appoggiato dal Principe Clemente di Sassoni, poi Re di Sassonia, vedovo della sfortunata Carolina di Savoia: ma per ragioni diverse vennero scartati tutti e tre.
Più seria di tutti, ecco presentarsi nel 1819, la probabilità di una unione con il Re Guglielmo di Wúrtemberg; benchè questo sovrano fosse vedovo d'una sorella dello Zar, dalla quale aveva avuto due figlie, era tuttavia un ottimo partito, per l'avvenente principessa sabauda, che avrebbe pur cinto una corona reale, lei che aveva conosciuto la miseria. Vi era però un ostacolo da superare, ostacolo che si presentò subito e non lieve, quando nel settembre il Re fece domandare dal suo ministro a Dresda la mano della Principessa Elisabetta.
Questo consisteva nella diversità di religione, Guglielmo essendo protestante: a Torino, Vittorio Emanuele I, al quale, come capo della casa, occorreva domandare il consenso, era su questo punto severissimo.
Era disposto tuttavia ad accordare la mano della Principessa, ma a patto che il Re si facesse cattolico, visto che un articolo della legge wúrtemberghese gli lasciava la facoltà di professare quella religione cristiana, che più gli piacesse. Ma Guglielmo non si sentiva di fare abiura, come l'aveva fatta più d'un secolo prima l'Elettore di Sassonia, per salire sul trono di Polonia. Vittorio Emanuele chiese allora che i figli nascituri fossero allevati nella religione cattolica; si stava discutendo la grave questione e già si sperava in un accomodamento, che avrebbe permesso il vantaggioso matrimonio, allorchè saputa la cosa a Vienna, fecero il possibile per farla naufragare e vi riuscirono, con immenso dolore della Principessa Albertina, che lo aveva vivamente caldeggiato, lusingata nel suo orgoglio di madre, di vedere la figlia salire su di un trono.
L'Austria, che esercitava un predominio morale non indifferente su tutta la Germania, era gelosa del Wurtemberg, già legato alla Russia, e per nessun conto voleva che la Casa di Savoia, imparentandosi col Re Guglielmo, si avvicinasse troppo a quest'ultima potenza, sua naturale rivale. Le pressioni fatte a Torino furono tante e così imperiose che Vittorio Emanuele I, finì per cedere, e fece scrivere al Re di Wurtemberg che le trattative dovevano ritenersi troncate. Del resto, per Maria Elisabetta, l'Austria aveva pronto un buon marito, nella persona dell'Arciduca Ranieri, fratello dell'Imperatore e Vice-Re del Lombardo-Veneto.
Cosa voleva di più la Principessa di Curlandia? Non era forse un ottimo partito?
Per renderla favorevole, le si promise che l'Imperatore Francesco I avrebbe regolarizzate il di lei matrimonio col conte di Montléart, concedendogli inoltre il titolo di principe, promessa mantenuta ed effettuata nel 1823.
Interrogato il fratello Carlo Alberto benchè contrario, diede pure lui il consenso; in quanto al Re Vittorio Emanuele ed alla Regina Maria Teresa erano più che favorevoli, ed anche la Corte di Dresda alla quale il progetto venne comunicato, diede il suo assenso. La Principessa Maria Elisabetta, s'intende, non fu neppure consultata, e così il matrimonio venne senz'altro stabilito. Nella mente dell'Imperatore Francesco I, essa doveva entrare nella Casa di Asburgo -Lorena « come un angelo di pace ».
A Vienna erano felici della pronta conclusione di queste nozze, che per il principe di Metternich dovevano servire a tenere in freno le velleità di Carlo Alberto, intorno al quale facevano capo le speranze nascoste dei patrioti italiani, che vedevano in lui il futuro nemico implacabile dell'Austria. All'astuto ministro era poi balenato un pensiero diabolico, che per il momento tenne celato, ma che in seguito, lo vedremo manifestato apertamente al Congresso di Verona.
Frattanto si aveva molta fretta di passare alla celebrazione del matrimonio, poichè l'ambasciatore francese a Torino, duca di Dalberg, faceva il possibile per impedirlo, vedendovi un aumento della preponderanza austriaca in Italia, inoltre un forte partito alla Corte Piemontese si agitava in eguale senso.
Si passò quindi sopra alla questione finanziaria, in merito alla dote della Principessa che fu di soli 625 mila franchi, dei quali 325 mila dati dal fratello Carlo Alberto e i rimanenti 300 mila dalla madre, che provvide anche il corredo valutato in 80 mila franchi.
Del resto l'Arciduca Ranieri era ricco di patrimonio privato, e come Vice-Re del Lombardo-Veneto godeva di
un reddito annuo di 400 mila fiorini, più 50 mila di appannaggio.
Fissate tutte le modalità, il 13 aprile 1820, genetliatico della principessa, il Conte di Bombelles a Dresda, ed il principe di Stharemberg a Torino facevano contemporaneamente la domanda della mano di Maria Elisabetta, domanda che veniva gradita e in pari tempo veniva stabilito che le nozze dovessero celebrarsi in persona a Praga il 28 maggio seguente.
Per il giorno fissato si trovarono riuniti nella vecchia capitale della Boemia, tutta parata a festa, lo sposo, l'Imperatore, l'Imperatrice, l'Arciduchessa Clementina Principessa di Salerno, l'Arciduchessa Carolina col consorte Principe di Sassonia, il principe di Metternich, e quasi tutti i grandi dignitari della Corte, e il conte Rossi, inviato del Re di Sardegna.
Che Vittorio Emanuele I non abbia mandato un principe del sangue a rappresentarlo, è un fatto che conferma quanto i Carignano fossero poco felice per questo matrimonio. Per questa assenza, che meravigliò Francesco I, non fu per nulla contenta la Principessa Albertina quando scese a Praga per accompagnare la figlia.
L'Arciduca Ranieri, bramoso di conoscere la sposa, le era andato incontro con un numeroso seguito, al Convento di S. Margherita, fuori città, ove avvennero le presentazioni, indi insieme fecero l'ingresso in Praga. Le nozze vennero benedette la sera stessa nella Cappella Imperiale, dall'Arcivescovo della città assistito da 15 prelati, e « la cerimonia, come riferisce la « Gazzetta di Milano » del 7 giugno, ebbe tutto quello di bello e di augusto, che poteva essere proprio di tale circostanza ».
Le feste durarono parecchi giorni, con banchetti, rappresentazioni di gala, voli areostatici, rivista militare, scarrozzate, tutte cose che dovettero inebriare la sposa, abituata ad una esistenza modesta.
Metternich, che l'avvicinò sovente in quel giorno, ce ne lasciò nelle sue MEMORIE il seguente ritratto : « Le mariage
dell'Arciduc Regnier avec la Princesse de Carignan a eu lieu aujourd'hui. La fiancée est merveilleusemente belle. Elle a une demi téte de plus que moi, ce qui ne l'empéche pas d'avoir une jolie tournure. La téte a une expression de noblesse remarquable, elle a les yeux longs et langoureux, le nez petit et finement découpé ; sa bouche est bien faite et cache les plus belles dents que j'aie jamais vues et pourtant malgré toutes ces perfections extérieures, je trouve qu'une aussi grande femme manque de charme ».
L'Arciduca trovò la sposa assegnatagli dal fratello di suo pieno gusto, ed ebbe poi sempre per essa un immutabile affetto.
Il giorno 8 giugno gli sposi erano a Vienna, ove si fermarono quasi un mese, oggetto di nuovi festeggiamenti : finalmente mossero verso l'Italia, incontrati a Verona dal conte Strassoldo.
Lungo tutto il percorso lombardo, gli Arciduchi ebbero archi di trionfo, musiche, sparo di cannoni, suono giulivo di campane; giunti a Monza, residenza abituale di Ranieri, si fermarono alcuni giorni, prima di fare il loro ingresso in Milano, dove, al dire del conte Federico Confalonieri, gli avevano preparato « feste scipite ».
Il 2 luglio essi facevano il loro ingresso nella capitale lombarda, in carrozza di gran gala, ossequiati a Loreto dalle autorità cittadine, fra l'assordante sparo delle artiglierie del castello. Erano in moto la guardia imperiale, gli usseri, l'artiglieria, ma specialmente la polizia, che temeva qualche manifestazione ostile dei liberali.
La giovane e graziosissima sposa piacque molto ai milanesi, che non si stancavano di ammirarne la bellezza sfolgorante e fra le tante poesie della musa popolare di quei giorni, una di esse, attribuita a Carlo Porta, diceva:
Scialemm, cantemm, ch'el torna chi una voeulta
El noster Vicerè tant suspiraa,
El torna compagnaa d'óna sposina
Che farà la delizia de Milan
Se non olter, sta cara baciocchina
La g'ha in di venn on sang italian
Nun tucc farem a gara per amalla,
L'è 'l coeur che me le dis, e el coeur non falla.
Vi fu un TeDeum solenne in Duomo, pranzo ufficiale a Palazzo, ed alla sera rappresentazione alla Scala, con la «Principessa in campagna », « I due Figaro » ed il ballo « Castore e Polluce ». Il cronista della « Gazzetta di Milano», notò « l'aspetto di ridente giovinezza e di grazia » di Maria Elisabetta « che traducono le virtù dell'animo e della mente, che sì bene si accoppiano con le virtù del consorte ». Nei giorni seguenti, vi furono, per sollazzo del popolo, corse di cavalli e di fanti e luminarie per parecchie sere.
Giunti a Milano, i Vicereali, avevano trovato già nominata dall'Imperatore la loro Corte, della quale facevano parte la marchesa Ala Ponzoni Visconti Ciceri, Gran Maggiordoma, la contessa Antonia di Lodron, Dama di Palazzo, il conte Settala de Capitani, Gran Cerimoniere, il conte Cesare Castelbarco Albani, Gran Siniscalco, il conte Vitaliano Borromeo, Gran Coppiere, il conte Ferd. Crivelli, Maggiordomo, ecc. Dopo il 1825, la carica di Gran Maggiordoma venne occupata dalla contessa Maria di Castelbarco Freganeschi, con la retribuzione di 4000 fiorini annui. Nel 1825 la contessa di Lodron venne sostituita dalla contessa Woyna, e venne nominata una dama d'onore che fu la contessa di Thurbein. Erano inoltre Gran Ciambellano il marchese Paolo d'Adda, e Ciambellani i conti Antonio Belgiojoso, Meraviglia, Paar, Attems.
Il 17 luglio troviamo gli Arciduchi ad una magnifica festa in loro onore, data dalla Società del Giardino, con intervento di quasi tutta l'aristocrazia milanese. Tutte le sale dell'artistico ritrovo furono trasformate per l'occasione, in serre odorose, per la strordinaria profusione dei fiori sparsi ovunque.
Il ricordo di quella festa, che fece epoca, per lo sfarzo a cui diede luogo, rimase lungamente vivo nella memoria dei milanesi; in alcune memorie ed appunti sulla Società del Giardino, abbiamo trovata la seguente descrizione, che non vogliamo omettere: « Essendo nel mese di luglio le LL. AA. non volsero direttamente al gran salone, ma, guidate dal Conservatore, furono condotte a sedere sotto un ricco padiglione eretto nel giardino interno. Dodici damigelle scelte, tra le figlie dei soci, in bianche veste e trine e ricami ricchissimi, si fecero incontro presentando loro magnifici mazzi di fiori, poesie e sonetti, stampati su fogli doviziosamente fregiati, secondo la moda del tempo, che ricordava pure sempre l'artifizioso barocco.
« Per cura del pittore Sanquirico, scenografo del Teatro alla Scala ed appartenente in pari tempo alla nostra famiglia sociale, il nostro giardino interno era stato trasformato in un quadro di scena teatrale. Su di un vasto telone, che serviva di sfondo alla scena improvvisata, erano dipinte due leggiadre donne vestite alla foggia del quattrocento, una con la corona ducale, l'altra col berretto del doge, che si tenevano per mano: rappresentavano la Lombardia e la Venezia riunite nel nuovo Vice-Reame, al cui governo erano stati preposti gli augusti sposi. Un gran sole irradiava la sua luce sul capo delle due maestose figure, forse il sole della giustizia e della prosperità, una grande aquila, con le ali distese, era forse là per indicare che il nuovo Regno Lombardo-Veneto poteva vivere sicuro sotto la protezione potente della nazione tedesca.
« Un gruppo di leggiadre ballerine intrecciò graziose danze sull'erba, con atteggiamenti e pose allegoriche e classicamente olimpiche. Ad un dato segnale, un coro ed una orchestra, nascosti dietro quel telone, intonarono un inno di lode, che cominciava con le seguenti parole:
"
Coppia eccelsa al ciel diletta
E d'Insubria dolce amor,
Deh ! benigna i voti accetta
Che ti Porge il nostro cor".


« Tutto il giardino era sfarzosamente illuminato, e grandiose tele trasparenti, con soggetti allegorici, adornavano la facciata del palazzo, verso il giardino stesso. Le LL. AA., lasciato il padiglione, fecero il loro ingresso nelle sale, ove tosto principiarono le danze. Essa un luccicare di abiti variopinti ed uniformi risplendenti e ricchissime».
A questa festa da ballo accadde un incidente curiosissimo, raccontato dal Rovani, e di cui naturalmente non ci fu possibile di vagliarne l'autenticità. Narra dunque il fecondo scrittore lombardo: « Ad una festa che il Casino dei Negozianti (Società del Giardino) aveva sfoggiato per festeggiare l'arrivo delle LL. AA., il Vice-Re e la Vice-Regina, le carrozze di Corte, tenendo ingombra tutta la via di S. Paolo, con insopportabile disagio degli accorrenti, il Bichin Kommer, uno dei capi della famosa compagnia della Teppa, si presentò al battistrada, e parlandogli in lingua tedesca, che egli aveva imparato fin da fanciullo, appartenendo ad una famiglia d'origine svizzera tedesca, gl'ingiunse mettendogli davanti un ordine del conte Settala, Gran Cerimoniere, di fare tornare tutte le carrozze al Palazzo di Corte.
« Il battistrada, sentendosi parlare tedesco e col piglio autorevole di chi comanda, perchè sa di potere fare, obbedì e con tanto zelo, che il Vice-Re e la Vice-Regina col loro seguito, quando uscirono dal Casino non trovarono più le carrozze. Si può immaginare il furore dell'ispettore delle stalle vice-reali, onde si sfogò l'impazienza della Vice-Regina Italica, mentre tentavano d'acquietarla l'Arciduca Ranieri, ecc. ».
Se Casa d'Austria era soddisfatta di questo matrimonio, che reputava come un freno alle ambizioni di Carlo Alberto, non se ne rallegravano invece i liberali, con a capo Gino Capponi i quali accusarono Carlo Alberto di incoerenza. Di questo malcontento si fece eco il poeta Berchet nella nota romanza « Il Rimorso » dove dice:

Se un ignaro domanda al vicino
Chi sia mai quella mesta pensosa
Che su i ricci del biondo bambino
La bellissima faccia riposa
Cento voci risposta gli fanno
Cento schermi gl'insegnano il ver
« E la donna d'un nostro tiranno »,
« E la sposa dell'uomo stranier ».

Nei teatri, lunghesso le vie
Fin nel tempio del Dio che perdona
In fra un popol recinto di spie,
Fra una gente crucciata e prigiona
Serpe l'ira d'un motto sommesso
Che il terror comprimer non può.
« Maledetta chi d'Italo amplesso Il tedesco soldato beò ».

E se avvien che si destin gli schiavi
A tastar dove stringa il lor laccio
Se rinasce nel cuor degli ignavi
La coscienza d'un nerbo nel braccio
Di che popol dirommi ? a che fati
Gli esecrati miei giorni unirò ?
Per chi, al ciel drizzar la preghiera ?
Qual bandiera vincente vorrò ?
Avrà letto questi versi la Vice-Regina? Qualche cosa del malcontento popolare le sarà giunto all'orecchio ? Non lo crediamo ! Era troppo felice dell'alta posizione conseguita per preoccuparsi di simili bazzecole. Del resto a Milano, trascorso il periodo delle feste, gli Arciduchi andarono a Venezia, dove il sentimento del popolo e dell'aristocrazia era meno avverso all'Austria. Anche là ebbero ricevimenti e accoglienze festose, turbate però dalla notizia delle rivoluzioni scoppiate a Napoli ed in Spagna, per soffocare le quali nel dicembre si riuniva il Congresso dei Sovrani a Lubiana.

Milano tuttavia non era tranquilla, gli arresti di Silvio Pellico, di Romagnoli, di Gioja, avevano gettato un'ombra di tristezza sulla città, già così gaia e chiassosa. Quando Ranieri e Elisabetta vi ritornarono, dopo una breve fermata alla Villa di Stra, trovarono l'ambiente alquanto mutato dal giugno, e non certamente in favore del Governo, del quale apertamente si diffidava.
Stabiliti nel Palazzo Reale, Elisabetta, aperse i suoi saloni a feste e a conversazioni, riuscendo, scrive G. De Castro « a raccogliere intorno a sè nei festosi convegni, quella parte del patriziato che è, in ogni tempo e luogo, disposta a sacrificare i risentimenti politici alle seduzioni della comparsa e del piacere ». L'aristocrazia andava dalla Vice-Regina per curiosità, per vaghezza di distrazione, più che per sentimento di devozione a Casa d'Austria, la quale era cordialmente detestata, da molti di quelli stessi, che ne frequentavano i saloni.
La rivoluzione di Torino dell'anno seguente (marzo 1821), nella quale Carlo Alberto, fratello della Vice Regina ebbe una così larga parte, sorprese e sgomentò l'Arciduca Ranieri, il quale temeva che il moto avesse a propagarsi anche in Lombardia. Prudentemente con la moglie si ritirò a Brescia. Nel maggio però era già di ritorno, ed a Monza riceveva poco dopo il Principe di Danimarca.
A Milano i Vice-reali vi stavano il meno che potevano: in settembre li troviamo a Cremona ed a Mantova, ed in questa città accoglievano Maria Luigia, vedova non inconsolabile di Napoleone I, e il Principe di Sassonia.
L'arresto di Confalonieri (13 dicembre 1821) e di altri patrizi milanesi, e i processi dei carbonari, vennero a turbare la serenità della Corte, ed a scavare più profondo l'abisso tra i sudditi e il Sovrano. L'Arciduca Ranieri, tuttavia sollecitato dalla aristocrazia milanese, s'interessò a mitigare la condanna inflitta al Conte Confalonieri. Molti anni dopo, allorchè questi uscì di carcere, ed ottenne di potere tornare a Milano, non mancò di recarli a fargli visita.
L'Arciduca partecipò al celebre Congresso di Verona, che doveva sistemare gli affari dell'Europa ; vi si recò conducendo Elisabetta, per la via di Como, della Valtellina e dei Tirolo. Con loro erano pure il Conte Strassoldo, Presidente del Governo e il Marchese d'Adda, Vice Presidente.
Come si sa in quel Congresso di Sovrani, l'Austria tentò di fare escludere Carlo Alberto dalla successione al trono di Sardegna, facendola passare al Duca di Modena, od alla Vice-Regina; in un caso o nell'altro, l'Austria avrebbe avuto (in Piemonte) un altro proconsole in Italia, sul quale avrebbe avuto indiscutibile ascendenza politica, come già l'aveva in Toscana, a Modena e a Parma. Il progetto era bello e seducente e si mise tutto in opera per farlo trionfare; per fortuna vegliava la Francia nella persona dei suoi plenipotenziari Duca di Dalberg e Visconte di Chateaubriand, i quali riuscirono con molta abilità, a sventarlo.
Per ciò che concerne la Vice-Regina, per quanto fosse poco affezionata al fratello (e anche la beneficiaria) non crediamo che essa si sia prestata ad una combinazione simile, la quale avrebbe gettato una macchia nerissima sulla sua memoria.
Da Verona, Ranieri ed Elisabetta, si recarono a Venezia, soggiorno gradito, donde però fecero ritorno a Milano, raggiunti dai Principi di Prussia, in onore dei quali, diedero vari pranzi.
Nel maggio 1825 quando parve che la tranquillità regnasse in Lombardia, l'Imperatore Francesco I, venne con la consorte e con un codazzo di cortigiani a fare una visita a Milano. Ranieri andò incontro al fratello a Pontebba e con lui fece il solenne ingresso nella capitale, dove ad attendere il Sire Austriaco, erano giunti i Reali di Napoli, il Granduca di Toscana, la Duchessa di Parma, il Duca di Modena, gli Inviati straordinari di Spagna, Sardegna, Prussia, Sassonia, Baviera, Baden, Wúrtemberg ed il Nunzio pontificio Monsignor Ostini.
La Vice-Regina, passò da una corvée all'altra, dovendo fare da guida all'Imperatrice Carolina Augusta, nelle visite ai vari istituti della città.

Non mancarono feste; ve ne furono per tutti i gusti, alla Società del Giardino, in Casa Batthiany, ed in casa Serbelloni; Metternich, che faceva parte del seguito imperiale diede un grande ballo, al quale intervennero Francesco I, Carolina Augusta, gli Arciduchi, gli altri Sovrani italiani, e pressochè tutta l'aristocrazia milanese.
Da Milano, gli Imperiali, accompagnati da Ranieri e da Elisabetta si recarono a Genova a visitarvi la Regina di Sardegna, Maria Teresa, vedova di Vittorio Emanuele I ivi ritirata con le figlie.
Milano, che dalla venuta di Francesco I, sperava parole di oblio e di pace, se non di libertà, ebbe invece rabuffi e promesse di ulteriori severità, e così la visita non servì a nulla. Di ciò si diede colpa al Vice-Re, il quale benchè pregato da più parti, non disse una parola a favore dei condannati dello Spielberg.
Al di fuori degli affari politici e amministrativi, il Vice-Re proteggeva artisti e letterati, occupandosi molto pure della istruzione: gli scultori Marchesi e Sangiorgio, il pittore triestino Giuseppe Gattesi, furono da lui continuamente incoraggiati, come lo fu l'editore Bettoni, ed il famoso medico Antonio Scarpa, al quale diede anche una decorazione; nel 1844, quando si radunò a Milano il Congresso dei Dotti, egli fu chiamato a presiederlo. Sovente accompagnato dalla Vice-Regina non mancava di assistere a distribuzioni di premi, ad accademie letterarie o musicali, ed era assiduo frequentatore del Teatro alla Scala, e degli spettacoli, che si davano all'Arena.
In linea generale, gli Arciduchi non accettarono quasi mai inviti a feste in case private; tanto l'uno che l'altro non amavano la nobiltà lombarda, ritenuta poco deferente verso la Corte.
Quando nel 1837, si ventilò l'idea d'una esposizione di prodotti industriali a Brera, egli fu tra i promotori, e se essa riuscì, lo si deve in grande parte al suo autorevole appoggio.

Sotto il di lui governo, si fece il primo tronco ferroviario Milano-Monza, il ponte collegante Venezia colla terra ferma, e si inaugurò sul lago di Garda, col battello «Arciduca Ranieri » il primo servizio lacuale di posta e di passeggeri.
Alla Vice-Regina competevano tutte le opere di carità a cui dedicava molta parte della stila giornata ; essa specialmente si occupava dell"infanzia e fondò ben cinque asili in Milano. Per raccogliere i mezzi necessari onde sovvenire ai bisogni di essi, aprì una lotteria, che fruttò oltre trenta mila lire austriache, nè all'uopo mancarono i trattenimenti musicali per aumentare il fondo. Per queste sue opere benefiche ebbe dedicate, secondo la moda d'allora, numerose strenne di capo d'anno.
Al Club dei Nobili, lei presente, cantò la celebre Giuditta Pasta a favore dell'Opera Pia degli asili Infantili. Quando nel 1836, andò a visitare il primo fondato, a Santa Maria Segreta, un bambino recitò i seguenti versi:
Ove l'infanzia ha sede
Porti il regal tuo piede
Così alle madri ebree
Il Divin Nazareno,
Fu udito un giorno dire
Lasciatemi venire
I fanciulletti al seno !


Madre di otto figli, nati fra il 1821 e il 1830, la Vice-Regina, di carattere piuttosto affettuoso, amava assai i bambini, e torna a tutto suo onore l'avere tolto dai pericoli della strada e dell'abbandono, tanti fanciulli. A distorglerla da queste occupazioni di beneficenza venne l'arrivo (1838) dell'Imperatore Ferdinando I, successo da tre anni al padre Francesco I sul trono austriaco.
Veniva con la consorte, Maria Anna di Savoia e seguito da molti arciduchi per incoronarsi Re del Lombardo-Veneto.
Si voleva rinnovare lo splendore della cerimonia di tren
tatre anni prima, fatta da Napoleone I; ma se il grande Corso, aveva per sè un fulgido corredo di gloria, Ferdinando I, non aveva al suo attivo che una incompleta amnistia per i condannati politici. E bisogna pur dirlo, il Vice-Re Ranieri, che era andato incontro all'imperiale nipote a Innsbruch, si oppose tenacemente a che si largheggiasse nella clemenza.
Già nel 1835, interpellato, aveva dato parere sfavorevole all'amnistia, e quando venne ugualmente concessa, egli ne intralciò più che potè l'applicazione rendendola per tale modo quasi nulla nei suoi effetti. Quale meraviglia dunque se si diceva che la sua amministrazione non dava affidamento di giustizia ?
La Vice-Regina coi figli, si era portata a Como, ad attendere là l'arrivo degli Imperiali; indi si unì al corteo che si recò a Monza, dopo una breve fermata alla Villa del Gernetto dal Conte Mellerio, e di quì fece poi il suo ingresso in Milano il 1° settembre.
Tralasciamo di parlare delle feste fatte in quei giorni a Milano presenti quasi tutti i sovrani d'Italia e della solenne incoronazione avvenuta nel Duomo il giorno 6 seguente; ne parleremo nel capitolo seguente.
Terminati i clamori per le feste della incoronazione, Ferdinando e Maria Anna, accompagnati dai Vicereali, si recarono a Pavia, dove il 18 venne a visitarli il Re Carlo Alberto, che non aveva - con grande giubilo dei liberali - mandato alcun suo rappresentante per la cerimonia di Milano. Del colloquio fra i due Sovrani nulla trapelò, solo si seppe che in quella occasione si parlò di due combinazioni matrimoniali fra le due Corti.
Altre occasioni di feste e ricevimenti durante il lungo soggiorno a Milano - malgrado le frequenti assenze a Vienna od a Venezia - non mancarono agli Arciduchi: a Palazzo vi era un continuo passaggio di principi, erano gli Infanti di Spagna e di Portogallo, il Duca di Bordeaux pretendente al trono di Francia, i Principi d'Orleans, gli Imperiali di Russia, la Regina Maria Teresa, moglie di Carlo Alberto, senza contare i parenti d'Asburgo.
L'anno seguente (16 marzo '39) gli Arciduchi ebbero la sventura di perdere il loro ultimo nato Massimiliano, il quale ebbe funerali grandiosi e venne sepolto sotto l'altare maggiore nella Chiesa di S. Fedele a Milano. Questa morte piombò Elisabetta, attaccatissima alla prole, in un dolore profondo. Per lungo tempo, anche dopo il lutto di prammatica, non volle più saperne di feste, visse ritirata in Palazzo o alla Villa Reale ai Giardini, con le sue dame e con poche amiche intime. Quando non abitavano Milano, Monza o Stra, i ViceReali, conducevano una esistenza tranquilla, borghese, semplice, come ebbe anche a notarlo la Principessa di Metternich, la quale dopo avere trovata molto aimable, la Vice-Regina, durante una visita a Vienna nel 1832, dice che Elisabetta, conduceva vita semplice, « sans orgueil ni dans la conversation, ni dans les manières» Prediletto particolarmente era il soggiorno nella magnifica Villa del Pizzo, sul lago di Como, acquistata nel 1840.
Quando l'Arciduca Ranieri, si trovava al Pizzo, essendo un distinto botanico, si occupava esclusivamente di piante. I giardini tanto ammirati oggi, furono da lui creati con grande dispendio: vi si notano ancora parecchie piante, che furono materialmente piantate da lui, e qualcuna di queste dedicate alla Vice-Regina, che lasciò fama nel paese di donna molto bella, gentile e caritatevole. I figli facevano invece una vita poco famigliare, perchè quasi sempre affidati a un precettore che li educava con grande rigore.
Tutta la famiglia arciducale amava molto quel soggiorno; Ranieri si considerava un privato, faceva vita ritiratissima con la moglie e i figli, coi quali usciva raramente, e solo per qualche gita in barca sul lago.
Tutto ciò che si dice di convegni politici, di ricevimenti e di baldorie al Pizzo, non ha ombra di fondamento, è tutta fantasia di romanzieri.
Nell'agosto 1840, tutta la famiglia Vicereale, fu ospite di Carlo Alberto a Racconigi, e fu durante questo soggiorno, che vennero combinati i due matrimoni, dei quali si è fatto cenno, quello cioè di Vittorio Emanuele, Duca di Savoia, erede del trono, con l'Arciduchessa Maria Adelaide, e quello del Principe Eugenio di Carignano con l'Arciduchessa Carolina.
La domanda della mano della Arciduchessa Adelaide che nel 1836, si era trattato di dare ad un fratello del Re di Napoli, venne fatta il 17 ottobre 1841 a Vienna, dal Conte Vittorio di Sambuy, Inviato Sardo: i patti nuziali, furono sottoscritti nel Palazzo Colloredo, alla presenza di tutta la Famiglia Imperiale, fissando il matrimonio per la primavera successiva.
A Milano, la notizia venne accolta con piacere dagli austriacanti; della letizia della cittadinanza, si fecero interpreti il Conte Cesare di Castelbarco e Domenico Biorci, con due buone poesie. Il municipio, o meglio la Congregazione Municipale, come si chiamava allora, stabilì di presentare alla sposa, un ricco dono, consistente in una brocca e bacile d'argento con dorature. Carlo Casati scrive a questo proposito, che gli artisti « ai quali fu affidata l'esecuzione, si fecero perdonare la loro lentezza, creando uno squisito lavoro d'arte ; e furono per il disegno l'Albertolli e Luigi Sabatelli, l'insigne pittore e, per il cesello il milanese Giovanni Bellezza, che emulò il Cellini e creò una nuova scuola. Costò il dono più di 40 mila lire».
Allorchè il dono venne esposto al Broletto, nel 1847, i milanesi corsero in folla ad ammirarlo.
Ranieri ed Elisabetta accompagnarono la sposa a Torino, seguiti dalle loro Case Civili e Militari e dall'altra loro figlia l'Arciduchessa Carolina, nonchè dai figli Leopoldo, Ernesto e Sigismondo, dell'Arciduca Ferdinando, e dal Maresciallo Radetzki, nominato da qualche anno governatore militare di Milano.
Al ponte del Ticino, confine Lombardo-Piemontese, la comitiva venne ricevuta dai Conti di Robilant e Provana, gentiluomini di Camera del Re Carlo Alberto. Le nozze furono celebrate a Stupinigi il 10 aprile 1842, benedette dall'Arcivescovo di Torino, Monsignor Franzoni.
Negli intendimenti austriaci, questo matrimonio come già quello di Elisabetta con l'Arciduca Ranieri, doveva rassodare i vincoli di parentela fra le Case di Savoia e di Asburgo, e perciò venne giudicato assai male dai patrioti, che temevano un infeudamento di Carlo Alberto alla politica reazionaria di Vienna.
Prima di fare ritorno a Milano, i Vicereali visitarono la Savoia e parte della Svizzera. I sospetti crebbero a dismisura allorquando l'anno seguente, il medesimo Conte di Sambuy, faceva, il 27 settembre, la domanda della mano dell'Arciduchessa Carolina, sorella di Maria Adelaide d'Austria, per il Principe Eugenio di Carignano. Senonchè, venuta a morte, la principessa per clorosi in Vienna il 23 gennaio seguente, non si parlò più d'altra sposa austriaca per il Principe Eugenio.
Le nozze di Maria Adelaide, con Vittorio Emanuele, porsero occasione alla Vice-Regina di recarsi a Torino parecchie volte, accompagnata sovente da qualcuno dei suoi figli, per le nascite e i battesimi dei suoi nipotini, Clotilde, Umberto, Amedeo, ove talvolta s'incontrava pure con la madre, principessa di Montléart, per la quale nutriva sempre la più affettuosa riverenza. Quando quest'ultima fu ammalata a Vienna, e non potendo essa recarsi a trovarla, ne provò vivissimo dispiacere, come si rileva da una sua lettera scritta alla duchessa di Modena, Maria Beatrice Vittoria di Savoia.
Vennero poi notizie buone : « ma pauvre excellente mère qui est mieux grace au ciel, mais loin d'étre guerie » e la cui pazienza durante la malattia era stata «une chose inconcevable». Sicuramente sarebbe di grande interesse, onde poter meglio lumeggiare il carattere della Vice-Regina, la conoscenza della sua corripondenza, sperduta negli archivi di Stato od in case private. Essa ci sarebbe pure di grande aiuto per la storia del Risorgimento.
Un altro dolore, misto a spavento, provò la Vice-Regina, allorchè verso le 7 pomeridiane del 26 aprile 1843, mentre il Consorte rincasava a piedi in compagnia d'un ciambellano, venne aggredito nei pressi del Duomo da uno squilibrato, il facchino Giovanni Sinelli. Benchè cadesse a terra, l'Arci-Duca usci fortunatamente incolume dal proditorio attentato che suscitò nella cittadinanza, allorchè lo si seppe, il più vivo stupore.
Benchè l'aggressione non fosse motivata da ragioni politiche, tuttavia a Vienna fece impressione, sapendo come a Milano le cose volgessero molto male per la politica austriaca. La rivolta si annunciava in mille incidenti, che davano luogo a manifestazioni sovversive: ora per l'elezione di Pio IX, ora per i funerali di Confalonieri, ora per l'ingresso in Milano dell'arcivescovo Monsignor Romilli. Alimentavano il malcontento, sabaudisti e repubblicani, mentre il partito governativo andava scomparendo.
Alle feste di Corte, l'aristocrazia non presenziava quasi più; le poche dame, che vi andavano, erano derise e Carlo d'Adda sferzava in sonori versi quei nobili che accettavano la carica di Direttori dei Balli a Palazzo. Le sale rimanevano semi deserte con grande disappunto della Vice-Regina, alla quale l'ostilità delle classi elevate milanesi, faceva pronunciare parole amare.
Il Conte Ottavio Tasca, descrisse gli ultimi ricevimenti di Corte, con una smagliante ironia, che mise di buon umore tutti gli avversari del dominio austriaco.

Ben poche matrone di Milano,
In cui l'ambizione era sì forte,
Sì prepotente il genio cortigiano
Da farsi un nume degli onor di Corte,
Fra le altre sedean dame tedesche
Che quasi le tenean per lor fantesche.
E quando l'infelice principessa
L'usato giro fea, morta di noia,
Ripetean tutte la menzogna istessa
« Che bella festa, Altezza, oh che gran gioia ! »
Mentre per lungo tedio eran ridotte
Sui scanni a sbadigliar sin mezzanotte !
(Addio all'ex Vice-Re, Ranieri).
Per quanto i versi siano cattivi, la descrizione è salata ! Ad un torneo in costume, dato nella Cavallerizza di Corte, eseguito dai figli del Vice-Re, non intervenivano che poche persone, quelle che per le loro cariche amministrative o di Palazzo, non potevano esimersene. Ad un ballo, dato nel febbraio 1847 non intervennero che sei signore! Lo stesso accadeva nelle occasioni dei pranzi per gli onomastici dell'Imperatore e dell'Imperatrice. Il vuoto intorno a loro si faceva ogni giorno più palese, più sentito, la generazione nuova era la più irriducibile nei suoi sentimenti antiaustriaci, che non si preoccupava di occultare. La diffidenza aumentava in ragione dell'oppressione, e piuttosto di subirla, la parte intellettuale di essa emigrava in Piemonte od in Svizzera.
Il Vice-Re era ridotto ad essere soltanto in relazione con la burocrazia e con alcuni ribaldi della Polizia, come il Torresani, il Pachta, il Bolza, che onorò di sua fiducia, i quali però gli nascondevano il vero stato d'animo del paese, ch'egli non era per nulla riuscito a conoscere.
Le cariche di Corte, di volta in volta, che si rendevano vacanti, venivano date a tedeschi, a ungheresi, a croati, nessun italiano volendo accettare di coprirle.
L'Arciduca era ormai inviso a tutti, non aveva saputo farsi amare, volendo accontentare tutti, non aveva accontentato nessuno. La poca affezione, che i milanesi avevano avuto per lui, era scomparsa per sempre, ed egli se ne vendicava chiudendo i circoli, ove i suoi atti erano messi in ridicolo o censurati.
Quando qualcuno si lamentava di qualche sopruso e chiedeva giustizia, rispondeva invariabilmente: farò, vedrò, dirò, quel che Potrò !
Veder nulla, dir nulla, non far nulla,
Fuorchè tutti burlar fu sua divisa !
Quando usciva, i monelli, circondavano la sua carrozza, gridandogli: farò, vedrò, dirò, con grande sua ira.
Trovandosi la sera dell'8 giugno 1846, al Teatro della Canobbiana, con la sua famiglia, ed il pubblico avendo bissato cinque volte l'inno a Pio IX, il giorno dopo lo proibiva, ma ugualmente per le vie tutti lo cantavano. Ed a proposito di Pio IX, Alfredo Comandini, in una postilla alle « Memorie » dell'Hubner, racconta il seguente aneddoto, che riguarda la Vice-Regina : «Gran Maggiordonna era la contessa Maria di Castelbarco nata Freganeschi, Dama dell'Ordine della Croce Stellata e Dama di Palazzo dell'Imperatrice. La contessa di Castelbarco, verso la fine del 1847, era andata a Roma, riportando una magnifica spilla al petto col ritratto di Pio IX, ornata di brillanti, e con quella spilla si presentò a Corte, dove tutte le dame intervenute la ammirarono. La Vice-Regina disse qualche parola dura alla contessa, la quale indignata lasciò poco dopo la festa, e l'indomani mandò le sue dimissioni. Le dame milanesi disertarono le conversazioni della Vice-Regina, affrettandosi a quelle della Castelbarco ».
Ora il fatto, pure essendo bello, non corrisponde alla verità: da una discendente della Contessa Maria di Castelbarco Freganeschi, ci venne assicurato che le cose andarono un po' differentemente. La Vice-Regina si sarebbe solo limitata a dire: «Come mai Contessa, anche lei è entusiasta di Pio IX ?».
E nulla più, non vi furono perciò nè dimissioni dalla carica, nè visite di solidarietà per così dire delle dame milanesi. Aggiungerò, che non soltanto l'Arciduchessa Elisabetta, non rivolse parole dure alla sua Maggiordonna, ma volle regalarle prima di lasciare Milano, un braccialetto, con tre cuori, uno bianco, uno verde, ed uno rosso; per quanto semplice, la cosa non mancava di avere un significato simpatico.
La Contessa di Castelbarco, rimase in buoni termini con la Casa Imperiale, come lo prova il fatto seguente quando dieci anni dopo venne a Milano, quale Governatore, l'Arciduca Massimiliano d'Austria, le venne offerta ancora la carica di Gran Maggiordonna, presso l'Arciduchessa Carlotta, che essa però non volle accettare.

La situazione in tutto il Lombardo-Veneto e in particolar modo a Milano era giunta ad un punto tale di tensione, che Metternich giudicò opportuno di mandare a Milano il Conte di Ficquelmont quale consigliere intimo del Vice-Re, onde aiutarlo nel governo. Le cose andavano prendendo una piega allarmante, che i fatti sanguinosi del 3 gennaio 1848, nel quale giorno le soldatesche avvinazzate sciabolarono i pacifici cittadini che si astenevano dal fumare, non fecero che ancor più impensierire la Corte di Vienna.
Il Vice-Re pubblicava in un blando proclama, nel quale parlava delle fondate speranze ché non sarebbero andati delusi i voti dei sudditi innalzati al trono, i quali reclamavano giustizia. Intanto giungevano dalla Carinzia, dalla Stiria, battaglioni croati ad esasperare la cittadinanza, in mezzo alla quale cresceva il fermento per l'oltraggio patito. Ranieri faceva allora arrestare il Marchese Gaspare Rosales, il Marchese Cesare Stampa Soncino, Achille Battaglia, Manfredo Camperio e Ignazio Prinetti, i quali venivano tradotti i primi tre a Lubiana, e gli altri due a Linz.
Il Principe di Metternich prevedendo altri guai, consigliò l'Imperatore Ferdinando, a trasferire la residenza del Vice-Re da Milano a Verona, piazza forte ben difesa, in comunicazione col Tirolo, ad uguale distanza fra Milano e Venezia, dove avrebbe trovato maggiore libertà d'azione e sicurezza. Nello stesso tempo Ficquelmont veniva sostituito dal Conte di Hubner, e a Milano si proclamava il giudizio statario.
L'Hubner, il quale doveva poi rimanere prigioniero degli insorti nelle Cinque Giornate, lasciò nelle sue citate « Memorie » questo apprezzamento sulla Vice-Regina. Dopo aver detto ch'essa seguiva con attenzione lo svolgersi degli avvenimenti politici, non solo a Milano, ma nella penisola, scrive : «Essa é alta della persona e snella, ha il portamento maestoso, i lineamenti nobili, due begli occhi parlanti, originalità di spirito e facile parola. Alcune persone la trovano altera: mi è sembrata affascinante e mi sono ritirato sotto l'incanto della sua persona e del suo spirito».
Gemma Giovanili scrive che «era donna di eletto ingegno, di molta coltura e di nobile sentire e tutto ciò unito ad un carattere gaio e ad una operosità di buona madre di famiglia, diligentissima nell'educazione dei figli, da cui era idolatrata»; ad essi aveva dato per direttore degli studi Francesco Ambrosoli, buon letterato di quei tempi, il quale insegnò loro con scarso profitto ad amare il paese ove erano nati.
Gli scrittori dell'Archivio Triennale, dicono invece che essa aveva indole avida e superba, noncurante di popolarità, ma nauseata cordialmente dei gradassi dello Stato Maggiore, che insegnavano ai suoi figli, l'arte di farsi odiare, mentre essa voleva inculcare loro sentimenti italiani. E furono odiati davvero ! Malgrado la devozione per la madre, essi furono nemici irreconciliabili delle aspirazioni italiane, tenendo in nessun conto gli insegnamenti ricevuti; solo l'Arciduchino Enrico, detto «Stenterello » l'unico che nutrisse un po' d'affetto per l'Italia, si vendicava di loro, dileggiandoli per il loro austriacantismo. Il marito a sua volta, la teneva il più possibile lontana dagli affari politici, per cui la misera principessa, per sapere qualcosa doveva rivolgersi ad estranei.
Essa vedeva giornalmente crescere intorno alla sua famiglia l'avversione, per cui non desiderava che di allontanarsi al più presto da Milano. E l'Arciduca vi si preparava, vendendo la villa del Pizzo, la tenuta di Pojana, ipotecando il fondo di Casirate, congedando la servitù, facendo imballare tutte le suppellettili dei Palazzi di Milano e di Monza.
Sulla fine del febbraio, giungeva ad eccitare gli animi la notizia della rivoluzione di Parigi, ed alle tre del mattino del 17 marzo - cosa per nulla imprevista - un corriere portava a Palazzo l'annunzio della rivoluzione vittoriosa di Vienna. Fu un allarme generale, e si pensò subito a partire, prima che la notizia propalatasi per la città non vi fomentasse la rivolta, che avrebbe certamente trattenuto come ostaggio la famiglia arciducale.
Con la moglie, tutta spaventata ed in lagrime, e coi tre figli Leopoldo, Ranieri e Enrico, egli lasciava il Palazzo due ore dopo, scortato da 50 usseri «senza lasciare un rimpianto un amico, una istituzione» in un paese dove pure aveva vissuto trent'anni; l'Italia gli era rimasta straniera come il primo giorno che vi era venuto. La sua fu una mistificazione di autorità !
Il Governatore Spaur e Ficquelmont, essendo stati chiamati a Vienna, sin dal giorno 9, la città rimaneva in balia della brutalità di Radetzki e del Vice Governatore O'Donnell.
Nello stesso giorno la famiglia Vicereale giungeva a Brescia, fiancheggiata dai granatieri italiani, mentre gli altri due figli Arciduca Sigismondo e Arciduca Ernesto, si trovavano il primo a Bergamo ed il secondo a Lodi.
Il 18 Ranieri entrava in Verona, e prendeva alloggio all'Albergo delle due Torri, ove la popolazione gli fece prima una dimostrazione ostile, ma con artificiose melensi parole, egli seppe abilmente cambiare i fischi in applausi, concedendo tutto quanto una commissione di cittadini recatasi da lui, reclamava. Per tale modo, trattenendo la popolazione dall'insorgere in favore di Milano, dava tempo al Generale d'Aspre e a Radetzki di arrivare con le loro truppe.
Ranieri pensò allora di andare a Mantova, ma la Vice-Regina, che temeva per i figli, consigliò il fedelissimo Tirolo; infatti, partì, o meglio fuggì, la notte dal 25 al 26, in direzione di Bolzano, temendo sempre di essere arrestato dai contadini insorti, come lo fu per poche ore a Riva. Da Bolzano ove lasciò la moglie e i figli, andò subito a Innsbruch, a prendere gli ordini dell'Imperatore Ferdinando, là rifugiatosi con la Corte; fu accolto malissimo e invitato a provvedere alla difesa del Tirolo minacciato dai generali italiani Arcioni e Alemandi.
Il 6 aprile emanò da Bolzano, un proclama invitando i valligiani a combattere per la salvezza del paese e questo fu l'ultimo suo atto politico. Non partecipò alla guerra, e quando le armi di Carlo Alberto, furono sconfitte definitivamente nell'agosto 1848, e a Milano il Governo Austriaco tornò a comandare, non si parlò più di rimandarlo quale Vice-Re. D'altronde dal nuovo Imperatore Francesco Giuseppe I, salito al trono il 2 dicembre 1848 in virtù d'una cospirazione di palazzo, che aveva costretto Ferdinando I ad abdicare, egli non era benvisto.
D'allora in poi, visse quasi sempre appartato con la moglie nella sua villa di Bolzano, occupandosi di agricoltura; il suo nome comparve ancora nei giornali dell'epoca, nel febbraio del 1852, allorchè suo figlio Ranieri sposò a Vienna, l'arciduchessa Maria Carolina, figlia dell'Arciduca Carlo Lodovico, una delle più intellettuali e simpatiche principesse di Casa d'Austria. Questo principe, che morì a Vienna il 27 gennaio 1913, era coltissimo, amava molto la lingua e la musica italiana; da giovane aveva frequentato qualche corso dell'Università di Pavia, e rimase tutta la sua vita in eccellenti rapporti con la Casa Reale Italiana.
Fu l'ultima sua gioia; Ranieri ritornato a Bolzano, vi moriva il 16 gennaio 1853, alle dieci di sera, per infiammazione polmonare, dopo quattro giorni di malattia, presa in un ballo alla Società del Casino. Spirò nelle braccia della moglie, nessuno dei figli, essendo presente; arrivarono solamente dopo i funerali, compresa Maria Adelaide, Regina di Sardegna, che giunse accompagnata dalla figlia Clotilde.
Vedova e sola, furono questi gli anni tristi di Elisabetta di Savoia Carignano: trascurata dai figli e dalla Corte Imperiale per la sua origine sabauda, ella sentiva il vuoto intorno a sè che la compagnia della Contessa Woyna, che da quasi trent'anni si trovava con lei, quale dama d'onore, non bastava a colmare.
La guerra del 1848-1849 le aveva fatto versare torrenti di lacrime, condizione penosa la sua, predetta da Berchet nella poesia citata, essa non sapeva a chi augurare la vittoria. Da una parte i figli, il marito, dall'altra il fratello, i nipoti, la famiglia da cui era uscita.
Rinchiusa nel suo dolore, nessuno più la vide; era stanca di vivere; il fratello Carlo Alberto era morto in esilio, la madre era morta pure a Moncalieri nel 1851, dopo una visita alla tomba del figlio a Superga ed ora la sua figlia prediletta, Maria
Adelaide era essa pure morta in Torino il 20 gennaio 1855.
Nessuno dei cinque figli superstiti stava con lei, ed è molto se le scrivevano: mai solitudine fu più lamentevole della sua, era precocemente invecchiata e nessuno avrebbe più riconosciuto nella principessa in abiti neri di lutto, dall'aspetto grave e taciturno, la bellissima e brillante Vice-Regina di un tempo. Solo gli occhi avevano conservato il loro primitivo splendore e stavano per spegnersi.
Morì a Bolzano il 25 dicembre 1856, alle ore 3 e mezza pomeridiane dopo breve malattia, poiché il 23 era ancora andata in carrozza chiusa all'asilo infantile della città, per preparare l'albero di Natale e i doni destinati ai bambini. I funerali, ai quali intervennero i figli, la nuora, l'Arciduca Carlo Lodovico, il governatore del Tirolo, e le autorità militari, vennero celebrati nella chiesa cattedrale dal vescovo di Trento, assistito dagli abati di Milten, Neustift, Murissino, e dal prevosto di Bolzano.
Nessun membro di Casa Savoia, venne a Bolzano per queste esequie ed a quanto mi consta Vittorio Emanuele II non si fece nemmeno rappresentare. La sua morte fece prendere il lutto alla Casa Imperiale, e ritardò l'ingresso di Francesco Giuseppe I in Milano.
Fu presto dimenticata in Austria ed in Italia; si era quasi alla vigilia di avvenimenti politici straordinari, e tutte le menti non pensavano che alla guerra, tanto da una parte, che dall'altra.
Altre notizie di lei non è stato possibile raccogliere; la Contessa Woyna non lasciò, purtroppo, memorie o scritti, i quali indubbiamente ci avrebbero illuminati sui casi della sua vita, coinvolta in così drammatiche vicissitudini.
D'altronde, se ella entrò in una famiglia la quale in Italia non seppe farsi amare, è giustizia riconoscere, che gli odi suscitati dagli atti dei reggitori stranieri non s'estesero alle loro mogli "congiunte incolpevoli, le quali pure seppero scendere dal trono con dignità" e sopportare in silenzio le conseguenze immeritate della ostilità popolare. E Maria Francesca Elisabetta di Savoia Carignano, fu una di queste.

MARIA ANNA DI SAVOIA
Imperatrice D'Austria - Regina d'Ungheria e di Boemia (1803 - 1884)
Da Vittorio Emanuele I e da Maria Teresa d'Asburgo ospiti a Roma del Principe Filippo Colonna, Gran Connestabile del Regno di Napoli, marito di Caterina di Savoia Carignano, nascevano il 19 settembre 1803 due gemelle.
Il battesimo veniva somministrato ad entrambe, due giorni dopo nella Cappella del Palazzo Colonna, dal Papa Pio VII, presente il Re abdicatario Carlo Emanuele IV, tutta la Corte Reale, quella Pontificia, dodici cardinali, molti prelati, principi romani, ed una parte del corpo diplomatico.
Alla prima delle neonate vennero imposti i nomi di MARIA TERESA ed alla seconda quelli di MARIA ANNA CAROLINA, ed a ciascuna di loro Sua Santità aggiunse il nome di Pia.
Padrino e madrina di tutte e due furono gli avi materni, Arciduca Ferdinando d'Austria e Arciduchessa Maria Beatrice Ricciarda d'Este sua consorte, rappresentati dal Principe Carlo Felice, Duca del Genevese e dalla Principessa Beatrice, rispettivamente zio e sorella.
Terminata la cerimonia fu servito agli invitati « uno squisito rinfresco di gelati e di dolci » con ogni genere di confetture e biscotteria.
Un documento conservato nell'archivio Colonna, dopo di avere descritto nei più minuti particolari, la cerimonia, aggiunge: «Finalmente a gloria dell'inclito Sovrano di Sardegna, non si deve tacere che per sì lieta occasione la Maestà sua, oltre le mance di quattrocento scudi fatte alla famiglia pontificia ed alla guardia svizzera, regalò quattro tabacchiere d'oro, non meno ricche che belle, una per ciascheduno a Monsignor Sacrista, al primo e al secondo cerimoniere, ed a Mons. Fornici, come segretario del cerimoniale, e fece inoltre distribuire abbondante lemosina ai poveri, i quali accorsero in gran numero a godere della regia piissima liberalità ».
Crebbe la futura imperatrice in un ambiente di tristezza e di sofferenze, tra il padre bonario e mite e la madri altera, smaniosa di comando e che mal sopportava i disagi della vita errante, alla quale da quattro anni era costretta con la famiglia, che continuava a crescere.
Tanto a Roma, nel Palazzo Colonna, quanto ad Albano nel Casino del Connestabile, i Reali di Savoia conducevano una vita assai modesta e tranquilla. Vivevano in quell'epoca in Roma, il fratello del Re, Carlo Emanuele IV, che aveva abdicato al trono il 4 giugno 1802, il Duca e la Duchessa di Chiablese, la principessa Leopolda di Savoia Carignano, sorella della Colonna, sposata al principe Doria Pamphilj, il Cardinale Enrico Stuart, Duca di York, cugino del Re, il quale dimorava nel vicino palazzo Muti Papazzurri, e molti gentiluomini piemontesi i savoiardi, devoti e fidati.
La nobiltà romana, i cardinali, i prelati, modellandosi sull'esempio dei Pontefici, circondavano la Famiglia Reale Sabauda di alto edeferente ossequio.
Ma nel 1804, dietro pressioni di Napoleone I, il Papa era stato costretto ad invitare il Re a cercarsi un'altra residenza, ed allora egli si rifugiava a Gaeta ove stette fino al 1806, anno in cui dovette cercare con la famiglia un più sicuro riparo in Sardegna, unico lembo di sovranità territoriale rimastogli.

Nella sfortunata isola regnava la più squallida miseria il palazzo reale di Cagliari, abbandonato, cadente in rovina, mancava di ogni cosa necessaria, dai mobili agli oggetti di cucina. Si faceva vita non di stenti, come pretesero taluni storici, ma di grandi ristrettezze, poiché le risorse economiche del paese erano quasi nulle: il Re era alla mercè di una pensione molto aleatoria del Governo inglese e dei sussidi, che a lui passavano i sovrani d'Austria e di Russia. Unici sprazzi di felicità fra tante pene, fu la nascita della principessa Maria Cristina nel 1811, e nel 1812 il matrimonio della principessa Beatrice, primogenita, accordata in sposa a Francesco IV d'Austria, Duca di Modena.
Otto anni stette la famiglia reale a Cagliari, in attesa di eventi, che modificassero la situazione europea, ciò che infatti avvenne nel 1814 con la caduta di Napoleone I. Non soltanto vennero allora al Re restituiti integralmente gli antichi Stati di terra ferma, ma il Congresso di Vienna volle ingrandirli con il territorio della Repubblica di Genova. Vittorio Emanuele I, partì, subito dall'isola su di un vascello inglese, il Boin, e dopo essersi incontrato, durante il viaggio, con la nave, che conduceva all'Isola d'Elba Napoleone, vinto e fremente di sdegno, il 20 maggio sbarcava a Genova.
L'ingresso in Torino, che avvenne il 24, fu un trionfo: Vittorio Emanuele I acclamato dal popolo, era raggiante, la soddisfazione e la gioia si leggevano nei suoi occhi. Si sentiva ampiamente compensato di tanti anni di privazioni, di pericoli e di ansie.
Poco dopo lo raggiungeva la famiglia e con essa ebbe l'onore di accogliere Pio VII, che dalla prigionia di Francia ritornava a Roma.
Nella severa Reggia di Torino, alla giovane principessa Maria Anna, ed alle sorelle, sembrava di sognare dopo tante peripezie e la vita squallida di Cagliari: le belle villeggiature di Stupinigi, del Valentino, di Moncalieri, di Venaria, parevano a lei ed alle sorelle altrettanti Eden. L'educazione delle principesse affidata alle cure della madre, nulla lasciava a desiderare; esse crescevano fiori di avvenenza e di virtù, modello alle altre principesse d'Italia. Nel 1820, la sorella gemella Maria Teresa, andava sposa a Carlo Lodovico di Borbone, duca di Lucca, e per l'occasione la vecchia capitale subalpina vide magnifiche feste.
Volarono sette anni ! La improvvisa rivoluzione del 1821, venne a scuotere la tranquillità dello Stato e la fiducia del Re, che si era cullato nell'illusione di una perfetta calma. Piuttosto di concedere la costituzione reclamata dai rivoltosi, egli abdicava (13 marzo 1821) in favore del fratello Carlo Felice, duca del Genevese, allora residente alla Corte di Modena nominando reggente il Principe Carlo Alberto di Carignano. Quello che successe poi è di notorietà storica e non è qui il caso di ripeterlo.
Con la Regina e le figlie, Vittorio Emanuele si ritirò prima a Racconigi, indi a Nizza Marittima ove ebbe accoglienze cordialissime ed affettuose dalla popolazione, per trasferirsi di poi nel Castello di Moncalieri ove moriva il 10 gennaio 1824, raccomandando al fratello la consorte e le principesse ancora nubili.
Maria Teresa si stabilì a Genova, dove andò ad abitare nel Palazzo dei Duchi di S. Giovanni, poi in quello di Tursi, da lei acquistato, cercando nella larga parentela di sovrani il modo migliore di accasare degnamente le figlie.
Nel 1825 si recò con Maria Anna e Maria Cristina, a Roma per il Giubileo, trattenendosi fino a maggio e vi ritornò ancora per la chiusura, che avvenne il 21 dicembre.
Papa Leone XII, volle durante questi due soggiorni regalmente ospitarla con le figlie nel Palazzo Quirinale.
Sul finire del 1830, MARIA ANNA fatta ormai donna, molto bella e gentile, veniva chiesta in sposa dall'imperatore Francesco I d'Austria, per il di lui primogenito l'Arciduca FERDINANDO, natogli da Maria Teresa di Borbone-Napoli, il 19 aprile 1793, e coronato Re d'Ungheria il 28 ottobre 1830, col nome di Ferdinando V.
La domanda era molto lusinghiera e vantaggiosa sotto tutti i rapporti. Mai, infatti, nel corso dei secoli, alcuna principessa di Savoia aveva cinto il diadema imperiale austriaco: tale altissimo onore toccava ora a sua figlia.
Le nozze sontuosissime vennero celebrate prima per procura il 12 febbraio a Torino, indi in persona a Milano il 27 febbraio 1831, presenti la madre, le sorelle Duchesse di Lucca e di Modena, la Principessa Maria Cristina, il Re Carlo Felice, con la consorte Cristina di Borbone, parecchi arciduchi, moltissimi dignitari austriaci, ungheresi ed italiani. Da Milano, ove le feste durarono parecchi giorni, la coppia si recò a Vienna; quì ricevette splendida accoglienza da tutta la famiglia imperiale, anche se le giunse purtroppo la notizia della morte dello zio Carlo Felice.
Buona, intelligente, istruita, piacque allo sposo, e nessuna nube venne mai ad offuscare la loro unione.
Nel 1832 provò grande dolore per la morte della madre avvenuta a Genova (29 marzo) e subito pensò al collocamento della sorella MARIA CRISTINA, rimasta alla Corte di Torino presso il Re Carlo Alberto, di cui era molto affezionata. Per essa trovò infatti un partito conveniente in Ferdinando II di Borbone, Re di Napoli.
Sottomessa ai voleri del vecchio ed autoritario Francesco I ed ai capricci di Ferdinando mezzo epilettico, Maria Anna fu moglie esemplare, e sul di lei conto la malignità di corte non ebbe motivo di esercitarsi. Unico suo grande dispiacere era la mancanza dei figli.
Il 2 marzo 1835, alla morte di Francesco I, cinse col marito la corona imperiale, fra una straordinaria magnificenza: l'anno seguente il 2 settembre veniva incoronata Regina di Boemia a Praga, fra l'esultanza di tutto il popolo, il quale, in segno di giubilo, fece ai Sovrani il donativo di 50 mila zecchini, che Maria Anna, volle fossero distribuiti ai poveri.

Benchè lontana dalla patria, conservava sentimenti italiani, come ne fanno fede queste parole da lei rivolte ad una deputazione lombarda, venuta a sollecitare l'Imperatore, perché venisse a cingere in Milano la corona ferrea «Nata e cresciuta sotto il placido cielo d'Italia, non cesserò mai di prendere il più vivo interesse alla vera prosperità di quella parte della monarchia, che voi rappresentate».
Attaccatissima alla sorella Maria Cristina soffrì molto quando morì: questa santa sovrana, le aveva scritto poco prima di spegnersi: «Io mi morrò e voglio lasciare alla mia Maria Anna, la cosa più cara che io abbia», e con la lettera, le aveva mandato alcuni graziosi disegni eseguiti dal loro padre Vittorio Emanuele I e da essa religiosamente conservati.
Parlando ad una sua Dama di compagnia della defunta Regine ebbe a dire : «Cristina deve avere esercitato grandi atti di vittoria su di se stessa, prima di giungere ad operare come faceva. Per me, io credo che avesse fatto anch'essa il voto di Santa Teresa, quello cioè di fare sempre ciò che avesse conosciuto essere il più perfertto ».
Fu il 6 settembre 1838 che, nel Duomo di Milano, riccamente addobbato, Ferdinando I e Maria Anna venivano incoronati Re del Lombardo-Veneto dai Cardinali di Venezia e di Milano ed alla presenza dell'Arciduca Ranieri, Vicere, dell'Arciduchessa Maria Elisabetta di Savoia-Carignano, di innumerevoli personaggi ufficiali, militari, civili ed ecclesiastici del regno. Sparo di cannoni, luminarie, riviste di truppe, banchetti a Corte circondarono di maggiore solennità la cerimonia per la quale erano giunti ad assistervi gli Inviati di tutti i vari Governi d'Italia, tranne quello di Carlo Alberto, già a ferri corti con l'Austria. Di questa assenza, l'Imperatrice soffrì molto, per quanto non lo desse a vedere pubblicamente. Per la ricorrenza, Ferdinando I concesse anche un'amnistia a tutti i condannati per reati politici, oltre ad avere concretate, consigliato dalla consorte, diverse opere di utilità pubblica.
Parlando in quest'occasione, di Maria Anna Carolina, lo scrittore Ignazio Cantù, che la vide ed ebbe anche l'onore di esserle presentato, la chiama «donna di rare virtù, che portava seco la ricordanza e il desiderio della terra dei suoi padri ».
Non avendo figli - nè maschi nè femmine - essa non ebbe alcuna influenza sugli affari politici dell'impero, ma ne ebbe molta sul marito, uomo debole di mente, privo di qualsiasi energia, interamente abbandonato nelle mani di Metternich. Qualche altro dispiacere non le mancò, per la lotta, che dovette sostenere con la cognata, l'intrigante Arciduchessa Sofia di Baviera - moglie del principe Francesco Carlo, fratello di Ferdinando I - la quale essendo madre di parecchi maschi, si atteggiava a dominatrice della Casa Imperiale, e di nascosto ordiva piccole dimostrazioni di palazzo contro il Sovrano. La sua vita d'Imperatrice si ridusse alle solite feste ufficiali, vivendo per il resto quasi sempre appartata dai membri della famiglia imperiale. Amareggiata per la morte della sorella Beatrice, Duchessa di Modena e per la cattiva piega che prendevano gli affari dello Stato, ne fece avvertito il marito, il quale tutto dedito a futilità, commetteva errori sopra errori, non accorgendosi che il vasto impero abbisognava di urgenti e liberali riforme. L'uragano intanto si addensava cupo e minaccioso sull'orizzonte politico.
Improvvisamente la sera del 3 gennaio 1848 le vie di Milano venivano insanguinate. Un comitato patriottico avendo emanato un proclama clandestino, in cui si avvertiva la cittadinanza di astenersi dal fumare per rispondere ai soprusi del Governo di Vienna, nacquero zuffe fra i pacifici cittadini, i soldati e gli sbirri croati avvinazzati, ostentanti sigari sulle labbra.
Vi furono 59 feriti e 5 morti, tutti cittadini inermi! Fu in questa circostanza dolorosa che l'Imperatrice ricordando di essere italiana, scrisse la più bella pagina della sua vita. La narra il Bonfadini, nel suo aureo volume « Mezzo
secolo di patriottismo », con queste parole:
« Da Vienna arrivò un giorno un plico suggellato all'ufficio che dirigeva la colletta aperta per i feriti del 3 gennaio, in casa Borromeo. Conteneva diecimila lire, e le mandava l'Imperatrice d'Austria, quella Maria Anna, figlia di Vittorio Emanuele I...
«Ci pare bene e giusto ricordare che da una donna, da una italiana, da una Principessa di Casa Savoia era partita in quei giorni, frammezzo a così truce ribollire di passioni, l'unica inspirazione alta di politica e di umanità ».
Questo atto nobilissimo, che sollevò in Italia un coro unanime di lodi, in Austria, invece, venne interpretato come un incoraggiamento alla ribellione e l'Imperatrice dovette subire le rimostranze di Ferdinando I e degli Arciduchi, e le ire di tutti i "retrogradi". Dirò anzi che questo simpatico gesto non le venne mai perdonato dalla camarilla di Corte e dall'elemento militare, che contro di essa si sbizzarrì nelle più volgari accuse e contumelie.
Ben altri guai, nel frattempo stavano per scoppiare in Austria.
Infatti, come un fulmine giungeva a Vienna, poco dopo, la notizia della rivoluzione di Francia, che aveva balzato dal trono il Re Luigi Filippo.
Il 13 marzo seguente scoppiava la rivoluzione nella capitale, mentre a Milano, neppure una settimana dopo, avvenivano le gloriose "Cinque Giornate".
La rivoluzione di Vienna, iniziata dagli studenti, trovò il governo pronto a soffocarla: l'Arciduca Albrecht fece immediatamente intervenire la truppa, a distruggere le barricate, mentre per dare una concessione all'opinione pubblica, l'Imperatore congedava l'odiato Metternich.
Infine il giorno 15, stretto dalla marea rivoluzionaria che si era estesa a tutto lo Stato, egli concedeva la Costituzione, con un Ministero responsabile presieduto dal conte Kolowrat. Ciò valse a sedare in parte i tumulti scoppiati a Cracovia, a Leopoli, ad Agram, a Praga ed in altri centri dell'Impero, ma non disarmò i malcontenti.
Vienna, infatti, non si acquietava, per cui non sentendosi più sicuro nella capitale, Ferdinando con l'Imperatrice e tutta la Corte, il 26 maggio, riparava in Innsbruch, tra i fedeli tirolesi.
Tutto l'Impero era in un fermento straordinario; l'Ungheria, il Veneto, la Lombardia e la Galizia erano insorte l'Imperatore, privo di Metternich, non sapeva a quale partito appigliarsi, dibattendosi in continue incertezze. Lo terrorizzavano poi le vittorie che Carlo Alberto riportava contro le sue truppe sui campi lombardi, e l'insurrezione ungherese lo irritava profondamente. In questi frangenti l'Imperatrice Maria Anna seguiva il marito - figura passiva e dolorosa - i suoi consigli non essendo ascoltati nè da lui nè dai ministri: vedeva le oscure perfidie dell'Arciduchessa Sofia, ed era imponente a sventarle, priva come era di autorità dinanzi alla famiglia, da cui era malvista per la sua parentela con Carlo Alberto.
Il 22 luglio 1848, l'Arciduca Giovanni apriva il primo Parlamento austriaco ed il 12 agosto seguente Ferdinando faceva ritorno a Vienna, con la famiglia, accolto freddamente dalla popolazione, che tornò ad insorgere. Si rifugiò allora con l'Imperatrice a Olmutz e fece assediare la capitale, mentre il Parlamento si trasferiva a Kremsir in Moravia.
Non sapendo come dominare la situazione, che andava ogni giorno peggiorando, sospintovi da una cospirazione di palazzo, stanco di governare, il 2 dicembre 1848, abdicava al trono con grande giubilo della Arciduchessa Sofia, il cui suo primogenito Francesco Giuseppe, era chiamato a succedergli.
***
Maria Anna di Savoia scese dal trono imperiale, senza rimpianti e senza alterigia. Si allontanò dalla Corte, ove sapeva di non essere amata, a motivo della sua origine italiana, mantenendo con essa relazioni strettamente ufficiali.
Avendo l'Imperatore Ferdinando scelta per sua residenza Praga, visse con lui, circondata da un rimasuglio di Corte, non ingerendosi in alcun modo negli affari dello Stato.
Durante i lunghi anni vissuti nella capitale della Boemia, ricevette molti sovrani e principi di passaggio per la città, alcuni dei quali furono suoi ospiti: fra questi ci fu una volta la Duchessa di Genova, con la figlia principessa Margherita, futura Regina d'Italia e suo nipote Francesco II ex Re di Napoli.
Con tutti i membri di Casa Savoia, mantenne costantemente rapporti affettuosi, per quanto non ci risulti ch'essa sia venuta in Italia, dopo il 1838, a visitarli.
Vide da lontano i matrimoni dei nipoti, la scossero i rombi di guerra del 1859, vide l'Austria passare da governo assoluto a governo costituzionale, vide il compromesso con l'Ungheria, apprese con dolore la morte di Massimiliano al Messico, ma nulla la trasse dal suo ritiro, ove si occupava di opere di carità, di letture ascetiche o storiche ed assistendo l'Imperatore, caduto in una semi-infermità di mente. I giornali e le cronache per trentasei anni non parlarono più di lei, intorno a cui tutto un mondo si era trasformato.
Il generale Enrico Morozzo Della Rocca, che nel 1850 la ossequiò a Praga, lasciò scritto nella sua «Autobiografia di un Veterano : «La principessa Maria Anna era la più intellettuale delle due gemelle: non era più bella, ma sempre piacente e disinvolta». L'ex Imperatrice, conversando affabilmente in dialetto piemontese con il generale, presente pure la vecchia governante, marchesa di S. Giorgio, si mostrò assai bene al corrente di ogni cosa, della vita pubblica d'allora in Italia.
Tranne questo breve cenno, altro non ho trovato della sua vita di raccoglimento a Praga. Molti dispiaceri vennero a rattristarla; l'assassinio del nipote Carlo II di Borbone, la cacciata degli altri nipoti dai troni di Napoli, Modena e Parma, ed infine la morte dell'ultima sorella, Maria Teresa, ex duchessa di Lucca.
Il 29 giugno 1875, chiudeva gli occhi all'Imperatore Ferdinando I, al quale doveva sopravvivere nove anni ancora.
Maria Anna, ultima superstite del ramo primogenito di Casa Savoia, si spense serenamente il 4 maggio 1884, confortata dalla benedizione di Leone XIII, al quale legò 300 mila fiorini.
I beni ch'essa possedeva in Lombardia e nel Veneto, toccarono al nipote ex Re di Napoli, e le rimanenti sostanze andarono divise fra gli altri congiunti.
Ai suoi funerali in Vienna, che furono grandiosi - costarono 120 mila corone - intervennero tutti i membri della famiglia imperiale austriaca, e numerosi principi stranieri. La casa reale d'Italia era rappresentata da Amedeo, Duca d'Aosta, già Re di Spagna.
Il giorno 15 nella chiesa della Congregazione Italiana di Vienna, venne celebrata in suffragio dell'anima sua, una messa da requiem, alla quale assistette tutta la colonia italiana e le grandi cariche dello Stato.
Il nome dell'Imperatrice Maria Anna, è ricordato in Roma, unitamente a quello del consorte, da una iscrizione posta sulla facciata dell'antico ospedale dei Boemi, in piazza Sforza Cesarini, alle cui spese di restauro, entrambi avevano concorso con una vistosa elargizione.
Durante la sua lunga permanenza in Austria, beneficò largamente le congregazioni Italiane di Vienna e di Praga, che la ebbero patronessa fedele ed assidua.
Presso la Chiesa di Corte del S. S. Sudario, si conserva una pianeta di velluto nero ricamato, la quale cominciata dalla Regina di Sardegna, Maria Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele II, e rimasta incompiuta per la morte della pia Sovrana nel 1855, venne da essa condotta a termine.


ALTRE PRINCIPESSE SABAUDE
SPOSATE A SOVRANI E PRINCIPI STRANIERI

AGNESE, di Pietro di Savoia e di Agnese di Poitou, sposata a Federico Conte di Montbeliard e di Lussemburgo. Vedova prima del 1091 entrò in un chiostro e vi morì dopo il 1110.
ADELAIDE, di Oddone, Conte di Savoia e di Adelaide di Susa, sposata a Rodolfo, Duca di Svevia, Imperatore di Germania nel 1077, riconosciuto da Papa Gregorio VIII, incoronato a Magonza con la consorte.
Adelaide morì nel 1079, la sua salma venne tumulata nel monastero della Selva Nera.
ADELAIDE, di Umberto II, Conte di Savoia e di Gisla di Borgogna, sposata
1° nel 1115 a Lodovico VI, il Grosso, Re di Francia, morto nel 1137;
2° a Matteo Signore di Montmorency.
Nel 1148 pretese succedere al fratello Amedeo III, ma le sue pretese non furono accolte. Con l'autorizzazione di Papa Eugenio III, fondò nel 1147 l'abbazia di Montmartre.
Vedova si rinchiuse nel 1153 in un monastero e vi morì l'anno dopo.
AGNESE, di Umberto II, Conte di Savoia e di Gisla di Borgogna, sposata a Arcimboldo, Conte di Borbone. Morì dopo il 1159.
MARGHERITA, di Tommaso I, Conte di Savoia e di Agnese di Fossignì, sposata
1° nel 1218 a Moudon nel paese di Vaud, a Ermanno Conte di Kibourg e di Baden, morto nel 1264;
2° a Eberardo Conte d'Asburgo, morto nel 1283.
Ebbe infeudati i castelli di San Maurizio e Montereuz, e testò a favore di Filippo di Savoia. La data della sua morte non è registrata dagli storici.
AVITA, di Tommaso I, Conte di Savoia e di Agnese di Fossignì, sposata nel 1257 a Baldovino Conte di Devonshire, morto nel 1261. Nozze combinate dalla cugina Eleonora, Regina d'Inghilterra.
BEATRICE, di Amedeo IV, Conte di Savoia e di Cecilia di Barral del Balzo, due matrimoni
1° nel 1258 a Pietro di Chalon ;
2° nel 1269 a Emanuele Principe di Castiglia.
Era destinata dalla famiglia allo stato religioso e doveva entrare nel monastero di Betton (Savoia), ma poi le fu concesso di accasarsi. In un primo tempo era stata promessa a Giacomo d'Aragona.
ELEONORA, di Amedeo IV, Conte di Savoia e di Cecilia di Barral del Balzo, sposata nel 1269 a Guiscardo di Beaujeu, Signore di Montpensier.
BEATRICE, di Pietro II, Conte di Savoia e di Anna di Fossignì, due matrimoni
1° nel 1241 a Giovanni XII Delfino di Vienna (Francia);
2° nel 1273 a Gastone di Bearn.
Morì nel 1310. Ricchissima, possedeva molte terre e castelli nella Savoia e nel Cantone di Vaud, i cui redditi spese in opere benefiche e nella fondazione del Priorato delle Certosine di Melan (1292), nella cui chiesa volle essere sepolta.
ELEONORA, di Tommaso II, Conte di Moriana e di Fiandra e di Beatrice Fieschi, sposata nel 1270 a Luigi de Foréts, Signore di Beaujolais e di Dombes. Morì il 6 dicembre 1296 e venne sepolta nella chiesa dei Francescani di Villafranca, che in vita aveva assai beneficato.
BONA, di Amedeo V, Conte di Savoia e di Sibilla di Baugé, sposata nel 1282 a Ugo di Borgogna.
ELEONORA di Amedeo V, Conte di Savoia e di Sibilla di Baugé, matrimoni
1° a Parigi nel 1292 a Guglielmo di Chalon ;
2° a Mello di S. Erminio ;
3° a Giovanni Conte de Foréts.
Viveva ancora nel 1325.
MARIA, di Amedeo V, Conte di Savoia e di Maria di Brabante, sposata a Ugo Delfino di Vienna (Francia), morto nel 1324.
Morì ad Evian nel 1336, lasciando erede delle proprie sostanze Aimone Conte di Savoia e la madre.
CATERINA, di Amedeo V, Conte di Savoia e di Maria di Brabante, sposata a Zurigo nel 1310 a Leopoldo d'Asburgo, Duca d'Austria, figlio dell'Imperatore Alberto. Morì nel 1326 e venne sepolta nella chiesa del monastero di San Biagio nella Selva Nera.
GIOVANNA, di Edoardo, Conte di Savoia e di Bianca di Borgogna, sposata a Chartres, a Giovanni III Duca di Bretagna, morto nel 1341.
Donna irrequieta, cupida di comando e di onori, alla morte del padre avvenuta nel 1329, pretese di succedere negli Stati di Savoia. Spedì all'uopo a Chamberì appositi deputati, ma gli Stati Generali immediatamente convocati, risposero negativamente, tanto più che non aveva prole.
Trasmise per testamento questi suoi ipotetici diritti a Filippo Duca d'Orleans figlio del Re di Francia, cosa che in seguito procurò molte noie alla Casa di Savoia.
Mori a Vincennes il 29 giugno 1344, in un monastero ove si era ritirata. A lei si deve la fondazione del convento di Montmartre.
MATILDE, di Amedeo, Principe d'Acaia e di Morea e di Caterina di Ginevra, sposata nel 1417 a Luigi di Wittelsbach, Duca di Baviera, figlio di Roberto Imperatore.
All'atto del matrimonio rinunciò a favore di Amedeo VIII Duca di Savoia, ai diritti provenienti dalla successione materna.
Morì nel 1424, e venne sepolta a Eidelberga.
MARGHERITA, di Amedeo VIII e di Maria di Borgogna, 3 matrimoni
1° a Luigi III d'Angiò, Re titolare di Sicilia morto nel 1434
2° nel 1444 a Luigi di Wittelsbach, Duca di Baviera, figlio di Roberto, Imperatore ;
3° a Ulderico Conte di Wùrtemberg.
Morì a Stoccarda nel 1468.
MARGHERITA, di Lodovico, Duca di Savoia e di Anna di Cipro, 2 matrimoni
1° nel 1457 a Giovanni IV, Marchese di Monferrato, molto nel 1464;
2° a Pietro di Lussemburgo decapitato nel 1475 per ordine di Luigi XI.
Morì in Bruges nel 1485 e venne sepolta nella chiesa di Cercamp.

AGNESE, di Lodovico, Duca di Savoia e di Anna Cipro, sposata nel 1466 a Francesco d'Orleans, Conte di Longueville.
MARIA, di Lodovico, Duca di Savoia e di Anna di Cipro, sposata nel 1466 a Luigi di Lussemburgo, Conte di SaintPol, decapitato il 19 dicembre 1475.
La consorte lo aveva preceduto di qualche mese nella tomba.
MARIA, di Amedeo IX Duca di Savoia e di Jolanda di Francia, 2 matrimoni
1° a Filippo di Baden, Margravio di Hochberg e Rothelin ;
2° a Giacomo d'Assés du Plessis.
Morì dopo il 1508.
MADDALENA, di Renato, Conte di Tenda e di Anna Lascaris di Ventimiglia, sposata nel 1521 a Anna di Montmorency Connestabile di Francia. Francesco I, che assistette alle nozze le regalò le Baronie di Fère e Momberon.
Fu Dama d'onore della Regina Elisabetta d'Austria consorte del Re Carlo IX, e grande nemica degli Ugonotti.
MARGHERITA, di Renato, Conte di Tenda e di Anna Lascaris di Ventimiglia, sposata ad Antonio di Lussemburgo nel 1536. Alle nozze assistette il Re Francesco I di Francia.
ENRICHETTA, di Onorato, Conte di Tenda e di Francesca di Foix, 2 matrimoni
1° a Melchiorre di Prez ;
2° a Carlo di Lorena, Duca di Mayenne. Testò nel 1608.
GIOVANNA, di Filippo, Duca di Nemours e di Carlotta d'Orleans-Longueville nata nel 1532 a Annecy. Sposò Nicola di Lorena, Duca di Merceur nel 1555 in Fointainebleau, presente il Re Enrico II con tutta la Corte.
Morì a Parigi nel 1568.
ANNA VITTORIA, di Tommaso Luigi, Conte di Soissons e di Urania de la Cropte, nata l'11 settembre 1684 a Parigi. Sposata nel 1738 a Federico Duca di Sassonia Hildburghausen
Visse a Chamberì: erede dei beni immensi dello zio, il celebre principe Eugenio, testò a favore del cugino Benedetto Maurizio di Savoia, Duca di Chiablese, figlio del Re Carlo Emanuele III.
Morta a Torino l'11 ottobre 1763, venne sepolta nella chiesa di S. Filippo.
ANNA TERESA, di Vittorio Amedeo Principe di Carignano e di Vittoria di Luynes, nata il 1° novembre 1717, sposata nel 1741 a Carlo Principe di Rohan-Soubise.
Morì a Parigi il 5 aprile 1745.
GABRIELLA, di Luigi Vittorio, Principe di Carignano e di Cristina Ernestina di Assia Rheinfels-Rothemburg, nata il 17 marzo 1748.
Sposata nel 1769 a Ferdinando Principe di Lobkowitz.
Vedova nel 1784, visse ritirata e morì il 10 aprile 1828. Venne sepolta nella chiesa di Cappuccini di Raudnitz.
CLOTILDE, di Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna (1849) Re d'Italia (1861) morto nel 1878 e di Adelaide Arciduchessa d'Austria (morta 1855), nata il 2 marzo 1843, sposata il 30 gennaio 1859 al principe Napoleone Gerolamo Bonaparte (morto 1891) morta a Moncalieri il 25 giugno 1911.
MARIA PIA, sorella della precedente, nata il 16 ottobre 1847, sposata il 6 ottobre 1862 a Luigi I, Re di Portogallo (morto 1889) morta a Stupinigi il 5 luglio 1911.
BONA, di Tommaso, Duca di Genova e di Isabella di Baviera, era nata il 10 agosto 1896, sposata a Corrado Duca in Baviera, l'8 gennaio 1921.
Morta il 26 febbraio 1924.
l'ultima tragedia
MAFALDA MARIA ELISABETTA
Secondogenita di Vittorio Emanuele III, Re d'Italia e di Elena Petrovich di Montenegro, nata a Roma il 19 novembre 1902, maritata a Racconigi il 23 settembre 1925 con il principe Filippo di Assia (Landgrave Philipp von Hesse) del ramo primogenito, langraviale, tenente nell'esercito prussiano, nato a Rumpenheim il 6 novembre 1896. Con il partito nazista von Hesse ebbe un grado nelle SS e vari incarichi.
Dal matrimonio ebbero quattro figli:
* Maurice Frederick Charles (Racconigi, 6 agosto 1926) sposò nel 1964 la Principessa tedesca Tatjana di Sayn-Wittgenstein-Berleburg, da cui divorziò nel 1974
* Henry William Constantine (Roma, 30 ottobre 1927-Langen, 1999)
* Otto Adolf (Roma, 1937 –Hannover, 1998) sposò nel 1965 Angela von Doering da cui divorziò nel 1969; seconde nozze nel 1988 con la cecoslovacca Elisabeth Bönker, da cui divorzio nel 1994.
* Elisabeth Margarethe Elena Johanna Maria Jolanda Polyxene (Roma, 1940) sposò nel 1962 Friedrich Carl Gf von Oppersdorff (1925-1985).


Mafalda di Savoia è morta nel "Lager di Buchelwald" il 24 agosto del 1944, alle 4 del pomeriggio nella baracca n. 15, dove era stata rinchiusa per 11 mesi col nome di Frau von Weber, a seguito di una incursione aerea anglo-americana sul campo.
Estratta dal cumolo di macerie, gravemente ferita, i capelli bruciati, scottature in tutto il corpo, fu ricoverata nell'infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del campo, dove, dopo una affrettata visita, fu abbandonata sola in una stanza del postribolo, e dove dopo quattro giorni nei tormenti delle piaghe, cessò di vivere la notte del giorno 28.

Nel lager vi era stata deportata il 23 settembre del 1943, dopo essere stata arrestata il 22 settembre a Roma.
Dalla capitale a fine agosto del '43, si era recata dalla sorella a Sofia per onorare il cognato Boris di Bulgaria (si dice fatto uccidere da Hitler per non essersi schierato con la Germania).
Ci si chiede come mai il padre permise la sua partenza per Sofia visto che era al corrente di ciò che stava per succedere dal 3 settembre in poi.

Il 7 settembre Mafalda riparte da Sofia per l'Italia; l'8 settembre è a Budapest; dall'Italia (come del resto è accaduto a MARIA JOSE' ) nessuno la mette in allarme per l'armistizio; il 9 settembre forse qualcuno la informa che c'è stata la "fuga" a Chieti (non a Pescara) così si appresta a prendere un aereo di fortuna per raggiungere i fuggiaschi, purtroppo nel posto sbagliato. Infatti, atterrata a Chieti Scalo il 12, e non trova nessuno. I tedeschi di KESSELRING sono impegnati alla liberazione di Mussolini, l'aeroporto è già in mano ai tedeschi e le strade da Pescara a Roma pure.
Potrebbe fuggire, come hanno fatto tanti, compresi i suoi augusti genitori e fratello, a Brindisi, ma lei ha i quattro figli a Roma, e quindi riparte per la capitale ormai in mano tedesca.
Essendo col matrimonio diventata cittadina tedesca perchè moglie di un ufficiale tedesco, forse pensa che a Roma i tedeschi l’avrebbero rispettata. Ma non sa che in Germania il marito, pur essendo della SS, è addirittura sospettato di aver complottato nell'attentato a Hitler.

A Roma vi giunge con mezzi di fortuna solo il 22, e fa appena in tempo a rivedere i figli, custoditi in Vaticano da un certo Montini (futuro Papa VI); poi il 23 mattina, all'improvviso, è chiamata al comando tedesco con urgenza, per l'arrivo di una chiamata telefonica del marito da Kassel in Germania (anche lui come Boris, pur all'inizio della sua carriera tedesco devoto al suo paese, è diventato anti-nazista, o meglio anti-Hitleriano - addirittura come detto sopra sospettato di aver complottato nell'attentato a Hitler).
La chiamata telefonica è un tranello. Mafalda è subito arrestata e, messa su un aereo, la sua prima destinazione è Bolzano, nel campo di concentramento di via Resia (la prima tappa di tutti gli italiani che hanno "tradito", prima di proseguire per la germania). Pochi giorni dopo giunge a Monaco, poi a Berlino, infine viene deportata al lager di Buchenwald, baracca n. 15, sotto il nome di Frau von Weber, col divieto di rivelare la propria identità. E come anonima vive nel campo per 11 mesi trascorrendo il terribile inverno del '43. In Italia nessuno sa dove è finita.


Alle 4 del pomeriggio del 24 agosto 1944 una incursione di bombardieri anglo-americani su Buchenwald centra il lager e la baracca n. 15, dove è rinchiusa nell'anonimato da 11 mesi la principessa sabauda. Estratta dal cumolo di macerie, gravemente ferita, i capelli bruciati, con scottature in tutto il corpo, fu ricoverata nell'infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del campo, dove, dopo una affrettata visita, fu abbandonata sola in una stanza del postribolo. Dopo quattro giorni trascorsi nei tormenti delle piaghe, cessò di vivere la notte del giorno 28.

A Roma per andare al comando tedesco, si era vestita - pensando che si trattasse di un impegno di pochi minuti - con un modesto vestito nero. Con quello fu arrestata, con quello era partita, e per undici mesi nel lager avrà solo quel lugubre vestito addosso, e con quello - la più sfortunata principessa di casa Savoia - morirà. Il cadavere - uscito dall'infermeria del postribolo - fu inumato in una fossa comune, con il cartello "N. 262 eine enberkannte fraue" (donna sconosciuta). Solo grazie ad alcuni italiani scampati al lager a fine del conflitto, fu ritrovata la salma, poi inumata a Konberg in Taunus (Francoforte sul Meno) dove oggi si trova.
Come abbiamo detto all'inizio, la storia non è nè poesia, nè romanzo, ma è costellata di prepotenze, di arbitrii, di dolorosi eventi e, spesso, di grandi tragedie come questa.

FINE

Testi di riferimento di queste biografie:
"Principesse sabaude nella storia di altri Paesi" di O.F. Tenzajoli, 1930
"I Savoia" di D. Cinti (1929)
"I Savoia" di E. Janni (1925)

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