RIVOLUZIONE FRANCESE


MONTESQUIEU
e "LO SPIRITO DELLE LEGGI"


Charles-Louis de Secondat,
barone di La Brede e di Montesquieu
(1689-1755)


Nato da nobilissima famiglia nel castello di La Brede (Bordeaux) nel 1689.
Compiuti gli studi giuridici, si dedicò interamente alla riflessione storica e politica.

Nel 1721 pubblicò le Lettres Persanes.  Il filosofo si mette la maschera di un giovane persiano in viaggio per la Francia, e costruisce una critica caustica dei costumi e delle istituzioni politiche francesi, colpendo in particolare l'oscurantismo religioso e l'assolutismo monarchico.
(il ricordo di Luigi XIV è recente (1814) ; le ultime sciagurate guerre pure; a Wersailles si è sfiorata la bancarotta con lo spregiudicato Law; mentre Luigi XV è ancora un bambino di 11 anni).  

Dal 1721 al 1734 Montesquieu viaggia in Germania, Italia, Svizzera, Inghilterra; ritornato in Francia pubblica Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza. Una riflessione morale sulla storia.

Ma l'opera più importante e monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro, Montesquieu la pubblica anonima nella Ginevra di Rousseau, nel 1748: "LO SPIRITO DELLE LEGGI".

Due volumi, trentuno capitoli, un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento.
L'opera venne attaccata da gesuiti e giansenisti e messa all'indice nel 1751, dopo il giudizio negativo della Sorbona. (parlando di Libertà non poteva capitargli di meglio!!! - A Voltaire era andata peggio, era finito già alla Bastiglia, e ci stava ritornando per la seconda volta, ma fece in tempo per darsela a gambe levate, iniziando così il suo "vagabondaggio illuminista" nelle varie corti europee).

Nel libro XI de "LO SPIRITO DELLE LEGGI" Montesquieu traccia la teoria della separazione dei poteri. Partendo dalla considerazione che il "potere assoluto corrompe assolutamente", l'autore analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario

Montesquieu cercò di dimostrare come, sotto la diversità capricciosa degli eventi, la storia abbia un ordine e manifesti l'azione di leggi costanti.
Le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale e arbitrario, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, ecc. Al pari di ogni essere vivente anche gli uomini, e quindi le società, sono sottoposte a regole fondamentali che scaturiscono dall'intreccio stesso delle cose.

Queste regole non debbono considerarsi assolute, cioè indipendenti dallo spazio e dal tempo; esse al contrario, variano col mutare le situazioni;  come i vari tipi di governo e delle diverse specie di società. Ma, posta  una società di un determinato tipo, sono con ciò stesso dati i principi ai quali essa non può derogare pena la sua rovina. Ma quali sono i tipi fondamentali  in cui si può organizzare il governo degli uomini?

Montesquieu nel lungo capitolo XXVIII, l'ultimo del libro diciannovesimo, analizza i generi di poteri, e traccia la costituzione fondamentale di un governo.

Montesquieu nell'esporla tocca il suo apice, rendendo accessibili i temi fondamentali della libertà politica, e quindi i tipi di governo degli uomini; che sono tre: la repubblica, la monarchia e il dispotismo.
Ciascuno di questi tre tipi ha propri principi e proprie regole da non confondersi tra loro.
Il principio che deve informare di sé la repubblica è la virtù, cioè l'amor di patria e dell'uguaglianza; il principio della monarchia è l'onore; il principio del dispotismo, il terrore.

"Per scoprirne la natura è sufficiente l'idea che ne hanno gli uomini meno istruiti. Io suppongo tre definizioni o piuttosto tre fatti: che il governo repubblicano sia quello in cui il popolo, nel suo complesso o soltanto parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma attraverso leggi fisse e stabilite; mentre nel governo dispotico un solo individuo, senza leggi né regole, trascina tutto secondo la sua volontà o i suoi capricci".

Quest'ultimo governo non retto dalle leggi ma dalla forza e dall'arbitrio illimitato di un singolo, é considerato da Montesquieu un ordinamento minato da una permanente contraddizione: esso dovrebbe garantire la sicurezza e la pace dei sudditi a prezzo della loro libertà, ma la tranquillità e la sicurezza sono incompatibili con il terrore, che è il principio su cui si fonda il suo potere.

"Al polo opposto del dispotismo è la repubblica, cioè la forma di governo in cui il popolo è al tempo stesso monarca e suddito. L'essenza di questo governo è che il popolo fa le leggi e elegge i magistrati, detenendo sia la sovranità legislativa che quella esecutiva".
(qui Montesquieu guarda alle repubbliche del mondo antico, entità politiche di limitate dimensioni territoriali, che consentiva a ogni cittadino di essere informato di tutte le questioni  che vi si dibattevano. Ma presuppongono altresì la totale devozione del singolo agli interessi della comunità. Mancando queste due fondamentali condizioni le repubbliche decadono e si trasformano (e ci sono note) in tirannie).

"La forma che sta in mezzo
....(qui M. guarda con simpatia oltre Manica dove ha soggiornato) ... è la monarchia regolata, la monarchia costituzionale", in cui Montesquieu vede contemperate le caratteristiche positive sia del regime monarchico assoluto che di quello repubblicano. L'esempio di questa forma di governo a "costituzione mista" è rappresentato dall'Inghilterra, il cui ordinamento Montesquieu considera come la più alta espressione di libertà. (Non dimentichiamo le Lettere sugli inglesi di Voltaire (che fece circolare manoscritte)  che sono di 12 anni prima, del 1734, dopo un soggiorno in Inghilterra di due anni. Lettere che sono il primo canto del "gallo della rivoluzione".

"Ma la tesi fondamentale - prosegue Montesquieu- è che può dirsi libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui confidato. L'unica garanzia contro tale abuso è che "il potere arresti il potere", cioè la divisione dei poteri: il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario (i tre poteri fondamentali) debbono essere affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti convertendosi in abuso dispotico. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perchè annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o "garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica".

Dobbiamo dunque ritornare al già citato libro XI

"Bisogna porre dei limiti al potere..."

"Il POTERE corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente": partendo da questa considerazione Montesquieu  traccia  la  teoria della separazione dei poteri, analizzando in particolare il modello costituzionale inglese (cap. VI). Tale teoria, già espressa da Locke nei suoi Trattati sul governo, divenne, grazie all'opera di Montesquieu, una delle pietre angolari di tutte le costituzioni degli stati sorti dopo il 1789. (anche se quella inglese era stata creata esattamente 100 anni prima!)

"LIBERTA' - Non vi è parola che abbia ricevuto, maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito la mente in tante maniere come quella di libertà. Gli uni l'hanno intesa come la felicità di deporre colui a cui avevano conferito un potere tirannico; gli altri, come la facoltà di eleggere quelli a cui dovevano obbedire; altri ancora, come il diritto di essere armati e di poter esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione, o dalle proprie leggi. Un certo popolo ha preso per molto tempo la libertà per l'uso di portare una lunga barba. Alcuni hanno dato questo nome a una forma di governo e ne hanno escluso le altre. Coloro che avevano gradito il governo repubblicano, l'hanno messa nella repubblica; quelli che avevano goduto del governo monarchico, nella monarchia [...]. 

"Infine, siccome nella democrazia sembra che il popolo faccia più o meno quello che vuole, la libertà è stata collocata in questo genere di governo, e si è confuso il potere del popolo con la libertà del popolo. E' vero che nelle democrazie sembra che il popolo faccia ciò che vuole; ma la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. Bisogna fissarsi bene nella mente che cosa è l'indipendenza, e che cosa è la libertà". 

"La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del pari questo potere. La democrazia e l'aristocrazia non sono Stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati. Tuttavia non sempre è negli Stati moderati; vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne; va avanti finché trova dei limiti. Chi lo direbbe! Perfino la virtù ha bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere".

 "Una costituzione può esser tale che nessuno sia costretto a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quello che la legge permette [...]. In ogni Stato vi sono tre generi di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono  dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. 
* In forza del primo, il principe, o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già state fatte. 
* In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. 
* In forza dei terzo, punisce i delitti o giudica le controversie dei privati". 


"Chiameremo quest'ultimo il potere giudiziario, e l'altro semplicemente il potere esecutivo dello Stato. La libertà politica per un cittadino consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dall'opinione che ciascuno ha della propria sicurezza; e perché si abbia questa libertà, bisogna che il governo sia tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino". 

"Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libértà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall'esecutivo. 
Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo (come un Re. Ndr), o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati [...]". 

(qui ci viene in mente un certo 8 settembre 1943! Ndr.)

" Il potere giudiziario non dev'essere affidato a un senato permanente, ma dev'essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell'anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità. In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente dei giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati. Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d'accordo con le leggi, si scelga i giudici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta. Gli altri due poteri potrebbero esser conferiti piuttosto a magistrati o ad organismi permanenti, poiché non vengono esercitati nei riguardi di alcun privato: non essendo, l'uno, che la volontà generale dello Stato, e l'altro che l'esecuzione di questa volontà. Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi devono esserlo a un punto tale da costituire sempre un preciso testo di legge. Se fossero una opinione particolare del giudice, si vivrebbe nella società senza conoscere esattamente gli impegni che vi si contraggono [...]". 


" Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé . Si conoscono molto meglio i bisogni della propria città che quelli delle altre città, e si giudica meglio la capacità dei propri vicini che quella degli altri compatrioti. Non bisogna dunque, che i membri del corpo legislativo siano tratti in generale dal corpo della nazione, ma conviene che in ogni luogo principale gli abitanti si scelgano un rappresentante. Il grande vantaggio dei rappresentanti è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è per nulla adatto, il che costituisce uno dei grandi inconvenienti della democrazia. Non è necessario che i rappresentanti, che hanno ricevuto da chi li ha scelti una istruzione generale, ne ricevano una particolare su ciascun affare, come si pratica nelle diete della Germania. E' vero che, in tal modo, la parola dei deputati sarebbe più diretta espressione della voce nazionale; ma farebbe incappare in lungaggini infinite, renderebbe ogni deputato padrone di tutti gli altri, e, nei casi più urgenti, tutta la forza della nazione potrebbe essere arrestata da un capriccio [...]".

 "Tutti i cittadini, nei vari distretti, devono avere il diritto di dare il loro voto per scegliere il rappresentante, eccetto quelli che sono in uno stato di inferiorità (!? Ndr.) tale da esser reputati privi di volontà propria. La maggior parte delle antiche repubbliche aveva un grave difetto: il popolo, cioè, deteneva il diritto di prendervi delle risoluzioni attive, che comportano una certa esecuzione, cosa di cui è completamente incapace. Esso non deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. Infatti, se poche sono le persone che conoscono l'esatto grado di capacità degli uomini, ciascuno tuttavia è in grado di sapere, in generale, se colui che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri [...]". 

"Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili (!? Ndr.) e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi distinti. Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo composta di nobili (!? Ndr.) è adattissima a produrre questo effetto [...]". 

"Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca (!? Sta parlando un barone! Ndr.) perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo. Infatti, se non vi fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe piú libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell'uno e nell'altro. Se il corpo legislativo rimanesse per un tempo considerevole senza riunirsi, non vi sarebbe più libertà. Infatti vi si verificherebbe l'una cosa o l'altra: o non vi sarebbero più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia; o queste risoluzioni verrebbero prese dal potere esecutivo, il quale diventerebbe assoluto [...]". 


"Se il corpo legislativo fosse riunito in permanenza, potrebbe capitare che non si facesse che sostituire nuovi deputati a quelli che muoiono; e in questo caso, una volta che il corpo legislativo fosse corrotto, il male sarebbe senza rimedio. Quando diversi corpi legislativi si susseguono gli uni agli altri, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legislativo attuale, trasferisce, con ragione, le proprie speranze su quello che succederà. Ma se si trattasse sempre dello stesso corpo, il popolo, una volta vistolo corrotto, non spererebbe più niente dalle sue leggi, s'infurierebbe o cadrebbe nell'apatia [...]".  

"Il potere esecutivo, come dicemmo, deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. La causa del cambiamento del governo a Roma fu che il senato, il quale aveva una parte del potere esecutivo, e i magistrati, i quali avevano l'altra, non avevano, come il popolo, la facoltà d'impedire. Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo di cui stiamo parlando. Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l'una terrà legata l'altra con la mutua facoltà d'impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo. Questi tre poteri dovrebbero rimanere in stato di riposo, o di inazione. Ma siccome, per il necessario movimento delle cose, sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di concerto [...]". 

"Siccome tutte le cose umane hanno una fine, lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà. Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo. Non sta a me di esaminare se gli Inglesi godono attualmente di questa libertà, o no. Mi basta dire che essa è stabilita dalle loro leggi, e non chiedo di più. Non pretendo con ciò di avvilire gli altri governi, né dichiarare che questa libertà politica estrema debba mortificare quelli che ne hanno soltanto una moderata. Come potrei dirlo io, che credo che non sia sempre desiderabile nemmeno l'eccesso della ragione; e che gli uomini si adattino quasi sempre meglio alle istituzioni di mezzo che a quelle estreme?"
(libro XI Lo spirito delle leggi, Montesquieu)

Siamo nel 1748!  - Diderot nel 1751 alla voce dell' Enciclopedia "Volontà politica"  darà una risposta, affermando che "nessuno ha il diritto a comandare sugli altri, prima che questo diritto gli sia conferito da un contratto che dà origine all'istituzione politica, lo stato";  che Diderot definisce "NAZIONE" un termine che sarà universalizzato, partendo dalla Rivoluzione francese.

La Nazione è espressa dai  suoi "Rappresentanti" (che l'Enciclopedia - ma forse è sempre Montesquieu a scrivere la voce - così li definisce) "cittadini più illuminati degli altri; più interessati alla cosa pubblica; cittadini i cui averi li rendono devoti alla patria e la cui posizione pone in condizione di avvertire quali siano i bisogni dello stato, gli abusi che vi si insinuano e i rimedi che è opportuno apportarvi".
Da qui l'opportunità di una costituzione che preveda periodiche elezioni di rappresentanti.


Montesquieu però prefigura una limitazione del diritto di voto, nega tale diritto a chi non è proprietario o in una situazione assimilabile a quella di proprietario, dotato di averi, quindi si basa sua una marcata differenziazione di stratificazione sociale. (che a Rousseau non piaceva)

Tutto questo sembra limitativo, ma siamo al 1751! in seguito (ma molto dopo la Rivoluzione Francese) lo sviluppo del reddito reso possibile dalla società industriale, dai commerci, dall'artigianato imprenditoriale, farà aumentare il numero di cittadini rappresentanti interessati alla stabilità dello stato, permettendo gradualmente l'estensione del voto sino al suffragio universale.

Sulla stessa Enciclopedia scrive anche Rousseau, compila la voce "Economia Politica", e tocca già il problema dell'uguaglianza e dell'ineguaglianza tra gli uomini. Che poi affronta con un vero e proprio saggio nel 1754 con Discorso sull'ineguaglianza. 
Ma è del 1762 il suo Contratto sociale; e qui Rousseau riprende il concetto di "Volontà generale"  (intesa come "Volontà Politica" del popolo, che Diderot ha iniziato a chiamare Nazione).

Rousseau ne fa il punto di partenza e dopo aver puntualizzato la sua posizione sul tema dell'eguaglianza e sul patto sociale,  entra in contrapposizione con Montesquieu sul fatto che la sovranità non può essere delegata. Rousseau sostiene infatti che la sovranità viene perduta nel momento stesso in cui è delegata.
Il patto fondamentale per Rousseau è che si lasci l'uomo "libero e eguale a ogni altro sotto il profilo del diritto, mentre prima non lo era naturalmente, per differenza di forza e di intelligenza....", "La volontà o è generale o non esiste".

Non dimentichiamo che alla Rivoluzione Francese, l'Assemblea Nazionale Costituente, il 29 ottobre 1789 quando fissò le norme  per i cittadini che intendevano farsi eleggere a cariche politiche, si ispirò (prendendo le più criticabili) alle dottrine del Montesquieu. Il diritto di voto fu riservato ai soli cittadini attivi, cioè solo i più ricchi potevano accedere alle cariche pubbliche e quindi dirigere la vita politica ed economica del Paese.
(in pratica farsi le leggi secondo i propri interessi per diventare ancora più ricchi).
E accadde questo (quello che forse voleva dire Rousseau):  che gruppi intellettuali o qualificati personaggi, nonostante le proprie capacità, erano ineleggibili per mancanza di beni. Nè erano in grado di versare il "marco d'Argento" (lingotto di 224 grammi).

 Eppure l'articolo 6 recitava: "tutti i cittadini sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, a seconda della loro capacità e senz'altra distinzione che quella delle loro virtù e del loro ingegno". 
Su 25 milioni di abitanti che aveva la Francia, risultarono potenzialmente eleggibili solo 50.000. Attraverso di loro, la nobiltà liberale e la ricca borghesia, mirante ormai a sostituire al privilegio antico del sangue nobile quello nuovo della ricchezza, poterono influenzare profondamente il lavoro della Costituente. Costituirono la maggioranza e poterono indirizzarne i lavori conformemente ai loro punti di vista (ovviamente ai propri interessi)
Usciva una casta dalla porta, ne entrava un'altra dalla finestra.

Anche nella Repubblica Veneziana c'era democrazia, ma per 600 anni votarono sempre i soliti 900 aristocratici per farsi le proprie leggi, ora con una fazione ora con un'altra, ma sempre entrambe appartenevano alla elite aristocratica. E solo per questa elite i 900 si adoperavano per fare le leggi.

Sulle idee politiche e sulla democrazia di Rousseau 
parleremo in altre pagine, dedicate tutte a lui e al suo "CONTRATTO SOCIALE"

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