I SUPERCAMPIONI

CHE IL MONDO NON SCORDERA'

di LIONELLO BIANCHI

Il 12 giugno 1998 a Parigi i Mondiali di calcio. - L’avvenimento è tanto più importante non solo perché sono gli ultimi del XX secolo ma perché sono stati organizzati sotto la guida di uno dei più grandi campioni transalpini, MICHEL PLATINI, ribattezzato non a torto l’"Immenso", nazionale di Francia e soprattutto alfiere della Juventus campione d’Italia e d’Europa a metà degli Anni Ottanta. 

Inoltre il pallone ha contrassegnato, volenti o no, un intero secolo, passando tra guerre e divisioni. 
In Europa il gioco del calcio - che deriva dal gioco medievale sviluppato a Firenze ma rifondato con regole moderne dagli inglesi, donde il nome di football - è riconosciuto come lo sport principe. 

In Sudamerica, soprattutto in Argentina e in Brasile, oltreché in Uruguay (due volte campione del mondo negli anni Trenta) ha avuto il proprio splendore con fior di fuoriclasse, primi tra tutti, per citarne alcuni, PELE' "o’rey", SIVORI, GARRINCHA, SCHIAFFINO e, da ultimo, ma non per questo minore, MARADONA, che ha illuminato gli ultimi anni Ottanta e i primi anni Novanta, conquistando con il Napoli lo scudetto.

EL PIBE DE ORO - Platini e Maradona si sono incrociati in Italia, due personaggi e due storie diverse. Michel Platini ha l’aria dell’aristocratico, l’ha sempre avuta in campo e fuori, non per niente l’Avvocato, ovvero Gianni Agnelli, il signor Fiat l’aveva nel cuore e lo invitava spesso in villa. Diego Armando Maradona ha la figura dello scugnizzo; nato (30 ottobre 1960) e cresciuto in un rione della grande Buenos Aires, ha esaltato le folle con le sue gesta: il pubblico dell’Argentinos Junior e quindi del Boca Juniors lo ha eletto immediatamente a proprio idolo trovandogli presto l’appellativo di "pibe de oro". Con la maglia biancazzurra della squadra Argentina - guidata da Luis Cesar Menotti che la prossima stagione tornerà ad allenare la Sampdoria di Genova - ha vinto il titolo mondiale nel 1978, prima di trasferirsi al Barcellona e poi al Napoli. Le giocate di Maradona hanno incantato e divertito la gente di tutto il mondo. E’ stato un fuoriclasse, un campione con la c maiuscola. Fin tanto che il suo nome non è entrato nel business mondiale, legato a un giro di droga in cui erano coinvolti anche i clan camorristici della Campania con rapporti con il Sudamerica. 

In Argentina "el pibe de oro" finì sotto processo, proprio per possesso di cocaina. A Napoli subì le conseguenze di una vita extra calcistica piuttosto tormentata che lo portava a frequentare nottetempo circoli e case compiacenti. Da un rapporto sentimentale con una ragazza ha avuto un figlio che il campione, ad onta di una evidente rassomiglianza, non ha voluto riconoscere: subì un processo, il tribunale sentenziò che avrebbe dovuto sottoporsi al Dna. Dopo la nascita di questo figlio naturale, la moglie non volle saperne di restare a Napoli e se ne andò in Argentina, seguita a breve distanza da Diego Armando.

E’ entrato nella leggenda anche per un gol di mano ai Mondiali dell’86 in Messico. Ma i Mondiali del ‘94 in Usa segnarono la sua fine: al termine di un incontro venne preso in consegna da una infermiera che lo scortò all’esame antidoping dove risultò positivo. Maradona se ne andò lontano in Giappone, un’esperienza che durò poco. Ultimamente ha cercato di uscire dal tunnel della droga, sottoponendosi a intense terapie. E’ tornato a giocare, ma la sua stella si è decisamente offuscata, ormai sovrappeso. Eppure a dispetto delle vicende che l’hanno portato in tribunale, è rimasto il suo un ritratto di campione grandissimo, la gente se lo ricorda: ha contraddistinto un periodo d’oro per il Napoli, i cui tifosi lo rimpiangono ancora oggi. Nel mondo resta il ricordo di un giocatore come pochissimi eletti, impareggiabile giocoliere, raffinato "numero 10". 
Maradona conta di continuare a giocare e ha firmato un contratto con il Boca Juniors: nel frattempo si impegna nel Sindacato internazionale dei calciatori del quale è stato eletto presidente (proprio a fine aprile ha organizzato una partita tra Europa e Resto del Mondo a Barcellona; N.d.R.).

IL PELE’ BIANCO - Prima di lui, Maradona, e anche prima di Platini, in Europa si è levato sulla schiera dei calciatori JOHANN CRUYFF. E’ diventato negli Anni Settanta il re del football alla guida dei "lancieri" dell’Ajax di Amsterdam e degli arancioni che sono poi i nazionali di Olanda. La sua storia ha dell’incredibile. Difatti, Cruyff venne addirittura scartato dal servizio militare per colpa dei suoi piedi, decisamente piatti e con la caviglia sformata. Proprio i suoi piedi eccezionalmente buoni contribuirono a renderlo famoso nel mondo, questo figlio di un fruttivendolo e di una lavandaia che il maestro Gianni Brera definì migliore di Di Stefano, la stella del grande Real Madrid, e che ribattezzò "il Pelè bianco".

Non è un caso che Cruyff in carriera si sia aggiudicato tre "palloni d’oro" che sono l’equivalente dell’Oscar cinematografico. Dal fisico apparentemente fragile Johann - chiamato "il candido" perchè nei ritagli di tempo si divertiva con il suo passatempo preferito, il giardinaggio, o anche "l’anatroccolo dai piedi d’oro" - è stato in effetti una vera meraviglia, capace di incantare la platea con i suoi tocchi mirabili e di galvanizzare la propria squadra, l’Ajax. Un destino il suo, perché la madre lavorava appunto come lavandaia allo stadio dell’Ajax.

Nato ad Amsterdam il 25 aprile 1947, Johann entrò giovanissimo nella squadra ragazzi dei "Lancieri" e a dodici anni sapeva già destreggiarsi magnificamente con i piedi effettuando fino a centocinquanta palleggi consecutivi, un autentico funambolo del pallone fin da quell’età. Per irrobustire il suo fisico non proprio atletico, si allenava con sacchetti di zavorra di quattro chili ciascuno infilati nella giubba della tuta. Al suo primo campionato ufficiale segnò la bellezza di settantaquattro gol.

Dopo i successi con l’Ajax, nel 1973 Cruyff passò al Barcellona per una cifra, allora record, di oltre un miliardo e trecento milioni: al primo colpo il club catalano vinse con lui lo scudetto che non vinceva da quattordici anni. Cruyff ottenne un ingaggio di mezzo miliardo. In breve tempo grazie agli affari intrapresi con un ricchissimo finanziere internazionale Jack Van Zanten e con il suocero Cor Coster, il re dei diamanti, Johann divenne uno degli uomini più ricchi d’Europa. I colossi delle assicurazioni, i Lloyd’s di Londra assicurarono le gambe di Cruyff per due miliardi e mezzo. Il suo numero di maglia, il 14, divenne un mito in tutto il mondo. Cruyff finì la propria luminosa carriera negli Stati Uniti, dove gli Azteca di Los Angeles gli assegnarono un ingaggio di tre miliardi e mezzo più la percentuale sugli incassi di due anni.

Il mito Cruyff resiste tuttora nella memoria degli appassionati. Johann ha un erede, il figlio che gioca in questi anni. Non ha il talento del padre, la cui fama è indubbiamente meritata. Come allenatore, ha avuto alti e bassi, ma il Barcellona che con lui ha vinto lo ha richiamato per la prossima stagione. In Italia qualche grande società l’avrebbe voluto, per esempio il Milan, ma non se ne fece nulla.

LA REGINA DEL CROWL 

A questo punto della nostra storia, poiché sport non è solo calcio e non è solo maschile, vale la pena fare un salto all’indietro e soffermarsi su una disciplina spettacolare, il nuoto. Parlando di questo sport non si può trascurare una eroina, anzi la regina per antonomasia del crowl: DAWN FRASER, australiana, che seppe conquistare quattro medaglie d’oro in tre Olimpiadi consecutive. La Fraser difatti vinse nel 1956 a Melbourne la staffetta 4x100 insieme alla Leech, alla Morgan e alla Crapp, quindi nel 1960 a Roma fece suo l’oro dei 100 e si aggiudicò due medaglie d’argento nella staffetta 4x100 stile libero sempre con le stesse compagne del 1956 e nella 4x100 mista con Wilson, Lassig e Andrew. Anche a Tokio 1964 vinse l’oro nei 100.

Campionessa olimpica, detentrice del record del mondo dei 200 che stabilì il 27 febbraio 1960 con 2’ 11’’ 6; un primato il suo che durò otto anni dal 1958 al 1966. La Fraser, che il 30 dicembre 1972 venne giudicata "il più grande atleta" d’Australia non si sarebbe fermata a tre Olimpiadi se non fosse incorsa, per il suo temperamento un po’ ribelle, in una lunga squalifica (dieci anni) che la costrinse a interrompere l’attività.

Personaggio anche fuori dalla vasca, Dawn Fraser, figlia di un carpentiere dei cantieri navali di Sydney che giocò anche al calcio, è sempre stata un tipo esuberante, amante della vita. Pare infatti che abbia fatto collezione di cuori maschili, non a caso comparve spesso sui rotocalchi dell’epoca, e avrebbe fatto la gioia delle tv e dei giornali rosa anche di questi giorni. Trascorreva parecchio tempo libero nei pub a bere birra, la bevanda da lei preferita fin da quando aveva diciassette anni.

Una vita tormentata la sua. Tanto che il 24 maggio 1971 una notizia scosse il mondo del nuoto, e non solo: Dawn Fraser aveva accusato il marinaio polacco di 52 anni Belestaw Leescynsk di averla violentata a bordo del mercantile Tenes sul quale l’ex campionessa era salita di propria volontà: due mesi dopo quella data il tribunale la riconobbe colpevole. E in effetti la sua squalifica, cui abbiamo accennato, le era stata inflitta per un comportamento nient’affatto irreprensibile durante le Olimpiadi di Tokio. Notare che era stata proprio lei, la regina del crowl, a denunciare pubblicamente che alcune atlete australiane ai Giochi di Roma, avendo saputo che di fronte al loro alloggiamento nel villaggio olimpico c’erano decine di giovanotti che le guardavano con i binocoli, aprivano le finestre e si esibivano in veri e propri strip-tease.

FRATELLONI D’ITALIA 

 E passiamo dalla favola della regina australiana del nuoto alla bellissima storia di Carmine e Giuseppe ABBAGNALE che con il timoniere Peppiniello di Capua hanno vinto il Mondiale dei remi, vincendo a man bassa quello che c’era da vincere, tra titoli olimpici, mondiali e italiani. Sono entrati nella leggenda, ribattezzati "fratelloni d’Italia" dalla voce inconfondibile di Giampiero Galeazzi, il "Bisteccone" nazionale, telecronista innamorato del canottaggio di cui fu in passato anche protagonista prima di diventare, in questi ultimi anni, anche attore della Domenica In.

Carmine e Giuseppe Abbagnale per più di un decennio hanno dominato le scene a colpi di remi, salendo sul podio più alto in svariate occasioni. Due autentici giganti in questa disciplina, gli Abbagnale sono rimasti se stessi, nella vita privata hanno continuato e continuano il loro tran tran quotidiano. Il canottaggio, al di là delle medaglie, offre scarsi guadagni ai suoi eroi. Ciò non toglie che i fratelloni d’Italia siano diventati un simbolo e un modello.

Le loro imprese sono state positive per il Paese perché, attirando l’attenzione su questo sport, hanno fatto molti proseliti fra i giovani. Ora che i due Abbagnale - insigniti del massimo riconoscimento della Repubblica - hanno concluso la loro splendida e gloriosa carriera potrebbero assumere il ruolo di maestri di questa loro disciplina. Una disciplina che, a dispetto delle scarse risorse, ha visto anche negli anni passati parecchi atleti italiani farsi onore e mettersi in luce in campo internazionale. Resta il fatto che i due fratelli Abbagnale, con il loro piccolo timoniere, hanno segnato indelebilmente la fine del XX secolo.

Le loro imprese hanno avuto larghissima eco, gli italiani che li hanno seguiti da vicino e in tv si sono spesso entusiasmati. Non è un caso che le vittorie dei fratelloni sono state salutate con inni e canti di gioia, quasi sempre con la canzone napoletanissima, "‘o sole mio", che ha fatto il giro del mondo. Un omaggio alla loro città, il cui nome hanno sempre tenuto alto.

IL LOMBARDO DOC 

 Nell’albo d’oro della storia dello sport un posto di primo piano spetta di diritto ad ALBERTO COVA, lombardo doc. Cova si è rivelato negli Anni Ottanta corridore eccezionale, nel fondo e mezzofondo ha superato gli specialisti di tutto il mondo. Allievo della gloriosa società ginnastica milanese Pro Patria, assistito da un preparatore di qualità, il professor Rondelli, è emerso ancora giovanissimo. Il 9 agosto del 1983 a Helsinki ha vinto il suo primo titolo mondiale, battendo nei diecimila metri i migliori specialisti. Cova ha vinto con il tempo di 28’01’’37.

ALBERTO COVA è nato il primo dicembre 1958 a Cermenago in provincia di Como; come dicevamo ha svolto la prima parte dell’attività atletica con la maglia della Pro Patria (presidente in quegli anni Mastropasqua). Appassionato del cross e del fondo Cova ha iniziato a quindici anni a correre (e a vincere). L’attività agonistica non gli ha impedito di frequentare la scuola e di diplomarsi ragioniere. Nel 1977 agli Europei juniores di Atene è quinto nei cinquemila metri; nel 1982 si è classificato secondo nella Cinque Mulini, un cross country di valore e di prestigio internazionale; nel medesimo anno agli Europei di Atene ha conquistato l’oro battendo l’allora fortissimo tedesco Werner Schildauer. Fa incetta di titoli italiani nel cross, nei cinquemila e nei diecimila, nonché nei cinquemila indoor.

COVA passa alla storia entrando nella hit parade dei grandissimi del cross e della corsa su media e lunga distanza, vincendo titolo mondiale e olimpico: si è posto sullo stesso piano di grandi protagonisti come ZATOPEK, KUTS e BOLIOTNIKOV. Non si poteva ignorare un Cova passando in rassegna i campioni di quest’ultimo scorcio del secolo ventesimo. Alberto Cova, che abbiamo seguito anche noi, da cronisti, in alcune delle sue entusiasmanti imprese, ha rivelato doti indiscusse, su ogni terreno, e contro qualsiasi avversario.

LO ZUCCHERO DEL RING 

Dall’atletica alla boxe, per illustrare uno dei più grandi personaggi: RAY SUGAR ROBINSON. Pochi hanno fatto meglio di lui. Ha vinto sei titoli mondiali: il primo quello dei medio-leggeri nel 1946; poi nel 1951, nel 1955, nel 1957 e nel 1958 conquistò la corona iridata dei medi. Sul ring portava la sua intelligenza unita alla velocità di gambe e braccia. Il soprannome di Sugar (zucchero) gli derivava dalla secchezza delle gambe, tanto da somigliare alla pianta dello zucchero, alta e sottile. Ray Robinson era nato a Detroit il 3 maggio 1920; il suo vero nome, all’anagrafe, era Walter Smith. A poco più di vent’anni (4 ottobre 1940) sostenne il suo primo combattimento; l’ultimo che pose fine alla sua carriera il 10 novembre 1965. In totale duecentouno incontri, 109 vittorie per k.o., 65 ai punti. Solo diciannove le sconfitte, una per ko.

Ma Ray Robinson non ha "danzato" soltanto sul ring. Ha anche girato gli States come ballerino, cantante e batterista. Si divertiva e coglieva non pochi successi anche in campo musicale. Del resto la sua agilità la sfoggiava anche sul ring di tutto il mondo. Molti degli osservatori dicevano che Sugar picchiava a suon di musica: aveva la musica nelle orecchie.

La sua carriera non fu peraltro tutta liscia. Il 25 giugno 1952, disfatto e amareggiato, appena lasciato il ring, dopo essere stato contato alla quattordicesima ripresa Ray Robinson, battuto da JOEY MAXIM, annunciò il proprio ritiro. Sembrava una decisione definitiva. Era la prima volta che Sugar non portava a termine un incontro, per lui pareva avviato il tramonto. Si aprì una parentesi di vita musicale. Sugar continuava a essere un divo, girava con le sue Cadillac, conduceva una vita lussuosa. Tre anni dopo, però, Robinson tornava sul ring e ci tornava con una vittoria: il 5 gennaio 1955 a Detroit si rivide Sugar, che mise al tappeto in sei riprese Joe RINDONE. E al termine di quello stesso anno dopo una serie di entusiasmanti successi riconquistò il titolo mondiale dei medi. Il suo ritorno era stata la reazione contro l’imposizione dell’Ufficio delle imposte di New York che gli aveva fatto recapitare un invito a saldare tasse arretrate per milioni di dollari.

La boxe ritrovò un campione. Come tutti gli astri, Robinson aveva le sue superstizioni. Al Madison Square Garden, ogni volta che tornava per un incontro voleva che gli assegnassero il camerino numero 29.

LA NUOVA FRONTIERA 

Ray Sugar Robinson appartiene alla ristretta cerchia dei big del ring, insieme a Rocky MARCIANO, Charles Sonny LISTON, Joe LOUIS, Jack DEMPSEY, Stanley KETHEL, Jimmy WILDE, Paul BERLENBACH, George FOREMAN e Bob FITZSIMMONS. Sono tutti campioni che illustrano la storia del pugilato, entrati nella leggenda. In America e nel mondo si sono scoperti ad ogni modo atleti di elevatissimo livello "di colore", soprattutto tra gli sprinters e i mezzofondisti. Recentemente, per stare all’ultimo quarto di secolo, si è scoperta la nuova frontiera dello sport, l’Africa, quella dei popoli da poco affrancatisi e affermatisi in libere nazioni. Nel cross e nel fondo, con gli etiopi (il maratoneta ABEBE BIKILA a Roma 1960 è stato il primo) sono emersi i senegalesi, i ruandesi e i keniani. Adesso ci sono splendidi esemplari di calciatori, il più fulgido GEORGE WEAH, centravanti del Milan, di nazionalità liberiana, impostosi nel campionato francese. Sempre nuovi talenti affiorano via via, nel calcio e negli altri sport. L’Africa è un continente ricchissimo al riguardo. Non è un caso che il Sudafrica di Nelson Mandela abbia avanzato la propria candidatura a organizzare le Olimpiadi.

di LIONELLO BIANCHI

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

"El pibe de oro"
calciava anche contro la legge di gravità

di Antonio Gaito



Maradona è nato il 30 ottobre del 1960 nel quartiere disagiato di Villa Fiorito, nella periferia di Buenos Aires ed è cresciuto praticamente con il calcio. Come tutti i ragazzini poveri della sua città, infatti, passava il suo tempo per strada giocando al pallone o facendosi le ossa in campetti disastrati.
Soprattutto, sono i piccoli spazi in cui è costretto a giocare, fra macchine, passanti e quant'altro, che lo abitua a manovrare la palla in maniera magistrale.

Già idolatrato dai compagni di gioco per le sue doti mirabolanti, da subito gli viene appioppato il soprannome di "El pibe de oro" (il ragazzo d'oro), rimasto famoso anche quando divenne una celebrità. Preso atto del suo talento, tenta la strada del calcio professionistico. La sua carriera inizia nell'"Argentinos Juniors", per poi proseguire nel "Boca Juniors", sempre in Argentina.

Le sue straordinarie capacità non potevano non essere notate e, al pari del suo grande predecessore brasiliano Pele', a soli sedici anni è già precettato per giocare nella nazionale Argentina, bruciando in questo modo fulmineamente tutte le tappe. Menotti, però, ct argentino d'allora, non lo convoca per i mondiali del '78 ritenendolo comunque troppo giovane per un'esperienza forte e importante come quella.

Il paese ad ogni modo, sembra non gradire più di tanto la scelta di Menotti: tutti pensano, stampa locale in testa, che invece Maradona sarebbe perfettamente in grado di giocare. Per parte sua, il Pibe de Oro si rifà vincendo i campionati giovanili per nazioni.

Da quel momento in poi, l'escalation del campioncino è inarrestabile. Dopo fulminanti prove in campionato, vola per i mondiali di Spagna '82 dove dona luce ad una non eccezionale Argentina con due gol, anche se nei momenti chiave delle partite con Brasile e Italia, non riesce a brillare come dovrebbe, facendosi pure espellere. E' comunque ormai un mito, l'unico calciatore diventato così popolare e così amato da eclissare quasi del tutto la stella del calcio per eccellenza, Pelé. Nel mezzo, l'ingaggio-record con il quale il Barcellona
lo convince a lasciare il Boca Juniors (è acquistato per sette miliardi di lire dell'epoca).

Purtroppo, però, con la squadra spagnola gioca solamente trentasei partite in due anni, a causa di un bruttissimo infortunio, il piú grave della sua carriera. Andoni Goicoechea, difensore dell'Athletic Bilbao, gli frattura la caviglia sinistra e gli rompe il legamento.

L'avventura successiva è forse quella più importante della sua vita (mondiale a parte, si capisce): approda infatti, dopo numerose trattative, alla città che lo eleggerà a suo portabandiera, che lo innalzerà a idolo e santo intoccabile: Napoli. In effetti, lo stesso Pibe de oro ha più volte affermato che quella è diventata la sua seconda patria dopo l'Argentina... Il sacrificio della società fu notevole, non c'è che dire (una cifra colossale per l'epoca, tredici miliardi di lire), ma sarà uno sforzo ben ripagato dalle performance di Maradona, capace di portare per bene due volte la sua squadra allo scudetto. Viene coniata pure una significativa canzone che mette a confronto i due, cantata a squarciagola dai tifosi che urlano "Maradona è meglio di Pelé".

Ma l'apice della carriera lo tocca ai mondiali di Messico '86.
Trascina l'Argentina alla conquista della Coppa del Mondo, segna complessivamente cinque reti (e fornisce cinque assist), e sarà premiato quale miglior giocatore della rassegna. In più: nei quarti di finale con l'Inghilterra realizza la rete passata alla storia come quella della "mano di Dio", uno "sberleffo" che ancora oggi il calcio non ha dimenticato (Maradona segnò di testa "aiutandosi" a metterla dentro con la mano). Dopo pochi minuti, invece, realizza il gol-capolavoro, quel "balletto" che lo vede partire da centrocampo, e
dribblando mezza squadra avversaria, lo vede depositare la palla in rete. Un gol che è stato votato da una giuria di esperti come il più bello della storia del calcio. Infine, guida praticamente da solo l'Argentina fino al trionfo contro la Germania Ovest per 3-2 nella finale.

Sentiamo come ci descrive la scena Igor Principe:
"...con quella realizzazione (il gol fatto di mano) si assicura la vittoria nella classifica dei cannonieri di quell'edizione del mondiale. Bloccate sulla parità, le squadre si studiano come due schermitori. Fino al momento in cui Maradona estrae dal suo repertorio un vero colpo di fioretto.
Conquista la palla a centrocampo, danza una "veronica" (cioè evita un giocatore piroettando sulla sfera e portandola avanti prima con un piede e poi con l'altro) e comincia una corsa infinita verso la porta difesa da Shilton. Ben sei giocatori inglesi lo affrontano, invano, quasi ipnotizzati dal quel brutto anatroccolo che infila una finta dietro l'altra mantenendo incollato il pallone al suo piede sinistro. Giunto in area di rigore, con tre difensori alle spalle come mastini sulla preda, Maradona prima fa un rasoterra infilando la palla sotto il fianco del portiere, poi la deposita con dolcezza in rete.
Con ogni probabilità, è il gol più bello della storia del calcio".

Da quel successo Maradona ha portato ai vertici del calcio europeo anche il Napoli: come detto, due scudetti vinti, una coppa Italia, una coppa Uefa e una Supercoppa italiana.

Poi venne Italia '90 e, quasi in contemporanea, il declino del campione idolatrato in tutto il mondo. L'Argentina in quel mondiale arriva sì in finale, ma perde contro la Germania per un rigore di Brehme. Maradona scoppia in lacrime, denunciando successivamente: "E' un complotto, ha vinto la mafia". Sono
solo i primi segnali di un'instabilità emotiva e di una fragilità che nessuno sospetterebbe da un uomo come lui, abituato a rimanere sempre al centro dei riflettori. Un anno più tardi, infatti, (è il marzo 1991), viene scoperto positivo a un controllo antidoping, con la conseguenza che viene squalificato per quindici mesi.

Lo scandalo lo travolge, fiumi di inchiostro vengono spesi per analizzare il suo caso. Il declino, insomma, sembra inarrestabile, si presenta un problema dietro l'altro. Non basta il doping, entra in scena anche il "demone bianco", la cocaina, di cui Diego, a quanto riportano le cronache, è un assiduo consumatore. Infine, emergono gravi problemi con il fisco, a cui si affianca la grana di un secondo figlio mai riconosciuto. Quando la storia del campione sembra avviarsi a una triste conclusione, ecco l'ultimo colpo di coda, la convocazione per Usa '94, a cui si deve uno strepitoso gol alla Grecia. I tifosi, il mondo, spera che il campione sia finalmente uscito dal suo oscuro tunnel, che torni ad essere quello di prima, invece viene nuovamente fermato per uso di efedrina, sostanza proibita dalla Fifa. L'Argentina è sotto choc, la squadra perde motivazione e grinta e viene eliminata. Maradona, incapace di difendersi, grida a un ennesimo
complotto contro di lui.

Nell' ottobre del 1994 Diego viene ingaggiato come allenatore dal Deportivo Mandiyù, ma la sua nuova esperienza finisce dopo solo due mesi. Nel 1995 va ad allenare la squadra del Racing, ma dà le dimissioni dopo quattro mesi. Poi torna a giocare per il Boca Juniors e i tifosi organizzano una grande e
indimenticabile festa allo stadio della Bombonera per il suo ritorno. Rimane al Boca fino al '97 quando, nell'agosto del 1997, viene trovato nuovamente positivo ad un controllo antidoping. Nel giorno del suo trentasettesimo compleanno, el Pibe de oro annuncia il suo ritiro dal calcio.

Conclusa la sua carriera calcistica Diego Armando Maradona, sembra aver avuto qualche problema di "assestamento" e di immagine: abituato ad essere idolatrato dalle folle e amato da tutti, sembra che non si sia ripreso all'idea che la sua carriera fosse finita e che quindi i giornali non avrebbero più parlato di lui. Se non parlano più di lui dal punto di vista calcistico, però, certamente lo fanno nelle cronache dove Diego, per una cosa per l'altra (una volta è qualche apparizione televisiva, un'altra per qualche improvvida rissa con gli invadenti giornalisti che comunque lo seguono ovunque), continua a far parlare di sé.


Premi ottenuti da Maradona nella sua carriera

1978: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
1979: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
1979: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
1979: Campione del Mondo juniores con la nazionale argentina.
1979: "Olimpia de Oro" al Miglior calciatore argentino dell'anno.
1979: Scelto dalla FIFA come Miglior Calciatore dell'anno in Sudamerica.
1979: Ottiene il Pallone d'Oro come Miglior Calciatore del momento.
1980: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
1980: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
1980: Scelto dalla FIFA come Miglior Calciatore dell'anno in Sudamerica.
1981: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
1981: Riceve il Trofeo Gandulla come Miglior Calciatore dell'anno.
1981: Campione di Argentina con il Boca Juniors.
1983: Vince la Coppa del Re con il Barcellona.
1985: Viene nominato ambasciatore dell'UNICEF.
1986: Campione del Mondo con la nazionale argentina.
1986: Vince il secondo "Olimpia de Oro" al Miglior calciatore argentino dell'anno.
1986: E' dichiarato "Cittadino Illustre" della Città di Buenos Aires.
1986: Ottiene la Scarpa d'Oro consegnata dalla Adidas al miglior calciatore dell'anno.
1986: Ottiene la Penna d'Oro come miglior calciatore in Europa.
1987: Campione d'Italia con il Napoli.
1987: Vince la Coppa Italia con il Napoli.
1988: Capocannoniere della Serie A con il Napoli.
1989: Vince la Coppa UEFA con il Napoli.
1990: Campione d'Italia con il Napoli.
1990: Ottiene il Premio Konex di Brillante per la sua abilità sportiva.
1990: Secondo posto nella Coppa del Mondo.
1990: Nominato Ambasciatore dello Sport dal Presidente dell'Argentina.
1990: Vince la Supercoppa Italiana con il Napoli.
1993: Premiato come Miglior Calciatore Argentino di tutti i tempi.
1993: Vince la Coppa Artemio Franchi con la nazionale argentina.
1995: Ottiene il Pallone d'Oro alla carriera.

1995: Premiato come "Maestro Ispiratore di Sogni" dall'Università di Oxford.
1999: "Olimpia de Platino" al Miglior Calciatore del secolo.
1999: Riceve dalla AFA il premio come miglior sportivo del secolo in Argentina.
1999: Il suo slalom del 1986 contro l'Inghilterra è scelto come miglior gol della storia del calcio.

 

Si ringrazia per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, 
direttore di  STORIA IN NETWORK 

 

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