109 bis. (dopo I NORMANNI IN ITALIA )

Il meridione d’Italia - Angioino e Aragonese


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Sommario
- Carlo d’Angiò : potere e regime. I Papi: Gregorio X, Nicolò III, Martino IV.
- La rivolta dei “Vespri Siciliani”: cacciata dei francesi dalla Sicilia ed offerta della corona a Pietro III d’Aragona.
- Anno 1285: scomparsa di Carlo I d’Angiò, Martino IV, Filippo III di Francia.
- Sicilia aragonese: insediamento e scomparsa di Pietro III d’Aragona. Successione dei figli Alfonso III, in Aragona e Giacomo II in Sicilia. Conflitto fra angioini ed aragonesi. Carlo II lo Zoppo, figlio di Carlo I d’Angiò, prigioniero degli aragonesi. Trattato di Anagni. Regno di Federico III d’Aragona e pace di Caltabellotta. Ripresa del conflitto tra angioini ed aragonesi. Regno di Pietro II e di Ludovico. Regno di Federico IV, Trattato di Avignone ed indipendenza della Sicilia. Regno di Martino I “il giovane” e di Martino II ”il vecchio”. Ferdinando I d’Aragona e perdita dell’autonomia della Sicilia con la nomina di un viceré. Avvento di Alfonso V d’Aragona (1416).
- Napoli angioina: regni di Carlo II e Roberto I d’Angiò. Giovanna I d’Angiò (Trattato di Avignone), insediamento di Carlo III di Durazzo, re d’Ungheria.
- Napoli aragonese: Ladislao di Durazzo e successione di Giovanna II d’Austria. Avvento di Alfonso V di Aragona (1443) e cessione del regno al figlio naturale Ferdinando I di Napoli (Don Ferrante)..
- Riunificazione politica e decadenza dei due Regni

 

Con la scomparsa di Federico II di Svevia * (1) , quando era ancora in atto l’aspra contesa con il Papato, nel meridione d’Italia si ebbe un periodo di declino e di lacerazioni, temporaneamente sedate dal successore Manfredi che, ultimo re svevo, ristabilì, se pur per il breve tempo del suo regno, una situazione di apparente benessere i cui benefici, per le facilitazioni concesse a gruppi estranei, in minima misura restavano al godimento del meridione. Qui, per l’assolutismo imposto da Federico II, non era germogliato quello spirito di comunità che avrebbe potuto creare aggregazioni sul modello città-Stato del settentrione d’Italia e, sebbene, successivamente alla sua morte, le città siciliane avessero tentato forme di autonomia che, lontane dalla concretezza e minate dai contrapposti interessi di un baronato fazioso e turbolento, fallirono nella vanità. Il venir meno di una forte autorità capace di far rispettare le regole, consentì al baronato locale di dare avvio a forme di anarchia che lo indussero a contrapporsi spietatamente, fecendo ricorso a milizie private, per contendersi quanto era rimasto della Sicilia normanno-sveva.


Il regime di Carlo D’Angiò (2)

In questo contesto e nel clima di contrapposizione Papato-Impero si inserisce la compiacente ed interessata offerta formulata da Papa Clemente IV* a Carlo I d’Angiò (Charles d’Anjou) il quale, con un forte esercito che aveva rivelato, fin dal suo apparire, una devastante capacità di saccheggio che non risparmiava nemmeno i beni ecclesiastici, era venuto in Italia per assumere, come il primo re normanno, l’investitura di Re di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capua (gennaio 1266).
Dopo aver sconfitto Manfredi a Benevento (febbraio 1266) ed, a Tagliacozzo, Corradino (1268)* che, ultimo possibile pretendente della dinastia sveva degli Hohenstaufen, fu anche giustiziato, Carlo d’Angiò fece un ingresso trionfale a Napoli che elegge a sua capitale. Qui ricevette accoglienza e sottomissione da parte delle altre città campane e di gran parte delle città di Sicilia, Calabria e Puglia che non tardarono a riconoscere la signoria angioina. Solo la pugliese Lucera, tradizionalmente legata agli svevi, non si arrese al nuovo re. Ma questa sacca di resistenza, assieme ad altre in Calabria ed in Sicilia, potenzialmente consistenti ma non collegate, finirono col risultare inefficaci.


Lucera cadde stremata da un lungo assedio e la parte cristiana degli abitanti fu trucidata, volendo punire in maniera esemplare coloro che si sarebbero dovuti trovare dalla parte del Papa e di Carlo e, mentre la parte musulmana veniva dispersa e resa schiava, la città era colonizzata con famiglie provenzali.
Ci vollero altri anni di guerra prima che Carlo potesse assumere il controllo di alcuni centri in Calabria e Sicilia, suscitando, per i brutali metodi impiegati, animosità che sarebbero emerse nel futuro. Particolare fu la ferocia con cui furono ridotte all’obbedienza alcune città della Sicilia. Di queste rimane la raccapricciante memoria della strage che subirono, per la resistenza opposta, gli abitanti di Augusta, il cui scempio fu caratterizzato da episodi di inumana violenza.

Carlo non tardò a rivelare i suoi metodi spregiudicati volti a consolidare la sua monarchia ed, a tal fine, si propose di annientare ogni collegamento con il passato normanno e svevo, sia attraverso l’indebolimento del senso dello stato che i normanni, in particolare, avevano iniziato a coltivare, sia attraverso un controllo del territorio impostato su un sistema terroristico. Questo era messo in atto da soldatesche aggressive e feroci il cui comportamento era assimilabile a quello di una guarnigione occupante un paese ostile.

Carlo, di aspetto possente, sicuro ed attivo, “grande ed austero” (secondo la definizione di B. Croce), avido di terre, potere e denaro, disumano e sprezzante, impose un regime caratterizzato da spregiudicatezza e rapacità: la prima mediante l’appropriazione di beni sottratti alle famiglie legate alla precedente dinastia, la seconda con l’imposizione di nuove ed indiscriminate tasse. Egli distribuì ai suoi cavalieri quanto confiscava ai feudatari locali e sparse in tutto il territorio dello Stato uno sciame di funzionari francesi che, arroganti, si insediavano nei migliori palazzi confiscati e si muovevano, sprezzanti, con l’unico fine di prelevare quanto più era possibile. E non solo erano state rispolverate tasse e privilegi che Manfredi aveva eliminato, ma ne furono implacabilmente imposte nuove e gravose.
Tale evidenza indusse al pentimento ed al reciproco scambio di accuse i baroni che, risentiti verso il precedente governo, avevano favorito l’avvento del francese, ed ora umiliati e ridotti in miseria, si apprestavano ad invocare di nuovo un aiuto straniero, mentre il popolo rimpiangeva la pace e la protezione che aveva percepito al tempo dei normanni, sovente con Fedrico II e nel breve volgere dell’ultimo re svevo.

In un tale contesto di sopraffazioni, ciascuno si industriava alla sopravvivenza e l’anarchia coinvolgeva tutti i livelli, per cui villaggi rivali colsero l’occasione per regolare vecchi conti ed i nuovi baroni assunsero il ruolo di piccoli potentati al di fuori della legge.
Non è detto che i francesi, che fecero del feudalesimo un sistema ferreo per controllare sudditi e territori, si siano comportati in maniera molto peggiore di quanto non avessero già fatto i normanni prima e i tedeschi poi, ma è certo che essi si applicarono senza ritegno a flagellare il popolo, ad intaccare interessi acquisiti e, soprattutto in Sicilia, a ledere la sensibilità popolare, mortificando persone e tradizioni, distinguendosi per una spietata intolleranza religiosa, in un paese che era stato modello di tolleranza e pacifica convivenza.

Carlo dopo aver disposto le imposizioni necessarie ai suoi bisogni finanziari, si rivolse a soddisfare l’ambizione di diventare il più importante sovrano d’Europa e, per questo guardò al settentrione d’Italia, ad oriente ed al nordafrica.
In Italia, la sua affermazione ed il sostegno che gli veniva dal Papato contribuì a rafforzare la sua posizione ed a sollevare le sorti della fazione guelfa. divenne, di fatto, il protettore delle città guelfe, di alcune delle quali assunse la signoria onoraria e Firenze riuscì a cacciare i ghibellini ed affidargli la signoria della città (3). Constatata, inoltre, la vacanza dell’impero dopo la scomparsa di Federico II, riuscì a farsi concedere dal Papa il titolo di Vicario imperiale ed a divenire arbitro degli affari di Roma, sfruttando il titolo di senatore della città ricevuto in precedenza.

Riprendendo la tradizione di chi lo aveva preceduto sul regno di Sicilia, cercò di allargare il suo potere verso il vicino Oriente coll’intento sia di rendere più sicure le sue frontiere che di aumentare gli sbocchi commerciali per l’economia meridionale. Già nei primi anni del suo regno aveva occupato l’isola di Corfù (1267) ed approfittando di una situazione favorevole riuscì ad assumere il titolo fittizio di re d’Albania (1272). Tra il 1277 ed il 1281, s’impegnò, con l’aiuto di Venezia, nell’organizzazione di una nuova crociata che non ebbe alcun esito se non di fregiarsi del titolo di re di Gerusalemme (1278-85) (4). Stabilì legami con il re d’Ungheria, Stefano V (5) . Inoltre promise sostegno, in cambio di territori, a Baldovino II (1228-1273) che, spodestato dalla restaurazione bizantina di Michele Paleologo (6) , mirava alla riconquista di Costantinopoli.

Per ristabilire l’influenza sul nordafrica, indusse il fratello Luigi IX il Santo (7) , re di Francia, ad intraprendere una crociata (VIII Crociata) per la riconquista della Terrasanta, con una strategia di attacco che partiva da Tunisi anziché da Costantinopoli. Ma Luigi IX muore per una epidemia di peste durante l’assedio di Tunisi (1270). Carlo che giunse subito dopo, trattando con il sultano di Tunisi, Mostanser Billah, riuscì comunque ad ottenere, per lo sgombero dei territori occupati, benefici rappresentati da indennità per le spese sostenute per la spedizione, il recupero dei tributi che erano stati riconosciuti al re normanno Ruggero II (1146) e non più versati negli ultimi anni, ed infine libertà di culto e di mercato fra le due sponde.

Clemente IV che aveva favorito l’avvento di Carlo d’Angiò, muore nel novembre 1268, avendo in parte modificato il suo atteggiamento favorevole man mano che il disegno espansionistico di Carlo si definiva ed emergeva il malcontento che l’amministrazione angioina andava suscitando nel meridione d’Italia. Ci vollero due anni prima di concordare l’elezione del nuovo Papa, che Carlo cercò invano di influenzare. Venne scelto Gregorio X (Teobaldo Visconti, 1271-1276) (8) un pontefice indipendente la cui politica fu improntata dal desiderio di mantenere un equilibrio fra le forze operanti in Italia. Poiché un motivo che favoriva l’influenza di Carlo sui comuni settentrionali era rappresentato dalla mancanza di un forte potere imperiale, egli cercò di ristabilire l’equilibrio sostenendo il re di Germania Rodolfo D’Asburgo (9) affinché fosse riconosciuto dai comuni settentrionali e riuscisse a porre termine alle lotte tra guelfi e ghibellini.

Dopo una serie di brevi pontificati (11), venne eletto Nicolò III (Giovanni Gaetano Orsini, 1277-1280) la cui elezione fu il risultato della tendenza a far riassumere da parte del Papato il ruolo egemone e l’autorità, appannati dalla influenza angioina che si era consolidata anche nel settentrione d’Italia. Nicolò continuò ed accentuò la politica di Gregorio X fino a compiere atti di chiara ostilità nei confronti di Carlo che costrinse a rinunciare al titolo di senatore di Roma e di Vicario imperiale, mentre, in virtù degli stretti rapporti stabiliti con Rodolfo d’Asburgo, ricevette da questi, in cessione, i diritti imperiali su Romagna e Marche. Una volta ricevuti i due titoli e le regioni menzionate, Nicolò concesse quello di senatore al nipote e le regioni al proprio fratello (Bertoldo) col titolo di conte di Romagna, riesumando quel sistema deteriore che venne definito “nepotismo” . (11)

Il successivo Papa, il francese Martino IV (Simon de Brion, 1281-1285) (12) , eletto su pressione di Carlo I, abbandonò la linea dei suoi predecessori e, favorendo gli interessi della corte angioina, ridiede a Carlo la carica di senatore romano, riaffidò ad un francese il governo della Romagna e sostenne la preparazione della spedizione contro Costantinopoli con cui Carlo avrebbe voluto recuperare il regno del deposto Baldovino (v. nota 6). Tale spedizione non poté aver luogo a causa dei moti scoppiati in Sicilia.

La rivolta dei “Vespri Siciliani”

Le mire espansionistiche di Carlo suscitarono diffidenza non solo nel Papato che lo aveva sponsorizzato ma, ancor più, nei baroni siciliani sia per il favore accordato ai nobili francesi a danno dei feudatari locali che per la perdita di potere che lo spostamento della capitale da Palermo a Napoli aveva comportato, dando avvio al decadimento della Sicilia ed all’appannamento progressivo del suo recente splendore. Tutto questo, accanto alla dura politica fiscale, ed alla mancanza di riguardo verso i sentimenti locali, aveva creato una generale atmosfera di ostilità, coltivata con abile azione politica e diplomatica da parte di fuoriusciti italiani che avevano trovato ospitalità presso la corte aragonese. Tra questi il condottiero ammiraglio Ruggero di Lauria e Giovanni da Procida (13) , uomo di grande talento e saggezza, amico degli Svevi. Sembra che questi si sia recato, sotto mentite spoglie, più volte in Sicilia per preparare l’eventualità di un intervento aragonese.

La sommossa contro i francesi si manifestò a seguito di un episodio di trascurabile entità ma che ebbe conseguenze ben più rilevanti. Il 31 marzo 1282 a Palermo mentre si stava celebrando la funzione pomeridiana nella Chiesa dello Spirito Santo, un atto irriverente rivolto da un soldato francese ad una donna siciliana, cosa che in quella società era meno sopportabile della persecuzione politica, provocò una esplosione di risentimento che si trasformò in uno spontaneo moto popolare che, detto appunto dei “Vespri siciliani”, dilagò per tutta l’isola (14) .

Essendosi trattato di una rivoluzione popolare spontanea, il successo fu grande e la risposta immediata. Prese corpo una caccia spietata ai francesi che, assieme a coloro che in qualche modo avevano collaborato con essi, furono nel giro di poche ore massacrati con ferocia a migliaia (“misura fu per misura”). Da Palermo che fu dichiarata repubblica indipendente, il moto si diffuse a tutta la Sicilia e dovunque fu data la caccia ai francesi che in poche settimane furono sterminati (15) . In altri centri della Sicilia furono eletti “capitani del popolo” che si collegarono con Palermo.

Anche Messina, solitamente in contrapposizione con Palermo si unì alla rivolta, espellendo con la partecipazione popolare la guarnigione francese e respingendo, sotto la guida di Alaimo da Lentini (16) un assalto operato dalle truppe di Carlo. Questi tentò un recupero di popolarità, facendo risalire ai suoi funzionari la responsabilità del malgoverno e, tramite legati pontifici, offrì ai Siciliani privilegi fiscali ed il ripristino della costituzione del re normanno Guglielmo I. Avendone ricevuto un rifiuto, tentò una rivalsa, ponendo Messina sotto un assedio che durò per mesi, mentre il resto della Sicilia veniva liberata dal giogo francese.

I rivoltosi ed i baroni che avevano cavalcato la sommossa, pur dotati di milizie private, errano ben consapevoli di non poter reggere ad uno scontro con le forze di Carlo, nel momento in cui egli avesse organizzato una spedizione più consistente. E, non avendo ricevuto protezione e sostegno dal Papa, sollecitarono l’intervento di re Pietro III D’Aragona che, principale rappresentante della tradizione ghibellina antipapale, poteva vantare diritti sul regno di Sicilia, avendo sposato Costanza, la figlia maggiore di Manfredi di Svevia, ultimo re di Sicilia.

Alla corte di Aragona, oltre alle insistenti pressioni di Costanza, Giovanni da Procida era già riuscito ad interessare Pietro III alla sorte della Sicilia ed ai vantaggi che ne avrebbe potuto trarre, utilizzando i baroni siciliani (molti dei quali di origine tedesca) nella loro politica di rivalsa contro gli angioini. Per cui, allestita una flotta, messa al comando del calabrese Ruggero di Lauria, Pietro III dopo una diversione in Africa per impadronirsi di territori berberi, manovra volta a coprire, presso la Santa Sede, la vera finalità della sua iniziativa, sbarcò a Trapani all’inizio di settembre dello stesso anno, ben cinque mesi dopo lo scoppio della rivolta, rendendo definitivo il successo della stessa.
Egli, a Palermo, assunse il titolo di re, col nome di Pietro I di Sicilia e costrinse Carlo, allarmato da ribellioni in Calabria che minacciavano di estendersi in tutto il meridione, a togliere l’assedio a Messina, a ripassare lo stretto pressato dalle iniziative dei difensori messinesi ed infastidito, sul continente, da continue incursioni aragonesi. Carlo partì quindi per la Francia lasciando suo vicario il figlio Carlo lo Zoppo (noto anche come Carlo di Salerno) . (17)


La Sicilia aragonese
- Il regno di Pietro III

Pietro, la cui conquista della Sicilia non era frutto di una azione militare, ma bensì diplomatica, per governare, aveva bisogno dell’apporto dei baroni che lo avevano sponsorizzato e delle loro milizie. Ad essi, ben prima dello sbarco in Sicilia, mediante prudenti e rassicuranti contatti, aveva promesso che sarebbero state ripristinate le leggi del tempo di Guglielmo I. Ora, avendo gratificato di importanti attribuzioni sia Giovanni da Procida che Ruggero di Lauria ed Alaimo da Lentini, era stato costretto ad assumere l’impegno di mantenere distinte le due corone, di Aragona e di Sicilia, al fine di garantire l’autonomia di quest’ultima. Impegno mai effettivamente messo in atto in quanto la Sicilia, oltre a restare nelle mire di riconquista degli Angiò e del Papa, rappresentava per la Spagna uno sbocco commerciale ed il trampolino per l’eventuale conquista del meridione continentale.

Mentre il Lauria sconfiggeva la flotta angioina asserragliatasi nel caposaldo di Malta (1283), ed operava sortite lungo le coste fino alle isole napoletane, gli Angiò, padre e figlio, predisponevano, con l’aiuto finanziario di Papa Martino IV, flotte in Provenza ed a Napoli. Ruggero di Lauria, anticipando i tempi, assalì la flotta angioina nel golfo di Napoli prima che essa si potesse congiungere con quella provenzale (1284). Il risultato fu la sconfitta della flotta angioina e la resa di Carlo lo Zoppo e dei suoi aiutanti. La qualcosa, oltre a destare l’ira di Carlo I e ad indurlo a reprimere violentemente un accenno di rivolta dei napoletani, lo constrinse a predisporre una nuova flotta per un attacco alla Sicilia da mettere in atto successivamente all’assedio di Reggio che si era ribellata agli angioini.

Ma Reggio resistette e l’esercito angioino fu costretto a ritirarsi, impoverito dalle defezioni ed incalzato da Ruggero di Lauria che espugnava numerose località calabresi, Nicotera, Castrovillari, Lagonegro, Morano, Montaldo, Rende ed altre, Tropea e Nicastro si arrendevano spontaneamente.

Dopo qualche mese, mentre le truppe aragonesi avanzavano verso Napoli e gli Abbruzzi, Carlo I moriva (gennaio 1285), stanco e corroso dall’ira per il susseguirsi di insuccessi. Ed essendo il figlio maggiore Carlo lo Zoppo ancora prigioniero, la reggenza del regno fu affidata al figlio di quest’ultimo, Carlo Martello (1271-1295), sotto la tutela di Carlo di Valois, figlio del re di Francia Filippo III a cui il Papa, che aveva posto un interdetto su Pietro I, era ricorso per sollecitare un intervento a salvaguardia della dinastia angioina. Il Papa infatti, quale manovra ritorsiva, aveva spinto Filippo III ad invadere l’Aragona, operazione che, pur avviata con scarso successo, non ebbe seguito per la scomparsa di quest’ultimo, cui succedeva il figlio Filippo IV il Bello.

Nello stesso 1285 venivano a mancare gli altri protagonisti della contesa, Martino IV (in aprile) e Pietro d’Aragona (in novembre) che i cronisti del tempo descrivevano audace, scaltro e capace di ambigui rapporti e di crudeltà, secondo le maniere del tempo.
A Martino successe Onorio IV (Giacomo Savelli, 1285-87), temperamento più incline alla pace (18) ma, pur non condividendo il governo tirannico imposto dagli angioini, non era meno interessato alla loro sorte che vedeva strettamente legata a quella della fazione guelfa d’Italia.

A Pietro III d’Aragona succedettero i figli Alfonso III, sul trono di Spagna ed, in Sicilia, il secondogenito Giacomo che assunse il titolo di Giacomo II (1286) e cercò di mantenere gli impegni assunti dal padre con l’aristocrazia baronale e prelatizia e con il popolo. Onorio IV non riconobbe le investiture dei figli di Pietro I d’Aragona e Giacomo II cercò di stabilire buoni rapporti con il Papa, ma risultando vani tali sforzi, non fece cessare le incursioni degli aragonesi nei territori angioini in Provenza (dove imperversava il Lauria), sulle coste adriatiche (battute da Berengario Villaraut) ed ancora nel golfo di Napoli (dal Lauria). Qui (giugno 1287) il Lauria ottenne uno strepitoso successo che monetizzò vendendo agli angioini, in seria difficoltà, una tregua di due anni sui mari. Tregua improvvida per la Sicilia che avrebbe invece potuto sfruttare il vantaggio acquisito con i bottini delle recenti vittorie.

Interrotta la guerra sul mare era ripresa violenta quella sulla terraferma con Giacomo che, risalendo la Calabria, ricevette la resa di numerosi centri tra cui Monteleone, Maida, Amantea .
Giacomo che aveva fatto allettanti promesse in materia fiscale, alla scomparsa del fratello Alfonso, avvenuta dopo pochi mesi dall’insediamento sul trono di Aragona, insistette per assumere la titolarità delle due corone, stabilendosi in Spagna ed inviando in Sicilia (1291), quale suo luogotenente, il fratello Federico.

Carlo Lo Zoppo, per ottenere la libertà, lasciò in ostaggio tre dei suoi figli (Ludovico, Roberto e Raimondo) e rinunciò al regno di Sicilia, ma tale atto non fu riconosciuto dal Papa. Il successore Nicolò IV (Girolamo Masci, 1288-1292) tentò di ristabilire il dominio angioino in Sicilia incoronando Carlo II d’Angiò “lo Zoppo” re di Napoli e Sicilia (1289).

- Il regno di Federico III

Alla scomparsa di Onorio, la Santa Sede rimase vacante per circa due anni prima della elezione di Papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, 1294-1303) (20) che fece seguito al breve pontificato di Celestino V. (21) Bonifacio stabilì un accordo con la monarchia francese il cui sostegno, in cambio della difesa degli interessi francesi, gli permise di avere una grande influenza nella intricatissima situazione italiana. Appena insediato, ratifica il Trattato di Anagni (1295, precedentemente vergato da Papa Celestino) tra Giacomo II d’Aragona e Carlo II d’Angiò che prevedeva, da parte dell’aragonese, la cessione in feudo della Sicilia e di Malta quale compenso dell’investitura nei feudi di Sardegna e Corsica (22) .
I siciliani, che avevano cacciato i Francesi, si sentono esclusi da questo baratto, per cui, convocato il parlamento (23), dichiarano decaduto Giacomo d’Aragona ed incoronano (1296) re di Sicilia Federico, che assume il nome di Federico III (1296-1337) (24). Tale nomina ledeva gli accordi del Papato con Giacomo II che veniva così a trovarsi nella condizione di avversario di suo fratello ed alleato degli Angioini.

Federico, quale primo atto di governo, sottopone al giudizio del parlamento e promulga uno Statuto di libertà Costitutiones regales (25) che affida al sovrano ed al popolo (nobiltà e sindaci) il potere legislativo, configurando un periodo di moderazione, sicurezza e sviluppo di commerci ed agricoltura. Il re la cui nomina era stata propiziata dal potentato locale schierato contro le scelte di interessi esterni si vide costretto ad aumentare le concessioni ai sostenitori siciliani o trapiantati spagnoli che si rafforzavano, coagulando raggruppamenti familiari, ed a creare nuovi conti.
Inoltre, la conciliazione con il Papato e con gli angioini del fratello Giacomo II, per via del trattato di Anagni, indusse Federico a collegarsi con l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (26) , facendo di conseguenza confluire su di se il consenso del partito ghibellino d’Italia.

Ma alle intenzioni di pace di Federico III seguirono, pur con l’approvazione del popolo, iniziative di guerra che lo indussero a risalire la Calabria ionica e giungere fino alla Puglia conquistando molti centri, tra cui Lecce ed Otranto. Attività questa che si contrapponeva agli interessi ed alle alleanze contratte dal fratello Giacomo II di Aragona che, nel 1297, giunse in Italia per ricevere dal Papa la bolla d’investitura della Corsica e della Sardegna (secondo quanto concordato nel Trattato di Anagni). Giacomo cercò di usare la persuasione con il fratello Filippo a cui fissò un appuntamento che quest’ultimo, su suggerimento del parlamento, disertò.

Successivamente (1298) sollecitato dagli angioini, sostenuto dal Papa e da una parte del baronato siciliano sempre pronto a schierarsi con chi poteva meglio garantire i propri interessi, Giacomo si decise a portare la guerra in Sicilia, contro il fratello che riteneva un usurpatore, in uno scenario articolato in cui la vittoria si alternava alla sconfitta. E la significativa vittoria che Giacomo II ottenne a Capo d’Orlando (1299) fu, malgrado l’apporto degli Angioini e di Ruggero di Lauria (27) , bilanciata da quelle di Federico III a Falconaria ed a Gagliano (1300).

Molti castelli (Milazzo, Manforte, ecc.) si arresero con la forza o per trame alle forze assedianti e Giacomo tentò di impadronirsi di Siracusa che resistette, così come altre roccaforti. La qualcosa pose Giacomo in uno stato di disaggio che, causato da varie considerazioni quali i limitati vantaggi che avrebbe tratto dall’impresa, l’assottigliarsi delle risorse messe a disposizione dal pontefice ed il rimorso di combattere il fratello, lo indussero a rientrare in Spagna, lasciando sul campo i soli angioini. Questi, con Roberto d’Angiò, nipote di Carlo I, nella speranza di far riprendere quota alle loro azioni, cinsero d’assedio Messina, il cui vano risultato li indusse a chiedere ed ottenere una tregua. Questa fu usata per convincere, con il sostegno del Papa, il re di Francia Carlo di Valois ad intraprendere, con un forte esercito, la riconquista della Sicilia dove Federico, protetto nella fortificata Caltabellotta, una cittadina di origine araba in provincia di Agrigento, aveva organizzato la resistenza. Carlo di Valois, sbarcato a Termini (maggio 1302), operò vanamente il tentativo di conquistare prima Caccamo e quindi Corleone, dove gli abitanti non solo resistettero ma contrattaccarono inducendo i francesi a togliere l’assedio.

Mentre Federico III faceva concentrare le forze a Corleone, Carlo di Valois, constatata la precaria situazione delle sue truppe afflitte dal caldo ed, angosciato dalla prospettiva di una prevedibile sconfitta o di una poco onorevole ritirata, decise di trattare una pace con Federico. La Pace di Caltabellotta (1302) avrebbe dovuto porre termine a diciannove anni di guerra seguiti alla rivolta del Vespro.

Con tale accordo firmato nel castello di Caltabellotta tra Federico III e Carlo di Valois, per conto di Carlo II d’Angiò, si stabiliva che Federico avrebbe conservato la sovranità di una Sicilia indipendente come re di Trinacria, che avrebbe sposato (1303) Eleonora, figlia di Carlo II (sorella di Roberto, duca di Calabria) (28), che ai figli nati dal matrimonio sarebbe toccato il feudo di Sardegna e che vi sarebbe stata reciproca restituzione delle terre occupate da Carlo in Sicilia e da Federico nel meridione continentale. Il Papa volle che fossero apportate delle modifiche nel senso che la Sicilia continuasse ad essere feudo della Chiesa* ed altre che Federico non mantenne, continuando, tra l’altro, a farsi denominare Re di Sicilia.

Il trattato prevedeva inoltre il ritorno della Sicilia agli angioini, alla morte di Federico II d’Aragona, ciò che non si realizzò mai. Infatti, allorché Federico III rivendicò il titolo di re per il figlio Pietro, la guerra, infruttuosamente per l’angioino Roberto d’Angiò, riprese (1312) e si protrasse ad intervalli fino al 1372.
Una delle conseguenze del trattato che sanciva il distacco delle due parti del regno, il meridione insulare aragonese da quello continentale angioino (29) , fu che la Calabria, per lungo tempo collegata alla Sicilia e che aveva tentato di associarsi alla sommossa siciliana, rimase congiunta al Regno di Napoli
Il Vespro aveva rivelato la presa di coscienza del popolo siciliano e la sua vocazione all’autonomia, attuata di fatto in età bizantina, mantenuta con i musulmani, soddisfatta dai normanni, trascurata dagli svevi e tradita dagli angioini.

La pace aveva interrotto per un decennio le vicendevoli scorrerie nei due territori che ripresero nel 1312 con vicende governate più dagli interessi di parte che da quelli del regno. Durante questo periodo gli angioini fecero, fino alla scomparsa del re Roberto d’Angiò (v. seguito), ripetuti sbarchi in Sicilia, Castellammare del Golfo (1314), Marsala, assedio a Palermo (1325), Licata (1335), Roccella (1338), Milazzo (1341), impossessandosi di diverse zone costiere ma di limitata portata, aspirando però di esaurire le risorse dell’isola, devastando vivai, tonnare, raccolti e greggi. In questo scenario i baroni si alleavano, di volta in volta, con truppe occupanti, o avventurieri armati che provenivano anche da regioni lontane o con bande di briganti per favorire il saccheggio di città concorrenti.

Messina riprese il contrasto con Palermo ed allacciò rapporti con gli angioini al fine di alimentare i commerci con la Calabria e Napoli. Per contenere questa situazione poco poteva fare Federico III, e così i suoi successori, non sorretto dalle milizie dei baroni ed impossibilitato, per mancanza di risorse, ad assoldare mercenari.

Federico III (30) , scomparve nel 1337, mentre era in viaggio e la salma tumulata nella cattedrale di Catania. Alla sua morte, la Sicilia godeva di una indipendenza precaria ed era certo più povera di quando era scoppiata la guerra del Vespro.
Egli, amabile ed umano con i sudditi ed ammirato per le leggi anticipatrici che portano il suo nome, restò nel cuore dei siciliani anche per aver percorso quasi tutte le vicende dell’eroico periodo della guerra del Vespro. Egli, rifacendosi a valutazioni posteriori, può definirsi un costituzionalista che ascoltava il parlamento e con esso decideva. I baroni, in quanto suoi pari, non gli dovevano obbedienza. La qualcosa riuscì a controllare abilmente lungo i quaranta anni del suo regno, anche a prezzo di enormi concessioni. Ma essa non era una situazione facilmente gestibile e, considerata l’arroganza e la sete di potere della nobiltà siciliana, costituì la base di quello strapotere baronale che risulterà condizionante nella storia della Sicilia e causerà l’emarginazione economica politica e culturale delle popolazioni cittadine, tenute lontane dalle cariche istituzionali.

Avendo così poco potere nei confronti dei nobili, Federico, ritenendosi erede dei diritti imperiali degli svevi ma non accorgendosi che l’asse geopolitico si stava spostando verso occidente, ambì a conquiste militari in oriente, dove gli Angiò avevano insediamenti. Il che gli avrebbe potuto facilitare la unificazione della Sicilia con il regno di Napoli.

- Il regno di Pietro II e di Ludovico

A Federico successe Pietro II di Sicilia (1337-42) (31) che fu, dai contemporanei, accusato di incapacità. Il fratello Giovanni, duca di Atene, nominato vicario si era assunto l’onere di riorganizzare le difese dell’isola contro gli attacchi angioini ed, alla scomparsa di Roberto d’Angiò (1343), riuscì ad impostare con la regina Giovanna I d’Angiò una pace che riconosceva parità fra i due regni (v. nota 37). Il Duca Giovanni che, alla morte di Pietro II (1342), aveva assunto la reggenza in nome del nipote Ludovico (1342-1355) (32) , colpito dalla peste moriva (1348) (33), avendo designato alla reggenza, Blasco II d’Alagona, giustiziere e primo magistrato del regno, malvisto dalla nobiltà siciliana.

Già prima dell’avvento di Pietro II si erano manifestati contrapposizioni fra le grandi famiglie che si erano affermate nell’isola e che si acuirono successivamente in un gioco di mutevoli alleanze e di intricati rapporti che finivano con l’indebolire il potere regio fino ad escluderlo. Il contrasto, mitigato dalla diplomazia del Duca Giovanni, alla morte di questi (1348) si radicalizzava a tal punto da degenerare in guerra civile. La fazione capeggiata dalla famiglia Chiaromonte (v. nota 34) che era giunta a sollecitare i sovrani angioini a non concedere più tregue alla corte siciliana ed a puntare alla riconquista dell’isola, con buona pace della rivolta del Vespro, fu ricondotta alla ragione dall’intervento, a Milazzo (1350), dell’esercito regio.

Nel 1355 morivano sia il reggente che il giovane re Ludovico (colpito dalla peste). Gli succedeva il fratello Federico IV d’Aragona (1355-77) ancora quattordicenne, affiancato dalla sorella Eufemia.

- Il regno di Federico IV

Federico IV che, per la mancanza di abilità, venne definito il semplice, sposò, nel 1361, Costanza, figlia di Pietro IV d’Aragona ed elesse il castello di Paternò a sua residenza.
Eufemia e Federico si trovarono, fin dall’esordio delle loro responsabilità, in una situazione di debolezza che favorì l’usurpazione dei territori regi da parte di molti nobili isolani (Alagona, Chiaromonte, Ventimiglia) alcuni dei quali erano collegati con gli angioini, sempre in cerca, questi ultimi, della situazione propizia per rientrare in possesso della Sicilia . (35)
Qui si costituirono due schieramenti baronali contrapposti che, nel 1362, concordarono la divisione del regno in due parti (quella orientale agli Alagona e quella occidentale ai Chiaromonte e Ventimiglia), potendo gli assegnatari, titolari del potere effettivo, riscuotere le rendite e sovvenzionare annualmente la curia regia, che aveva conservato la sola autorità formale.

Terminava così un periodo di contrasti con la formalizzazione di una situazione che scontentava le famiglie antagoniste, timorose però di aprire un conflitto dall’esito incerto. Situazione che necessariamente preludeva ad un nuovo riassetto che veniva siglato nel 1377, con la spartizione del regno tra i vicari delle famiglie, Alagona cui spettò la maggior parte orientale che amministrava da Catania, Chiaromonte cui toccò Palermo e Modica, ai Peralta la parte sud con Sciacca ed ai Ventimiglia la maggir parte della costa settentrionale.

Nel 1372 gli angioini di Napoli e gli aragonesi di Sicilia, stremati da novant’anni di guerra, giunsero ad un accordo, stipulato tra Giovanna I d’Angiò e Federico IV, con l’apporto di Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort, 1371-78), sottoscrivendo il trattato di Pace di Avignone. Questo, preparato e discusso da lungo tempo (37), concludeva la guerra del Vespro.

Con tale trattato veniva riconosciuta la sovranità della Sicilia con la condizione che Federico si definisse re di Trinacria e riconoscesse alla Chiesa la sovranità feudale. La Trinacria doveva essere considerato un dono di Giovanna d’Angiò (che finora si era titolata regina di Sicilia) a cui, vita natural durante, Federico avrebbe versato un tributo, ricevendo in cambio le isole Lipari. A beneficio del Papato, entrambi i contraenti, in qualità di sudditi, dovevano rendere omaggio al Pontefice. L’accordo prevedeva anche che Federico, rimasto vedovo, doveva sposare Antonia del Balzo, parente della regina Giovanna. Cerimonia che avvenne a Messina, durante cui Federico giurò fedeltà al Papa, ricevendo in cambio il ritirò di ogni anatema contro la Sicilia.

- Il regno di Martino “il giovane” e perdita dell’autonomia

Fedrico IV, morendo nel 1377, lasciava erede la figlia Maria, quattordicenne che venne affidata alla tutela del giustiziere* vicario Artale Alagona.
Questi, per estendere il suo potere, intendeva concordare un matrimonio con i Visconti, cosa che incontrò l’opposizione degli altri vicari e di parte della nobiltà, fra cui i Moncada ed i Chiaromonte che riuscivano a sottrarla, favorendo il prelievo da parte del nonno Pietro IV d’Aragona. Questi la fece portare presso la sua corte per utilizzarla come strumento di intervento in Sicilia, legittimato dal matrimonio con il nipote Martino di Montblanc “il giovane”, figlio di Martino “il vecchio”. Questi intrecciava trattative con i nobili siciliani al fine di concordare i compensi per l’insediamento di Martino I “il giovane” e Maria sul trono di Sicilia, dove essi giunsero nel 1392, a Favignana, condotti da una armata, guidata dal generale Cabrera, per una nuova conquista della Sicilia. Contro cui nulla poteva fare l’isola, priva come era di una flotta, disarmata da tempo.

Le trattative che avevano favorito questo insediamento non erano condivise da tutte le grandi famiglie che iniziarono a negoziare privatamente per ottenere quanto possibile in cambio del loro consenso, per il quale Martino promise feudi, vitalizi e perdoni.
A questo mercato restò ostile il vicario Andrea Chiaromonte contro cui mossero le truppe spagnole che, dopo un assedio, lo imprigionarono e giustiziarono mentre la sua famiglia scompariva dalla scena ed i suoi possedimenti incamerati dal Cabrera. Gli atri vicari furono indotti a limitare le loro pretese anche per l’arrivo di nuovi nobili spagnoli che, oltre a variare la composizione nobiliare, subentravano nelle responsabilità di governo. Le città più importanti erano disponibili ad accordarsi con qualunque re che, purché confermasse i loro privilegi, ritenevano preferibile alla tirannia di un baronato turbolento.

Martino “il giovane”, guidato dalla Spagna dal padre, ristabilì, pur per breve tempo e con la condivisione della nobiltà locale, un regno autonomo di Sicilia che riorganizzò con un parlamento cui, costituito da nobili, clero e comunità demaniali, aveva assegnato iniziative legislative. Egli moriva nel 1408, essendo la moglie Maria (38) già scomparsa nel 1401, mentre si apprestava a raggiungere la Sardegna per una missione (v. nota 22).
Non essendovi eredi gli subentrava il padre, Martino II “il vecchio” (39) che, nel 1396 era diventato re di Aragona. Questa investitura comporta la unificazione sulla stessa persona delle corone di Sicilia ed Aragona. Martino ”il vecchio” scomparve, nel 1410, senza lasciare eredi. La qualcosa, oltre a porre una questione di successione, fece sì che in tutte le regioni i potenti baroni riaffermassero la loro autorità e riemergessero i vecchi attriti tra città (Palermo e Messina).

Vi fu del disorientamento e fu avanzata qualche proposta di copertura della corona, come quella di Ladislao di Napoli. Infine la questione di successione veniva risolta allorché, nel 1412, i delegati dei regni di Spagna (Aragona, Catalogna e Valenza) si riunirono per nominare re di Aragona e di Sicilia, Ferdinando I “il giusto”, (1412-1416) (40) che diviene re di Aragona e di Sicilia.

La Sicilia accolse con rassegnazione la nomina che sperava contribuisse a liberarla dal caos. Ferdinando inviava in Sicilia il duca Giovanni di Penafiel con l’incarico di vicerè (41) relegando l’isola nella posizione di centro amministrativo.

Alfonso V d’Aragona “il magnanimo” (1416-1458) succedendo al padre Ferdinando I, al fine di un efficace controllo della Sicilia, vi fece trasferire numerosi funzionari spagnoli cui, lasciando facoltà decisionale, garantirono iniziative imprenditoriali e politiche che contribuirono a vivacizzare economia e commerci.
Conquistò il regno di Napoli (1443, vedi seguito) . (42)
Lasciò in eredità la Sicilia e la Sardegna (v. nota 22) al fratello Giovanni II d’Aragona (1458-79).


Napoli angioina

Carlo II d’Angiò (1285-1309) (cfr. “La rivolta dei Vespri” e “Regno di Pietro III”), schiacciato tra le figure del padre e del figlio, viene ricordato per l’accordo con Genova al fine di sottomettere il Piemonte ed incorporarlo successivamente alla Provenza, per il Trattato di Anagni (v. nota 21) e per la Pace di Caltabellotta con cui aveva garantito un decennio di tranquillità al regno.
Aveva cercato di consolidare i rapporti internazionali con opportuni matrimoni: quelli della figlia Eleonora con Federico III di Trinacria (v. nota 27) e dei figli Roberto (futuro re, rimasto vedovo della prima moglie Iolanda) e Maria, rispettivamente con Sancia e Sancio, figli di Giacomo II d’Aragona. Cercò di governare senza ostilità nei confronti della nobiltà e con il favore dei sudditi, promulgando norme intese ad ostacolare gli abusi ed attenuare i carichi fiscali.

A Carlo successe il figlio Roberto I d’Angiò (1309-43) detto “il saggio”, (cfr. quanto riportato in precedenza: “Regno di Federico III”), colto e prudente (43) , divideva da tempo con il padre il governo dei domini. Mantenne una posizione di rilievo in Ungheria (v. nota 5) e, grazie alla sua notevole abilità diplomatica, riuscì a pacificarsi con Pisa (1317), a divenire senatore di Roma (1318) e signore di Genova (1319) da cui decadde successivamente, perdendo anche i domini piemontesi.
Tentò, con ripetute ma infruttuose incursioni, di riconquistare la Sicilia e contrastò la rinascita ghibellina dopo la venuta in Italia dell’imperatore Enrico VII, divenendo guida della fazione guelfa toscana nel 1305 (v. nota 26). Egli cercò di riorganizzare l’apparato burocratico al fine di una buona amministrazione nell’interesse dei sudditi, benché i suoi intenti erano limitati dalla precaria situazione finanziaria accumulata dai suoi predecessori. Favorì arte e cultura e lasciò monumenti come il complesso di Santa Chiara.

Il lungo regno di Roberto viene ritenuto il periodo di massimo splendore della monarchia napoletana che stava avviandosi al crollo. Alla sua morte, in mancanza di eredi maschi, per la prematura morte del figlio Carlo III (duca di Calabria), destinò il regno alla figlia di quest’ultimo e di Maria di Valois, la diciassettenne Giovanna I d’Angiò (1343-81), promettendola in moglie ad Andrea d’Angiò figlio del re Caroberto d’Ungheria. Questo matrimonio se serviva a placare gli interessi manifestatasi in Europa (da parte francese ed aragonese) verso il regno, segnava peraltro l’inizio di burrascose vicende che condurranno alla fine della dinastia.

Giovanna I d’Angiò, primo sovrano napoletano di nascita, è una figura controversa che viene descritta come amabile e gaia o lussuriosa e sanguinaria. Certo è che il suo regno fu caratterizzato da vicende in cui si alternavano complotti di corte, scontri esasperati e violente esecuzioni. Tutto questo trovava in parte alimento nelle discordie sollevate dai comportamenti della regina che si sposò ben quattro volte. Il sospetto di aver avuto un ruolo nell’assassinio del primo marito Andrea (1345), indusse il fratello di questi, Luigi I d’Ungheria, a venire in Italia (1347) per vendicarlo.
Riuscì ad installarsi agevolmente in una Napoli malamente difesa ed abbandonata da Giovanna che era fuggita in Provenza con il secondo marito Luigi, figlio del Principe di Taranto. Luigi d’Ungheria, nel 1448, dovette rientrare in patria, richiamato dai pericoli di una opposizione che si stava organizzando e dal timore della peste. Giovanna, rientrata a Napoli (1352), si scontrò, per la gestione del potere, con il marito Luigi di Taranto che, sostenuto dall’abile consigliere Nicola Acciaiuoli, riescì a prevalere ed a farsi riconoscere re.

Nel decennio del suo potere, egli tentò di recuperare le posizioni angioine in Piemonte e Sicilia, riuscendo indenne da continue congiure sostenute dai Durazzo d’Ungheria. Alla morte di Luigi di Taranto (1362), Giovanna riprende il potere in un groviglio di intrighi e corruzione che la indussero a trovare un sostegno, sposando (1363) Giacomo III di Maiorca. Questi, pretentendo un ruolo di governo, fu arrestato e, dopo la sua morte, nel 1375, Giovanna trovò (1376) in un uomo d’arme come Ottone di Brunswick un marito che, nominato principe di Taranto ma escluso dalla successione, fu capace di garantire la sicurezza sua e dello Stato.
Giovanna, in mancanza di eredi e su suggerimento del papa avignonese Clemente VII (v. nota 45) aveva adottato Luigi I d’Angiò, fratello del re di Francia Carlo V, e nominato duca di Calabria (1380). La qualcosa destò il risentimento del re d’Ungheria (44), il quale giunto in Italia e fatta imprigionare ed assassinare la regina, si insediò nel regno di Napoli (1382) col nome di Carlo III di Durazzo.


La scomparsa di Giovanna I d’Angiò (1381) pone fine alla dinastia angioina del regno di Napoli.
Durante il regno di Giovanna, oltre alla firma del Trattato di Avignone (v. Regno di Federico IV), si era verificato il suo sostegno, nel corso dello scisma d’Occidente, all’antipapa Clemente VII con conseguente scomunica, del 1380, da parte del papa Urbano VI (Bartolomeo Frignano, 1378-89) che favorì l’avvento al trono di Carlo III di Durazzo . (45)


Napoli aragonese

Luigi I d’Angiò, cercando di sottrarre il regno a Carlo III di Durazzo, attraversò la penisola, proveniente dalla Francia, con un esercito di 60.000 uomini, tra i più potenti mai visti in Italia e, conquistato il principato di Taranto, morì preso Bari (1384) mentre si apprestava ad attaccare Carlo III di Durazzo. Questi dovette subito rientrare in Ungheria per sedare contrasti di ordine dinastico, rimanendo vittima di un attentato (1386) e lasciando la moglie Margherita reggente del regno, per conto del figlio Ladislao di nove anni.
Nomina contrastata, a Napoli, dai baroni di fede francese che preferivano il ritorno degli Angiò con Luigi II (1377-1417, figlio di Luigi I). Ma Ladislao, nel 1399, entrò a Napoli ricevendo gli onori da tutti i baroni e, non dimenticando coloro che si erano opposti alla sua nomina, cercò di emarginare i Ruffo di Calabria, i Marzano ed i Sanseverino. Ladislao che, sorretto da ambiziosi programmi politici, aveva retto le sorti del regno di Napoli con audacia, muore nel 1414, lasciando erede la sorella quarantacinquenne Giovanna II (1414-35) che, vedova di Guglielmo d’Austria, fece rivivere le intricate vicende del tempo di Giovanna I.

Ella, non in grado di garantire il regno dalle ambizioni provenienti da più parti, sposò Giacomo di Borbone che, inviso al popolo, fu allontanato dal potere che restò nelle mani di Giovanni Caracciolo, favorito della regina. Allorché Napoli venne assediata da Luigi III (1403-34, nipote di Luigi I d’Angiò) che ottenne l’investitura a re (1419-26) da Martino V (v. nota 45).

Giovanna II invocò il soccorso del giovane re d’Aragona, Alfonso V a cui promise la successione al regno. Il re d’Aragona cercò di sfruttare l’occasione per impossessarsi del regno, arrestando il Caracciolo e cercando di fare altrettanto con la Regina che riuscì a mettersi sotto la protezione di coloro che finora l’avevano combattuta, i francesi di Luigi III.
Essendo Alfonso V costretto a rientrare in Aragona per salvaguardare i suoi possedimenti dalle mire de cognato, re di Castiglia, Giovanna II, morendo (1435) lasciava il regno a Renato d’Angiò, fratello di Luigi III, sollevando un conflitto con Alfonso V.
Conflitto che si risolveva a favore del re aragonese, solo nel 1442, dopo un lungo assedio che aveva stroncato le resistenze dei sostenitori della casa d’Angiò. Alfonso V riuscì ad imporre la dinastia spagnola suscitando malumore in una società in cui il potere era ancora gestito da funzionari francesi.


Riunificazione politica dei due Regni

Alfonso V il Magnanimo, entrando trionfalmente a Napoli (1443, nota 42) con un corteo di imponenza tale che da secoli non si vedeva, veniva ad aggiungere Napoli ed il meridione continentale ai suoi domini che comprendevano già la Sicilia (1416).
Alfonso V il Magnanimo con l’insediamento in Sicilia ed a Napoli, unificava dal punto di vista politico sotto la corona aragonese i due regni che restavano amministrativamente divisi, la qualcosa, oltre che dalla rivalità fra i due ceti dirigenti accentuata dallo spirito autonomistico degli isolani, era resa evidente dalla nomina di un vicerè in Sicilia, da parte del successore di Alfonso, Giovanni II di Aragona (1458-79). Questi, sostenitore di una linea politica iberica, fece divenire la Sicilia una provincia dei domini spagnoli, mentre non intralciava il governo di Napoli, andato in successione al nipote Ferdinando I di Napoli (Don Ferrante, 1458-94), figlio naturale di Alfonso V.
Il meridione continentale veniva unito all’Aragona ed agli altri domini spagnoli da Ferdinando II “il Cattolico”, nel 1504.


Decadenza del meridione nei secoli XIII-XV (46)

Con la rivolta del Vespro in Sicilia e la cacciata degli angioini venne meno la presenza di una forte monarchia in grado di proseguisse l’opera avviata dai re normanni e svevi che avevano costretto il baronato a moderare il suo rovinoso particolarismo ed a collaborare, per avviare la creazione di uno stato forte di cui difendere identità ed indipendenza.

La separazione in due regni che ne conseguì, meridione insulare e meridione continentale, oltre che una divisione politica e morale che sanzionava la diversità di due mondi che si era già avviata in tempi precedenti e si era radicata nella contrapposizione di interessi concorrenti di mercato, rappresentò un evento negativo con prevalente danno per la Sicilia. Questa, dopo aver allentato i legami con il medio oriente e ridotta, col tempo, sempre più al rango di provincia aragonese, non esercitò più l’influenza civile e culturale dei secoli precedenti, venendosi ad allontanare dal resto dì Italia che si avviava ad entrare nel periodo rinascimentale.

La decadenza politica del meridione poi va fatta risalire non solo alla continua contesa dinastica ed alla guerra che, per due secoli, si verificarono nei due regni ma anche alla perdita di autorità politica.
La guerra “del vespro” aveva prosciugato le risorse delle due entità Stato, con conseguente impoverimento delle popolazioni che, per i danni arrecati alle culture ed alle attività, contributi ad abbassare il livello morale di tutta la società, spettatrice di delitti e nefandezze.

La perdita di autorità derivava dal fatto che le leve del potere, sia in Sicilia che a Napoli, piuttosto che dai legittimi titolari, erano mosse da coloro che ne sostenevano i ruoli. Questi, dovendosi adeguare alle mutevoli alleanze in Europa cui i loro interessi li obbligavano, impedivano al titolare del potere periferico di imporre le proprie scelte, condizionato come era anche dal baronato locale che, in siffatta situazione diveniva, soprattutto in Sicilia, sempre più autonomo ed influente.

- Sicilia

Fin dal regno di Federico III nella vita siciliana si manifestavano mutamenti che preludevano al declino del potere regio a favore della nobiltà feudale che acquisiva capacità di condizionamento del potere politico ed economico. In tale situazione i baroni locali, riportati sotto controllo, dopo gli svevi, dal potere iniziale angioino, si svilupparono rigogliosamente in tutto il regno e non posero più freni al loro interesse perseguito con un potere brutale che, esercitato sulle altre componenti, mantenne il regno in uno stato di diffusa anarchia.
La potenza della classe feudale impedì lo sviluppo cittadino, già debole al tempo dei normanni e svevi, che altrove aveva preso la direzione della cosa pubblica, mentre qui si arrestò, facendo mancare il sostegno della borghesia nella sua funzione di equilibrio che ad essa spettava. Le violenze ed i soprusi dei feudatari, provocarono la fuga dei contadini verso i centri abitati, lasciando i campi al pascolo, al decadimento malarico e, più tardi, al brigantaggio.

- Napoli

Divenendo capitale del regno (tale rimase fino alla costituzione del regno d’Italia, 1860), allorché gli angioini subentrarono agli svevi cominciò a crescere urbanisticamente ma non socialmente.
L’arrivo di francesi, spagnoli, fiorentini, commercianti e banchieri che finanziavano, in cambio di privileggi, le necessità della Corte contribuirono alla crescita della città, sia nel numero di abitanti che nelle strutture, fino a divenire la seconda città d’Europa, dopo Parigi.
La struttura si sviluppò arricchendosi di monumenti e nuovi edifici, quale il Castel Nuovo che divenne la reggia di Carlo I e Castello di S. Elmo che fu opera di Roberto I, creando nuovi quartieri (Chiaia, Sant’Erasmo, il mercato), bonificandone altri (Ponte della Maddalena), ampliando il porto e lastricando strade.
D’altro canto aumentavano gli squilibri a partire dalla fine del regno di Roberto Angiò allorché iniziò il declino con il materializzarsi del distacco e la definitiva rinuncia alla Sicilia, con il fallimento della politica orientale che tolse al regno quel ruolo di baricentro fra Oriente ed Occidente, con l’esaurimento delle risorse, per lungo tempo impegnate in una politica dettata dalle ambizioni dei sovrani e lontana dalle reali capacità.

 

( 1) Con l’asterisco (*) si rimanda a quanto illustrato nel capitolo: Il meridione d’Italia dai Normanni.Svevi agli Angioini – Sullo sfondo della lotta tra Federico II di Svevia ed il Papato
(2) L’Angiò è una antica regione del nord-ovest della Francia (attuale dipartimento Maine-et-Loire), insediamento dei Celti Andecavi (da cui il nome della capitate Angers). Conquistata dai Franchi (VI sec.) divenne sede della importante famiglia dinastica.
(3) Dopo la vittoria conseguita a Montaperti (1260), Firenze divenne un centro ghibellino governato da Guido Novello che, imponendo nuovi tributi si era alienato il favore del popolo che finì col non nascondeva le sue simpatie per i fuoriusciti guelfi, rinfrancati frattanto dalla vittoria di Carlo sugli svevi, avversari del Papato. Guido Novello cercò soluzioni che non riuscirono a placare il malcontento ed, in seguito a disordini sorti, lasciò la città, consentendo l’avvento della signoria di Carlo I. Firenze divenne il centro di una potente lega guelfa che si allargò a Bologna, Perugia e ad altre città lombarde e piemontesi.
(4) Dal 1229 il Re di Gerusalemme risiedette in Europa regnando su altri e più vasti domini. Dopo la Caduta di Acri (1291), ad opera del sultano Khalil, il regno di Gerusalemme cessò di esistere e la rivendicazione del titolo fu puramente simbolica.
(5) I figli Maria e Ladislao sposarono Carlo ed Isabella, figli di Carlo I d’Angiò.
(6) Baldovino II fu l’ultimo Imperatore Latino di Costantinopoli, istituito dai cavalieri della IV Crociata e rappresentato da una limitata estensione attorno a Costantinopoli. Nel 1261, Michele Paleologo, a capo dell’esercito bizantino, occupò una Costantinopoli abbandonata da Baldovino che riusciva a rifugiarsi in Italia. Egli, , dopo essersi disfatto del legittimo erede Michele VIII, restaurò l’Impero Bizantino, dando avvio alla dinastia dei Paleologhi.
(7) La sua fama di saggezza e santità indusse Bonifacio VIII a canonizzarlo.
(8) Visto il lungo protrarsi del conclave, gli abitanti di Viterbo chiusero i 19 cardinali nel palazzo vescovile, fornendo loro solo pane ed acqua e scoperchiando il tetto, fino alla elezione del nuovo Papa.
(9) Fu nominato anche Imperatore ma senza ricevere, secondo tradizione, la conferma della incoronazione a Roma perché non venne mai in Italia, essendo impegnato a rafforzare, in Germania, la potenza della casa asburgica.
(10) A Gregorio X, prima di Nicolò III, si succedettero, nell’arco di circa un anno, tre papi che, per il breve pontificato, non ebbero alcuna rilevanza politica: Innocenzo V (Pietro di Tarantasia), Adriano V (Ottobuono dei Fieschi) e Giovanni XXI (Pietro di Giuliano).
(11) Il “nepotismo” rappresenta l’attività di potenti rivolta a favorire parenti ed amici nell’ottenimento di cariche e prebende. Una forma di malcostume che, presente allo stato embrionale fin dall’alto medioevo, ha conosciuto un massiccio sviluppo nel XIII sec. appunto con Papa Nicolò III, che Dante colloca nell’Inferno (XIX, 69-72; - sappi ch’i fui vestito del gran manto; - e veramente fui figliuol dell’orsa, - cupido sì per avanzar gli orsatti - che su l’avere e qui me misi in borsa - …. Orsa: Orsini/animale ingordo e legato ai cuccioli).
(12) Noto per la sua voracità secondo quanto riferiscono Iacopo della Lana (Fu molto vizioso della gola e per le altre ghiottonerie nel mangiare ch’elli usava, faceva tòrre l’anguille dal lago di Bolsena e quelle faceva annegare e morire nel vino alla vernaccia…) e Dante (Purgatorio, XXIV, 24-25; purga per digiuno – l’anguille di Bolsena e la vernaccia…)
(13) Ruggero di Lauria, figlio del “gran giustiziere” Riccardo, si era rifugiato a Barcellona con la madre, nutrice della regina Costanza di Svevia (v. testo).
Giovanni da Procida, avendo subito la confisca dei suoi possedimenti si rifugiò in Spagna per sfuggire ad ulteriori ritorsioni di Carlo D’Angiò.
(14) Dante, Paradiso (VIII, 73-75, – se mala signoria, che sempre accora – li popoli suggetti, non avesse – mosso Palermo a gridar: “mora, mora!”)
(15) Gli eccidi, i furti e gli stupri che aveva subito eccitarono alla vendetta il popolo che, comunque, ebbe anche la capacità di differenziare e laddove si trovarono funzionari che avevano mantenuto un comportamento umano, questi furono spogliati dei loro beni e rimpatriati.
(16) Alaimo da Lentini, uomo d’arme, capitano del popolo a Messina, per carisma e popolarità, era i grado di orientare l’aristocrazia siciliana, suscitando così l’invidia non solo di Giovanni da Procida e di Ruggero di Lauria ma anche di re Giacomo II (vedi seguito) che, successore di Pietro III, non si sentiva in grado di controllare ed indirizzare gli eventi. Per tale motivo, Alaimo fu oggetto di una congiura e, malgrado si fosse convincentemente discolpato alla corte di Alfonso III, per ordine di Giacomo fu ingiustamente mandato a morte, assieme ad alcuni suoi congiunti, per annegamento di fronte alle coste di Trapani mentre rientrava in patria.
(17) In questa situazione nacque l’ipotesi di risolvere la contesa del possesso della Sicilia, tra Carlo I D’Angiò e Pietro III d’Aragona, in una sfida da tenersi a Bordeaux, il 1 giugno 1283, alla presenza del re d’Inghilterra. La sfida non si tenne perché entrambi, pur avendola accettata, la elusero presentandosi in ore diverse.
(18) Nel 1285 emanava una costituzione (Costitutio sub ordinatione regni Siciliane) in cui affermava che nessun governo può prosperare se non fondato sulla giustizia e sulla pace e promulgava ordinanze intese a proteggere le genti di Sicilia, ad alleggerire il sistema fiscale ed a rafforzare le prerogative ecclesiastiche.
(19) In quel tempo i vari centri, se non motivati a resistere e timorosi di cruente azioni di rappresaglia, preferivano arrendersi e garantire vettovagliamento vario alle truppe assedianti.
(20) Discendente da nobile famiglia, si ispirò alla concezione teocratica formulata da Gregorio VII* e ribadita con le bolle Asculta fili ed Unam Sanctam. Acquisì enormi ricchezze e grandi latifondi sfruttando la sua carica pontificale. Dedito al culto della sua immagine, fu l’ultimo Papa a concepire la Chiesa come istituzione al di sopra delle genti e degli Stati, tutti ad essa sottomessi. A lui si deve la fondazione dell’università La Sapienza di Roma e la costruzione del Duomo di Orvieto e di Perugia. Dante lo colloca, con Nicolò III, fra i simoniaci (Inferno, XIX, 53-57, ...Bonifazio … I’ tu si tosto di quell’aver sazio – per lo qual non temesti torre a’ inganno – la bella donna e poi di farne strazio? …).
(21) Pietro Angeleri da Morrone, era in fama di santità ma, sprovveduto, fu manipolato dagli Angioini, suscitando lo sdegno dei porporati oppositori di questi. Timoroso di sbagliare oltre, consigliato dallo stesso cardinale successore si dimise dopo cinque mesi di pontificato (1294) ritirandosi in un castello.
(22) La Corsica con Cagliari, Sassari e parte dell’Arborea (regione nord-occidentale della Sardegna) era passata sotto la dominazione dei Genovesi, vittoriosi sui Pisani nella battaglia della Meloria (1284). L’insediamento aragonese in Sardegna ha inizio nel 1295 con l’investitura di Giacomo II d’Aragona (Trattato di Anagni). Nei principali centri comunali si susseguirono da allora e per circa un secolo opposizioni armate alla nuova feudalità spagnola che rimarrà fino al 1516.
Il trattato di Anagni prevedeva anche che Giacomo II sposasse la figlia di Carlo II, Bianca e che desse la sorella Iolanda in moglie al figlio di Carlo II, Roberto.
(23) A questa scelta concorsero non solo coloro che avevano preparato l’avvento degli aragonesi in Sicilia ma anche esponenti delle famiglie appartenenti alla nuova classe politica di origine aragonese (Alagona, Palazzi) ed anche Corrado Lancia (imparentato con la regina Costanza *) che volevano difendere il diritto dei siciliani ad avere un proprio sovrano. Federico, riconoscente, nel giorno dell’incoronazione, sceglieva molti baroni, conti e cavalieri dai ranghi dell’amministrazione locale.
(24) Quale re di Sicilia, Federico III d’Aragona avrebbe dovuto assumere il nome di Federico II di Sicilia in quanto il suo antenato svevo da parte di madre, Federico II di Svevia, come re di Sicilia, aveva assunto il nome di Federico I*. Federico d’Aragona, in virtù di questa discendenza, preferì assumersi il titolo di Federico III re di Sicilia.
(25) Il parlamento, introdotto dai normanni e modernizzato da Federico II, non era una novità ma il punto più qualificante dello Statuto stava nel potere del parlamento di eleggere il re “per volontà del popolo”, più avanzato rispetto ai grandi elettori che in Germania eleggevano l’imperatore.
(26) Eletto, in contrapposizione a Carlo di Valois sostenuto dal fratello re di Francia Filippo IV e dal Papa Clemente V, fu incoronato, nel 1312, Imperatore del Sacro Romano Impero, titolo rimasto vacante dai tempi di Federico II di Svevia. Venne in Itala con l’intento di esercitare il suo potere per la pace e l’ordine e, su queste basi, fondare la restaurazione imperiale. Finì con l’inserirsi nel corso degli avvenimenti contribuendo al consolidamento dei grandi regimi ghibellini del settentrione. I guelfi di Toscana si mobilitarono ponendogli contro Roberto d’Angiò, succeduto nel 1309 a Carlo II (vedi seguito). Ma Enrico si apprestava a manovre contro il regno di Napoli, quando morì nel 1313, nei pressi di Siena.
(27) Ruggero di Lauria, per incomprensioni con Federico III motivate dall’orgoglio, aveva abbandonato la causa della Sicilia e passato dalla parte degli Angioini che gli confermarono la carica di ammiraglio. Incomprensioni che altri sovrani non avrebbero lasciate impunite, ma Federico era affabile e di animo gentile ed, abituato a tollerare le fazioni della sua Corte, tollerò anche la ribellione di Ruggero che avrebbe potuto causare a quest’ultimo rilevanti danni. Nel trattato di Caltabellotta al Lauria fu accordato, da Federico, il perdono e la concessione del castello d’Aci.
Giovanni da Procida, come il Lauria, divenuto famoso nella guerra del Vespro, aveva tramato con gli Angioini, tradendo la rivoluzione siciliana. Morirà dimenticato ed in solitudine a Napoli (1299).
(28) Dal matrimonio nacquero Pietro (1304) futuro re di Trinacria, Giovanni e Guglielmo.
(29) Il ritorno della Sicilia agli angioini non si realizzò mai. Furono invece gli Aragonesi a conquistare il regno di Napoli, nel 1443, con Alfonso V che strappo a corona a Renato d’Angiò.
Nel trattato di Pace, la parte continentale venne definita Regno di Sicilia al di qua del faro. Da ciò, il nome di Regno delle due Sicilie conferito, nel 1816, alle due entità unite.
(30) Egli divenne il favorito di Dante per essersi contrapposto a cinque Papi.
(31) Federico da 16 anni lo aveva associato al trono per eludere la clausola della pace di Caltabellotta che prevedeva, alla morte di Federico, il ritorno della Sicilia agli Angioini.
(32) Era nato nel 1337, da Elisabetta di Corinzia.
(33) All’inizio del XIV sec. si creò uno squilibrio fra scarsa produzione agricola e popolazione in aumento. La insufficiente nutrizione causò un indebolimento della resistenza alle epidemie e una conseguente regresso demografico. In questo contesto si abbatté ad ondate successive il flagello della peste che, importata dal genovesi che l’avevano contratta dai mongoli, raggiunse il culmine nel 1348-50, contagiando circa 1/3 della popolazione.
(34) Fra queste i Chiaromonte, i Ventimiglia, i Palizzi, i Loria, i Rosso di origine isolana, gli Antiochia di origine sveva, gli Alagona, Peralta, Moncada di origine aragonese.
(35) Nel 1356, il governatore di Messina (Nicolò Cesareo), in dissidio con gli Alagona che aspiravano a controllare la parte orientale dell’isola, chiese l’aiuto degli angioini che tentarono di inoltrarsi nel territorio di Aci, ma furono sconfitte nella battaglia navale di Ognuna.
(36) A Bonifacio VIII erano succeduti: Benedetto XI (Nicola Boccalini, 1303-04); Clemente V (Bertrand de Got, 1305-14 che soppresse l’ordine dei Templari e trasferì (1309), su pressione di Filippo il Bello, la sede Papale ad Avignone, località ricevuta in dono da Roberto I d’Angiò); Giovanni XXII (Jacques Duese, 1313-34; si adoperò per imporre a Milano la signoria di Roberto d’Angiò ma provocò la ribellione dei ghibellini lombardi e diede a Ludovico di Baviera, succeduto ad Enrico VII, l’opportunità di tentare una restaurazione imperiale. Negativamente descritto, riteneva che la Chiesa dovesse essere una istituzione ricca. Fu soprannominato il Banchiere); Clemente VI (Pierre Roger, 1342-52); Innocenzo VI (Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna, 1352-62) ed Urbano V (Guillaume de Grimoald, 1362-70).
Gregorio XI, sollecitato da una ambasceria di cui faceva parte S.Caterina da Siena, pose fine, nel 1377, alla “cattività avignonese” termine riferito al periodo 1308-1377 in cui il papato ebbe sede in Avignone, subordinato alla volontà dei sovrani francesi.
(37) La bozza era stata stesa, nel 1347 (Pace di Catania), con la mediazione di Papa Clemente VI, dal duca Giovanni e dalla stessa regina Giovanna I d’Angiò che ritenevano necessario una soluzione che ponesse termine ad un contrasto che aveva impoverito e sfiancato i due regni.
(38) Con lei ha termine sia la dinastia aragonese-sicula iniziata con Federico III (1296), unico a non essere nato in Sicilia, sia l’indipendenza dell’isola.
(39) Caso piuttosto singolare, nella storia, di un padre che succede al figlio.
(40) Era nipote di Martino II e figlio più giovane di re Giovanni I di Castiglia e Giovanna d’Aragona.
(41) Inizia, nella storia della Sicilia, il periodo dei vicerè, pochi dei quali furono di origine siciliana. Tramite questi, il potere fu esercitato direttamente dalla Spagna, fino al 1713, allorché, con il Trattato di Utrecht, Vittorio Amedeo II di Savoia assume il titolo di re di Sicilia.
(42) Fregiandosi del titolo di Alfonso I di Sicilia e di Napoli.
(43) Duca di Calabria, dal 1296 e Principe di Salerno, dal 1304. Fu apprezzato dai cronisti ed intellettuali del tempo (Petrarca e Boccaccio ospitati presso la sua corte) come uno dei migliori re cristiani, mentre nel giudizio di Dante prevale l’ironia (predicatore da sermoni).
(44) Le pretese della corona d’Ungheria sul regno di Napoli risalgono fin dai matrimoni dei figli di Carlo I d’Angiò con i figli del re d’Ungheria (cfr. nota 3), a Carlo Martello (figlio dia Carlo II d’Angiò, formalmente eletto re d’Ungheria, 1290), oltre a quello della stessa Giovanna con il primo marito Andrea.
(45) Alla morte di Gregorio XI (v. nota 36) i cardinali francesi contestarono l’elezione del legittimo successore Urbano VI (Bartolomeo Pignano, 1378-89) e nominarono come antipapa Clemente VII (Guido de’Medici) che si rifuggiò ad Avignone, riconosciuto dalla Francia, Napoli, Portogallo, Aragona e Pastiglia. L’Impero, Inghilterra, Ungheria ed Italia settentrionale riconobbero il papa di Roma.
Questa frattura, nota come scisma d’Occidente, perdurerà fino al 1417, elezione di Martino V (Ottone Colonna, 1417-31).
(46) Croce così descrive il periodo angioino: “guerre di pretendenti saccheggi, stragi e devastazione da parte di gente da condotta, imperversare di bande, brigantaggio ed insieme tradimenti di baroni, incostanza delle popolazioni, passaggio continuo dall’uno all’altro partito e grandiosi, improvvise catastrofi di alti personaggi ed intere casate e miseria ed ozio e mancanza di arti ed abbassamento morale nei grandi e nei piccoli dettero al regno cattiva fama all’Italia meridionale che già buona non l’aveva”.

FINE


di Franco Savelli

PERIODO ARAGONESE - FINO AI SAVOIA >

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