-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

109 e - LE CONQUISTE SPAGNOLE

La grande scoperta di Colombo occorreva fosse messa a profitto dalla Spagna. E fu messa a profitto mediante nuove scoperte, con la presa di possesso dei Nuovo Mondo e con la scoperta di una via verso le isole delle droghe compresa nel raggio della sovranità spagnola. Le aspirazioni del governo a tal riguardo furono assecondate dalle tendenze che si manifestarono nel popolo. Questo fu preso da una vera febbre di avventure, da una specie di ebbrezza, frutto di idee esagerate e di fantastiche speranze. Molti credevano che nel nuovo mondo l'oro e gli altri metalli preziosi si trovavano per le strade e che vi fosse anzi più precisamente un paese dell'oro, un "Dorado » che occorreva solo ricercare e trovare per avere oro a volontà.

Migliaia e migliaia di persone attraversarono l'Oceano alla caccia della fortuna; e non si recarono in America come laboriosi agricoltori o cauti mercanti, ma con la croce in una mano, la spada nell'altra e la borsa vuota, come uomini d'arme e predoni, come orgogliosi Castigliani poco amici del lavoro che volevano arricchire rapidamente e procurare nuovi sudditi alla Chiesa per la salute della loro anima.
Così tutti costoro passarono il mare, si aprirono la via attraverso foreste vergini e paludi malariche, superarono le montagne colossali che si opposero al loro cammino con le ardue cime ghiacciate. Furono molti a partire, ma pochi raggiunsero la meta dei loro desideri; i più vi rimisero la vita, oppure tornarono indietro malati, disillusi, spezzati.
La cupidigia e l'egoismo scatenarono tutte le peggiori passioni: invidia, odio e abietti tradimenti. Costoro, come sgozzavano gli indigeni, così non si risparmiavano tra di loro, ciascuno mirando a toglier di mezzo l'altro per far posto al proprio piede, quasi mancasse lo spazio vitale in quelle immense regioni dotate di incalcolabile mandrie e doni della terra mai visti in Europa.

Come abbiamo visto, le prime colonie spagnole sorsero ad Haiti e ad Hispaniola o San Domingo. Di qui esse si diffusero sulle isole vicine, soprattutto a Portorico e Cuba e poi sulle coste del Mare Caraibico. Il cercatore d'oro si trasformò in esploratore e l'esploratore in conquistatore.
Se mettiamo a parte per il momento le due figure principali di conquistatori, Cortez e Pizzarro, e prendiamo a considerare quelli che Sophus Ruge chiama «piccoli scopritori», il primo che emerge sugli altri e Balboa, un nobile intraprendente e pieno di debiti, il quale con una marcia fatta contro gli ordini dei suoi capi attraversò l'istmo all'altezza del golfo di Carien e lì scorse l'immensa distesa di un mare, che per la sua saltuaria tranquillità fu denominato «Oceano Pacifico».

Ma la sua fortuna gli fu fatale, perché venne a conflitto col suo governatore e suocero, il quale lo fece imprigionare da Pizzarro e poi decapitare. Già prima di lui il ferreo Hojeda, che trovò in Amerigo Vespucci un valente collaboratore, aveva compiuto tre viaggi sulla costa settentrionale dell'America del Sud e scoperto il Venezuela. Egli intraprese un quarto viaggio, ma perse tutti i suoi compagni sotto le frecce avvelenate dei Caraibi, riuscì a sbarcare sulla costa di Cuba su una nave pirata, fu processato e morì nella miseria più squallida.

Nicuesa si diresse verso l'aurifero Veragua; dovette stanziarsi in mezzo alle impervie paludi dell'America centrale, dove la febbre e la fame fecero strage dei suoi uomini. Con le ultime forze si trascinò per mare fino ai luoghi tenuti da Balboa, ma costui gli proibì di sbarcare e l'obbligò a riprendere su un battello malandato l'alto mare, dove miseramente perì.

Cuba, «la perla delle Antille», fu conquistata da Diego Velasquez, che nel 1511 fu mandato da quelle parti come governatore. Tutta la grande isola, insieme con gli indigeni che la abitavano, fu suddivisa tra i conquistatori.
Nel 1517 salparono due navi al comando di Cordova e, dirigendosi verso ovest, avvistarono il Yukatan, allora abitato dal numeroso popolo dei Maya dotato di un elevato grado di civiltà.
L'anno dopo Grijalva ripetè la spedizione con maggiori mezzi, esplorò per lungo tratto la costa del paese e giunse sino al luogo dell'odierna Vera Cruz ed anche oltre; scoprendo così il Messico. Esso venne denominato «Nuova Spagna». Cortez poi, dopo la sua conquista del Messico, fece una campagna per conquistare l'Honduras, ma senza particolare fortuna. Ed altri seguirono le sue tracce con analoghi risultati
.

Verso nord si diresse sin dal 1513 Ponce de Leon. Egli raggiunse la costa della Florida. Ma non vi si poté stanziare a causa delle ostilità degli indigeni, e pagò con la vita un secondo tentativo che volle fare nel 1520. Anche Narvaez trovò la morte nel tentativo di penetrare nelle parti meridionali dell'America del Nord. Più fortunato fu da principio De Soto che riuscì con gravi perdite a prender d'assalto la principale fortezza degli Indiani. Ma anche lui finì per rimettervi la vita nel 1541, colpito da febbri violenti, e solo con grandi sacrifici il suo successore Alvarado riuscì a ricondurre i suoi uomini nella Nuova Spagna.

Si era intanto diffusa la voce dell'esistenza nell'interno di vaste regioni aurifere. Nel 1540 il viceré della Nuova Spagna, Mendoza, di decise a inviare verso nord il valoroso Coronado con un piccolo esercito. Di oro questi non trovò proprio nulla; ma constatò la natura peninsulare della California, vide, primo fra i bianchi, una delle grandi meraviglie della natura, il Canon del Colorado; valicò lo spartiacque fra i due Oceani, attraversò le grandi praterie, fin quando non lo arrestò un grande fiume in direzione est. Si ritiene che si trattasse dell'Arkansas o del Missuri.

La sponda settentrionale del Golfo del Messico fu esplorata da Pineda. Durante questo viaggio egli scoprì un grandioso fiume che gli indiani con tyanta immaginazione chiamavano «padre delle acque» o Mississipì.
Il Venezuela, come vedremo, venne in sostanza esplorato da tedeschi; la foce dell'Orenoco da Nino, ed assai più in là verso sud arrivò De Solis. Egli risalì il corso del La Plata, «il fiume dell'argento», ma invece dei tesori sperati imparò a conoscere le frecce avvelenate degli indigeni.

Un caso particolare portò alla scoperta del più gran fiume della terra. Francisco Orellana era stato inviato con una nave nel Perù per procurarsi delle vettovaglie. Con i suoi 50 uomini nel 1541 arrivò nel territorio di un fiume colossale. Si lasciò trascinare alla deriva dalla corrente, finché, attraverso il vastissimo bacino di sbocco del fiume arrivò al mare aperto, d'onde i venti e le tempeste lo spinsero ad Haiti. Durante la discesa del fiume egli aveva visto sulla sponda un villaggio indiano abitato da sole donne di tinta più chiara, che non volevano aver a che fare con uomini ed erano animate da spirito molto bellicoso. In considerazione di ciò egli denominò il fiume Rio delle Amazzoni.

FERNANDO CORTEZ

Come già accennato sopra, quando Grijalva nel 1518 approdò nelle vicinanze dell'odierna Vera Cruz riuscì a barattare delle cose insignificanti senza valore (palline di vetro colorate ecc.) con oro, pietre preziose ed oggetti artistici per un importo di circa 20.000 pesos d'oro. Sembra che egli avesse scoperto il tanto desiderato "Dorado". Velasquez, il governatore di Cuba, pensò immediatamente alla conquista del territorio. Furono preparati un piccolo esercito ed una flotta ed affidati al comando di Fernando Cortez. Ma a un certo punto il governatore ebbe però dei dubbi, esitò e gli proibì la partenza. Ma Cortez non obbedì e salpò con undici navi affidandosi alla ventura, senza la minima idea dell'inaudita impresa che stava iniziando, quella cioè di tentare con poche centinaia d'uomini la conquista di un impero di milioni d'uomini (si calcola in circa 7 milioni) avendo alle spalle perfino dei nemici nei propri connazionali.

Cortez del resto era l'uomo che ci voleva per simili imprese disperate. Alto di statura, colto, acuto di mente, rapido nelle decisioni, cavalleresco, natura di vero dominatore e favorito dalla dea della guerra i cui capricci sapeva tenere a freno con risolutezza, Cortez, a 33 anni, iniziò così quella carriera che doveva procurargli l'immortalità.
L'impero messicano era il più potente organismo politico dell'America settentrionale. Esso possedeva una organizzazione statuale ordinata e centralizzata, grandi città ed in genere - rispetto atutti glia ltri fino allora incontrati - un
alto grado di civiltà, spirito e capacità guerriera, ed una monarchia teocratica a poteri illimitati.
Circa 200 anni prima il popolo dominante degli Aztechi aveva immigrato nel paese, aveva sottomesso gli antichi abitatori da un mare all'altro tenendoli poi in soggezione con l'oppressione e con la forza delle armi. Per questa ragione vi erano dappertutto elementi di malcontento e di latente rivolta contro gli oppressori, che giovarono agli spagnoli; anzi é dovuto in buona parte soltanto ad essi se la conquista fu possibile.

I prodotti di questo paese meraviglioso con i suoi vulcani coperti di neve erano molto vari: mais, cotone, pepe rosso, cacao, vaniglia. Gli indigeni erano abili nella fabbricazione di tessuti di cotone variopinti, nella esecuzione di ricchissimi lavori di scultura e di splendide oreficerie.
I loro alti templi a forma di piramidi (Teocalli) ricordano le analoghe costruzioni babilonesi ed egiziane. Essi combattevano con armi di pietra e non conoscevano né il cavallo, né le armi da fuoco, il che conferì agli spagnoli una grande superiorità su di loro.

Il venerdì santo del 1519 Cortez sbarcò al punto dove ora é Vera Cruz. Per rendere vana ogni possibilità di tornare indietro fece bruciare le navi. Questo significava: vincere o morire. Se gli Aztechi gli si fossero opposti con tutte le loro forze Cortez sarebbe stato perduto. Ma questo non avvenne. Quei nativi si immaginarono che gli spagnoli fossero i discendenti di una antica divinità messicana che fosse venuta a prendere possesso del suo regno. Questa, vana superstizione paralizzò addirittura il re Montezuma. Egli, senza neppure un tentativo di resistenza, lasciò venire avanti gli spagnoli, i quali gli dettero ad intendere che dovevano portargli i saluti personali del loro sovrano.
L'8 novembre 1519 Cortez con inaudita audacia fece il suo ingresso nella capitale messicana con neppure 400 spagnoli in una città fortificata popolata da 200.000 abitanti.

Messico era una delle più notevoli città del mondo. In posizione meravigliosamente bella, essa sorgeva nel mezzo di un lago ed era collegata mediante dighe con la terra, tutt'intorno spaziava una magnifica, fertile pianura limitata da montagne gigantesche.
In alto sopra un mare di fabbricati in pietra dominava il turrito tempio principale dedicato al Dio supremo con una
piattaforma per i sacrifici. Il suolo e le pareti nereggiavano di sangue umano rappreso. Le teste delle vittime immolate erano ammucchiate in piramidi, una delle quali constava, a quanto si afferma, di centomila teschi umani.

Montezuma accolse gli stranieri con onore e con segreto timore. Essi ingrati lo ringraziarono, tenendolo prigioniero nel proprio palazzo, rubando il tesoro reale e saccheggiando tutti gli oggetti d'oro che vennero loro sotto mano. Cortez mandò i migliori fra gli oggetti rapinati al Re di Spagna con le parole: « Nessun principe possiede nulla di simile ». Tutto sembrava andare per il meglio, perché il popolo messicano rimasto privo di guida non osava muoversi. Ma ben presto le cose mutarono. Furente contro il suo insubordinato e fortunato generale, il governatore di Cuba inviò un esercito superiore al suo di forze per punirlo.
Cortez sarebbe stato annientato, se non fosse riuscito con l'astuzia e con l'imposizione a tirar dalla sua parte i nuovi arrivati. Ad ogni modo però le discordie tra gli spagnoli scossero i messicani dalla loro apatia. Essi si sollevarono; Montezuma fu ferito dai suoi medesimi sudditi e morì.

Circondati da un turbine di nemici, gli spagnoli alla fine non poterono più resistere in città. Durante la notte cercarono di aprirsi una uscita; una terribile lotta si impegnò specialmente sulla diga interrotta e circondata d'acqua. Solo un terzo di quei temerari riuscì a tornare vivo sulla terra ferma, e fra gli altri Cortez benché due volte ferito. Egli però guarì, ricevette rinforzi e iniziò un regolare assedio della capitale con cannoni e grosse navi. La città si difese disperatamente per 75 giorni, ma poi dovette soccombere alla fame ed alle armi nemiche superiori. Al momento della sua caduta i cadaveri erano delle montagne dentro nelle case come nelle vie. Pare che l'assedio abbia fatto circa 200.000 vittime.


Il regno azteco divenne il governatorato spagnolo della «Nuova Spagna», e Messico un comune spagnolo, le terre e gli indigeni furono suddivisi fra i conquistatori. I servizi resi dal loro capo fecero gettare un velo sui suoi delitti. Carlo V, contento dei tesori e degli oggetti artistici inviatigli da Cortez, lo nominò nel 1522 governatore della Nuova Spagna.

In tale qualità egli si acquistò grandi benemerenze per la buona amministrazione e per l'ulteriore esplorazione del paese. Ricostruì la capitale sotto forme sontuose e moderne, di modo che essa dopo tre anni già contava 30.000 abitanti. Sulle rovine del principale tempio azteco sorse la fastosa cattedrale: il simbolo della vittoria cristiana sul paganesimo.

Cortez organizzò l'amministrazione, introdusse la coltivazione di alberi da frutta europei, iniziò e sviluppò lo sfruttamento delle miniere e promosse l'industria metallurgica. Convinto che doveva esservi un passaggio dall'Atlantico al Pacifico, patrocinò l'esecuzione di grandi viaggi di esplorazione, anzi intraprese egli stesso una difficilissima campagna nell'Honduras e parecchi viaggi nell'Oceano Pacifico.
Ma una sola volta, cioè nella conquista del Messico, la fortuna gli si mostrò favorevole; in seguito l'invidia, la calunnia e la diffidenza del re gli si attaccarono alle calcagna e non lo abbandonarono più. Gli venne tolta la carica di governatore poi perfino il comando militare.
Due volte egli si recò in Spagna per difendersi, ma venne accolto freddamente a corte e tenuto in disparte per anni ed anni, finchè nel 1547 morì in un villaggio nei pressi di Siviglia, quasi dimenticato come Colombo; la sua fama era stata oscurata dallo splendore dell'oro peruviano.

FRANCISCO PISSARRO

Nel 1522 alcuni spagnoli, durante un viaggio d'esplorazione nell'Oceano Pacifico, avevano sentito parlare dell'esistenza nelle lontane regioni meridionali di un potente e ricco paese. Fra loro si trovava Francisco Pizzarro, soldato valoroso, ma incolto, sleale, crudele, rozzo, d'animo feroce e di fenomenale attività. Vivamente stimolato dalla notizia, concepì il piano di imitare Cortez ed ebbe l'appoggio di Almagro suo compagno d'armi, uomo tenace, dotato di forte carattere soldatesco, ma anche molto ambizioso come il suo compagno. Ma entrambi, privi di denaro e di appoggi, incontrarono difficoltà su difficoltà, e soltanto la ferrea volontà di questi due avventurieri riuscì a salvare dal naufragio l'impresa progettata e ad ottenere finalmente l'aiuto della corona.
Nel settembre 1532 Pizzarro salpò con 168 uomini in tutto per andare a conquistare un regno di 50.000 miglia quadrate d'estensione e che poteva mettere in campo eserciti di 200.000 uomini.

Il Perù possedeva una notevole ed originale civiltà, che in parte si é potuta tramite studi archeologici conoscere soltanto in tempi recenti. Nello stato peruviano vigeva una forma di socialismo teocratico. A capo dello Stato era il re, l'Inka, che era anche sommo sacerdote e figlio del dio supremo, - il sole. Dopo il re venivano i sacerdoti e da ultimo il popolo. Noi vi erano né ricchi né poveri, perché la proprietà individuale era limitata ai monili ed ornamenti, mentre il suolo era in proprietà dello Stato e veniva distribuito a regolari intervalli di tempo per la coltura; così pure era suddiviso dallo Stato il raccolto. Il popolo era ripartito in decurie; vale a dire in gruppi di dieci famiglie, formanti delle unità che si avvicendavano nella coltivazione dei vari appezzamenti di terreno.
Le professioni erano ereditarie di padre in figlio. L'agricoltura e l'industria erano molto sviluppate: si coltivava mais, patate, banane, agavi e per la concimazione si adoperava il guano, come pure era provveduto all'irrigazione con una estesa canalizzazione. Dello sviluppo edilizio facevano fede grandi templi, porte gigantesche e castelli; magnifiche strade solcavano il territorio: si fabbricavano stoffe a mo' di gobelins, vasi svariatissimi ed altri utensili. Ovunque si rivela una tecnica perfezionata, finezza di gusto nel perseguire l'effetto decorativo, ed un notevole senso artistico pieno di arditezza, di fantasia e di freschezza.

Due volte all'anno si distribuivano alla popolazione lana e cotone per l'abbigliamento e sementi per la coltivazione. Gli abiti erano confezionati sotto la sorveglianza di appositi funzionari ed i morti venivano mummificati. Sconosciuti erano il ferro, la scrittura alfabetica e i cavalli; il ferro era sostituito dal rame, la scrittura da un sistema di fili intercalati di nodi, il cavallo dal lama. Sotto molti aspetti i peruviani ricordano gli egiziani, sotto altri i giapponesi. Nel Perù, come nel Messico, vivevano due razze che si odiavano a vicenda, perché anche qui una popolazione più recente ne aveva assoggettata un'altra più antica.
Due fratelli, nemici fra di loro, si dividevano il dominio del paese: Uascar, che abitava nella capitale Cuzko ed Ataualpa che dimorava a Quito.

Pissarro volle abbattere questo colossale stato. Audacemente egli valicò le Cordigliere e presto si trovò di fronte alle tende peruviane. Invitato da lui, Ataualpa, senza nutrire alcun sospetto, si recò con uno splendido seguito nel campo degli spagnoli; ma costoro gli piombarono repentinamente addosso, li presero a cannonate e la loro cavalleria caricò, tagliò a pezzi e abbatté tutto ciò che le si parò davanti. L'Inka fu preso prigioniero in mezzo alla sua gente.

Ancor più di quanto era accaduto nel Messico il temerario procedere degli spagnoli di Pissarro fiaccò la resistenza degli indigeni, che si lasciarono soggiogare quasi senza reagire. Invano l'Inka per riscattare la propria libertà ammucchiò oro nel locale ove era incarcerato fino all'altezza di 9 piedi. Pissarro, dopo avere ottenuto l'oro, lo fece trascinare dinanzi ad uno pseudo-tribunale e giustiziare.
La capitale Cuzko venne saccheggiata e ne fu fondata una nuova, la «città dei tre re» per la quale venne in voga il nome di Lima. Pissarro predò nel Perù per un valore di oltre quattro, milioni e mezzo di ducati. Siccome si sperava di trovare maggiori ricchezze più a sud, Amalgro partì verso l'odierno Cile. Occorsero formidabili fatiche e stenti, e gravi perdite di vite umane per raggiungere la meta; ma l'oro agognato non si trovò.

Dopo il ritorno di Almagro gli spagnoli iniziarono un periodo durissimo con il Perù, compiendo eccessi di estorsioni e di violenze; avvennero sanguinose insurrezioni degli indigeni, scoppiarono selvagge lotte partigiane - ma questa volta tra spagnoli.

Terminava così il truce dramma di un gruppo masnadieri, nel quale i protagonisti perdettero la vita: Almagro fu strangolato e Pissarro assassinato.

Nel frattempo in Europa si era diffuso un nuovo spirito
che la spinse verso l'estrema meta: la circumnavigazione della terra
ad altre grande imprese

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