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62. CARLO MAGNO E IL SACRO ROMANO IMPERO

* Prima di Carlomagno * Le gesta di Carlomagno * * Dopo Carlomagno
* La Bibliografia * Note autore - (In fondo: una sintesi generale e altro)

Autore:  Carlo Martello (omonimo contemporaneo)

Prima di Carlomagno

  Le vicende della dinastia carolingia ebbero inizio con PIPINO di HERISTAL, maggiordomo del re merovingio. Nel regno franco, nel periodo attorno al 680 d.C., i maggiordomi erano come gli shogun per il Giappone, concentravano tutto il potere nelle loro mani.
Dalle ceneri della dinastia dei Merovingi, i "re fannulloni", nacque quella Carolingia destinata a governare per molto tempo, toccando con Carlomagno il culmine del suo potere. I Pipini furono una famiglia di grandi proprietari terrieri, che riuscì, in una situazione ai limiti dell’anarchia, ad esprimere un maggiordomo unico per le varie regioni della Francia che si contendevano il potere.
Pipino in breve tempo ottenne il controllo di tutte le cariche importanti nel regno di Francia tanto da poter imporre pochi mesi prima della sua morte la nomina di un bimbo di sei anni Teodobaldo, un nipote bastardo, come maggiordomo della Neustria. Per Pipino la carica di maggiordomo era, di fatto, un bene di famiglia oltre ad essere una "monarchia parallela".

Quando nel dicembre del 714 morì Pipino di Heristal, i proprietari schiavisti appoggiati dai Frisoni e dagli Aquitani si ribellarono non riconoscendo la successione di Pipino. Carlo, detto il "Martello" figlio naturale di Pipino, evaso dalla prigione dove era stato rinchiuso dalla vedova di Pipino, Plectrude, all’età di soli venticinque anni assunse il comando degli eserciti dei grandi signori feudali austrasiani, sconfisse i Frisoni e schiacciò il duca d’Aquitania, che, per contrastare Carlo, si rivolse ai Musulmani in cerca d'aiuto.
L’unico effetto che ottenne fu quello di permettere ai Musulmani di spadroneggiare nel suo territorio, e alla fine, fu costretto a chiedere a CARLO MARTELLO di intervenire per evitare il prolungarsi dell’invasione. Carlo allontanò senza difficoltà i Mori  e vincendo a Poitiers nel 733 pone fine all'espansione dell'Islam in Europa.

Non tutti condividono questa lettura dei fatti. Per alcuni storici i Musulmani non vollero mai penetrare in Europa, perché qui vi avrebbero trovato una società frantumata dalla quale non avrebbero tratto nulla di tanto conveniente da giustificare una simile impresa. La dinastia dei Pipinidi, conosciuta d’ora in poi come dinastia carolingia da Carlo Martello, consolidò definitivamente il suo potere nel regno. Le rivolte in Frisia e in Aquitania non rappresentarono più un problema. Sostanzialmente con Carlo Martello si affermò, in nord Europa, il feudalesimo e terminò lo scontro che andava avanti dai tempi di Pipino, che contrapponeva i proprietari terrieri vicini al feudalesimo ai grandi proprietari schiavisti ancora legati ad un commercio. La regressione dei mercati indeboliva il ceto schiavistico, che comincia ad assumere un ruolo sempre meno rilevante nelle vicende del regno, almeno fino a quando l’Impero di Carlomagno non entrò in una crisi che ne procurò la fine. Nel regno si diffuse il modello feudale. Il potere di banno concesso dal re ai grandi proprietari terrieri, frazionò la sovranità, cedendo ai privati le prerogative di una struttura statale: i signori possono raccogliere decime, reclutare eserciti, istituire organi di polizia e giudiziari in una situazione di fusione tra la dimensione privata e pubblica della vita degli individui.

CARLO MARTELLO diede inizio ad una nuova politica volta a dare un volto unitario alle vicende del regno franco, componendo il potere secondo un rapporto di vassallaggio. Il vassallo è beneficiario di un diritto, che consente il prelievo delle decime sui terreni concessi in cambio, della fedeltà militare. Quando le terre del regno furono insufficienti, Carlo Martello non esitò e comandò l’espropriazione dei possedimenti della Chiesa che ospitava ancora nelle sue proprietà gli ultimi rappresentanti della società schiavista. Come Napoleone aveva diffuso nel continente le idee della rivoluzione così Carlo diffuse in nuovo sistema di produzione dei beni per il sostentamento degli uomini: il feudalesimo, come oggi siamo abituati a pensarlo, vale a dire il feudalesimo dei signori e dei servi della gleba.

Questo tipo di struttura sociale nasce nel nord dell’Europa lontana dalla culla del commercio che fu il Mediterraneo. Secondo alcuni storici il Mediterraneo non perse mai il suo primato commerciale, neanche durante il Medioevo. Ma allora perché si affermò il feudalesimo che nella sua struttura si contrapponeva all’economia di mercato? Gli scambi nel sistema feudale non rappresentavano un fattore che potesse indirizzare la produzione in maniera decisiva. E’ ragionevole pensare che la chiusura del mercato Mediterraneo abbia, in una certa misura, soffocato le attività di distribuzione dei beni determinando una conseguente penuria monetaria. La mancanza di denaro, derivata dall’arresto degli scambi, produsse effetti sulla struttura statale nel senso che venne a mancare una classe dirigente stipendiata, mancò in sostanza la burocrazia. La presenza sul territorio dello stato si realizzava attraverso i poteri che l’imperatore concedeva ai suoi beneficiari. Quindi la prima conseguenza della chiusura dei mercati fu la scomparsa quasi totale della moneta che a sua volta implicò l’impossibilità di creare una struttura centralizzata di controllo del potere e l’inevitabile frazionamento della sovranità.

Carlo Martello morì il 21 Ottobre del 741 e solo uno dei suoi due figli, Pipino, continuò a governare il regno, dopo che nel 747 Carlomanno si fece monaco a Montecassino. Pipino fu sicuramente il maggiordomo più potente della dinastia dei Carolingi.  Tanto potente che i nobili giuravano a lui fedeltà, svuotando di autorità la carica del re. Inoltre Pipino cominciò una politica d'intesa con la Chiesa che lo riconobbe, di fatto, come suo protettore. Nel 754 Papa Stefano II dichiara Pipino re dei Franchi. A questo punto tutto è pronto per l’ascesa di Carlomagno.

Carlomagno

  Carlomagno salì al trono come patrizio il 9 Ottobre 768, ma solo nel 771, con la morte del fratello Carlomanno, inizia ad esercitare in pieno i suoi poteri. Dal padre oltre al regno e al rapporto di fiducia con il Papa ereditò anche la questione italiana che Carlomagno seppe risolvere meglio di quanto non avesse fatto Pipino, che non schiacciò mai Astolfo, ma si limitò a controllare che le cose in Italia non degenerassero, contenendo le azioni del re longobardo e rimanendo in ogni modo subordinato al Papa.

Come i suoi predecessori Carlomagno s'impegnò militarmente per contrastare chi si opponeva al suo potere che cresceva di giorno in giorno. Le campagne militari intraprese da Carlomagno furono molte, circa sessanta, tutte tese ad aumentare il dominio in Europa per l’Impero e per la Chiesa. Gli Arabi in Spagna, i Sassoni nella Germania orientale, gli Avari nell'attuale Ungheria, i Longobardi in Italia. Questi furono i fronti sui quali Carlomagno s'impegnò militarmente. Solo in Spagna, dove Carlo incontrò il Califfo di Cordoba, il successo non fu nettissimo, per non dire fallimentare. Il regno franco si accontentò di costituire la Marca Spagnola che si estendeva fino alla Catalogna e all’Ebro.

Sebbene il risultato fu assai modesto, stranamente le gesta di Carlo in Spagna alimentarono leggende talmente potenti da influenzare la Chanson de Roland e l’Orlando furioso. Roncisvalle divenne teatro di una battaglia a dir poco epica, sebbene vi persero la vita alcuni dei migliori guerrieri franchi. Bisogna ricordare che non si trattò di una battaglia in campo aperto, ma di un’imboscata dei Mori in una gola dei Pirenei. L’unica cosa degna di nota è la cronaca d'Eginardo; ci riferisce della morte di Hruotlandus meglio conosciuto come Rolando e poi, in Italia, come Orlando, il più famoso tra i paladini di Carlo.

L’organizzazione degli Arabi ridusse le ambizioni di Carlo arrestando definitivamente l’espansione ad ovest dell’Impero. Le cose andarono diversamente sugli altri fronti: i Sassoni furono piegati in una guerra che impegnò le truppe franche per venti anni. Diciotto furono le spedizioni necessarie per piegare Vitichindo e il suo popolo. Una volta sconfitti i Sassoni furono "evangelizzati" con metodi a dir poco disumani. La vicenda rappresenta forse la pagina più buia della storia dell’Impero. Decapitazioni e deportazioni erano all’ordine del giorno, a Werden si contano quattromilacinquecento esecuzioni in un solo giorno, in uno stato di terrore dove anche il trasgredire il più piccolo precetto significava irrimediabilmente la pena di morte. Le poche teste che rimasero sui corpi alla fine, accettarono il battesimo e l’opera di civilizzazione/cristianizzazione si realizzò (così) senza troppi ostacoli.

Alla fine del 804 i Sassoni furono completamente assoggettati. Agli Avari Carlo confiscò tesori di grandissimo valore, dopo aver distrutto i loro territori e averli respinti di là del Tibisco tra il 793 e il 794. Le frontiere ad est erano ormai sicure e le invasioni da ovest non erano più in pericolo. Sul fronte italiano la causa che portò alla guerra fu l’elezione sul soglio pontificio d'Adriano I nel 772, il quale favorì l’intesa con i Franchi. Questo bastò ai Longobardi del principe Adelchi, figlio di Desiderio, per dichiarare guerra allo Stato Pontificio. Carlo sceso in Italia liquidò la questione in pochi mesi. Mentre Carlomagno festeggiava la Pasqua del 774 a Roma con Adriano, il suo esercito assediò Pavia. Si narra che il re Desiderio rimase abbagliato dalla luce riflessa dalle armate carolingie che avanzavano su Pavia, capitale del regno di Longobardi. Dopo la cattura del padre, Adelchi trovò rifugio a Costantinopoli.

In questi anni Carlo ridimensiona le mire espansionistiche del Papa che cercava di annettere il ducato di Spoleto, riconoscendo come suddito il Duca in questione. I confini del regno erano ora il fiume Ebro ad ovest, il mar Baltico a Nord, il Danubio ad est ed infine l’Adriatico a Sud. Dopo queste conquiste l’autorità di Carlo crebbe in tutta Europa e, fatta eccezione per qualche re e principe spagnolo e inglese, Carlo ormai era il sovrano incontrastato dell’Europa da lui conquistata ed evangelizzata.

Intanto a Bisanzio la situazione era come non mai instabile. Costantino VI fu detronizzato dalla madre, la basilissa Irene, la quale prese il potere nelle sue mani. Purtroppo, essendo una donna, la sua carica non fu mai riconosciuta e l’impero fu sempre considerato vacante. Irene cominciò una politica di riavvicinamento combinando un matrimonio dinastico tra Rotreude figlia di Carlo e il nuovo imperatore, e rinunciò all’iconoclastia. Ormai c’erano tutti i presupposti per l’incoronazione di Carlomagno come Imperatore del Sacro Romano Impero.

La notte di Natale, durante la messa celebrata a San Pietro a Roma, Carlo fu investo della carica imperiale dal succesore di Adriano I, Papa Leone III. Del resto Leone III siedieva ancora sul soglio pontificio grazie ad un intervento di Carlo, che nella primavera del 799, lo liberò dalle prigioni in cui era stato rinchiuso da un gruppo di nobili romani. L’incoronazione fu vista dai contemporanei in maniere diverse. A Bisanzio Carlo appari come un usurpatore.

Carlo però prese sul serio la carica che l’incoronazione gli conferiva e s'impegnò per riunire l’impero. Una delegazione d'ambasciatori, giunse a Bisanzio per proporre il matrimonio di Carlo con la non più giovane Irene. Un colpo di stato depose Irene, la quale finì i suoi giorni in un convento, e pose fine al viaggio della delegazione. Non furono più felici dei Bizantini i ribelli Longobardi e gli aristocratici romani. Alcuni storici hanno visto nella vicenda dell’incoronazione quasi un colpo di stato da parte di Carlomagno. Sicuramente gli eventi della notte di Natale furono organizzati nei minimi dettagli al contrario di quanto voglia far credere Eginardo, biografo di Carlomagno, dal Papa e dai nobili franchi. Forse Carlomagno rimase sorpreso, ma ormai i tempi erano maturi ed egli sapeva che l’incoronazione era solo questione di tempo. Da quel momento Carlo diventa definitivamente il protettore della chiesa. 

In un mosaico del IX secolo, tuttora conservato a Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano, Carlo (Carulo Regi) riceve la sua investitura direttamente da San Pietro (SCS Petrus), che gli porge una bandiera, per difendere con il potere temporale la chiesa, mentre il Papa (DN Leo PP) riceve il Pallio, un panno di lana bianca, che rappresenta il potere spirituale. Prima con il regno poi con l’impero Carlo creò una struttura amministrativa per governare un territorio vastissimo.

Come suo nonno, Carlo continuò nella concessione dei benefici, organizzò i suoi territori in contee, marche e ducati. Il conte è un rappresentante scelto dal sovrano, che può essere rimosso dal suo incarico per volontà dell’imperatore. La singola contea contiene molte signorie feudali, che fanno riferimento al conte per questioni di carattere amministrativo e giudiziario. Durante l’Impero di Carlo si contano quasi duecento contee. Le marche invece sono territori più grandi delle contee e solitamente si trovano al confine. La vastità del territorio si giustifica con il fatto che il marchese, anch'egli revocabile dal sovrano, ha bisogno di molte risorse per organizzare la difesa militare del territorio. Infine i ducati sono territori in cui sono presenti etnie diverse, e molto spesso il duca è il capo di un popolo sottomesso, che presta giuramento a Carlo. Il duca viene può essere rimosso solo se viene meno al giuramento prestato al sovrano.

La mancanza d'introiti per lo stato non permetterà a questa struttura amministrativa di esercitare in pieno i suoi poteri. I conti e marchesi sono, di fatto, prigionieri delle volontà dei signori feudali. Per imprimere una politica unitaria, Carlomagno istituisce un corpo di funzionari noti come i Missi Dominici, i quali attraversano l’Impero in lungo e largo, chiamati a risolvere le questioni d'interesse generale, secondo le direttive che sono emanate dal nuovo centro di direzione politica che Carlo fissa ad Aquisgrana.

Da Aquisgrana Carlo gestirà il suo impero, vivendo a corte in maniera stabile dal 796 fino alla sua morte. Le direttive erano meglio note come capitolari, che solitamente erano emanati solitamente durante i Campi di Maggio, delle grandi assemblee cui partecipavano duchi, conti e marchesi. Nonostante tutti questi sforzi, Carlo non riuscì mai a dare al regno un'organizzazione legale simile a quella della Roma antica, fatta di leggi uniche emanate da un potere centrale. Anche in campo culturale non mancarono tentativi di consolidare l’Impero. Per volere di Carlo fu istituita la Schola Palatina, in altre parole la Scuola di Palazzo, dove sotto la guida e il coordinamento d'Alcuino, i più grandi intellettuali dell’epoca tenevano corsi per i figli dei nobili, vicini alla corte di Carlo, i quali un giorno sarebbero stati investiti della carica di duca, conte o marchese.

Tra gli intellettuali più noti si ricorda Paolo Diacono, Pietro da Pisa, Paolino d’Aquileia ed Eginardo, biografo personale di Carlo di cui ci ha lasciato una biografia ricca di notizie, intitolata Vita Karoli, contribuendo a consegnare alla leggenda la figura di Carlomagno. EGINARDO ci parla di Carlo come di un eroe: era appassionato di nuoto, amava i bagni di vapore. Possedeva una sensibilità per la cultura e lo studio che lo indusse ad imparare il latino fino a parlarlo correntemente, e a studiare il greco. ALCUINO stesso insegnò a Carlo la retorica, la dialettica e l’astronomia. Sembra che fosse molto fedele alle tradizioni ed in particolare all’abbigliamento: solo a Roma, e per richiesta del Papa, accettò di non vestire il costume nazionale dei Franchi per indossare la tunica.

La sua figura era così potente nell’immaginario collettivo che Federico Barbarossa, nel 1165, fece di tutto affinché Carlo fosse ammesso nel novero dei santi. Del resto anche Dante, come possiamo leggere nella Divina Commedia, gli riserva un posto nel Paradiso:    Così per Carlo Magno e per Orlando due ne segui lo mio attento sguardo, com’occhio segue suo falcon volando   Una leggenda narra che il corpo di Carlomagno si presentò intatto agli occhi d'Ottone III, che ne aveva disposto la riesumazione nell’anno mille:   "assiso su un seggio come se vivesse...né alcuna delle sue membra si era corrotta"    Nella Chanson de Roland si legge a proposito della battaglia di Roncisvalle:    ...Rolando è morto, l’anima n’è in cielo. L’imperatore giunge a Roncisvalle.... ...Allor che il Re vede calar la sera, su l’erba di un prato discende, si prostra a terra, prega Dio Signore che per lui faccia che si fermi il sole, tardi la notte e si prolunghi il giorno. L’angel che spesso parla al Re discende, rapidamente e quest’ordin gli dà: "Carlo cavalca! non verrà tramonto. Dio sa che il fior di Francia l’hai perduto, ma vendicarti puoi della rea gente". L’Imperator, ciò udito in sella balza....   Sebbene la leggenda s'impadronì della figura di Carlomagno, rendendola immortale, il suo Impero non ebbe vita lunga. Del resto di Carlomagno si potrebbe dire che fu l’uomo giusto al momento giusto. Le sue doti di capo, unite alla voglia di restaurazione imperiale dei nobili europei, fecero di Carlo un imperatore. Il suo merito fu quello di aver fondato un'idea d'impero che sopravvisse al suo impero stesso ispirando i sovrani che vennero dopo di lui.

Dopo Carlomagno

  Sebbene gli sforzi compiuti da Carlo nella direzione dell’unificazione furono tantissimi, già durante la sua vecchiaia, l'Impero iniziò a spaccarsi. Le forze centrifughe che tendevano a dividere l’Impero, non potevano essere più contrastate. L’Impero di Carlo non poteva più allargare i suoi domini compiendo nuove conquiste, ormai i nemici di Carlo e dell’Impero erano in grado di contrastare il potere carolingio. La mancanza di conquiste ebbe conseguenze enormi sull’assetto dell’Impero. Carlo non poteva più finanziare conti e marchesi, i quali cominciarono a sentirsi meno legati dal vincolo del giuramento ed esercitare una pressione enorme sugli starti più deboli della popolazione: i contadini non potevano coltivare le terre incolte, e dovevano prestare servizio su quelle del loro signore.

In questo periodo cresce la miseria e le carestie sono sempre più frequenti. Tutto ciò è diretta conseguenza della politica antifeudale che Carlo attua nel "Capitualre de villis". Con questo capitolare si vieta ai signori di costituire eserciti privati, di aumentare le prestazioni che possono esigere dai contadini, e si fissa il prezzo dei beni di prima necessità. Sicuramente in contraddizione con le forze che hanno permesso a Carlomagno di governare, il capitolare tutela i settori antifeudali dell’economia. L’impossibilità di sottrarre terre ai boschi non permise lo sfruttamento estensivo dei campi, ma favorì la concentrazione di persone intorno ai possedimenti dei signori feudali. Visto il rendimento dell’agricoltura dell’epoca non è difficile immaginare le conseguenze che si ebbero sulla produzione. La quota di terreno che i servi avevano per loro era nota come "manso". Un singolo manso poteva ospitare più famiglie che sopravvivevano ai limiti della miseria. La dieta delle persone dell’epoca sicuramente era poco varia, carni e latte non erano costantemente a disposizione, e la mortalità infantile era altissima.

In sostanza le forze sociali che spinsero i Carolingi al potere, ora trovavano un nuovo equilibrio con le forze a queste antagoniste. Fu proprio l’equilibrio tra i settori feudali e schiavistici a determinare la fine dell’Impero di Carlo.

Lo scenario che si presentava alla fine dell’impero di Carlo, è sicuramente uno scenario fatto di povertà crescente derivata dall’arresto dell’espansione carolingia. I problemi interni indebolirono l’Impero e spinsero Carlo a ridurre i contrasti internazionali, cercando il riconoscimento da parte di Bisanzio del suo titolo, ma ottenne nel 812 solo il riconoscimento del titolo d'Imperatore d’Occidente: il sogno di riunificare la cristianità sotto la sua corona era fallito.

Nel 806 a Thionville fu decretata la divisione dell’Impero a favore dei tra figli Carlo. Carlo morì nel 814 lasciando il regno all’unico figlio superstite: Ludovico il Pio. La fine della dinastia fu segnata da una guerra civile, che vide contrapporsi Ludovico il Pio e il suo primogenito Lotario contro gli altri due figli di Ludovico, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico.

Dopo anni di contrasti a Verdun nel 843 si decise l’assetto dell’Europa. L’Europa assume ora una forma moderna: si tracciano i confini di nuovi territori uniti da una lingua comune, e sebbene sia prematuro parlare di nazioni, prende vita in questi anni l’Europa dei grandi stati nazionali. Una momentanea ricostituzione dell’eredità di Carlomagno, del suo Impero, fu possibile sotto Carlo Il Grosso, il quale fu poi deposto da un gruppo di potenti principi, legati agli interessi feudali, e rinchiuso in convento.
Fu la fine della dinastia carolingia. 


 Per approfondire alcuni degli innumerevoli aspetti
delle vicende dell'europa feudale si consigliano le seguenti letture:  


Una breve sintesi su Carlo Magno

LA FIGURA DI CARLO MAGNO - ALTRE GUERRE - ALTRE CONQUISTE -
CARLO MAGNO IMPERATORE - SUA LEGISLAZIONE
-
IL FEUDALISMO CON CARLO MAGNO
- LA CAVALLERIA CAROLINGIA
-
L'IMPERO E L'ITALIA
- MORTE DI CARLO MAGNO

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, prima della comparsa sulla scena di Carlo Magno, erano già finite le maggiori migrazioni nordiche che erano iniziate subito dopo la caduta dell'Impero Romano.
In questo periodo invece, assisteremo alla lotta contro le orientali e le meridionali (Avari, Slavi, Arabi); di più, vedremo i Franchi accanirsi e compiere stragi fra i loro stessi consanguinei, i Sassoni.
Da questo momento della storia però - mentre fino ad ora dovemmo esporre i fatti come padroni degli uomini - ci sembra che gli individui, più vicini a noi e più noti, possano essere considerati come energie che reagiscono sulle cose.
Nell'epoca antecedente vedemmo anche cessare la divisione fra ariani e cattolici : una sola fede stringe tutte le popolazioni germaniche che occuparono il territorio romano. Il terreno, dunque, su cui doveva avvenire lo sviluppo delle nuove condizioni politiche e della nuova civiltà era preparato. L'uomo destinato a spargere i semi del nuovo ordinamento europeo, i quali per qualche tempo ancora sarebbero naturalmente rimasti occulti, l'uomo che evitò al mondo civile una nuova barbarie, fu Carlo Magno.

Qui in breve ripercorriamo l'intero suo periodo.

In Italia, alla morte di Astolfo (il più acceso sostenitore di un unito regno italico), i Longobardi proclamarono re Desiderio. Rachis fece un tentativo per ritornare sul trono, ma dovette rassegnarsi a rientrare nel suo convento dov'era stato recluso. Il nuovo re cercò di raggiungere con mezzi nuovi la meta a cui da tanto tempo aspiravano i Longobardi. Anzitutto s'immischiò dell'elezione del pontefice per assicurarselo favorevole ai suoi disegni; ma non avendo ottenuto un risultato in questo senso, cercò di assicurarsi una protezione con i Franchi maritando le sue due figliuole ai figli di Pipino il Breve. La fondazione di un potente regno longobardo-italiano appariva più che mai necessaria a Desiderio, che si vedeva minacciato dalla politica dei papi, ormai - e non solo apparentemente- strettamente alleati con i Franchi, e facendo un sottile doppio gioco anche dei Greci.

Il re longobardo comprendeva che se non si fosse impossessato, con qualsiasi mezzo, di tutta l'Italia, i suoi avversari avrebbero definitivamente soppresso il suo regno, stritolandolo da nord e da sud. Iniziò la lotta, ma ebbe dentro di sè un uomo infinitamente superiore per ingegno e per mezzi militari, e non gli fu possibile vincerlo.
A Pipino il Breve, come vedemmo, erano successi (768) i due figli, Carlo (detto poi Magno), che avea allora 26 anni, nella Neustria, e Carlomanno, nell'Austrasia. Essendo discordi i due fratelli, la loro madre, Bertrada, consigliatasi con i grandi del regno, credette di giovare alla sicurezza di questo stringendo amichevoli relazioni con i Longobardi.
D'accordo con il re Longobardo Desiderio, ella fece sì che Carlo e Carlomanno sposassero rispettivamente Ermengarda e Gerberga, figlie di quel re. Ma quest'alleanza fu brevissima, poiché Carlo ripudiò (nel 771) Ermengarda, e, morto Carlomanno poco dopo, si fede proclamare unico re dei Franchi, escludendo i figli del fratello e di Gerberga da ogni successione.

Gerberga irritata si rifugiò alla corte di Pavia, e da questo momento, Desiderio non pensò ad altro che a vendicare le offese fatte alla sua famiglia dal re franco. Egli si rivolse al nuovo papa Adriano I per ottenere che fossero consacrati re dei Franchi i figli di Carlomanno; ma il pontefice si mostrò non meno sdegnoso di quanto era stato verso il re longobardo il predecessore Stefano III, che aveva avuto il coraggio di scrivere e consigliare a Carlomanno e a Carlo di non imparentarsi ed imbrattarsi «con la perfida e fetentissima gente de' Longobardi, che nemmeno fra le genti si numera, e da cui certo deriva la razza dei lebbrosi!".

Desiderio allora s'impadronì dell'Esarcato, invase la Romagna e mosse contro Roma. Il papa chiese aiuto (773), naturalmente, a Carlo, il quale inviò un esercito attraverso il S. Bernardo e ne condusse egli stesso un altro attraverso il Moncenisio. Alle Chiuse trovò resistenza particolarmente per parte di Adelchi, figlio e collega di Desiderio, e già i Franchi erano stati respinti, quando superati, si vuole per indicazioni avute da un monaco (il diacono Martino) i varchi del S. Bernardo, e tratti a sé alcuni capi longobardi, colsero alle spalle il nemico, e Desiderio fu costretto a chiudersi in Pavia. Dopo sette mesi di resistenza all'assedio, questa città aprì le porte al vincitore, che fu incoronato re dei Longobardi in Milano (774). Desiderio fu mandato a morire in un convento di Francia; Adelchi resistette qualche tempo in Verona, poi fuggì a Costantinopoli, d'onde tentò più volte inutilmente di sollevare l'Italia contro i Franchi.

Mai conquista di un grande Stato fu fatta in così breve tempo e tanto facilmente condotta. Venuto così in possesso della Lombardia e della Tuscia, Carlo assunse il titolo di re dei Longobardi, scomparsi dalla scena, e confermò al papa la donazione fattagli da Pipino. In realtà, però, la sovranità sui paesi conquistati rimase ai re Franchi. Il potere temporale non fu effettivamente esercitato dai papi se non molto più tardi, perché i Carolingi vi si opposero, come pure certe popolazioni e molti vescovi locali.
Con una seconda spedizione (776) provocati dalla ribellione dei duchi del Friuli e di Spoleto, eccitati anche da Adelchi e dai Bizantini, che speravano di riacquistare quanto avevano perduto, Carlo ampliò il proprio dominio nella penisola, dividendolo poi in contee. Il ducato del Friuli, che difendeva il confine orientale del regno longobardo, divenne una marca. L'Istria, che, tolta ai Goti dai Greci, aveva sempre resistito ai Longobardi e si reggeva con forme libere, fu essa pure assoggettata. Il duca di Benevento assunse il titolo di principe, e per qualche tempo rimase indipendente.

I Bizantini rimasero in possesso delle isole (Sardegna, Sicilia e Corsica), di alcuni porti della Puglia, dell'attuale Calabria, del ducato di Napoli e, nominalmente, della laguna veneta. Ma le isole di questa laguna, abitate fin dai tempi di Teodorico, da una popolazione di audaci navigatori costituita da profughi della terraferma circostante, durante il dominio bizantino erano governate da tribuni, dipendenti dall'esarca di Ravenna e confermati dall'imperatore bizantino, mentre per gli affari ecclesiastici dipendevano dal patriarca di Grado. Ma spinti dalla necessità di avere un governo che potesse difenderli contro gli assalti dei Longobardi, degli Slavi e degli Avari, i Veneti si erano eletto un capo autonomo (detto duce e poi doge), al quale avevano affidato il supremo potere dello Stato (697). Anche Napoli, Amalfi e Gaeta aspiravano frattanto all'indipendenza.

In tal modo la caduta del regno dei Longobardi ebbe per effetto un ulteriore frazionamento politico dell'Italia e l'introduzione delle istituzioni feudali nate tra i Franchi, ossia la divisione del patrimonio regio e delle cariche pubbliche fra le persone più gradite al monarca, sistema imitato anche dai grandi proprietari laici ed ecclesiastici. Ciò produsse una vasta gerarchia di vassalli maggiori e minori, legati fra loro da vincoli di interesse e di fedeltà.

LA FIGURA DI CARLO MAGNO

Questo Carlo, che più tardi aggiunse al suo nome l'epiteto latino e romano di magno (il grande), era sostanzialmente di origine germanica, se non che, per quanto si frughi in tutte le cronache e nei diplomi, non si può trovare in quale luogo, in quale città egli venisse al mondo.
Tutte le città, in Germania, si attribuiscono l'onere d'avergli dato i natali, e anche Monaco, pretendendo i Bavari che il gran Carlo discenda dalla loro stirpe.
In ogni luogo, dal Reno all'Elba, vi sono statue, immagini e monumenti che lo rammentano. Forse egli nacque (in aprile o in febbraio dell'anno 742) nel castello d'Ingelheim, presso Magonza.
Il Reno, la Svevia, la Franconia, la Baviera e i primi vescovadi lo ebbero di sicuro nella sua prima fanciullezza: quindi si potrà dire ch'egli ebbe una impronta decisamente germanica.

Studiò pochissimo (adulto, a fatica formava la cifra del suo monogramma) poiché allora per l'educazione dei futuri guerrieri la guerra e la caccia nei boschi bastavano. La leggenda ha poi reso favolosa questa fanciullezza: nel romanzo Berta dal gran piè si descrive Carlo adolescente fuggiasco, militante sotto Galafro di Toledo e poi tornato a riconquistarsi il regno.
Nella cattedrale di Magonza c'é un Carlo Magno fanciullo che pare un Golia. Il cranio che i canonici di Aquisgrana custodirono come suo, attraverso i secoli, é quello di un gigante. Dote utile, in un tempo in cui Pipino il Breve aveva dovuto uccidere un feroce leone per farsi perdonare la statura piuttosto bassa.
La cronaca di San Dionigi descrive Carlo così: «L'uomo era di gran corpo e statura; alto sette piedi dei suoi; avea rotondo il capo, gli occhi grandi e grossi e sì ardenti che, quand'era in collera, scintillavano come carbonchi; grosso e dritto il naso, ed alquanto elevato nel mezzo; neri i capelli, la faccia colorita e allegra. Era di sì gran forza, che stendeva, come niente fosse, tre ferri di cavallo insieme uniti e sollevava da terra in aria con una mano un cavaliere armato. Con la sua spada Gioiosa ti tagliava netto un uomo a cavallo coperto di tutt'armi".

Durante tutto il suo regno di più di quarant'anni Carlo non si ammalò mai; fu gran generale, gran legislatore, e gran politico; protesse i letterati, sino a favorire molto quel Paolo Diacono che fece l'elogio dei Longobardi da lui combattuti. Vedremo però che, nel 782, fece porre a morte 4500 nobili sassoni i quali si erano spontaneamente costituiti; che la fama non poté rispettare i suoi costumi nè quelli delle figlie che lo imitarono; che impose il cristianesimo con leggi di sangue; che dalla sua stirpe comincia il feudalismo, e che, avendo rinnovato ai pontefici il favore di Pipino, contribuì a togliere alla Chiesa di Roma quel sincero disinteresse terreno che l'avrebbe resa inattaccabile se fosse stato cristianamente conservato, anche fra i non credenti, attraverso i secoli.
In quanto alla sua bellezza fisica, uno storico del suo tempo afferma ch'era di ventre più grosso del dovere e di voce piccola.
Una sua moglie, Ildegarda, é ricordata invece per la sua voce maschile. Ma anche Fastrada, che sposò dopo, lo dominava con modi virili. Carlo ebbe molte belle donne; si ammogliò cinque volte: alla morte della quarta moglie, ne prese quattro, quattro concubine. I suoi figli maschi furono sei, otto le figlie.

Alcuni vogliono che il suo nome non significhi latinamente Carolus magnus, ma Carl-mann (uomo forte).

ALTRE GUERRE - ALTRE CONQUISTE

C'era un popolo consanguineo ai Franchi, che a Carlo Magno dovette far risalire le maggiori sue sventure: il popolo sassone. Per oltre vent'anni si accanì contro di loro e il loro territorio.
Discendente dai Cherusci, i Sassoni conservavano intatta la loro antica costituzione germanica: la Sassonia era una federazione di tribù consanguinee, di cui i Vestfali correvano sull'Ems, gli Ostfali sull'Elba, gli Engri sul Weser; i Nordalbingi tenevano il settentrione.
Carlo Magno sentì che quei vicini ancora pagani, se liberi e di diversa religione, avrebbero costituito per lui una minaccia terribile. Nel 772 li combatté, prese la loro fortezza principale, Eresburg, insanguinò il Weser, distrusse il loro ciclopico idolo Irminsul. Ma, allontanatosi molte volte per combattere altrove, non potè impedire che si risollevassero ogni volta in libertà.

Nel 775, seconda campagna : tutte le forze franche vi sono impegnate. Carlo giunge all'Ocker: i Sassoni si sottomettono e gli danno ostaggi. La sollevazione dei Longobardi (776), promossa da Adelchi e sostenuta dai duchi di Benevento e del Friuli e da altri grandi, costrinse il re de' Franchi a scendere in Italia. Spento agevolmente quell'incendio, Carlo portò nuovamente le armi contro i Sassoni, che si erano nuovamente risollevati, e li obbligò al tributo e al battesimo; ma finché viveva il loro eroe Vitichindo, rifugiatosi presso i Danesi, la conquista di Carlo non poteva esser duratura.

Segui un anno di pace; ma in quello appunto i Sassoni -lasciate di dispute tribali- si unirono contro il comune nemico, mentre Carlo volgeva le armi verso l'opposta parte del suo regno, contro gli Arabi di Spagna, dove l'invocava un partito avverso agli Ommiadi (778). La fortuna arrise anche qui le armi franche, e Carlo conquistò tutto il paese fra l'Ebro e i Pirenei. Parecchi signori musulmani riconobbero la sua supremazia. Ma nel ritorno da questa grande impresa, la retroguardia dei Franchi fu assalita nel paese dei Baschi (Aquitania) da questi fieri montanari, e subì gravi perdite a Roncisvalle. Vi perirono molti illustri personaggi, fra i quali Orlando (o Rolando), che diventò il principale soggetto della poesia romanzesca del Medio Evo e fu cantato anche dal Baiardo nell'Orlando innamorato e dall'Ariosto nell'Orlando furioso. Ma di questo glorioso eroe la storia non sa quasi nulla di preciso.

Il contraccolpo di quella cocente sconfitta non tardò a farsi sentire nel paese dei Sassoni, i quali, eccitati da Vitichindo, nuovamente insorsero e devastarono il territorio dei Franchi fino al Reno. Sopraggiunse Carlo (779) e li respinse fino all'Elba. Poi stipulò una pace e sperò anzi di giovarsi di essi contro gli Slavi. Per assicurare la quiete moltiplicò fortezze e presidii, divise il paese in contee che diede ai suoi Franchi da governare, introdusse l'amministrazione franca e tenne di frequente i campi di maggio nel paese conquistato, per intimorirlo. Queste innovazioni ferivano troppo profondamente il sentimento nazionale perché il popolo dei Sassoni, ancora assai forte vi si adattasse. Scoppiò un nuovo movimento capitanato da Vitichindo. Le truppe sassoni - assoggettate e spedite contro gli Slavi, si sollevarono per via e massacrarono i Franchi (782). Accorse il re, ristabilì la quiete e per incuter spavento ordinò a Ferden la già ricordata strage di 4500 nobili sassoni, costituitisi spontaneamente convinti di poter stipulare con Carlo una pace definitiva.

L'anno dopo scoppia un incendio di rivolta generale: per tre anni dal 783 al 786 si guerreggia. Neve, sorprese, fame, i Franchi pur eccitati si ritrovarono più dei Sassoni, stanchi e demoralizzati. E se a Carlo non fosse riuscito di cattivarsi Vitichindo, forse la storia non avrebbe potuto registrare il suo trionfo definitivo.
Tanto vero che, pur privati dei loro migliori capi, nel 793 i Sassoni facevano ancora resistenza con la guerriglia. Carlo, per assicurarsene, dovette -di volta in volta- sradicarli in gran parte dal paese, sostituendoli con popolazioni amiche. A quelli rimasti il cristianesimo fu imposto con supplizi e torture, alle quali i più induriti sfuggirono trovando asilo presso gli Slavi. Al clero furono date molte terre : si fondarono i vescovadi di Minden, Halberstadt, Verone, Brema, Munster, Paderborn. ecc.
L'unione dei Sassoni ai Franchi, voluta da Carlo Magno per assicurare la sua stirpe contro Normanni e Slavi, e ottenuta con tanta ferocia, fu causa della prevalenza germanica e dissolse a Verdun del tutto la monarchia.

Altre vittorie di Carlo Magno: nel 786 contro il duca longobardo di Benevento. Nel 788 contro Tassilone, duca di Baviera. Siccome Tassilone si era alleato col principe di Benevento e con Desiderio, di cui aveva sposato una figlia, Carlo lo assalì con forze così preponderanti, che il duca gli rinnovò il giuramento di vassallaggio senza neppure tentare la prova delle armi.
Appena il re si fu ritirato, Tassilone fece alleanza con gli Avari e con i Bizantini; ma all'inizio di una nuova guerra contro Carlo, fu abbandonato dai suoi stessi soldati e, rimasto solo, il vincitore lo catturò e lo chiuse in un convento; poi divise la Baviera in contee e la incorporò interamente nel regno franco, al quale ormai erano soggette tutte le razze germaniche dell'Europa continentale.

Nel 789, Carlo riporta altre vittorie contro gli Slavi o Vendi (gli Czechi sono resi tributari; vinti i Vilzi, i Serbi e gli Obotriti; é fondata la marca di Brandeburgo), e contemporaneamente contro i Normanni (é stabilita la marca danese). Dal 791 ai 796 Carlo combatte e vince gli Avari. Quel popolo barbaro, già padrone del territorio posto fra il Danubio inferiore, l'Adriatico, l'Ems e il Fichtelgebirge, faceva incessanti scorrerie nei paesi circostanti, compresi quelli soggetti ai Franchi. Nel periodo suddetto, ci furono sette campagne. Carlo tolse agli Avari il paese ad occidente del fiume Raab. L'impresa fu poi continuata da suo figlio Pipino e dal conte Enrico del Friuli, i quali la terminarono espugnando il grande campo fortificato (detto Ring, cioé anello) che gli Avari avevano costruito a difesa del bassopiano situato fra il Danubio e il Tibisco.

Frutto della vittoria fu il paese fra l'Ems e il Raab, che fu aggregato allo Stato carolingio col nome di marca avarica ed orientale, e fu colonizzato, come la marca friulana o carinziana, da agricoltori germanici, dipendenti da proprietarii laici ed ecclesiastici. Per opera di questi, la pianura ungherese cominciò a essere guadagnata alla cultura e al Cristianesimo, della cui diffusione s'incaricò la chiesa di Salisburgo, innalzata ad arcivescovado (nel 798). Da allora in poi gli Avari sparirono dalla storia, giacché una parte di loro fu distrutta da una pestilenza e i rimanenti si fusero insieme con gli Slavi e con gli Ungari, altro popolo mongolico sopraggiunto dall'Oriente verso la fine del IX secolo.

Anche contro gli Arabi dovette Carlo ripetere nuove spedizioni, poiché essi avevano riconquistate le terre al regno franco sotto il nome di Marca spagnola. Città perdute e poi riconquistate inoltre nella Settimania. Questa regione, fra i Pirenei e l"Ebro, fu alla fine annessa. La guerra di Spagna procurò a Carlo l'amicizia del califfo di Bagdad Hdrùn al-Raschid, che considerava i principi di Cordova come usurpatori, ed era rivale, come i Carolingi, dell'impero bizantino.
Fra i due sovrani ci furono anche uno scambio di importanti regali. L'arabo regalò al re Franco un grande e singolare mappamando mai visto in Europa, e anche un organo che era stato dai cristiani fino allora considerato uno strumento pagano, "del diavolo", perchè con esso (prima di Teodosio che ne proibì l'uso) si faceva musica e balli nelle feste (considerate troppo giocose, spensierate, baccanali pagani) ovviamente avversate dai bacchettoni cristiani. Paradossalmente poi l'organo entrò in tutte le chiese europee, come strumento ascetico, per elevare in cielo l'armonia del creato e comunicare con lo stesso Creatore.

Tuttavia Carlo Magno, a parte alcuni gruppi arabi ribelli nella Settimania, anche con lo stesso califfo di Cordoba, intrecciò relazioni e amicizie, e da quel paese gli giungevano le notizie degli sviluppi che la cultura araba stava portanto nella società, beneficiando la tecnologia, le arti, le scienze, la stessa conoscenza della politica antica dove dai numerosi testi nelle grandi biblioteche abbondantemente conservati, si poteva scegliere con oculatezza e interpretare, modificare, rinnovare quella Ateniese, quella Romana imperiale o repubblicana, democratica, autocratica, dittatoriale.

Inoltre tali rapporti di amicizia, giovò all'elemento cristiano in qualche parte della penisola iberica in lotta contro i Mori invisi a Bagdad. Nella leggenda queste guerricciole dei Franchi furono celebrate come le imprese più grandi di Carlo, il quale - nelle posteriori leggende cristiane - vi appare insieme con i suoi paladini come un guerriero che combatte per la fede e per la Chiesa.

Le ultime spedizioni di Carlo Magno furono condotte contro i Danesi che avevano aiutato Sassoni e Slavi contro i Franchi. Nell'808 i Danesi si spinsero fino all'Elba: le loro navi inquietavano tutte le coste. Intanto i Vilzi scuotevano il giogo franco, ma senza alcun risultato, e il regno di Carlo fu reso sicuro anche da questo lato.

CARLO MAGNO IMPERATORE - SUA LEGISLAZIONE

L'autorità concessa da Pipino a Carlo Magno ai pontefici sulla Romagna produceva frequenti tumulti, particolarmente in occasione delle elezioni papali, sia perché i popoli vedevano di mal occhio questa sovranità in germe, sia perché l'ambizione di giungere al papato si era di molto accresciuta giacché all'autorità spirituale andava congiunta quella terrena. Il papato aveva quindi bisogno più che mai di un difensore. Sul finire del 799 Carlo Magno scese a Roma, apparentemente per giudicare coloro, che si erano sollevati contro Leone III, in realtà per dare corpo al progetto di ristabilire l'impero d'Occidente, e fu, nel giorno di Natale dell'800, acclamato imperatore dal papa e dal popolo romano, durante gli uffici divini, nella basilica di S. Pietro.

Il papa gli pose sul capo una corona d'oro, pronunciando le parole : «A Carlo piissimo Augusto, incoronato per volontà di Dio grande e pacifico imperatore, vita e vittoria! ».

Scrive uno storico: «Questo trasferimento dell'impero romano d'Occidente a un principe di origine germanica e campione della Chiesa cattolica, la cui autorità si faceva scaturire direttamente da Dio, ebbe conseguenze così profonde e durature, che dominò l'intero sviluppo politico ed ecclesiastico del Medio Evo. Anzitutto esso rese definitiva la separazione politica, religiosa e civile fra l'Oriente e l'Occidente; secondariamente determinò una relazione di sudditanza dell'Italia di fronte a coloro che aspiravano alla corona imperiale; infine porse occasione alla lotta fra il Papato e l'Impero per la supremazia sul mondo cristiano.

La causa fondamentale di questo conflitto, destinato a riempire l'Europa di guerre e di sangue, sta nel diverso modo con cui la dignità imperiale era concepita dai due sommi rappresentanti della Chiesa e dello Stato, ciascuno dei quali voleva essere considerato come fonte d'ogni autorita umana e divina e quindi superiore all'altro.
«Carlo, trattò la Chiesa come suddita dello Stato: sanzionava la nomina dei pontefici, esigeva da questi il giuramento di fedeltà, nominava i vescovi, vigilava la disciplina ecclesiastica e la purità della dottrina. II suo legato a Roma aveva l'incarico di proteggere il papa e la Chiesa contro gli assalti dei nobili, ma esercitava in nome dell'imperatore tutti gli atti di sovranità: presiedeva i giudizi, sorvegliava i giudici scelti dal papa e accoglieva gli appelli contro di essi. Tale atteggiamento di Carlo a supremo dominatore della Chiesa era un effetto della sua straordinaria potenza personale. Morto lui, la preponderanza della potestà imperiale scemò a vantaggio dei papi, i quali si ritenevano superiori all'imperatore come vicari di Dio e come istitutori del sacro romano impero».

« L'incoronazione di Carlo Magno - afferma un altro commentatore del grande avvenimento - é il momento più importante per lo sviluppo storico del medio evo; il momento in cui le popolazioni germaniche, dopo essere entrate nel consorzio delle genti incivilite (al che, più che a semplici invasioni, le aveva spinte un segreto istinto), postesi esse stesse alla testa del mondo civile iniziano una nuova età storica. Carlo Magno, capo supremo delle popolazioni germaniche, diresse tutto il movimento politico, letterario e religioso, e con lui l'impero restaurato contribuì potentemente allo sviluppo della civiltà universale"

Per quanto straordinarie siano le imprese di Carlo Magno, la sua gloria come legislatore é nondimeno assai più grande e singolare. Nella sua legislazione egli cercò di coordinare i pubblici ai privati interessi; e, pur lasciando sussistere le leggi dei vari popoli a lui soggetti, egli le migliorò e ne pubblicò di nuove (Capitolari), le quali determinavano ciò che doveva valere in tutto lo Stato. I Capitolari, stesi in latino, formano nel loro complesso una completa legislazione sociale e politica, ed abbracciano tutti i più importanti rapporti della vita. Carlo ebbe soprattutto in mira di trar profitto, oltreché dall'elemento ecclesiastico, dalle istituzioni e dai costumi germanici; sicché si può dire che l'antica vita germanica si riversa tutta nelle sue leggi, e da esse ne scaturisce una nuova. Cessarono i maggiordomi; e i ducati furono spartiti fra conti, capi militari e civili, fra cui più potenti erano quelli di confine (marca marchesi, Margravi). I liberi si giudicavano in placiti da essi presieduti (che dovevano adunarsi tre volte all'anno).
I comitati (o pagi) si suddividevano in minori distretti, governati da vicari e centenari.
Carlo adunava spesso a diete generali i liberi con i principi della Chiesa e i vassalli immediati e gli ufficiali pubblici. Riceveva doni, discuteva le proposte dei signori, udiva i bisogni del popolo, trattando anche faccende minute.
I conti avevano estesi poteri, procuravano le milizie, riscuotevano i tributi e amministravano la giustizia assistiti da un collegio di giudici detti scabini o rachimburgi, che sostituiscono gli antichi boni homines o uomini liberi, essendo questi molti diminuiti di numero per le nuove condizioni sociali ed economiche.

È evidente che il Conte é la base di questo governo e che é appena limitato nei suoi poteri dalla sorveglianza del vescovo, a cui il re affida l'incarico morale di dare i suoi buoni consigli e le sue buone opere. Finché questi conti compiono il proprio dovere e sono sorvegliati dai missi dominici ( una sorta di ispettori vaganti, senza fisse circoscrizioni) la macchina dello Stato andrà discretamente bene: ma ben presto essi (e le lagnanze di Alcuino il dotto ce Io dicono chiaramente) tenderanno a diventare ereditaria e a confondere la loro proprietà col potere: onde la conseguenza é che i legami con il capo dello stato vanno molto allentandosi. Giustamente é state osservato che la straordinaria importanza assunta dai missi, dimostra come sin da principio l'istituzione del conte fosse venuta assolutamente meno alle speranze che aveva fatto concepire.
Semplicissimo era il sistema finanziario, poiché ogni cantone o comunità si manteneva da sé. Parte della popolazione (in particolar modo i discendenti dei provinciali romani) pagava un'imposta fondiaria e personale. Vi erano inoltre le pene pecuniarie, i dazi, i tributi. Generalmente si pagavano i canoni in natura. I proprietari erano obbligati a mandare viveri, cavalli e carri per l'esercito, a provvedere il viatico al re e al suo seguito dove passavano e ad aver cura delle strade e dei ponti.
I vescovi, gli abati e i vassalli immediati andavano esenti dalla giurisdizione del conte, e non potevano venir giudicati che dal re o da un suo incaricato. Il clero era soggetto alla giurisdizione del vescovo o abate, i quali la esercitavano con il mezzo dell'avvocato della Chiesa. A questa immunità andava annesso il diritto d'asilo. Se si aggiunga che il clero era esentato anche dalle imposte, e che moltissimi (furbi) laici sottoponevano alla Chiesa i loro beni per godere dell'esenzione, e che allo stesso clero competevano le cause matrimoniali e testamentarie, è chiaro quanto tutto ciò accresesse la sua potenza.
Per frenarla cercarono più tardi gli imperatori di rendere l'elezione alle dignità ecclesiastiche dipendente dall'investitura dei territori (feudi) annessi alle medesime; ed ecco perchè poi iniziò la gran lotta fra impero e papato per le investiture.

Quanto si disse dell'impero vale anche per l'Italia, che era governata da Pipino figlio di Carlo col titolo di re. Le istituzioni dei Franchi non vi trovarono grosse difficoltà, perché non molto diverse da quelle dei Longobardi, già entrate nelle abitudini della nazione.

IL FEUDALISMO CON CARLO MAGNO

Benché il Feudalesimo non sia un'invenzione dei Franchi, ma un sistema politico-economico il quale, come ad esempio il sistema capitalistico, ha proprie ragioni storiche indipendenti da questo o, da quel popolo, pure si è soliti associarne l'idea alla prevalenza del dominio franco.
Non é in realtà che i Franchi abbiano introdotto il feudalesimo; ma é certo che sotto i Carolingi il feudalesimo si costituì definitivamente in Europa e mise radici robuste e profonde.
Carlo Magno fondò esclusivamente la costituzione dello Stato sulle due classi dei grandi proprietari (nobili) e del clero, che legò al trono soddisfacendo alle loro ambizioni, senza sminuire la propria autorità, col sistema feudale: un tipica gerarchia militare trasportata nell'ordine civile e politico.

Oltre ai conti stabiliti da Carlo Magno, vi erano, al principio del secolo IX, molti possessori di terre feudali, ricevute cioé come in prestito dal re, i quali già esercitavano certi diritti di autorità quasi sovrana sopra le persone, o schiavi o servi o liberi contadini, che le abitavano. Costoro spiavano tutte le occasioni favorevoli per aumentare questi loro diritti, e per ragione della debolezza dei successori di Carlo Magno, e per gli avvenimenti che poi accaddero, riuscirono ad avere anch'essi, sopra gli abitanti dei loro feudi, autorità simile a quella dei conti e anche maggiore. Così si stabilì il sistema feudale o feudalesimo, che consiste nell'esservi una moltitudine di signori, ciascuno dei quali domina sopra una determinata porzione di terreni, cioè sopra un feudo, con obbligo verso il re di un atto di omaggio, di un determinato tributo (prestazioni) e di un contingente di soldati in caso di guerra (ost o cavalcata).

Spesso poi coloro che avevano grandi feudi, ne davano porzioni ad altri, i quali diventavano debitori degli stessi obblighi verso di essi; e queste divisioni furono dette feudi minori, mentre quelli ricevuti immediatamente dal re dicevansi maggiori. Il re o colui che dava un feudo si chiamava caposignore; chi lo riceveva vasso o vassallo o feudatario o uomo o milite; l'atto con cui si conferiva il feudo dicevasi investitura e l'atto con cui il vassallo dichiarava e giurava la sua fedeltà al caposignore nell'investitura e in altre circostanze dicevasi omaggio, perché si dichiarava appunto homo, cioè uomo ligio del suo caposignore.
Oltre agli obblighi sopra indicati, il vassallo doveva il servizio di giustizia o di corte, che consisteva nell'andare a sedersi alla corte di giustizia del caposignore, e nel sottomettersi egli stesso al giudizio di questa corte. II vassallo era infine obbligato a dare consiglio quando questo gli fosse stato richiesto: e, in casi eccezionali, il caposignore esigeva da lui soccorsi in denaro o aiuti. Se il vassallo mancava ai suoi obblighi, si rendeva colpevole di fellonia e incorreva nella confisca del feudo.

Grandissimo dal IX secolo in poi divenne il numero dei feudi e delle loro varietà; s'infeudarono persino diritti, come quello di pesca, caccia e transito sui fiumi; si infeudarono cariche, sia civili, sia militari: s'infeudarono minuzie, come lo spigolare e il racimolare; che più? s'infeudò persino l'aria ad uso dei mulini a vento, creando il feudo in aria, o feudo volante. Le stesse terre allodiali, che cioè un libero possedeva veramente, divennero quasi tutte feudi; perché i loro possessori, vedendosi privi di quei cospicui diritti che erano annessi al feudo, cedevano liberamente o vendevano a qualche feudatario le terre, a patto di riceverle di nuovo da lui come feudo; così incontravano dei doveri verso quel loro signore, ma costui tutelava il possesso dell'allodio e i diritti feudali che con l'investitura aveva acquisito. L'allodio così cambiato in feudo dicevasi feudo oblato, a differenza degli altri che dicevansi dati. C'erano in principio solo feudi maschili, ma presto ve ne furono anche dei femminili, cioè che si potevano per successione trasmettere a femmine; anzi, poi questi si moltiplicarono, quando si usò assegnarli in dote nei matrimoni.

Dicevasi feudo franco, se il vassallo non prestava servizi; non franco, il contrario; feudo ligio, se implicava a stretti servigi contro chiunque; non ligio, se faceva eccezione di certe determinate epoche e persone; feudo nobile, se vi era annessa la prerogativa di nobiltà; plebeo, il contrario; feudo ecclesiastico, se era costituito su cose spettanti alla Chiesa, ed era quindi dato a vescovi, canonici, monasteri di frati e di suore: secolare, il contrario; giurisdizionale, se obbligava il vassallo solamente alla fedeltà personale; censuale se inoltre lo obbligava a un annuo canone in denaro o materia prima. Una stessa persona poteva ricevere feudi da vari caposignori, e spesso paradossalmente si videro i re stessi feudatari di qualche loro suddito, dovendosi nel feudo distinguere la proprietà diretta dalla proprietà utile, la sola, quest'ultima, che nel feudo passasse a chi riceveva l'investitura.

Si aveva a questa maniera una grande scala feudale: a capo di essa era il re, poi venivano i duchi, poi i conti, poi i visconti, poi i baroni, poi i castellani, poi i valvassori, poi i valvassini, i cittadini, i villani, i semiliberi o aldiori e i servi o schiavi; la nobiltà e il potere si fermavano ai valvassori, gli altri formavano il popolo. L'autorità del re, per quanto fosse in primo posto e da lui derivasse per concatenazicne ogni autorità, era nulla, solo disponeva da padrone dei vassalli a cui immediatamente aveva dato feudi; il resto non aveva nulla a che fare con lui, poiché non contano alcune prerogative regali nel campo giudiziario: molti feudatari ignoravano spesso il nome del re, anzi contro di lui avevano diritto di portar guerra, se da lui non erano immediatamente stati investiti.

Troppo note sono le cattive conseguenze del sistema feudale. Attribuendo a esso la sovranità a un numero grandissimo di signori, che non avevano nei loro domini altro freno, altro limite ai loro voleri che la coscienza; e misera oltremodo fu la condizione dei popoli a loro soggetti, i quali erano esposti a ogni sorta di angherie. E tale condizione non migliorò di molto quando i feudi, per consuetudine prima e poi per legge imperiale, divennero ereditari nella stessa famiglia. Sotto un certo riguardo il feudalesimo pone sullo stesso suolo due razze, una dominante, l'altra serva, ed è la continuazione della conquista fatta da un popolo vincitore, il barbaro, sopra un popolo vinto, il romano; quello feroce e con le armi in pugno, questo debole e disarmato: ed é perciò la mescolanza più singolare di barbarie e di libertà, di disciplina e di indipendenza, onde frequentemente la società è agitata da sfrenate passioni e ciechi sommovimenti.

Il feudatario, per non sminuire rendite e soldati, incatena i suoi sudditi alla sua terra, e si oppone che ne emigrino; per far denari grava di dazi e pedaggi i mercanti, rendendo difficili e rare le comunicazioni, trascurando le strade; così tra popolo e popolo cessano le comunicazioni, ogni feudo si isola e, per le guerre frequenti tra vicini, si rendono stranieri e nemici gli abitanti di vicini borghi. Civiltà e coltura, scienza e arte, necessariamente decadono, e si hanno le tenebre dell'ignoranza e della superstizione, più o meno gravi secondo tempi e luoghi.

La creazione di un feudatario si faceva con quell'atto che dicevasi investitura. Il creando feudatario si gettava innanzi al suo signore, in ginocchio, senz'armi, a capo scoperto, e ponendo le sue mani in quelle di lui, diceva : "Da quest'oggi io divengo vostro uomo e vi terrò fede dei possessi che impetro da voi". Indi sui libri sacri giurava: "Signor mio, io ivi starò fedele e leale, vi serberò fede del possesso che vi chiedo e vi renderò lealmente e consuetudini e i servigi che vi debbo, se Dio e i santi mi aiutino". Poi baciava il libro sacro. E allora il signore gli dava l'investitura, ossia il feudo, con il presentargli un ramo di albero, una zolla di terra e in certi casi un guanto.

Con la sua spada sfoderata appoggiata sul capo investiva un vassallo di un regno; con un anello d'oro, si dava l'investitura a un abate, con l'anello e il pastorale a un vescovo: questo poi investiva preti e canonici con il dare il berretto, il calice, un candeliere le chiavi della chiesa, il turibolo, o col far loro toccare la fune delle campane, o ardere un grano d'incenso, o leggere il messale; un terreno si infeudava anche, oltre che nel modo sopra detto, col consegnare un libro, un coltello, un cane, dei capelli, una correggia, un paio di forbici, un giunco, un martello, un pallio, un lenzuolo o un pezzo di marmo o dei pesci o l'elsa d'una spada o un'anfora d'acqua marina. Dopo l'atto d'investitura, tali cose, se erano di natura da servire all'uso comune, si rompevano o foravano e venivano conservate dall'investito. Il donato stringeva al donatore la mano, o porgeva il pollice destro o dava un bacio o toccava una colonna o un corno o entrava nella porta o passeggiava sul fondo e smuoveva la terra; spesso dava al donatore una veste, un pallio, un anello d'oro, un cavallo, un paio di guanti o denaro.

Vi erano particolari disposizioni sulle trasmissioni dei feudi precari in ereditari, sulle indennità, le vendite, le permute, le offerte, i recuperi, le devoluzioni e le successioni dei feudi. Per quanto riguarda l'Italia, un corpo di giurisprudenza feudale si ha nei diversi libri dei feudi, in cui si trovano descritte le costumanze della Lombardia. I diritti feudali, o signorili, erano o militari o fiscali o puramente onorifici; Cerano svariatissimi oggetti e fogge, quasi quanto i luoghi o l'inventivo genio dei signori, ed erano più o meno gravosi e oppressivi, secondo se più o meno basse erano le persone su cui si esercitavano, o perchè più sfrenato era l'abuso della forza.
Il re imponeva ai vassalli taglie e obblighi d'ogni sorta, ed i signori, a loro volta le rovesciavano sui loro inferiori.

E' infinita la nomenclatura dei diritti feudali. Di essi alcuni erano veramente ridicoli, perché imponevano ridicole cose ai vassalli. Per esempio: in un luogo tutti i giorni di quaresima dovevano 13 donne trovarsi a versare acqua di rose sulle mani dei canonici; altrove il vescovo, recandosi per i suoi feudi, aveva diritto a portarsi via il letto su cui aveva dormito la notte, ma doveva per qualche ora giocare con i canonici alla trottola e al pallone; altrove una volta all'anno i canonici dovevano recarsi a baciare sulle due guance la feudataria del paese; altrove si doveva andare incontra al vescovo feudatario, col capo scoperto, con la gamba destra tutta ignuda, e portando nel piede destro una pianella, e in questo modo condurre la mula vescovile per la briglia.
Alcuni, nell'atto dell'investitura, dovevano baciare i chiavistelli della casa del feudatario, andare dondoloni a modo di ubriachi, fare tre salterelli e mandare un ignobile crepito: altri in un dato giorno portare un uovo o una rapa o un pane sopra un carro tirato da quattro paia di buoi; o presentare una pagliuzza o saltare in un vivaio di pesci ad onore della castellana, o ballare alla presenza del feudatario un ballo mai visto, o cantare una canzone ancora sconosciuta, o andare dal feudatario facendo due passi innanzi ed uno indietro, o versare un secchio d'acqua sulla sua porta, o gettare una mistura di miglio nel suo pollaio.

A una badessa le sue vassalle dovevano il lunedì di Pasqua recare due canestri di scorza d'abete pieni di neve; e se non la potevano trovare, dovevano supplire con due buoi candidissimi. Altrove i vassalli erano obbligati per turno a far guardia con pertiche a uno stagno, per imporre silenzio alle rane.

Anche sul matrimonio dei vassalli aveva un diritto il feudatario e, checché si dica per negarlo, esistette in molti luoghi il ius primae noctis, un osceno diritto di "prelibazione", e sembra anche in qualche feudo ecclesiastico, ove però ben presto, se vi fu, si trasformò in un puro diritto di denaro. I villani dovevano al signore tributi in materia prima, nelle proporzioni fissate precedentemente, come 4/5 di ogni raccolto; dovevano a lui delle comandate o corvée, ossia giornate di lavoro da farsi sui campi del padrone, senza esser retribuiti; dovevano dare aiuti, ovvero sussidi in occasione di matrimonio, di prigionie, di crociate del loro signore; dovevano lavorare per fortificazioni, fare da guardia, dare cavalli, viveri e foraggi in tempo di guerra, nutrire il signore e il suo seguito quando sostavano sul posto; senza contare altre imposizioni arbitrarie e capricciose e altre consuetudinarie. Quasi non bastassero i loro aggravi erano fatti segno al disprezzo da parte dei nobili. Da ciò, l'odio profondo tra nobiltà e popolo, da ciò anche qualche insurrezione, in cui erano trucidati i masnadieri del signore, che poi con le armi sterminava il popolo e ne rimetteva le catene.

C'era poi il diritto di rappresaglia fra feudatario e feudatario : esso era il più tremendo, inquantochè ne cadevano vittime degli innocenti, solo perché appartenevano alla famiglia o al feudo di un nemico. Il diritto di rappresaglia non è che la trasformazione della faida longobarda, cioè il diritto di vendetta privata; diritto che, vanamente proibito da sovrani, fu da Carlo Magno trasformato in istituto legale da violento e arbitrario che era prima.
Esso si affermerà nel XII secolo, per tutelare specialmente il grande sviluppo commerciale e industriale del tempo. Chi era offeso nei suoi diritti in terra straniera, chiedeva soddisfazione ai tribunali del luogo: non ottenendola, ricorreva a quelli della sua patria; questi scrivevano a quelli: non ottenendo riparazione, dopo varie pratiche conciliative riuscite vane, si dava all'offeso la carta di rappresaglia, e la si faceva anche bandire da un trombettiere. Terminato il tempo prescritto, si sequestravano le persone (e i beni pure) degli stranieri offensori che si trovassero in quel territorio o vi passassero.

Ogni feudatario era, in guerra, capo dei suoi militi. Ai feudatari che non erano secolari, come i prelati, i canonici, i frati e le suore superiori di monasteri, il diritto canonico vietava di versare sangue in giudizio o in guerra, e perciò spesso facevano le loro veci conti e visconti, i quali per conto loro amministravano la giustizia e conducevano gli armigeri.
Il feudatario nel suo feudo era il sovrano assoluto; egli rendeva giustizia a suo piacimento, come a suo piacimento faceva leggi, imponeva pace o guerra; e la guerra era frequente tra feudatario e feudatario, spesso il proprio vicino, e perfino tra vassallo e superiore, per un diritto che si diceva del "pugno".

I castelli e le mura, costruiti prima per difendersi da Ungari e Saraceni o da altri barbari, divennero ben presto il nido del despota signore e, nonostante i divieti dei re, si moltiplicarono: si innalzarono rocche, chiese e conventi si fortificarono, sui campanili e sui battifredi si posero continue vedette, e fin nell'interno della città i potenti ridussero a fortezze i loro palazzi, facendoli di mura solide, protette da robuste ferriate, con fossi, ponti levatoi e balestriere.

Di solito il feudatario si fabbricava il castello in alto, con torri poligone o rotonde, coronate di merli e con abitacoli sporgenti: tra questi ce n'era una, non grossa ma più elevata, in cui stava la sentinella che col corno e con la campana svegliava all'alba i villani per il lavoro, e chiamava allarmi per l'accostarsi di un nemico o per inseguire un delinquente prima che si salvasse sul feudo limitrofo, ove avrebbe trovata sicura ospitalità e impunità. L'accesso al castello, di solito difficile per natura, si rendeva impraticabile con l'arte per mezzo di fossi, antemurali, palizzate, contrafforti, ponti levatoi angusti e senza sponde, saracinesche, caditoie, porte sotterranee e trabocchetti.

La vita del feudatario era generalmente solitaria e monotona; ma egli rompeva questa monotonia ora col rapire le mogli e le figlie dei suoi villani, ora spogliando e taglieggiando i viandanti, ora esercitandosi alla guerra in giochi d'arme, oppure facendola sul serio. Di feudatari ladroni di strada molti sono i ricordi, anche nel poema di Dante: quei ladroni non rispettavano, nessuno: persino il papa Giovanni VII che andava in Francia, fu da uno di loro fermato, spogliato, privato di parte dei suoi cavalli e della scodella di san Pietro, d'argento: né altro poté fare quello che scomunicare i ladri.

Di guerre tra feudatari e feudatari sono piene le storie: scoppiavano per un nonnulla, si trascinavano per anni, talora per generazioni, tramandandosi gli odii e le vendette di padre in figlio. Saccheggi, incendi, distruzioni di messi e bestiami e rappresaglie feroci erano le conseguenze.
Spesso doveva intervenire la Chiesa, la quale instituì la cosiddetta tregua di Dio. Quando questa veniva dichiarata per alcuni giorni si sospendevano le armi, e si tornava alla pace ed alla serenità, ai lavori, ai commerci; spirato il termine, si riprendevano ferocemente le armi. Erano dunque assai brevi respiri; ma tuttavia se ne sentiva talmente il bisogno e il beneficio che si bandivano a ogni grande solennità, come Natale e Pasqua, e le più gravi scomuniche colpivano colui che avesse violata la tregua di Dio.

In tempo di pace tra i migliori svaghi erano i giochi d'arme e la caccia. I giochi d'arme erano un prodotto della cavalleria che, nonostante la gravità delle condizioni feudali e la barbarie degli istinti, l'ignoranza degli intelletti e la durezza dei costumi, si sviluppò proprio in quella fiera età e rappresentò come un'oasi di generosità e di gentilezza, riuscendo a rendere meno crudeli le guerre e più civili i costumi.

Concludendo, nella società feudale vi erano sul medesimo suolo due popolazioni: una che o per sangue o per infeudamenti era nobile, e tutto poteva permettersi: l'altra ignobile, che tutto doveva soffrire; la nobiltà si occupava delle armi, e ad essa e al clero avevano riguardo le leggi feudali; l'altra parte, artieri, villani, semiliberi e schiavi, erano senza diritti, senza difesa, non era governata che dal capriccio e dal dispotismo.

Nobili si era per nascita, o si diveniva per ricchezze e virtù. Per nascita non erano che i vincitori; ma poi anche dalla classe dei vinti si poté salire al dominio feudale o alla cavalleria e quindi alla nobiltà e alle cariche nobiliari. In Italia, oltre che per mezzo delle armi, si poté salire a nobiltà con il commercio e con l'arte, ma questo non prima dell'epoca dei Comuni.

Nel periodo feudale, nobile si diceva solo a quella persona appartenente al ceto feudale ed insignita di dignità cavalleresca o ecclesiastica: solo più tardi, sotto i Comuni, sorsero accanto ai cavalieri di natura i cavalieri di fortuna (o cavalier di ventura). Fra le lamentevoliconseguenze del feudalesimo, alle quali si é accennato, due felici risultati si possono annoverare. Nel momento che si stabilì, esso fissò al suolo le popolazioni trascinate qua e là per quattro secoli dall'onda delle successive invasioni; ed in seguito alle lotte quotidiane il feudalesimo servì a rianimare, specialmente in Italia, lo spirito militare soffocato nel IX secolo.

Nemici mortali del feudalesimo saranno la monarchia e i Comuni (molto ma molto più tardi, le democrazie). La legge di Corrado Il il Salico, sulla "costituzione dei feudi minori" arrecherà un grave colpo al feudalesimo, perché gli toglierà la base gerarchica; le crociate, lo sviluppo delle libertà comunali, la formazione di una borghesia ricca e potente e il continuo accrescimento della potestà regia, lo indeboliranno, lo screditeranno, lo faranno finire.

In Francia il sistema feudale soccomberà per comunanza d'interessi della monarchia con il "terzo stato". In Italia, le città, che avranno un'intelligente borghesia, si emanciperanno sin dal secolo XI; i castelli saranno demoliti e i signori si faranno cittadini.
Mentre in Germania il feudalesimo stabilitosi più lentamente che altrove, durerà più che in ogni altro paese, lasciando infine sussistere le signorie mediatizzate. In Inghilterra, i baroni feudali si unirono e si organizzarono da sè, concentrando tutte le loro forze per combattere il dispotismo regale.

LA CAVALLERIA CAROLINGIA

L'ordinamento feudale della società e le usanze e le idee che si facevano strada nella vita delle corti e dei castelli crearono una specie, d'istituzione, che si chiamò la Cavalleria. Da non confondere con uomini che vanno semplicemente a cavallo, nè ha qualcosa a che vedere con un reparto dell'esercito, anche se è
una conseguenza della trasformazione, avvenuta ai tempi dei Carolingi, proprio dell'esercito germanico
Essa é un insieme di sentimenti, di costumi, di tradizioni che l'Ampére ingegnosamente definisce il «romanzo storico del feudalesimo ». Ebbe la sua completa evoluzione in Europa e nel medio evo, benché se ne riscontrino i germi anche presso altri popoli e in altri tempi, specialmente per l'influenza esercitata dalla donna; invano si ricercherebbero estrinsecazioni cavalleresche presso gli eroi omerici, sia verso il nemico, sia per ciò che riguarda l'amore propriamente detto. Invece, anche nelle varie stirpi germaniche meno avanzate in civiltà sorgono sentimenti che dànno luogo a una rudimentale e primitiva cavalleria, come si può riscontrare nelle leggende del ciclo teutonico.

Il significato e il contenuto di questo istituto viene a mano a mano evolvendosi; fu una dignità militare a difesa dello Stato, della religione, delle donne, dei deboli, degli oppressi, però appartenenti alla classe dei nobili; fu una lega di ricchi sorta per porre un argine alla ribalderia dei briganti che impunemente scorrazzavano, compromettendo la pubblica quiete; fu anche una fratellanza di persone nobili che mettevano in comune i propri averi, dividendo egualmente fatiche e glorie, pericoli e vantaggi, e obbligandosi ad aiutarsi fino alla morte.

La cavalleria ha una straordinaria importanza per l'influenza che esercito sul mondo in cui visse e prosperò. La società medioevale é eminentemente individualista: ciascuno si fa giustizia da sè, poiché il potere centrale dello Stato non è capace di difendere i beni dei cittadini e la persona. Da ciò nascono naturalmente eccessi, abusi, ingiustizie che, inutilmente, tenta reprimere la giustizia sociale, troppo debole per trattenere gli uomini, il cui spirito di indipendenza si ribella a ogni autorità.
Lo stesso compito si assume la religione, e qualche cosa fa, sebbene insufficiente, sopra tutto con le « tregue di Dio »; ma al dominio del più forte è la società stessa che deve validamente opporsi se non vuole dissolversi e morire. Appunto l'istinto di conservazione spinse gli uomini a reagire contro le cause di distruzione, a regolare la società dove non arrivavano i poteri pubblici, e così sorse la cavalleria.

Tuttavia non é facile compito delineare i confini dell'influenza che essa esercitò, perché ben presto la poesia e la leggenda s'impadronirono di questo istituto, fino a farlo apparire un qualche cosa di mai realmente esistito nelle sue forme tipiche: e certamente, la cavalleria, come tipo di perfezione, appartiene alla poesia e non alla storia.
Secondo il Laurent, la cavalleria é l'arte eroica dei tempi moderni: gli eroi dei tempi antichi civilizzarono la Terra, domando i mostri e abbattendo i tiranni; i cavalieri difendevano i deboli e umanizzavano i combattimenti con la lealtà e la cortesia. La forza materiale costituiva la prerogativa degli eroi antichi, i quali non si vergognavano di fuggire di fronte a un nemico fisicamente più forte; la cavalleria invece introdusse l'umanità e la lealtà, virtù ignote agli antichi.

Base della lealtà è il punto d'onore che conduce i cavalieri al sacrificio di se stessi, pur di non mancare a quello che essi reputano proprio dovere. Del resto, movente primo della cavalleria era l'esaltazione: esaltazione nell'amore, nella ricerca d'avventure, nelle cerimonie, nella generosità, che aveva introdotto una specie di cortesia anche tra i nemici più accaniti, cortesia che scemava quanto la guerra aveva di odioso e di barbaro.

Incerte e molto dibattute sono, dunque, le origini della cavalleria. Chàteaubriand ritiene che essa sia nata dalla fusione dei popoli arabi coi popoli settentrionali. «Il carattere della cavalleria, scrive, si formò dalla natura sentimentale e fedele dei Germani e dalla natura galante e fantasiosa degli Arabi: essa conservò l'impronta dei due climi che la videro nascere: ebbe il vago e il vaporoso del cielo degli Scandinavi e lo splendore e l'ardere del cielo d'Oriente».

Il Laurent invece scrive: «I sentimenti della cavalleria sono in germe nei costumi tedeschi; lo spirito cavalleresco non é che un'esaltazzione dello spirito individualista che costituisce l'essenza dei Germani. Da ciò una fiducia eccessiva nelle proprie forze, un orgoglio indomabile é il lato brutto degli uomini del nord e dei cavalieri, ma essi lo correggono con l'orrore dell'inganno, della mala fede e col sentimento profondo dell'onore. Il soldato del nord preferiva la morte al disonore ».

Alcuni la considerano invece come un'istituzione ecclesiastica, un tentativo del clero per trasformare la forza brutale del feudalesimo in una forza disciplinata per garantire l'esistenza della Chiesa e della società.
Altri la considerano come detto all'inizio, una conseguenza della trasformazione, avvenuta ai tempi dei Carolingi, dell'esercito germanico. Infatti, mentre le orde che avevano invaso l'Impero erano formate per la massima parte di predoni, da questo momento in poi sarà imposto ai soldati il combattere a cavallo. In realtà, si tratta di un'istituzione non appositamente creata per speciali bisogni, ma sorta naturalmente quale sviluppo di fatti da lungo tempo esistenti e quale spontaneo risultato dei costumi germanici e feudali.
I giovani nobili che aspiravano alla cavalleria dovevano servire come donzelli sotto gli ordini di un cavaliere, nei castelli, che divennero ben presto scuole di cavalleria, ove s'impartivano i precetti della religione e della galanteria. In quest'opera di educazione molta parte avevano le dame che si occupavano d'insegnare al donzello quanto concerneva l'amore verso Dio e il rispetto e la venerazione verso la donna. Il donzello era poi esercitato con gran cura negli esercizi militari, e doveva concorrere alla difesa del castello in caso di aggressione. A quattordici anni egli era fatto scudiero mediante la solenne consegna della spada; passava sotto la custodia di un paladino, per imparare quanto ancora non sapesse e acquistare il grado di cavaliere.
Lo scudiero doveva servire il proprio signore, tenergli la staffa quando montava a cavallo, stargli a fianco nei combattimenti per fornirgli armi e cavalli. A ventun anni lo scudiero diveniva cavaliere; ma ciò poteva accadere anche prima, quando i giovani erano molto abili, o quando si trattava di giovani principi di sangue. In origine, soltanto i re potevano conferire la cavalleria, ma in seguito questa prerogativa passò anche ai cavalieri singoli.

Era indispensabile, per appartenere alla cavalleria, essere cristiani, poiché l'ordine della cavalleria era anche un vincolo religioso. Infatti, la cerimonia con la quale si creava il cavaliere era essenzialmente religiosa, accompagnata da un simbolismo tutto cristiano e preceduta da pratiche religiose, quali il digiuno e la meditazione. Gli obblighi dei cavalieri erano riassunti nei 26 articoli del giuramento a cui erano tenuti: primi, fra gli altri, il dovere di proteggere il debole dalle prepotenze del forte e quello di dar ragguaglio preciso delle proprie avventure che venivano scrupolosamente registrate.

Sono così riassunte poi da Lancilotto del Lago le doti di cui doveva essere fornito il cavaliere, "... forza, ardire, beltà, gentilezza, bontà, cortesia, generosità, ricchezza di averi e abbondanza di amici". Naturalmente, tutto questo cerimoniale era di molto semplificato in tempo di guerra: era sufficiente, per creare in tali casi un cavaliere, che questi presentasse la sua spada al signore, dal quale riceveva l'accollata.
I cavalieri conducevano vita errante, sempre in cerca di avventure, sempre pronti ad accorrere là dove era necessario vendicare gli oppressi, abbattere i masnadieri, cacciare gli infedeli. Spesso ricorrevano, nel loro errare, all'ospitalità dei conventi e dei castelli, dove erano accolti con ogni pompa: la dama stessa e le sue damigelle li disarmavano e servivano loro il pasto squisite, le acque profumate e i vini generosi. Spesso si riunivano in comitive per compiere imprese a cui non sarebbe stata sufficiente l'opera di uno solo. Generalmente si prendeva, come termine per compiere le imprese dividendole in un anno e un giorno, trascorso il qual tempo, tornavano e narravano fedelmente la propria avventura; in occasione di questi ritorni si cementava con cerimonie speciali o con ogni altro mezzo il legame di fraternità fra i membri della cavalleria.

In compenso ai cavalieri erano accordati molti e utili privilegi : armature dorate alla guerra; abiti di seta e pellicce al castello; titoli onorifici; diritto di sedere alla mensa del re; di conferire l'ordine di cavalleria; di aspirare ai feudi nobili; di aver stemmi e banderuole sulle lance; di essere esenti da ogni tassa. Ma, privilegio maggiore, la cavalleria era per se stessa indipendente da ogni singolo sovrano: il cavaliere era cittadino dell'universo, cosmopolita, e dappertutto godeva di esenzioni e privilegi.
La cavalleria influì pure sull'educazione della donna: le damigelle venivano con gran cura ammaestrate nei principi di devozione e di galanteria, dovevano imparare a rendersi care, e per ingegno e per nobili modi ai cavalieri, dei quali dovevano stimolare il valore e coronare la gloria. Esse imparavano così a rendere, in seguito, ai loro mariti tutti i servigi che un prode cavaliere ha il diritto di esigere da una moglie affettuosa e generosa.

La dignità di cavaliere si perdeva per vari reati: incesto, parricidio, lesa maestà, eresia e diserzione. I cavalieri così puniti erano condotti sul palco d'infamia, si staccavano ad essi gli speroni, si spezzavano le spade, si cancellavano gli stemmi; gli araldi li proclamavano villani, traditori, sleali, miscredenti. I sacerdoti, dopo aver recitato l'uffizio dei morti, li maledivano. Si versava sul loro capo dell'acqua per cancellare il carattere di cavaliere; erano portati in chiesa su un cataletto e sopra di essi si recitavano le preci dei defunti per dimostrare che civilmente erano morti.

L'IMPERO E L'ITALIA

In Italia, il feudalesimo, introdottovi dai Carolingi, fu più fatale che non negli altri paesi, poiché venendo i feudi distribuiti in massima parte a stranieri, si moltiplicarono gli elementi di divisione e si consolidò (in mezzo all'odio) sempre più il dominio oltremontano. Fatale fu pure, per l'Italia, l'istituzione del sacro romano impero per opera della Chiesa. Senza il papato, l'impero sarebbe stato probabilmente un fatto transitorio (e lo è stato per altri Paesi): le forze vive della nazione avrebbero finito col reagire, e l'impero sarebbe caduto. La sua sventura fu che nel suo territorio c'era il papato stesso, che prima ancora degli altri territori ambiva a possederlo per intero, a farlo suo.

«Ciò non potè avvenire - osserva giustamente il De Angeli - perchè l'impero era un fatto che derivava dal papato e veniva avvalorato dal medesimo. Oltre a ciò dall'istituzione dell'impero avanzarono Francia e Germania quelle pretese sull'Italia che si connettevano con la supremazia imperiale. Quel partito che, fin molto avanti nell'evo moderno, sognò la restaurazione dell'imperiale (sacra) dignità in Italia, che la credette (sbagliando grossolanamente) avvenuta con Carlo Magno e nonostante l'errore contribuì a ribadire le tante catene straniere a una "ribelle" penisola che indomita seppe in ogni caso combattere gli intrusi esterni e lo stesso papato che aveva - lui unico responsabile - creato questa situazione.

«L'Italia, ridotta a provincia del regno franco, vide con le immunità cresciuto a dismisura ed alimentato lo spirito d'individualismo. L'interesse privato divenne il movente più esclusivo di tutte le azioni degli Italiani, onde avemmo allora il peggior periodo della nostra storia, mentre avrebbe potuto essere quella l'epoca di uno stabile risorgimento. Ogni idea di
bene comune e di solidarietà nazionale disparve, giacché non vi fu più patria comune: egoismo e perfidia trionfarono. - Dai Franchi, infine, si ebbe l'Italia il principato terreno dei papi.

«Siccome non vi era ragione perché Carlo Magno prediligesse i Longobardi ai Romani assoggettati, furono tolti gli ostacoli ad entrare nella condizione dei barbari. La fusione delle due razze, agevolata maggiormente dalla suddivisione dei ducati, si compì sotto la comune oppressione: l'elemento romano, ritemprato dal germanico, in seguito finì per prevalere e fu precipua causa del risorgimento della civiltà e della libertà in Italia ».

MORTE DI CARLO MAGNO

Carlo Magno morì il 27° giorno dell'814, a 72 anni, dopo sei giorni dall'attacco di una pleurite; gli fu data sepoltura ponendogli sulle ginocchia un vangelo d'oro; sul corpo le insegne imperiali, ma sotto le insegne un cilicio. Fondatore di tanti conventi e di tante chiese quanti furono i giorni della sua vita, provvide con generosità per essi anche nel testamento, ma (!!!) senza una parola per Roma, per i papi e il loro dominio.

Prima di morire, aveva già spartito l'impero fra i suoi figli ed eredi (il figlio Pipino, fatto re d'Italia, a lungo guerreggiante col duca di Benevento e sconfitto dai Veneziani, gli era premorto, e a lui era successo Bernardo, del quale vedremo la fine sventurata), dando con ciò un grave colpo alla sua ciclopica creazione.

Ma per un momento la morte parve volesse riunire in Lodovico il Pio (o il Dabbene) l'impero della Cristianità. Fu però un attimo: presto dall'indistinto fluttuante si crearono i tre regni: d'Italia, Francia e Germania, con gli altri minori.
Al nord-est d'Europa intanto, ecco gli Slavi; a nord-ovest, i Normanni; in Persia grandeggia la potenza maomettana, forte in Spagna e minacciosa per l'Italia. Del grande paese, che si estendeva dall'Elba all'Ebro, dalla Calabria ai mare del Nord resterà soltanto il ricordo. La barriera opposta a Slavi, Germani e Arabi fu presto spezzata.

Prima di lasciare la figura del grande fondatore della stirpe carolingia, giacchè da troppi autori si é parlato del suo quasi analfabetismo, non vogliamo tacere che rimangono però di lui molte lettere, raccolte e ordinate. In alcune (come quella ad Elipando Toletano, vescovo di Spagna) egli vanta la unità religiosa: in una la fa da teologo, spiegando a suo modo i nomi ecclesiastici dati alle tre domeniche precedenti la quaresima (settuagesima, sessagesíma, quinquagesima); loda in altre le scuole, che vuole aperte presso tutte le chiese, e i vantaggi della scienza.
Di lui, o da lui solo firmata, abbiamo una prefazione ad una scelta di omelie, ove, meditando sulla sua vita, dice che, se qualche merito gli si può riconoscere, è per avere sempre protetto la cultura.

Pubblicò - forse su ispirazione di ALCUINO - anche una epistola intitolata "Lettera sulla fondazione della cultura", documento fondamentale della riforma degli studi dell'età carolingia. Sappiamo che Carlo in gioventù era quasi analfabeta, si alfabetizzò nell'età adulta, dunque non era nemmeno un modesto letterato, nè personalmente colto, però era intelligentemente attratto dalla cultura, anche perchè era convinto che essa fosse, arma politica e strumento di governo di prim'ordine.

Con questi limiti ma affamato di sapere, Carlo appoggiandosi alle migliori intelligenze del tempo con le quali amava disputare i temi da lui preferiti, partecipava costantemente, o più semplicemente con attenzione ascoltava i suoi ospiti attorno a lui riuniti a cena, soprattutto nel dopo cena con i più cari amici della sua corte, trasformando questa in un centro propulsore della cultura, anche se era indirizzata a una casta molto ristretta.
Queste riunioni, sempre più assidue ed eterogenee, furono solo più tardi definite lezioni della "schola palatina" (che significa scuola del palazzo del Principe) anche se a queste scuole mancava qualunque carattere accademico, erano delle semplici riunioni informali, cenacoli di assidui frequentatori che trattavano argomenti su certe questioni di scienze naturali, lettura e commenti dei classici latini, commenti, interpretazioni, analisi delle Sacre Scritture.

Quanto alle scuole vere e proprie, Carlo fu sì un animatore, ma erano di classe, le frequentavano ed erano riservate solo ai figli di nobili, questo perché Carlo sperava di formare una generazione di funzionari colti, diversi dai guerrieri ignoranti che erano stati i loro padri. Inoltre questa rete scolastica non era nelle mani della corte, ma si appoggiava all'opera dei vescovi, ed erano in tal modo scuole episcopali; metodi e materie di studio erano lasciati alla loro iniziativa.

Scrisse inoltre un trattatello sulle virtù dello Spirito Santo. E tanta religiosità non gli impedisce di notare con amarezza (scrivendo ad Angilberto, al quale dà il nome di Omero): «Troppi sconci sono nella Chiesa e si dovrebbe almeno sradicare la perniciosa mala pianta della simonia". (Sette secoli prima di Lutero !!!! )

Che più? Eccolo poeta in versi latini; compositore di un epitaffio per Adriano; autore di un salterio in cui é il panegirico del pontificato. E se non dovessimo raccogliere tutto in sintesi, potremmo discorrere ancora di Carlo Magno correttore di esemplari della Scrittura e lessicografo tedesco; da vecchio conosceva il greco, l'ebraico e altre lingue orientali.
Ebbero, ad aiutarlo Alcuino, sassone, che forse scrisse il celebre "Pange lingua", Angilberto, Landrado, Agobardo, Teodolfo, Adalardo e altri. Scrissero delle sue gesta, Eginardo e Turpino.

Quando fu giunto all'estremo della sua vita (in Aquisgrana), le cronache dicono che si ebbero eclissi, macchie nere nel sole, rovine di portici del suo palazzo. Secondo le leggende una gran striscia di fuoco lampeggiò un giorno nel cielo e il cavallo dell'imperatore cadde sì violentemente in aperta campagna che la fibbia d'oro della sella si ruppe, e così la cintura della spada di Carlo. II suo giavellotto confitto in terra per dieci piedi. Di più, bruciò il ponte di Magonza, un fulmine colpì una palla d'oro della cupola del duomo di Aquisgrana, il terremoto sconvolse questa città e cosa quanto mai singolare (una preveggenza del destino?) dal tempio cadde in frantumi la lapide ricordo con la scritta: "Carlo principe".

Tanto i Francesi quanto i Tedeschi lo mettono a capo della propria storia; ma, mentre l'epopea francese lo esalta come autore d'imprese cavalleresche combattute per la fede e per la Chiesa, l'epopea tedesca lo rappresenta specialmente come legislatore e uomo di governo. Per gli Slavi, il nome dell'imperatore franco, modificato in Kral, diventò sinonimo di re come il Caesar (Kaiser e Czar) dei Romani.

Che uno dei maggiori titoli d'onore del gran re franco sia stata la cura per la diffusione della coltura, risulta dalle entusiasiche parole con cui loda Eginardo. Non che Carlo potesse produrre un movimento intellettuale, dal momento che questo non era umanamente possibile, ma egli comprese l'utilità della cultura (e in questo assomigliò a Teodorico) e cercò di riunire le diverse correnti e di dare ad esse un centro ed un aiuto. Questo fu rappresentato, tra le altre cose, dalla Schola Palatina (palatium-corte), dove si raccolsero i migliori ingegni dell'impero.
Alcuino, che già abbiam citato, fu il più caldo sostegno della Schola e maestro ad Eginardo, il biografo dell'imperatore, e a Rabano Mauro che si può considerare il più grande istruttore e dirozzatore della Germania, e ad Angilberto, già nominato, amministratore dell' Italia (quando questa fu data in regno a Pipino figlio di Carlo) e storico di Lodovico il Pio.

Codesti letterati si ricollegavano evidentemente alla cultura antica, quando prendevano i soprannomi di Flacco, Omero, ecc. e quando consigliavano e promuvevano la trascrizione dei codici antichi sacri e profani.

Tutti questi sforzi ben diretti avrebbero potuto dare efficace spinta al rinnovamento intellettuale e quasi certamente un consolante contrasto con la ignoranza generale del secolo VIII: ma scomparsa la persona di Carlo, le varie forze riunite si dispersero ancora.

Le arti, dopo questo tempo, non ebbero più alcuno splendore. Il principale monumento dell'epoca carolingia é la Cappella Palatina (ora chiesa di Santa Maria) di Aquisgrana, il cui tipo architettonico, pur avendo molte analogie con simili costruzioni bizantine e italiane (p. es. S. Vitale di Ravenna), é trattato in modo da non poter essere considerato come una semplice riproduzione di modelli già esistenti. Il materiale da costruzione e molti oggetti d'ornamento, come i capitelli, le colonne, i marmi, i mosaici, e i bronzi furono prelevati da Roma e da Ravenna.
I migliori palazzi di Carlo (detti "Pfalzen da palatium") erano ad Ingelheim (a sud-ovest di Magonza) e ad Aquisgrana; essi consistevano in una grande sala e in una cappella congiunte tra loro mediante un colonnato. Fra i direttori di queste costruzioni ebbe gran parte il già citato Eginardo, che studiò con amore le opere del romano Vitruvio. L'architettura fu promossa sopra tutto dai conventi benedettini della Francia e della Germania, i quali crearono un gran numero di supende chiese.

Quanto grande sia stato l'impulso dato da Carlo Magno alla coltura é provato dall'operosità straordinaria che si nota in quei tempi nei campi della teologia, della poesia e della storia, dal sorgere di numerose biblioteche e principalmente dal progresso nei concetti e nello stile che si constata nelle opere del secolo IX se si confrontano con quelle dell'VIII.

Ciò significa che tuttavia dopo Carlo Magno vi fu non solo una conservazione del sapere continua e regolare, ma anche una propagazione rapida, incessante di esso. A contribuire fu anche il prezioso apporto arabo che proveniva dalla Spagna (dove esistevano enormi biblioteche che riportavano tutto lo scibile umano di tutti i tempi e di tutti i paesi, paradossalmente anche i più noti testi latini dell'antichità) e proveniva in Italia da sud dalla stessa Sicilia.

Francomputer

(Bibliografia:
Storia Universale
, di von Pflug-Harttung.
Storia Universale
, di Decio Cinti.
Il papato nel Medioevo di Walter Ullman
Vita nel Medioevo di Ellein Powell


Interessante questo contributo di Elena Bellomo

L'UNIONE  EUROPEA
NACQUE AI TEMPI DI CARLO MAGNO

I periodi storici altro non sono che il ritmo del respiro dello Spirito che pensa la Storia, affermava Benedetto Croce ed in effetti è impossibile sostenere che la scansione della vicenda umana in epoche sia un elemento intrinseco ad essa e non invece una mera invenzione di coloro che hanno votato le proprie energie a studiare l'evoluzione della civiltà sul nostro pianeta.
Con questo non vogliamo dire che in alcuni momenti gli uomini del passato e del presente non abbiano avvertito di vivere eventi straordinari, che avrebbero per sempre mutato il cammino dell'Umanità, ma che in realtà ben poche volte tali avvenimenti sono stati considerati come determinanti nello schematico susseguirsi dei periodi storici che ci viene insegnato a scuola.
Questa osservazione vale per la stessa nascita dell'Età medievale che nei manuali viene fatta risalire al 476 d. C., anno in cui Odoacre rispedì a Costantinopoli le insegne dell'impero romano d'Occidente e questo istituzionalmente cessò di esistere. Nelle coscienze dei contemporanei tale fatto aveva però suscitato particolare apprensione o addirittura sgomento? 

Era davvero stato percepito come una pietra miliare della storia? In realtà non ci pare che in quell'anno esatto nessuno fosse indotto dagli eventi a decretare la fine dell'Età antica. I cambiamenti in atto erano già cominciati da tempo con la crescente assimilazione dei popoli barbarici all'interno dell'impero e poi con il loro straripare oltre i suoi confini. Ben più decisivo appariva il sacco di Roma perpetrato dai Vandali, che per sempre aveva infranto il mito dell'intangibilità della Città Eterna ed aveva impressionato grandi ingegni come quello di sant'Agostino o di san Gerolamo.

Spesso dunque la chiara coscienza della nascita di una nuova epoca è presente solo nella mente degli storici e non in quella dei contemporanei. A volte però anche gli stessi studiosi non sono molto d'accordo gli uni con gli altri. Proprio perché semplice frutto del pensiero, il confine di un'epoca può essere facilmente spostato. Chi valuta infatti principalmente il Medioevo come epoca cristiana pone il 313, anno dell'editto di Costantino che liberalizza questa confessione, come data d'inizio di una nuova era.

Chi invece ritiene elemento caratterizzante dell'Età antica l'unità del Mediterraneo scorge l'inizio di un nuovo periodo solo nel VI secolo, quando l'invasione araba distrugge un'unitarietà culturale e commerciale che nemmeno i barbari avevano definitivamente intaccato. Chi considera invece indispensabile l'apporto dato dalle popolazioni germaniche alla creazione di una originale civiltà medievale, pone come spartiacque il 406, anno in cui esse fecero il loro decisivo ingresso nell'impero.

Il limite iniziale del Medioevo fluttua così a seconda del problema che più ci sta a cuore. Lo stesso vale per quello finale, dato che molti ravvisano in diversi eventi, il Grande Scisma d'Occidente (1404-1414), nel Giubileo del 1300, nei mutamenti culturali del XIV secolo, e non nella scoperta dell'America, una precoce fine dell'epoca medievale e la nascita di una nuova sensibilità. 

Unico dato incontrovertibile rimane l'esistenza all'interno di questi due limiti opinabili di una particolare età storica, dotata di precise caratteristiche che la diversificano ed individuano rispetto a qualsiasi altro momento della storia dell'Umanità. Ma chi per primo l'ha scoperta o inventata? Chi le ha dato un nome? Fu Cristoforo Keller, il cui nome latinizzato era quello di Cellarius, nel 1688 a scrivere per primo una Historia Medii Aevi.

Il Medioevo appare quindi nato diversi secoli dopo la propria morte! Keller nella sua opera ci parla dell'epoca compresa tra il 326 (trasferimento della capitale imperiale a Costantinopoli) e il 1453 (caduta di Bisanzio in mano ai Turchi), considerandola chiaramente come quel periodo che si era trovato tra lo sviluppo della civiltà classica e la nuova età che egli stesso stava vivendo. Il Medioevo non pareva avere quindi caratteri propri di un qualche rilievo, ma era semplicemente un intermezzo, forse non troppo felice, tra due periodi determinanti della storia. L'idea del Keller in realtà non era del tutto nuova.

La presenza di questa epoca intermedia, uno strano ibrido di ragione e superstizione, di brutalità e inesperienza, era già apparsa chiara agli umanisti italiani, che al di là di essa guardavano con riverente ammirazione allo splendore dell'arte classica. Una simile sensazione avevano avvertito anche i riformatori protestanti che nell'Età di Mezzo avevano riconosciuto quel momento di credulità e abbandono, di corruzione e vizio, che separava la loro Chiesa rinnovata da quella primitiva delle origini cristiane. In base a questi giudizi il Medioevo pare definirsi solo per le sue caratteristiche negative, solo per quello che non è stato capace di essere. 

Nasce qui il luogo comune, ormai da tempo sfatato, di un'epoca buia, retriva ed oscurantista, inutilmente violenta ed incapace di qualsiasi forma di reale bellezza. Invero già da un primo sguardo questa certezza comincia a vacillare. Davvero la civiltà medievale corrispose solamente ad un lungo e reiterato errore?

I pinnacoli scolpiti delle cattedrali gotiche sembrano suggerirci però un'altra risposta. I vivaci colori miniati dei codici di dimenticate abbazie, i vigorosi versi dei trovatori provenzali, la grazia amorevole di s. Francesco di Assisi confermano i nostri sospetti. In realtà ciò che dobbiamo fare è abbandonare ogni nostro preconcetto ed ogni nozione moderna per calarci in questa epoca così lontana e dotata di irresistibile fascino.

È difficile e pericoloso ritornare alla propria infanzia, ma è anche un viaggio esaltante alla riscoperta di noi stessi, delle nostre fantasie e crudeltà inconsapevoli, delle brillanti intuizioni e delle ingenuità, denso di risposte su chi noi in realtà siamo.

Il Medioevo nasce dunque da un complesso miscuglio di elementi romani, cristiani e germanici. La raffinatezza e superbia di Roma, le sue lettere e l'eccellenza della sua arte si fondono con una nuova fede, capace di catalizzarne ulteriormente lo sviluppo. Ad essa si unisce poi la forza dei giovani popoli germanici, spesso intimiditi dalla sapienza romana e impauriti da essa fino alla violenza, ma comunque portatori di nuova linfa all'interno dell'impero.

Di questi il Medioevo fa propri la venerazione per i valori guerrieri, le compagnie di combattenti cementate da forti legami di fedeltà personale, suggellati da un giuramento. Da questa farragine nasce l'Europa dei primi secoli del Medioevo, impegnata a trovare una propria stabilità attraverso le continue lotte per dominare la spezzata eredità di Roma.

È questa l'Europa, spesso ancora pagana nel cuore e cristiana nelle superstizioni, su cui regnerà Carlo Magno. Incredibilmente a questo condottiero analfabeta vissuto tra VIII e IX secolo è riuscito quello che presidenti e ministri si affannano oggi a raggiungere da decenni: l'unità d'Europa. 

È proprio durante il Medioevo, infatti, che il nostro continente vive la sua prima esperienza unitaria. Governata attraverso un sistema feudale, derivato proprio dai vincoli giurati dei guerrieri germanici, che sono compensati con terre in usufrutto per la loro fedeltà ed opera, l'Europa commercia con le stesse monete, rispetta le medesime leggi, pratica le stessa liturgia, scrive con la stessa scrittura (la carolina appunto).

È questa però una creazione fragile destinata ad infrangersi dopo la morte del proprio artefice. Comincia quello che è stato definito il secolo di ferro perché sono solo le armi e la forza militare a dettare legge. Attraverso di esse un feudatario impone la propria protezione, o meglio il proprio dominio, a chi non è in grado di difendersi da solo. I piccoli proprietari (allodieri), caratteristici della tradizione germanica, scompaiono rapidamente. Preferiscono dare i loro terreni ai signori per riottenerli semplicemente in usufrutto. Solo con esasperante lentezza i rapporti di forza e di potere sul territorio riusciranno a trovare un proprio equilibrio. 

Non si tratta in questo caso di un periodo di deliberata e gratuita violenza, ma del necessario tempo di gestazione di un nuovo modulo di governo e gestione del potere che deve formarsi nell'instabilità e nella lotta. Ne uscirà un'Europa dominata da un ceto feudale, che si contraddistingue grazie alla professione delle armi, che garantisce ad essa anche la prerogativa di amministrare la giustizia ed altre funzioni pubbliche e che, in poche parole, garantisce ad essa ricchezza e potere.
Domina questa classe l'imperatore, governante supremo, figura ammantata di un alone sacrale di invincibilità germanica e di difensore della fede cristiana. L'altro supremo potere che regge l'Europa medievale è quello della Chiesa, guida del gregge di Cristo in cammino verso la salvezza eterna. Eppure questa Chiesa è una realtà pienamente mondana, preda continua di passioni terrene.

Chiamata a difendere i suoi fedeli, quando l'impero romano è ormai impotente, vede i suoi vescovi diventare oculati amministratori cittadini e comandanti militari, osserva i propri abati mentre conservano i cimeli della civiltà classica e nel contempo ammassano immensi patrimoni, fornendo la loro autorevole protezione ai contadini.

Cupidigia e corruzione aspettano però i chierici al varco e, mano a mano che i loro interessi si fanno sempre più mondani, li assalgono e ne fanno preda, facendo scordare loro i voti professati, facendoli vivere come se fossero ancora laici.

La Chiesa cade nello scandalo e non sono solo gli imperatori ed i baroni a gettarvela, ma gli stessi pontefici ed i chierici di qualsiasi condizione. Il potere che essi gestiscono ha finito con lo snaturare i caratteri stessi della Chiesa, divenuta un'istituzione quasi laica dove sono i laici a deciderà chi sarà papa, abate o vescovo.

È nell'XI secolo che nasce la ribellione a questo stato di cose sotto l'incentivo di una rinnovata libertas ecclesiae. Ricomincia la lotta, anche questa volta senza esclusioni di colpi. La Chiesa può contare su un nutritissimo esercito, migliaia e migliaia di fedeli, ansiosi di raggiungere la perfezione evangelica, di essere puri e rendenti quando la fine del Mondo, che nel Medioevo si crede sempre imminente, ponga termine alla storia.

Questo afflato di fede percorrerà tutta la storia medievale, assumendo le forme più diverse, dalla ferocia dei crociati, alla rassegnata solitudine degli eremiti, dall'abnegazione degli ospitalieri, alle sottili disquisizioni dei dotti domenicani, dalla furia dei flagellanti al languore appassionato dei mistici.

Spesso la Chiesa non saprà comprenderlo e lo bollerà come pura eresia e credulità, ma esso costituisce uno degli elementi più genuini dello spirito medievale, a volte forse ingenuo come quello di un bambino, ma dotato di vigore, forza e convinzione straordinari. Se dalla lotta contro i laici e l'impero per riacquisire la propria indipendenza la Chiesa esce sostanzialmente vincitrice, è però fatale che l'antico nemico le lasci attaccato qualcosa di sé.

È infatti proprio con questa decisiva vittoria che la Chiesa romana viene ad assumere definitivamente i caratteri di una monarchia le cui pretese di potere sono però universali. Questo segnerà la continuazione degli scontri con l'impero per guadagnarsi il dominio della cristianità e il crescente allontanamento dai fedeli dalla loro spiritualità, così semplice immediata, dal loro desiderio di essere guidati da una Chiesa lontana da influenze terrene. 

Quell'XI secolo in cui comincia il rinnovamento della Chiesa è in realtà un periodo di florido sviluppo per l'Europa intera. La popolazione cresce, migliorano le tecniche di coltivazione, aumenta la produzione. Le città riprendono a popolarsi, nuove terre sono messe a coltura. Prepotentemente la civiltà occidentale si espande.
Ad Occidente comincia la Reconquista, ad Oriente nascono i principati latini di Terrasanta e i territori slavi vengono colonizzati. Il languire del commercio a vasto raggio nei primi secoli del Medioevo (la cui effettiva portata è stata ridimensionata da studi recenti) è ormai solo un ricordo. Le fiere della Champagne sono sempre più affollate, mentre intraprendenti mercanti delle repubbliche marinare italiane armano nuove flotte. Nascono le lettere di cambio ed i primi istituti di credito.

Il progresso porta però anche crescente povertà, rinnovate disuguaglianze, mentre i nuovi ricchi si organizzano per governarsi da soli. Oltralpe sono i borghesi, mercanti divenuti ricchi che con le loro associazioni o gilde, mirano a rendersi indipendenti dal governo feudale o a sostituirlo. In Italia sono nobili feudatari che si sono inurbati e che si vogliono sottrarre al potere vescovile.

L'Età del Comune è alle porte. Alcuni vi hanno rintracciato il primo germoglio di una società egualitaria in lotta per la propria affermazione, si tratta in realtà della presa di coscienza di classi che vogliono essere ammesse alla gestione del potere. La dialettica storica si fa quindi ancora più complessa ed è fatale che ne nasca un nuovo conflitto.

Saranno i comuni a riuscirne vincitori, ottenendo il riconoscimento della propria autonomia dall'impero, supremo principio di ogni potere temporale. Dopo la vittoria la storia dei comuni sarà però sempre più travagliata. Martoriati da continue lotte interne, essi dovranno infatti fare fronte al crescente allargamento della partecipazione alla vita politica chiesto da ceti una volta subalterni. 

Rivolte, espulsioni e congiure apriranno infine la strada al governo di uno solo, alla signoria, spesso salutata non come dittatura, ma come novità foriera di pace e concordia. Lo sguardo che abbiamo gettato fino ad ora sul Medioevo ci ha presentato forse un'epoca non buia e retrograda, ma sicuramente un mondo in affannosa lotta, consumato dalle discordie e dagli intrighi, capace di impegnare la propria prorompente vitalità solo nell'aggressione e nel conflitto.

Esiste però anche un altro Medioevo, quello dell'inviolato silenzio dei chiostri, della gioiosa danza delle corti. Il Medioevo del bianco manto di chiese di cui un cronista monastico vede l'Europa lentamente ricoprirsi. Il Medioevo delle complesse melodie gregoriane e della poderosa solidità del Romanico. Il Medioevo delle slanciate cattedrali gotiche e delle eroiche chansons de gestes. È anche il Medioevo delle affollate lezioni universitarie, dove si dibatte sino al di là del dogma, rischiando la scomunica. Anche nel mondo della cultura romanità, cristianesimo e valori germanici si uniscono per costituire un insieme armonioso e unico, raffinato nelle propria ascendenza romanza, ma vivificato dalla fede e dal vigore germanico. 

E se la disperata ricerca di un proprio equilibrio politico ed istituzionale ci ha forse mostrato il lato più bellicoso del Medioevo, qui ne scopriamo l'anima duttile e delicata, capace di prestare ascolto a tutte le suggestioni dell'animo senza il timore di alcun biasimo.

A questo punto riuscire a condensare quanto detto in una definizione dell'Età medievale sembra quanto mai arduo. In realtà è impossibile imprigionare i caratteri tanto compositi e dissimili di questa epoca in una semplice frase o in un aggettivo. Forse, seguendo uno studioso contemporaneo, la soluzione sta nel definire il Medioevo proprio in base alla sua mutevolezza. L'epoca di mezzo è quindi "l'età della sperimentazione", in campo "politico-sociale: spregiudicata, senza principi, o meglio con principi travisati, ma sempre esuberante.

È una lunga fase storica in cui non si crede fideisticamente nella ragione ma neppure esclusivamente nel magico. Non si crede nello Stato ma si evocano continuamente ideali di res publica o di Sacro romano impero. Si teorizza un ordine celeste che si riflette sulla Terra, in una specie di algida immobilità, ma è normale trovare un vescovo del Mille che racconta di carriere che conducono, in tre generazioni, una famiglia a diventare, da famiglia di servi, a una famiglia di cavalieri.

La Rivoluzione francese, abbattendo il feudalesimo, pensava di aver dato il colpo di grazia al Medioevo. In realtà aveva abbattuto la caricatura del Medioevo: una società immobile, quella sì piramidale. Questo sembra quindi essere il vero carattere del Medioevo: la capacità di rielaborare gli elementi che gli sono stati trasmessi dal passato in soluzioni inedite ed originali in modo da rispondere alle necessità contingenti del presente, senza alcun senso di inferiorità rispetto al passato, ma con la fiduciosa speranza di riprodurre in terra il perfetto ordine forgiato dalla volontà divina.

ELENA BELLOMO
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Problemi di storia medievale, di A. Ambrosioni e P. Zerbi.
L'idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica
, di G. Sergi.

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Lasciamo ora questa analisi del regno di Carlo Magno e
soffermiamoci sulla civiltà dei germani
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