-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

63. LA CIVILTA' DEI GERMANI

 

La civiltà romana di molto superiore a ogni altro territorio europeo quando è venuta in contatto col mondo Germanico vi ha esercitato una influenza enorme, trasformatrice; essi ne risentirono profondamente in tutti i campi della loro vita politica e sociale, così nei riguardi del diritto e degli ordinamenti politici come nei riguardi delle industrie, delle scienze, dei costumi e del modo di abbigliarsi, della guerra e della religione.
I due gruppi di popoli originariamente pensavano e sentivano diversamente; ma quando si trovarono a vivere insieme sullo stesso territorio, dovettero necessariamente entrambi cercare e trovare un modo di adeguarsi. Ovviamente chi nel risultato finale ebbe l'assoluto sopravvento furono i Romani che da lunghissimo tempo, e soprattutto da Cesare in poi, erano gli abitanti di questo allora ancora spopolato territorio ed erano superiori ai Germani che col tempo vi si trasferirono, così per numero come per cultura.

Il carattere di un popolo si imprime e si estrinseca nel suo diritto. Quello dei Germani era all'inizio un semplice diritto consuetudinario non scritto, un complesso di usi sorti nella massa degli uomini liberi e da loro stessi amministrato in pubbliche assise tenute a cielo scoperto.
Ma giunti che furono in un mondo estraneo e completamente diverso, essi si videro costretti a redigere in iscritto queste loro consuetudini, se non vollero che il proprio diritto nazionale rimanesse sopraffatto dal diritto romano assai più solidamente costituito.

Così sorsero le codificazioni barbariche, cui più tardi vennero ad aggiungersi ordinanze e capitolari dei principi. La redazione dei diritti consuetudinari germanici si effettuò dalla metà del nono secolo. Le più antiche e più importanti codificazioni barbariche sono le franche, sopra tutto quella dei Franchi Salii, la veneranda «Lex Salica».


Facsimile di una pagina di un manoscritto della Lex salica. (Bibl. Monast. di S. Gallo.
Comincia il titolo della legge Salica "In nome del nostro Signore Gesù Cristo".

In queste «leges» si rispecchia lo spirito nazionale, la vecchia e costante tradizione, salvo nelle parti ove esse accolgono elementi estranei. Così il diritto popolare come il diritto regio poggiavano sulle stesse basi: le consuetudini e gli statuti; molto diversi i precetti canonici del clero che traevano origine dal diritto canonico (questo buona parte da quello Romano) oltre ad essere impregnate dalle più miti idee cristiane.
Grado a grado il diritto regio e lo stesso diritto canonico cominciarono a penetrare nei diritti popolari e a trasformarli. Contemporaneamente ai Germani pure i Romani pensarono all'adattamento del diritto ai tempi; essi sì vagliarono la massa enorme del loro diritto scritto ma lo compendiarono per l'uso pratico reale. Una necessità per i tempi e per le nuove realtà.
Gli Stati del periodo di transizione presentano un insieme di popoli; accanto al ramo della razza germanica in ciascuno dominante vi si trovavano i vecchi abitanti romani insieme ad altri elementi, celtici, germanici o slavi, cui si aggiunsero nel mezzogiorno considerevoli comunità giudaiche.

L'indole aristocratica dello Stato germanico non poteva a meno di influire sul trattamento diverso di questi vari elementi. Lo si vede dalla graduazione del guidrigildo, cioè della composizione in denaro che si era tenuti a pagare per i delitti. Il clero era contraddistinto da un guidrigildo elevato, un Germano della stirpe dominante soleva avere un guidrigildo più elevato che un Germano assoggettato, e il guidrigildo più basso era stabilito per i Romani, mentre per gli Ebrei non ne fu fissato nessuno.
L'altezza del guidrigildo corrispondeva dunque alla differenza di rango. In origine non pagavano imposte fondiarie che i provinciali; in seguito esse vennero a gravare con certi beni anche sui
Germani, mentre i Romani (sopratutto la Chiesa) furono esenti da imposte. Ne derivò che le condizioni delle classi superiori della popolazione germanica e romana si andarono sempre più uniformando, mentre le classi inferiori vennero livellate dalla povertà.

Alla fine si riprodusse la situazione che aveva dominato nei tempi dell'impero romano decadente; le differenze di nazionalità e di nascita si oscurarono di fronte all'eterna antitesi tra ricco e povero. La trasformazione della società ebbe il sopravvento sulla tradizione e sulla lettera della legge.

Nello Stato germanico vigeva il principio della personalità del diritto, in virtù del quale ciascuno viveva col proprio diritto nazionale, i Romani secondo il diritto romano, i Germani secondo il diritto germanico. Si ebbe perciò la coesistenza entro lo Stato di una molteplicità di diritti che non di rado si incrociarono e si influenzarono a vicenda. Come è naturale il diritto franco, essendo il diritto del popolo di gran lunga predominante, fu quello che esercitò la più vasta influenza: ma anche questo diritto non era uniforme ed unico, e nell'epoca merovingia prevalse il diritto salico, nell'epoca carolingia il ripuario.
Molte delle popolazioni germaniche, specie quelle della Germania meridionale, conservavano tuttora le loro vecchie organizzazioni gentilizie, ma esse si andarono sempre più indebolendo a misura che procedette lo stanziamento in paese straniero. Mentre la Sippe favoriva i matrimoni endogamici, la Chiesa li vietò entro determinati gradi di parentela, e vinse la Chiesa.

Il testo originario della legge salica non conosce che la grande quantità degli uomini liberi ed uguali, salvo i pochi elevati a condizione superiore dai re. Ma a poco a poco il popolo venne a suddividersi in tre classi: liberi, semi-liberi e servi, cui presso gli altri popoli germanici si aggiunse la nobiltà.
Alla superiorità di classe dopo ciò cominciò a corrispondere una maggiore elevatezza del guidrigildo. Più si procedeva verso il nord e più era potente la nobiltà. Fra i Sassoni il guidrigildo di un nobile era il sestuplo di quello di un ordinario uomo libero e perciò pure qui i matrimoni tra i due gruppi della popolazione erano considerati delle mescolanze, mésalliances.
Accanto alla vecchia nobiltà del sangue sorse una nuova nobiltà degli uffici pubblici e personale. Essa era dovuta all'influenza del principio, proprio del tardo impero romano, che l'ufficio pubblico nobilitava e si componeva di coloro che erano investiti di cariche dello Stato (conti, duchi, ecc.) e del seguito del re (vassalli).

Non di rado nobiltà di sangue e nobiltà nuova si fusero fra loro, ed inoltre si aggiungevano le vecchie famiglie provinciali. La nuova nobiltà mista raggiunse il massimo grado di sviluppo e di potenza nella Spagna. La vera e propria massa del popolo, quella degli ordinari uomini liberi, non possedeva i privilegi della nobiltà, ma neppure era soggetta alle restrizioni di libertà da cui erano colpiti i semi-liberi. Originariamente proprietari fondiari, questi uomini liberi fornirono i loro migliori elementi alla nobiltà delle cariche, mentre altri decaddero alla condizione di valvassori tributari, specialmente nelle regioni romanizzate. Ogni uomo libero doveva servire personalmente nell'esercito e comparire in giudizio a rispondere di persona di fronte ai terzi. Un gradino più in basso si trovavano i semi-liberi, i liti o protetti; essi avevano bisogno di un patrono ed erano numerosissimi.
Erano in uso due generi di manomissioni, una di diritto germanico, ed una di diritto romano, la seconda praticata dai re o dalla Chiesa. Peraltro la manomissione ecclesiastica aveva effetti più scadenti, perchè rendeva il manomesso soltanto servo della gleba e tributario della Chiesa, mentre la manomissione laica gli attribuiva la piena libertà di movimento. Anche più efficace era la manomissione di un semi-libero che diveniva uomo libero sotto ogni aspetto. Ciò avveniva secondo il diritto popolare franco mediante un atto simbolico, in seguito ad opera del re.

Ai vari generi di semi-liberi corrispondevano diversità di obblighi e di diritti. Tutti però erano tributari del loro padrone, obbligati a prestargli dei servigi, tenuti a prestargli ubbidienza, a seguirlo in guerra, ad assisterlo in giudizio; ma erano anche capaci di stare in giudizio per ragiona propria. Il signore garantiva ai liti protezione e mantenimento e non poteva alienarli personalmente, ma poteva alienare i loro beni e i loro servigi.
Formavano l'ultimo gradino sociale gli schiavi (servus; ted. Schalk) che aumentarono di numero a misura che la loro condizione giuridica andò migliorando. Essi costituivano la vera e propria classe lavoratrice. Esteriormente si riconoscevano perché costretti a portare i capelli corti. Per il diritto romano e per il diritto salico lo schiavo era considerato alla pari di una cosa o di un animale.

Ma ben presto prevalsero idee più miti, sinché la potestà del padrone sullo schiavo fu concepita come un semplice potere sulla persona, non come un diritto patrimoniale ed allo schiavo venne riconosciuta una limitata capacità giuridica e patrimoniale. Peraltro la difesa dello schiavo di fronte al suo padrone continuò ad essere imperfetta perché a lui non era lecito andare in giudizio contro il padrone. Se poi lo schiavo voleva citare un terzo, l'azione doveva essere proposta dal padrone. Specialmente la Chiesa prese a cuore le sorti di questa classe e le apri l'entrata nel clero. É perciò che le fonti del IX secolo poterono già parlare di un guidrigildo degli schiavi.
Dal punto di vista delle loro occupazioni i non liberi si suddividevano in vari gruppi; l'infimo era quello dei servi, i quali domiciliati stabilmente sulle terre, formavano per così dire un tutto solo con esse; poi venivano gli artigiani, categoria in cui si comprendevano i domestici, i quali ci vengono designati fra altri nomi con quelli di vassalli e ministeriali.

Al pari dei re, anche i grandi signori ecclesiastici e laici cominciarono a scopo di difesa a circondarsi di una schiera permanente di seguaci, all'inizio composta di domestici, poi anche di semi-liberi e liberi. A questo punto col nome di vassalli si indicarono degli uomini liberi tenuti a prestare al signore servigi di natura più elevata, col nome di ministeriali gli uomini d'arme non liberi in genere.

Sulla fine dell'epoca merovingia, allorché la cavalleria prese il primo posto negli ordinamenti militari, il servire a cavallo toccò naturalmente ai vassalli e ministeriali che già seguivano la professione delle armi, ed allora le differenze tra i due gruppi si andarono sempre più attenuando sinché la comunanza di professione li parificò completamente e li nobilitò.

Le condizioni della società concorsero tutte ad affrettare la dissoluzione delle vecchie classi tradizionali, il che portò pure alla dissoluzione della classe che costituiva il nerbo del popolo, la classe degli uomini liberi. E già da ora si videro spuntare i prodromi di quel processo che doveva condurre alla separazione del mestiere delle armi dalle occupazioni agricole ed alla introduzione di classi professionali ereditarie.
Ciò provocò la trasformazione dell'agricoltore in servo della gleba, mentre dalla classe militare dei vassalli derivò la bassa nobiltà dei nostri tempi e dalla nobiltà franca delle cariche pubbliche l'alta nobiltà. Da ultimo l'elemento della funzione perdette la sua importanza e rimase solo uno, quello della nobiltà.

L'unità dello Stato poggiava sulla monarchia, la quale perdette il suo antico carattere democratico che ancora si rivela in molte parti del diritto salico. Contemporaneamente decadde l'autorità delle assemblee popolari; ciò fu effetto prima delle emigrazioni, poi dell'estendersi dello Stato.
Il possesso di vasti demani, le ricchezze, l'appoggio di un forte partito, la forza militare ai propri cenni, e le differenze di nazionalità dei propri sudditi liberarono il monarca dalle limitazioni cui era andato sinora soggetto il suo potere; il vivere su suolo romano fece sì che lo si considerasse investito delle prerogative della potestà imperiale romana di cui egli era oramai il depositario.

Si aggiunse poi l'influenza del cristianesimo che esigeva come dovere di buon cristiano l'obbedienza alle autorità costituite che affermava essere di istituzione divina. Tutto spingeva dunque verso la piena autocrazia, d'onde i concetti di sudditanza e delle funzioni pubbliche quali emanazione regia.

Ma accanto al monarca si costituì una potente aristocrazia che gli si impose e ne limitò il potere. Presso i Franchi ed i Visigoti la nobiltà si pose addirittura al di sopra della potestà regia, e questo suo predominio si manifestò soprattutto nei riguardi della successione al trono; in alcuni Stati più della metà dei re finì assassinata o deposta.
Un aspro e fiero conflitto tra il principio ereditario ed il principio elettivo infuriò per tutto il periodo da Toledo a Costantinopoli, Madain e Damasco.
Gli originari distintivi del re sembrano di derivazione germanica: i capelli lunghi e la lancia; tuttavia ben presto il processo di esaltazione della dignità reale si poté notare anche dai segni esteriori, cioè dall'adozione dell'uso romano e bizantino del diadema, della corona, del trono, della porpora e simili cose, poi si aggiunse anche la consacrazione eccles
iastica, accolta per i primi dai Visigoti, la popolazione germanica più romanizzata di ogni altra.

Col crescere dell'autorità regia crebbe anche quella delle persone che circondavano il re e quindi anzitutto delle persone del suo seguito; costoro godettero di un guidrigildo più elevato, il che significa che la vicinanza del re cominciò a nobilitare chi gli era vicino. Il potere del re veniva designato col nome di «banno regio», termine che nel Medio-Evo ha avuto un triplice significato: 1.° facoltà di emanare e fare osservare comandi e divieti comminando pene ai trasgressori; 2.° comando o divieto di esercitare queste facoltà; 3.° la pena che colpiva la trasgressione del comando (la messa al bando).
Le vecchie pene pecuniarie si trasformarono gradatamente in pene corporali sino alla pena di morte. Il re possedeva l'eribanno, vale a dire decideva le guerre esterne, radunava l'esercito e lo comandava. Egli era inoltre giudice supremo, tutore della pace interna e dell'ordine giuridico; e ciò tanto più che allora la giustizia e l'amministrazione non erano ancora funzioni separate. In lui si concentrava il potere esecutivo, il potere di polizia e la supremazia ecclesiastica; egli convocava assemblee politiche e concili.
Gli era devoluta una serie di entrate finanziarie, che gli servivano indistintamente a sopperire alle spese pubbliche e private. Per l'esercizio delle sue facoltà la monarchia possedeva un corpo di funzionari nei quali erano confuse funzioni civili e funzioni militari. Funzionari di corte o centrali erano: il siniscalco, il soprintendente dei domestici, il marescalco o prefetto delle scuderie reali, il coppiere, il camerlengo o tesoriere che amministrava le finanze, ed il cancelliere, il capo della cancelleria che spediva i decreti regi.

Col tempo si elevò al grado di suprema dignità l'ufficio di maggiordomo o maestro di palazzo, il quale a poco a poco divenne un rappresentante del re, una specie di viceré. Accanto agli uffici ordinaria ven'erano di straordinari, come quelli dei messi regi, dotati di facoltà e compiti diversi a seconda della natura dell'incarico loro conferito; ai funzionari centrali si aggiungevano dei funzionari locali, come i duchi. Vi erano due specie di ducati, i ducati nazionali retti da principi nazionali e i ducati retti da ufficiali di nomina regia; i duchi avevano gli stessi poteri dei conti per territori più vasti. Una particolare potenza acquistarono i duchi presso i Longobardi, i Bavari ed i Visigoti.

Per la difesa militare dei paesi di confine vennero talora istituiti dei margravi o marchesi. Il vero capo del governo locale interno era il conte, il quale, nominato dal re, reggeva una delle circoscrizioni territoriali chiamate contee. Sino a Clodoveo i conti furono funzionarci essenzialmente amministrativi, in seguito acquistarono competenze giudiziarie, militari e finanziarie.
Per quanto il conte esercitasse il potere pubblico in nome del re, pure l'amministrazione locale dei beni della corona era affidata esclusivamente ad un domesticus, il gastaldo, che aveva la tutela dei diritti del re nei riguardi dei fondi e delle regalie.

Una maggiore autonomia mantenne fra gli Anglo-Sassoni la «shire» col suo capo, il caldorman, eletto per di più dall'assemblea della shire medesima. Ma anche qui, col fortificarsi del potere regio, il caldorman si trasformò in un funzionario dello Stato di nomina regia. Molte differenze di organizzazione si riscontrarono presso gli altri Stati germanici. Nel regno longobardo i duchi supplirono persino i conti.
Già da diverso tempo il territorio era ripartito in centenae, le quali principalmente ma non esclusivamente servivano da circoscrizioni giudiziarie. La centena aveva le proprie assemblee popolari, alle quali dapprima prendevano parte tutti gli uomini liberi del distretto, più tardi soltanto i loro delegati. Si é molto disputato sul carattere del capo della centena franca. In origine il centenario (thunginus) era manifestamente un funzionario locale eletto dal popolo, accanto al quale funzionavano gli sculdasci (sacerbaro) quali rappresentanti dell'autorità regia, nominati dai conti. A poco a poco il centenario però acquisto pure il carattere di un agente del re, il che fece sì che anche la centena andò perdendo la struttura corporativa per trasformarsi piuttosto in una circoscrizione amministrativa dello Stato.

Analogamente andarono le cose in Inghilterra. Al disotto della centena si avevano le minori aggregazioni delle città e villaggi: Le comunità libere si amministravano da sé, quelle vassalle erano governate da un signore o da un suo incaricato. Col progressivo fortificarsi del potere regio la vera e propria vita pubblica si andò sempre più concentrando nelle assemblee di corte e nelle assemblee generali del regno. Qui si adunavano i grandi, sia laici che ecclesiastici, sotto la presidenza del re o di un suo rappresentante.
All'inizio erano semplici corpi consultivi, poi acquistarono in seguito potere deliberativo, di modo che il loro consenso divenne necessario. Fra i Visigoti i concili ecclesiastici si trasformarono ampliandosi in assemblee generali del regno.
Il massimo dell'influenza conservò il popolo fra gli Anglo-Sassoni. Qui i vescovi ed i grandi abati, i caldorman e gli ufficiali regi si adunavano al «witenagemote», che era convocato tre o quattro volte all'anno e possedeva competenze illimitate. Il re abitualmente si circondava di un seguito che però non costituiva una classe chiusa ed ereditaria. Gli uomini liberi, franchi ed anglo-sassoni, promettevano fedeltà ed obbedienza al re e talora ricevevano in compenso dei beni della corona, finché da queste concessioni di beni demaniali accompagnate da determinati obblighi del concessionario, prese corpo il regime feudale dell'impero carolingio, con i suoi istituti del vassallaggio e dei benefici. Vi si aggiunse l'immunità che veniva accordata dal re mediante privilegio. Essa ordinariamente consisteva nell'esenzione dall'esser soggetti all'autorità del capo della centena.

Quanto ai giudizi, vi erano tribunali regi e tribunali derivanti dall'antico diritto popolare, e questi ultimi a loro volta erano o le assemblee popolari o il tribunale del signore fondiario. I giudizi della centena erano presieduti dal conte e si svolgevano all'aria aperta con la partecipazione degli uomini liberi abili alle armi, maggiorenni e completamente puri nell'onore.
Alla corte teneva assise il re, ed in esse la sentenza era pronunziata dai grandi presenti, in Inghilterra dai Witan (i savi). Naturalmente esse non si occupavano che delle cause più importanti; inoltre si poteva dai tribunali popolari appellarsi al tribunale regio. La procedura presentava già quei caratteri che conservò poi per tutto il Medio-Evo; i caratteri della pubblicità per chicchessia, della oralità e del rigido formalismo. Il minimo errore di forma trascinava con se la perdita dei diritti. Attori principali in questa procedura erano le stesse parti litiganti; il giudice doveva limitarsi semplicemente a vegliare che si procedesse regolarmente.
Il mezzo di prova normale era il giuramento, mezzo straordinario il giudizio di Dio; il giuramento veniva per lo più prestato dal convenuto con l'assistenza di congiuratori. Diversamente fra i Visigoti romanizzati. Per l'influenza delle idee romane il loro giudice cercava di scoprire egli stesso la verità attraverso il dibattito delle parti e le deposizioni di testimoni. In antico tutti i membri dei tribunali popolari votavano per formare la sentenza; più tardi soltanto nelle assise non obbligatorie, mentre nelle obbligatorie spettava agli scabini, come rappresentanti delle comunità, di pronunziare la sentenza. La parte poteva impugnare la sentenza, ma doveva avvenire mediante un atto simbolico orale, il quale implicava un'azione contro il giudice, il cui esito si ripercuoteva sul primo processo.

Presso alcuni popoli, come i Longobardi, i Bavari, gli Scandinavi, sembra che il diritto di pronunciare la sentenza sia passato al presidente dei tribunali, assistito da notai. Questi ultimi costituivano una classe numerosa ed autorevole. L'esecuzione della sentenza non si otteneva da principio direttamente con la forza, ma in via indiretta col bando, con la privazione della libertà. Peraltro i diritti popolari grado a grado cominciarono a cedere su questo punto dell'intangibilità dell'uomo libero, e nel VI secolo il diritto regio stabilì che nei casi gravi il conte potesse usare la forza in nome del re. I molteplici svantaggi derivanti dal troppo formalismo della procedura fecero invocare una serie di rimedi cui di solito provvide la corona.

In materia di rapporti coniugali dominavano nella sostanza tuttora le idee dei tempi di Tacito, ma quanto alla proprietà privata la troviamo già nella legge salica estesa alle terre. Vi si aggiunse il beneficio, la concessione di un fondo in godimento vitalizio, e la precaria, cioè la stessa concessione fatta a tempo determinato; di più esiste già il pegno. La successione era intestata e il diritto alla eredità basato sulla parentela; il testamento rimase tuttora estraneo ai barbari oppure per fare delle disposizioni di ultima volontà era necessario ricorrere a vie indirette. Il diritto popolare puniva i delitti contro privati con pene pecuniarie, in armonia all'antica tradizione germanica, e cioè col pagamento del «prezzo della pace», l'ammenda in espiazioni della violazione della pubblica pace, chi andava al giudice, e con la multa da pagarsi alla parte lesa.
Le multe erano elevate, ragioni per la quali molti cadevano in servitù per debiti. Diversamente il diritto regio. Il re in forza del suo diritto emanò comandi e divieti, sanzionati da pene corporali. Fattasi la ragione, la vendetta (faida), era tuttora lecita, ma la consuetudini e l'intervento regio ne ridussero l'uso, finché nell'epoca carolingia sorsero a disciplinarla precise norme di diritto. Non così procedettero le cose fra gli Anglosassoni, presso i quali prima chi altrove si sviluppò il senso della necessità di mantenere l'ordini pubblico. Qui chi si faceva ragioni da sé prima di adire le vie giudiziarie era punito. Sotto l'influenza poi del diritto romano gli Ostrogoti ed i Visigoti non riconobbero più come lecita la faida.

Come si vede, l'organizzazione dello Stato e il diritto presso i popoli germanici presentava un quadro svariatissimo. Vi si incrociavano diritto popolari, diritto regio e diritto della chiesa, il diritto romano ed il diritto germanico lottavano e si influenzavano reciprocamente; da ultimo vinsero la corona ed il pastorale.

L'opera della ulteriore evoluzione dello Stato e del diritto passò al potere regio. Il diritto e la forza si trovarono spesso in gravissimo contrasto. S'intende che lo svolgimento fu affatto diverso a seconda che i popoli rimasero sull'antico territorio germanico ovvero passarono in quello romano. La differenza ebbe già una manifestazione esteriore nel prevalere della campagna o della città. Le regioni germaniche conservarono la loro impronta rustica, mentre nei paesi romanici si perpetuò la tendenza alla vita cittadina, e le lingue romaniche scalzarono esostituirono sempre di più le lingue barbariche.

All'inizio i paesi posti sulla riva destra del Reno rimasero tuttora completamente barbari; invece negli altri paesi avvenne un grandioso processo di adattamento tra dominatori e vinti, talvolta violento, talvolta impercettibile elento. In complesso i dominatori fecero prevalere le loro idee nel campo dell'organizzazione dello Stato, nel diritto e nelle forme esteriori, mentre i Romani prevalsero nella letteratura, nella lingua enella fede; i Romani non divennero servi, ma cittadini.

I paesi tedeschi erano abitati da una popolazioni rustica, semplici, accentrata in villaggi composti di abitazioni costruiti in legno, mentre nei paesi romanici rimase dominante la costruzione in pietra. I sistemi di agricoltura erano ancora abbastanza semplicistica, alternandovisi più o meno regolarmente la cultura del grano ed il maggese. Pochissimi i frutteti e le vigne. Si seminavano le quattro grandi specie di cereali del cielo germanico, e a mezzogiorno del Danubio la spelta. L'animale domestico più allevato era il maiale; ma si avevano inoltre pecore, capre, giovenche e cavalli. Soprattutto il cavallo era molto pregiato, quindi costoso.
Si allevava anche il pollame; la gru nordica era comunissima come animale domestico. Una buona parte dell'economia domestica era alimentata dal taglio del boschi comuni, dal pascolo in comune, dalla cultura delle api, dalla caccia e dalla pesca.

Occupazioni preferita era la caccia chi si esercitava con i più svariati mezzi, ma si adoperavano per la caccia anche cani, falchi, sparvieri i persino cervi addomesticati. L'industria ed i vari mestieri non erano esercitati se non quasi esclusivamente per sopperire ai propri bisogni. Vi erano speciali norme giuridiche per la tutela dei mulini e ciascuno era obbligato a far macinare i propri cereali in determinati mulini.
Un distretto di una notevole estensioni costituiva la marca; il numero delle marche già nel V secolo si fissò definitivamente. Il semplice godimento che prima spettava sulle terre si andò sempre più trasformando in proprietà individuale. Con ciò la comunità dei commarcani perdette il diritto di disporre delle terre coltivabili e ben presto anche i diritti sulle vere e proprie terre lasciate all'uso comune, nelle quali si insediarono dei favoriti del re, soprattutto ecclesiastici.

Singoli proprietari terrieri divennero potenti ed oppressero i loro vicini più deboli. La prole numerosa degli agricoltori provocò sempre nuovi divisioni e rimpicciolimenti delle proprietà private; i commarcani dovettero intaccare quanto loro rimaneva, di modo chi sparirono le foreste e i pascoli. Gli obblighi pubblici sia giudiziarie, sia militari, divennero gravosi e non di rado schiaccianti. Si aggiunsero le devastazioni delle guerre, i pesi di una serie di obblighi a prestazione di servizi personali e le dannose conseguenze del sistema delle multe in denaro.
Ne conseguì che specialmente nei paesi romanici la classe dei liberi agricoltori si ridusse enormemente di numero ovvero sparì del tutto, mentre i grandi si arricchirono sempre più a loro spese. Non dominò ormai più che la distinzione tra ricchi e poveri e le masse si ridussero in stato di oppressione e di soggezione.

I potenti proprietari terrieri concessero una parte delle loro terre a coloni tributari e si circondarono di numerosi seguaci. La più ricca proprietaria fondiaria era la Chiesa, soprattutto una quantità enorme di monasteri. Il popolo minuto, spesso interi villaggi, caddero sempre più in soggezione di questa e di altri facoltosi.
E'
in questo modo che nasce quel tipo di organizzazione economica chiamata "economia curtense". La "curtis" forma il centro di una unità economica auto-sufficiente. Cioè si producono e si consumano, prodotti della campagna, ma è anche obbligato a fornirne in città, anche se in parte si scambiano con i manufatti dell'artigianato e dell'industria. Tutto è regolato da funzionari locali con ordini precisi, meticolosi nei minimi dettagli come recita quest'ordine:

"Vogliamo che i nostri dipendenti ci mandino ogni anno, a Natale in elenchi separati, dei rendiconti chiari e ordinati di tutte le nostre entrate, perché possiamo conoscere ciò che possediamo e le quantità di ciascuna cosa, e cioè: il conto delle terre lavorate con buoi e tenute dai nostri contadini, e di quelle lavorate dai possessori di manzi che ci devono il contributo di lavoro; il conto dei maiali, dei censi, delle obbligazioni e delle multe; quello della selvaggina catturata nei nostri boschi senza il nostro permesso e quello delle composizioni che ne sono seguite; quello dei mulini, delle foreste e dei campi, dei ponti e delle navi; quello degli uomini liberi e quello delle catene obbligate verso il nostro fisco; quello dei mercati, delle vigne e di coloro che ci sono debitori di vino; il conto del fieno, della legna da ardere, delle torce, delle tavole e delle altre specie di legno da opera; quello delle terre incolte, quello dei legumi, del miglio, del panico, della lana, del lino, della canapa; nonchè il conto della frutta, delle noci, delle nocciole, degli alberi innestati di ogni specie e degli orti; quello dei vivai, quello dei buoi, delle pelli e delle corna degli animali; quello del miele, della cera, del lardo, del sego, del sapone, del vino di more, del vino cotto, dell'idromele, dell'aceto, della birra, del vino nuovo e vecchio, del grano; quello delle galline e delle uova, delle oche; i conti dei pescatori, dei fabbri, dei fabbricanti di scudi, degli alveari, dei tornitori e sellai; il conto delle fucine, delle miniere di ferro e piombo; quello dei tributari e dei poledri".
Insomma non sfuggiva nulla, nemmeno un uovo !


Un'altra causa della dissoluzione della classe degli agricoltori furono le città, ereditate dal mondo romano. Certo il loro antico splendore non esisteva più; le strade, gli acquedotti, i teatri, i templi e le terme erano in rovina, ma una parte degli antichi edifici, più o meno, rimaneva tuttora in piedi; sorsero nuove abitazioni, però semplici e disadorne, e persino case germaniche in legno, o castelli e soprattutto tante chiese e chiostri.

Quanto all'Italia essa continuò ad essere il paese caratteristico della vita cittadina. Nelle città il potere pubblico passò dalle curie al conte. Cessò il predominio politico della città sulla campagna, ma quel che la città perdette sotto l'aspetto politico lo conservò sotto l'aspetto economico e religioso. In essa si concentrarono cultura, commercio ed industrie. Spesso il vescovo aveva la sua sede al riparo delle mura cittadine, e divenne la principale personalità per influenza e ricchezza; la cattedrale allora formava il centro di tutta la vita locale.
La vita pubblica si concentrò nei palazzi regi, le sedi dei re e delle grandi assemblee generali. Erano palazzi fortificati con una serie di dipendenze, spesso uniti ad un chiostro, in città e nelle vicinanze di una città. Parecchie di queste città divennero capitali, come Parigi, Toledo, Pavia, Spoleto, Benevento e Canterbury. La maggioranza della popolazione nelle città rimase costituita da Romani, ma i Germani vi affluirono anch'essi sempre in maggior numero, di modo che ovviamente la fusione delle due razze si effettuò prima che altrove nelle città.

Il libero agricoltore germanico continuò a guardare con un certo dispregio l'abitante della città. Come nelle campagne, così nelle città i mestieri erano per lo più esercitati dalla classe servile, ma vi erano anche artigiani liberi. Alcune specie di professioni e di arte godevano di molta considerazione, come quelle dei medici, orefici, armaiuoli ed in Italia inoltre i notai, i pittori e gli architetti: tutta gente che alcune volte accumulò grandi ricchezze.
Ordinariamente si viveva ancora dell'eredità ricevuta dall'epoca imperiale romana. L'industria mineraria ed il commercio erano decaduti (nell'intero periodo longobardo non si era mai fatto uso della moneta (sono infatti rarissimi gli esemplari) e gli scambi avvenivano solo in natura) , ma tuttavia in molti luoghi si esercitava l'estrazione del ferro e del sale.
L'arte del ricamo e la tessitura acquistarono grande sviluppo in parecchie regioni, sopra tutto in Britannia. La Germania forniva materie prime, i paesi renani ferro e vetro, l'Africa vandalica continuava ad essere il granaio mondiale. I Longobardi e i Vandali avevano fama di esperti armaiuoli.
Fiorì il lavoro artistico in avorio, pietre preziose e vetro. I mercanti inglesi si incontravano in tutta la Francia. Una serie di città divenne sede di mercati. Fin da allora Parigi era un centro importante per l'arte e per la gioielleria. Sulle strade romane che ancora esistevano, sui fiumi e sulle coste marittime si aggiravano i residui del traffico una volta esistiti in grande.
Il Danubio divenne la via di collegamento dell'Occidente con l'Oriente, il Mediterraneo venne molto battuto dalle navi. Marsiglia, Roma e Cartagine costituivano importanti centri di commercio. Coll'adozione del lusso romano i Germani divennero in molte cose tributari dell'Oriente assai più progredito, specialmente in materia di seterie, aromi, incenso, pietre preziose e prodotti dell'industria artistica.

Purtroppo insieme col mercante apparve anche il suo antagonista, il pirata ed il masnadiero. All'infuori di costoro erano principalmente i soldati ed i pellegrini erranti quelli che si recavano in paesi stranieri. Si intensificò - anche perchè portavano enormi contributi economici alla Chiesa - sempre più l'uso di fare pellegrinaggi a chiese famose e ai santuari, e soprattutto a Roma. Fin da allora gli Inglesi furono i principali rappresentanti di questa mania locomotrice. Singolare era la scarsità dei metalli preziosi. Già nei tempi del basso impero romano le province ne erano impoverite. Qui vi calarono i Germani che sino allora non avevano avuto moneta coniata e non conoscevano gli impieghi fruttiferi del denaro. Naturalmente essi adottarono la moneta che trovarono sui luoghi. In Italia fu tutto più facile, i Longobardi non avevano adottato nè creato alcuna moneta, lo scambio in natura era l'unica economia di mercato; e forse anche per questo si avviarono al declino e alla fine.

Nel paese dei Franchi la moneta principale era il soldo d'oro. Già Clodoveo fece coniare monete; all'inizio monete imperiali romane, ma ben presto si coniò moneta franca eliminando l'effige dell'imperatore. Se non che l'oro divenne sempre più raro e quindi più costoso; ond'é che dalla fine del VII secolo prese il sopravvento l'argento. La coniazione della moneta fu all'inizio un diritto esclusivo della corona, ma a poco a poco cadde sempre più in mano di privati, il che la fece divenire scadente ed indusse la confusione nella circolazione monetaria, finchè Pipino ma soprattutto Carlo Magno ristabilirono anche qui l'ordine.
Il rame rimase sempre raro perché non si introdusse l'uso d'una moneta divisionaria. Siccome il denaro essendo di metallo nobile era normalmente tesaurizzato, nella realtà era quindi insufficiente o del tutto assente ai bisogni della circolazione, la moneta servì spesso più da misura ideale del valore che da mezzo effettivo d'acquisto ed il commercio dovette in forte proporzione svolgersi sotto forma di permuta in natura. Ad ogni modo i Germani avevano cominciato ad adottare l'economia monetaria e già ci si informa che la regina Fredegonda studiò dei registri d'imposte calcolandole in moneta.

L'inclinazione dei Germani per i godimenti della mensa e del bere pareggiò le tendenze romane al lusso. Essi non sapevano concepire una lieta ricorrenza, una festa e perfino una funzione religiosa senza un banchetto. Nei musei scandinavi si conservano splendidi corni e coppe da bere; un antichissimo canto anglo-sassone indica l'ubriachezza come una delle più ordinarie cause di morte.
Talora le orge finivano in risse ed omicidii. L'idromele e la birra, il vino ed il sidro si consumavano a fiumi. Ai nobili franchi i loro vini gallici non sempre parvero abbastanza buoni; essi si procacciarono vini di altri paesi, oppure aromatizzarono abbondantemente i vini nazionali. La cucina presto risentì l'influenza dei provinciali raffinati; i buoni cuochi e panettieri godettero di grande considerazione. Le tavole si imbandirono in maniera straordinariamente sontuosa con vasellami romani d'oro, d'argento e di cristallo e vi si servì quanto di meglio offriva la terra ed il mare. Durante i banchetti si alternavano la musica e i canti; persino i re non sdegnavano di cantare e di suonare nei banchetti. Al barbuto bardo germanico venne ad aggiungersi il ben rasato e addestrato cantore romano, il danzatore e il saltimbanco. L'arpa venne spesso soffocata dalle trombe e dai flauti.

Questa la vita nelle sale dei ricchi, nelle città e nelle corti dei re e dei principi. Nelle strade si vedevano provinciali abbigliati alla romana, Germani con la scure scintillante alla cintura, preti in mantello di lana, vescovi in splendida veste di porpora, vere figure pittoresche con lunghi pastorali, pellegrini irlandesi, l'equipaggio da caccia o il seguito di un nobile, nobili dame franche in cocchio, in lettiga o a cavallo, una truppa di uomini d'arme guidati dal cupo suono dei corni, contadini venuti dalle campagne con asini, ceste e carri, ed in mezzo a tutto ciò Ebrei trafficanti e Siriaci in fogge orientali. Una folla enorme accorreva ai mercati ed alle fiere. Perduravano ancora alcuni spettacoli romani, soprattutto i giochi del circo.
Nella Spagna fin da allora godevano di una grandissima preferenza i combattimenti di tori. Ovunque il popolo si affollava volentieri attorno ai saltimbanchi; nelle città si adunò una quantità di mendicanti che la chiesa prese ad assistere ed aiutare, di modo che sorsero una specie di istituzioni pubbliche di carità. Ma questo quadro di pace fu di frequente turbato da sanguinose lotte e vendette private e da guerre sterminatrici.

Sinora i costumi nazionali e l'organizzazione gentilizia avevano tenuto a freno le passioni dei Germani. Ma il nuovo ambiente corruppe ben presto i primi e provocò la dissoluzione della seconda, di modo che le passioni irruppero sfrenate. I re merovingi radunarono una quantità di mogli e di concubine, tanto che la dinastia merovingia deve per buona parte la sua decadenza e la fine miseranda all'eccesso ed alla precocità dei piaceri sessuali.
I grandi laici ed ecclesiastici imitarono il malo esempio che veniva dall'alto, ed il veleno a poco a poco si propagò nelle classi sociali più basse. Alla fine la vita familiare cadde in pieno scompiglio e disordine, infuriarono gli intrighi, dominò il veleno e il pugnale fra parenti, specialmente ad opera delle donne. L'adulterio era all'ordine del giorno e i figli di diverse madri si perseguitarono a vicenda con odio feroce (vedi anche qui l'esempio all'interno della corte regia) . Il rispetto per le donne andò quasi perduto. La libidine contro natura divenne cosa comune.

Fra gli altri barbari si conservarono migliori gli Ostrogoti, i Longobardi e gli Anglo-Sassoni, mentre nei paesi germanici i costumi perdurarono semplici quasi come erano stati a tempo di Tacito. Fonte principale di inconvenienti fu il diritto assoluto dei genitori di scegliere il coniuge ai propri figli, cosicchè si accoppiavano persone di età molto disuguali e persino fanciulle con vecchi. Nei codici barbarici la ribellione alla volontà dei parenti in questa materia era considerata un delitto estremamente grave, ed il ratto un reato colpito da pena di morte. In realtà tuttavia i fatti non corrispondevano alla legge. Come ai tempi antichi la casa rimase il mondo della donna germanica. Nei paesi nordici essa cucinava solo lei e fabbricava pure la birra; questo lo facevano persino le regine; faceva il pane, tesseva, curava la biancheria, allevava i bambini sinché erano piccoli.

Coll'appoggio della Chiesa la donna cominciò appunto allora a sollevarsi dalla sua posizione di soggetta priva di diritti. Quando invalse l'uso delle incoronazioni dei re, si incoronarono anche le regine insieme con essi.
Naturalmente tutto ciò ebbe molte ripercussioni. In antitesi alla rilassatezza di costumi dell'ultima epoca dell'impero romano dominarono gli impulsi poderosi, una mancanza di misura schiettamente germanica, la tendenza all'eccesso. È difficile immaginare una infamia che non si sia allora verificata e conseguenze forse peggiori ebbe l'insensibilità ad ogni sentimento morale. La vigoria germanica e la decadenza romana si fusero per assumere una figura orrenda. L'istituzione del guidrigildo, adatta ad una società governata a regime di eguaglianza, servì a permettere ai ricchi di perpetrare qualsiasi misfatto. Si sviluppò una vera fame di potenza e di denaro. Masse di gioielli e di oggetti preziosi furono barbaricamente rubate ed ammonticchiate ed emigrarono sino in Scandinavia. Il corredo di una figlia di re colmò 50 carri; il tesoro dei Goti, conquistato da Narsete, si vuole che pesasse molte migliaia di quintali. Peraltro i tesori spesso si dileguarono in minor tempo di quanto se n'era impiegato a radunarli.

In grazia dell'influenza dell'idea della potestà imperiale la monarchia crebbe notevolmente in potere; ma, essendo le sue facoltà delimitate più di fatto che di diritto, la sua forza effettiva dipese dalla personalità del monarca o dal valore dei suoi nemici. Ed essendo ancora difettoa l'organizzazione dello Stato, oscillò continuamente tra l'impotenza dei sovrani e la tirannide. La violenza e l'assassinio dovettero venire in aiuto del diritto. In Spagna il regicidio divenne la forma quasi ordinaria di provocare la successione al trono e su 15 re nortumbrici 13 furono cacciati o uccisi.
Persino le assemblee di corte e le assemblee generali si trasformarono in battaglie. Non desta quindi meraviglia che i funzionari si mostrassero spesso violenti, incapaci e malvagi e si servissero della loro carica per commettere usurpazioni ed oppressioni. E come i padroni così i servitori. Alle guerre fratricide tra i re ed alle lotte politiche tra corona e nobiltà si aggiunsero le innumerevoli faide tra grandi e tra piccoli: intere regioni ne rimasero colpite.
Le epidemie contagiose fecero terribili spopolamenti. Il valore della proprietà e della vita divenne quasi nullo. Per difendersi in qualche modo ed estorcere la confessione di delitti si inventarono pene e torture d'ogni genere.

Accanto allo Stato così disorganizzato stava la Chiesa. Anch'essa era caduta nel fango che la circondava, ma tuttavia tentava di esercitare una influenza moderatrice. A tale scopo essa dichiarò le chiese ed i cimiteri luoghi di pace, introdusse la festa domenicale per raccogliere la popolazione nelle chiese, che sorsero numerose nelle città e in ogni piccolo villaggio; si oppose ai maggiori eccessi e creò in seno al clero una gerarchia spirituale molto meglio organizzata e superiore a quella laica. Vero é che talora di fronte allo scatenarsi delle passioni neppure l'inculcato timor Dio era capace di prestare valida difesa; ed il male era alimentato dalla incredulità, dalla mera esteriorità del convertimento dei Franchi al cristianesimo, il cui spirito non era penetrato nelle loro menti.
Molto spesso le loro idee e i loro sentimenti si manifestavano schiettamente pagani, tanto più che il loro senso morale era ancora rozzo e si riduceva in sostanza ad osservare le forme. Cosicché anche nel campo spirituale turbinarono le più opposte tendenze, senza che in proposito possa farsi distinzione tra Germani e Romani. Peraltro occorre aggiungere che il mal costume dilagò specialmente tra i grandi e nelle regioni romaniche, mentre spesso nelle campagne si conservò l'antica castigatezza e moralità.

Particolarmente in Germania ed in Inghilterra la popolazione aumentò e sorse una quantità di nuovi villaggi. Tutto calcolato, malgrado i non lievi mali, lo stato delle cose si rivelò migliore che ai tempi della decadenza dell'impero romano.
Al basso livello della vita intellettuale rispondeva lo stato deplorevole delle scienze, che già esteriormente si manifestò nell'inaridimento di ogni vigore ed energia creatrice.
I Germani erano popoli completamente privi di cultura letteraria e poco inclini alle lettere. Con essi si estinse l'ultimo residuo della coscienza romana antica, salvo quel poco - fra l'altro manipolato - che trovò rifugio in seno ai rappresentanti della cristianità. Cessarono le produzioni dei retori, e divennero tema sempre più preferito le vite dei santi, con l'aggiunta di qualche collezione di estratti compilata su scrittori precedenti.
In Francia la vera e propria attività letteraria cessa sul finire del VI secolo con Gregorio di Tours, in Italia al principio del VII secolo con Gregorio Magno, in Spagna verso la metà dello stesso secolo con Isidoro di Siviglia e Giuliano da Toledo. Nel campo letterario si fa ovunque il deserto, si manifesta nella storia delle lettere una vasta lacuna che caratterizza il passaggio dall'antichità al Medio-Evo.

Quasi tutti gli scrittori erano romani. Per i Germani il leggere e scrivere costituiva un'arte ardua e poco generalizzata, tanto che lo stesso Carlo Magno dovette impararla quando era già sul trono. Tuttavia alcuni di essi si rivelarono non alieni da tendenze alla coltura intellettuale, come l'ostrogoto Teodorico e sua figlia Amalasunta, il re franco Cariberto ed i visigoti Sisibút e Chindila. La cultura era maggiore nei paesi meridionali che non al nord, ed il massimo di vita intellettuale si perpetuò in Italia ove ebbe i suoi centri a Roma ed a Ravenna. Sappiamo infatti che Carlo Magno reclutò proprio a Roma maestri di grammatica e di aritmetica. Le epistole dei papi rivelano una buona preparazione letteraria nella chiarezza dell'esposizione e nel possesso del latino.
Ma tutto fu superato dalla produzione letteraria degli Irlandesi e degli Anglo-Sassoni, i quali nel primo ardore del giovane cristianesimo assursero al grado di principali rappresentanti della letteratura del tempo. Fra gli Irlandesi questo movimento letterario toccò il suo apogeo con S. Patrizio, S. Colomba e S. Colombano. La produzione anglosassone cominciò con Aldelmo, toccò il culmine con Beda e cominciò poi a decadere con Bonifazio.
In Irlanda ed in Inghilterra sorsero scuole che si acquistarono larga fama; persino delle monache composero versi latini. Presso i due popoli, e ben presto anche fra gli Scandinavi, accanto alla letteratura colta si svolse una letteratura popolare nazionale che si estrinsecò principalmente in grandi epopee e codici di leggi. Al continente fu di grande giovamento l'opera di diffusione della loro cultura che vi esercitarono Irlandesi ed Inglesi; con ciò questi ultimi prepararono la rinascenza dell'epoca carolingia.

Ai Germani entrati sul suolo romano avvenne quel che accade all'avvenire degli immigranti; essi a poco a poco adottarono i costumi e la vita delle popolazioni assoggettate. Persino la loro lingua, un tempo unica, si differenziò sempre più in vari dialetti e gruppi di lingue. Il gotico si differenziò dallo scandinavo, e verso il 600 l'alto tedesco dal basso tedesco. Quanto più la popolazione romana in mezzo alla quale i Germani si stanziarono era densa, tanto più presto il tedesco fu sopraffatto; spesso tuttavia ha resistito con estrema tenacia, benché in ultimo non se ne vedano esistere che pochi residui. A tempo di Ludovico il Pio, l'erede di Carlo, questa evoluzione può dirsi compiuta; si può cioè constatare una netta separazione tra un gruppo di lingue romane ed un groppo di lingue tedesche.
Malauguratamente della quantità di produzione intellettuale germanica dei tempi antecedenti non ci sono rimasti che scarsissimi residui. Della produzione continentale non abbiamo che un frammento, la canzone di Ildebrando, che appartiene al ciclo della saga ostrogota, e della produzione anglo-sassone il Beovolfo; ambedue risalgono probabilmente ad un'epoca che sta tra il 700 e l'800 e sono ancora di contenuto nazionale pagano.

Inoltre alcuni scrittori latini, specialmente Paolo Diacono, ci hanno conservato numerosi frammenti dell'antica saga. Con i popoli franchi cessa la più antica saga eroica per ravvivarsi ancora una volta in seguito attorno alla persona di Carlo Magno. In Inghilterra, accanto alla poesia germanica si perpetuò una letteratura germanica giuridica, storica e religiosa. Qui già verso il 680 si ebbe una traduzione degli evangeli.
L'antica poesia tedesca non conosceva che il sistema dell'allitterazione, mentre la poesia popolare latina e la Chiesa si servivano della rima finale. Quest'ultima cominciò poi ad introdursi anche nella poesia tedesca e col sorgere della poesia germanico-ecclesiastica del IX secolo tale mutamento si manifesta compiuto.

Del resto anche il latino subì un processo di differenziazione; accanto cioé al latino letterario che rimase la lingua usata esclusivamente nello scritto, si formò un latino parlato, la lingua della vita giornaliera; un latino volgare con tinte dialettali ; e da esso poi si svolsero le lingue romanze.
Quanto alla scrittura, i caratteri runici cedettero il posto all'alfabeto romano. Questo peraltro subì una completa trasformazione. Ai caratteri cubitali, ad angoli acuti, dei primi secoli si sostituirono i caratteri unciali più arrotondati, e da questi ultimi si svolse la scrittura corsiva o legata, la quale per il bisogno di scriver presto collegò le lettere l'una all'altra e per questa via le modificò. Dal corsivo poi uscirono i così detti «caratteri nazionali». Per i libri si usò la pergamena, per gli atti ufficiali il papiro; ma siccome quest'ultimo era costoso e non si conservava bene, le cancellerie del VII secolo adottarono anch'esse la pergamena per gli atti. L'uso del papiro continuò più a lungo che altrove nella cancelleria pontificia. I papiri recanti atti ufficiali solevano essere autenticati con sigilli metallici, le pergamene con sigilli in cera.

Passando all'industria artistica, vi domina lo stile germanico, o barbarico. La sua caratteristica é l'ornato, il disegno lineare, l'intreccio di nastri, fatto in modo che dalla sua combinazione sorgesse uno schema approssimativo del corpo di un animale, anzi in sostanza della sola testa. Le figure non sono in rilievo, ma incise in modo che le forme non sporgono dalla superficie. Nei loro villaggi sperduti nelle foreste i Germani non poterono acquistare il senso della plastica ed il gusto per l'architettura grandiosa, ma con tanto maggior vigore esplicarono una fantasia primitiva. Essi adornarono le loro case di legno con incisioni, lavori in vimini intrecciati e con grottesche teste d'animali, che poi riprodussero sul materiale offerto dalla loro nuova patria, sul metallo. Si aggiunse poi la spirale, forse immigrata dall'Irlanda e dall'Inghilterra ove risale all'età del bronzo.
Nel VI secolo questo stile germanico raggiunse il suo massimo fiore. Fra i Germani meridionali esso é più armonico, mentre presso gli Scandinavi è più forzato, più denso di intrecci, e dimostra maggior predilezione per le figure di animali fantastici; caricato al massimo fra gli Irlandesi per una manifesta inclinazione al bizzarro ed al singolare.
Anche nella pittura questo stile si fece strada ed in questo campo tale genere di ornamento servì per molto tempo ad illustrare i libri, adattandolo naturalmente alla materia di ciascuno ed al luogo che si illustrava. In quest'arte eccelsero sopra tutti gli Irlandesi, presso i quali l'ornato lineare ebbe una voga esclusiva e le loro miniature sono straordinariamente ricche e delicate e manifestano una prodigiosa sicurezza di mano.
Persino quando dal continente immigrò in Irlanda l'uso della riproduzione della figura umana, non vi trovò favore, e in genere questi artisti non rivelano alcuna tendenza per l'imitazione del naturale; essi non si servono mai di fogliame e piante per l'ornamentazione. Forse l'arte decorativa irlandese deriva piuttosto dall'età del bronzo che dalla tecnica della scultura in legno.

Il suo particolare pregio artistico consiste nella finezza d'immaginazione dei tipi e nella colorazione moderata ed armonica. In Francia i lavori del genere sono all'inizio di modesta portata e manifestano scarse capacità. Si cominciò dal disegnare delle iniziali, che diventano poi sempre più grandi e ricche di ornati; in seguito si affrontò la figura umana e da ultimo la decorazione figurata di intere pagine. Per sicurezza e chiarezza di disegno i Francesi ordinariamente restano al di sotto degli Irlandesi; ma i loro lavori si distinguono per la prevalenza della figura; il disegno vi è meno affollato e lo schema architettonico complessivo vi risalta più evidente. Della naturalezza questi artisti si dettero così poco pensiero che agli evangelisti, invece di una testa umana, sovrapposero la testa dei loro animali simbolici. Gli artisti più perfetti dell'attuale genere sono certamente gli Anglo-Sassoni. Alla sicurezza di mano e nettezza di disegno degli Irlandesi, dalle cui stravaganze però si astennero, essi uniscono spesso la dote dell'immaginativa germanica ed il gusto romano-ecclesiastico per l'armonia dei colori. Autori delle miniature a decorazione dei libri furono ordinariamente dei monaci, i quali perciò adornarono principalmente libri ecclesiastici.

Sulle miniature esercitarono influenza il mosaico fiorente a Roma, Ravenna e Venezia e la pittura romana. Il mosaico è l'arte schiettamente cristiana in antitesi alla plastica pagana. Da principio questo genere d'arte rimase celato nelle catacombe, poi con la vittoria del cristianesimo uscì alla luce del giorno e dal IV secolo in poi coprì vaste pareti e volte delle sue creazioni sempre crescenti. Le figure, sopra tutto quelle di Cristo coi santi, vi si staccano, semplici e simmetriche, severe e dignitose, sul fondo oscuro o su fondo d'oro, quasi incarnando il soprannaturale con la grandiosità delle loro proporzioni. Attorno ad esse il silenzio, la solennità augusta, tutta la maestà imponente della chiesa del tempo.
Il Cristianesimo introdusse nella propria arte figurativa un motivo nuovo: la simbolica. Si vollero rappresentare ai fedeli le verità soprannaturali sotto forma sensibile, si volle sostituire alla parola la figura materiale, tradurre il proprio sentimento di devozione in un linguaggio silenziosamente eloquente. A ciò servì il simbolo del «buon pastore» col viso spoglio di barba, poi la figura ideale di Cristo, dapprima in aspetto giovanile dal viso benigno, poi a cominciare dall'epoca dei grandi mosaici, in aspetto di uomo adulto munito di barba. A questo punto il suo viso diviene pieno di dignità regolare, con fronte imponente, coi lunghi capelli spartiti sulla fronte. Quando in seguito le vittorie di Belisario e di Narsete provocarono l'introduzione del tipo del Cristo bizantino la sua figura divenne più smorta e senile, con gli occhi sbarrati e dall'espressione tenebrosa; Cristo è ora un dio adirato, di proporzioni talvolta colossali.

Col VII secolo l'arte del mosaico cominciò a decadere. Accanto alla pittura ed al mosaico continuò l'opera della scultura che si volse principalmente ad ornare di bassorilievi i sarcofagi e i dittici; i primi di solito scolpiti in marmo od in porfido. La scultura in avorio raggiunse la sua massima perfezione nei dittici, negli ornati incisi sui coperchi degli scrittoi, ma si estese anche ad altri oggetti.
Tutte queste arti non escono dai limiti dal tipo tradizionale dell'arte antica; qualcosa di veramente nuovo lo creò soltanto la musica. In buona parte é essa che distingue nettamente la Roma pagana dalla Roma cristiana. Il Cristianesimo si é ornato fin dai suoi primordi del canto dei salmi e degli inni, finchè in S. Ambrogio di Milano sorse il vero rappresentante del canto antico cristiano, egli, l'autore dell'appassionato, grandioso tedeum. In seguito Gregorio Magno raccolse i migliori canti, altri ne aggiunse e li distribuì nei vari periodi dell'anno ecclesiastico, provvide ad una uniforme e costante notazione musicale e diede al canto ecclesiastico quella forma in cui sotto il nome di canto gregoriano si é perpetuato in tutti i tempi a venire. Il carattere di questa musica armonizzava con quello dei grandi mosaici in mezzo ai quali essa risuonava, piena di profonda dignità, di poderoso vigore e di grandiosa semplicità, pur essendo abbastanza movimentata. Da Roma vennero inviati in tutto l'Occidente cantori per introdurvi la maniera gregoriana; la resistenza più tenace all'innovazione oppose Milano.

Come per le arti figurative e per la musica Roma si impose al resto della cristianità anche per il rito esteriore del servizio divino e per l'abito sacerdotale. All'inizio i preti portavano abiti laici, al più muniti di piccoli distintivi. Quando poi con la venuta dei Germani invalse l'uso di abiti più corti e più stretti, il clero mantenne l'abito tradizionale, anzi lo allungò.
Anche per le industrie Roma si segnalò; sembra principalmente che si sia sviluppata l'industria della fabbricazione del vetro da cui uscirono bellissime coppe di vetro dorato; si progredì anzi fino alla fabbricazione di vetrate a colori. Se a tutto questo si aggiunge l'ulteriore influenza esercitata da Roma, nel dogma, nel sistema di governo della chiesa, e nell'architettura, di cui parleremo meglio tra breve, si vede bene l'importanza preminente allora acquistata dalla città dei sette colli. Qui le antiche terme e i teatri si erano sempre più andati riducendo di numero, cedendo il posto alle chiese, ai monasteri ed ai palazzi vescovili cristiani.
Anche le mura della città e gli acquedotti vennero rifatti. Molti papi spiegarono una grandiosa attività edilizia ed architettonica. Dal momento in cui fu introdotto l'uso delle campane si cominciarono ad erigere accanto alle basiliche campanili quadrilateri, col che fu fatto un notevole passo verso lo stile così detto romanico, in cui è caratteristica la torre e che trasformò completamente l'aspetto esteriore della città. Roma divenne risplendente di marmi, d'oro e d'argento, vi aleggiò il fumo degli incensi, vi risuonò l'eco delle campane e la commovente armonia dell'organo e del canto. Roma era divenuta la capitale spirituale dell'Occidente. Essa è già la città più frequentata dagli stranieri, cui i pellegrini affluivano a torme fin dai monti della Caledonia, tutti intesi a portarvi qualcosa per riportarne con se al ritorno qualcosa di santo. L'influenza di Roma sulle più lontane regioni divenne con tutto questo immensa.

L'arte che assurse in quest'epoca alla maggiore importanza in Roma è certamente l'architettura che è stata attiva sino al IX secolo, con produzione peraltro sempre decrescente. È per l'appunto a Roma dove si verificò il connubio fra la tradizione dell'arte antica e la Chiesa sorgente, e dove questa corrente trovò nel papato una forza idonea a favorirne lo sviluppo. Saggiamente l'architettura si adattò ai bisogni del culto con il suo tipo della basilica, la quale probabilmente ha preso a modello il tipo della casa privata romana. Un piccolo portico sostenuto da colonne immettere nel vestibolo a colonnati laterali; uno di questi colonnati sboccava nell'interno della chiesa, ordinariamente a tre navate, le due laterali più basse, la centrale più elevata, separate l'una dall'altra da file di colonne, in capo alle quali la chiesa terminava in un semicerchio, l'abside. Talora si aveva pure una navata longitudinale tagliata a croce da una navata trasversale, con una cupola al di sopra del punto d'incrocio. Per i battesimi, oltre alle basiliche, si amò costruire delle chiese circolari, dei battisteri del tipo del Pantheon romano. La più antica basilica di Roma si ritiene sia quella di S. Giovanni in Laterano, la cui costruzione nella forma originaria risalirebbe a Costantino. Essa é stata chiamata la «chiesa madre » della cristianità. L'esempio di Roma venne poi seguito dal resto dell'Italia; nella parte orientale di essa, e specialmente a Ravenna, si fece sentire l'influenza bizantina.

Ambedue i popoli germanici che si insediarono successivamente in Italia, Ostrogoti e Longobardi, loro che abitavano in costruzioni fatte di pali che si trascinavano dietro nelle emigrazioni, rimasero tanto soggiogati dalla grandiosità dell'ambiente in mezzo al quale erano venuti che si diedero anch'essi a costruire. A dire il vero sembra che gli architetti del gran Teoderico siano stati ancora esclusivamente Romani. Ma ben presto le mutate esigenze provocarono una serie di innovazioni che si possono rilevare guardando particolarmente a Ravenna la struttura della chiesa di S. Apollinare, del palazzo reale e della cupola della tomba di Teodorico.

Con queste innovazioni gli architetti cominciarono a staccarsi dallo stile tradizionale e il distacco continuò nell'epoca longobarba. Ciò che ne risultò fu la graduale formazione dello stile romanico. Le chiese di questo stile riproducono in sostanza ancora lo schema della basilica, ma non di rado vi é più spiccato l'abside e la navata a croce; nella navata longitudinale le colonne erano talora sostituite da pilastri, e in questo caso il tetto era di solito a volta. Sulla facciata sorse la porta maggiore medioevale incorniciata di astragali o di colonne, e sul lato si levò il campanile talvolta massiccio e povero di finestre. Si aggiunga molti altri mutamenti nei particolari, fra i quali gli ornati, cioè le caratteristiche dello stile germanico. Di queste chiese longobarde molte sono tuttora conservate; le più importanti sono S. Ambrogio di Milano e S. Zeno di Verona. Quanto a sontuosità esse sono tutte al di sotto delle chiese romane ed ostrogote. Anche l'arte che è fedele compagna dell'architettura, la scultura, fu coltivata sotto la dominazione germanica, ma talvolta manifesta una grossolana imperizia. Di fronte alla quantità di monumenti italiani é notevole la scarsezza assoluta di essi nel resto dell'occidente; va peraltro tenuto conto che più si andava verso il nord e più cresceva l'uso delle costruzioni in legno. Ad ogni modo la Spagna e la Francia ce ne offre qualche ragguardevole esemplare. Già Clodoveo nel 507 fece erigere una chiesa di stile romanico con ricchi mosaici. Oltre a chiese i grandi, e specialmente i re, costruirono superbi palazzi fortificati per loro residenza ; persino circhi vennero ancora eretti in quest'epoca.
In sostanza le produzioni sinora considerate appartengono all'arte cristiano-ecclesiastica; ma accanto ad esse si ebbero lavori d'arte profana di vario genere, che in parte ci sono stati restituiti dall'archeologia. Si tratta di recipienti in oro adorni di figure e fregi, braccialetti, collane, anelli, ecc. Presso Petrossa in Rumania sono stati ritrovati oggetti d'oro per un peso di 75 kg., ed in Spagna, non lontano da Guarrazar si scoprirono otto corone adorne di pietre preziose; particolarmente prodiga di pesanti collane d'oro è stata la terra svedese, e oggetti sontuosi possiede il tesoro del duomo di Monza, fra i quali la famosa corona di ferro lombarda. Il Louvre possiede una graziosa sedia di bronzo che si suol chiamare la sedia di re Dagoberto, ed è di grandissimo pregio il calice del duca bavaro Tassilo conservato a Kremsmúnster. In questi oggetti prevale assolutamente lo stile romano-bizantino, ma vi si scorge già l'influenza germanica. Il calice di Tassilo dimostra come nell' VIII secolo fosse andato perduto il gusto per le forme antiche; e gli oggetti trovati in Svezia sono di puro stile germanico.

Il campo vero e proprio dell'attività artistica germanica fu la piccola industria degli oggetti comuni, di cui si é trovata una quantità sterminata nelle tombe, nelle maremme e nei laghi. Essi ci provano che i Germani lavorarono, come i Romani, in bronzo, in ferro, in osso e legno, in argento ed in oro; le materie prime più povere venivano nobilitate con incrostazioni di vetro a colori, con damascature ed ornamenti incisi; i migliori modelli dello stile germanico dal punto di vista del disegno si hanno nelle fibbie e nelle cinghie. Tutta la produzione ci rivela una grande inclinazione all'arte ed una tecnica progredita, il gusto particolare di ciascuna popolazione ed influenze romane di vario grado; massime queste presso i Vandali, quasi o completamente nulle presso i Franchi, Anglo-Sassoni, Germani e Scandinavi.

Vi erano armi ed utensili per tutti i bisogni. Le armi servivano all'offesa ed alla difesa; esse erano in sostanza rimaste quelle che si usavano a tempo di Tacito. L'antica arma nazionale franca, la lancia, l'insegna del potere regio, fu poi soppiantata dalla spada ed in genere le armi per il combattimento corpo a corpo soppiantarono alquanto le armi per il combattimento a distanza. I Vandali in ultimo non si servirono che della spada assalendo il nemico corpo a corpo. La scure si incontra presso tutti i popoli germanici; una particolare per il lancio (la francisca) ne avevano i Franchi. Accanto ad essa ve n'era una più larga (hiltbarte), usata piuttosto per colpire con fendenti da vicino. Il coltello si trasformò col tempo nella spada corta, la scramasachs, di cui si ha un tipo più lungo ed un tipo più corto.
La spada ordinaria, la spada lunga, era assai larga e serviva a tirar giù colpi di gran forza. L'impugnatura e le applicazioni erano talora di metallo prezioso, adorne di fregi e di pietre fine, le guaine erano normalmente di legno rivestito di cuoio. Sciogliere a qualcuno il cinturone cui era sospesa là spada equivaleva adichiararlo indegno di portare le armi.

 

Grande importanza acquistò per i combattimenti corpo a corpo lo scudo. Siccome serviva a tutelare il guerriero esso era per così dire il suo emblema. La consegna dello scudo apriva la carriera delle armi, la sua perdita era considerata la più grave delle onte. Gli eletti a re venivano presso alcuni popoli sollevati sugli scudi. Gli scudi erano di forma rotonda ovvero ovale, in seguito essi andarono assumendo sempre più una forma appuntita al basso. Lo scudo, fatto di legno ricoperto di cuoio, recava al centro una gobba di metallo variamente configurato presso i vari popoli. L'elmo a quest'epoca era ancora una prerogativa dei grandi o per lo meno dei ricchi, e fra i popoli nordici del solo re. Comunemente i re portavano come insegna della loro dignità un copricapo spesso riccamente adorno. All'inizio erano assai rare le corazze, il cui uso però cominciò a crescere col VII secolo. Il giustacuore di cuoio é la forma più semplice ed antica di questa difesa, cui si aggiunge poi la maglia pieghevole di fil di ferro.

 

Al tempo dei Carolingi l'arte di costruire queste indumenti a maglia di ferro era così progredita che essi divennero articoli di esportazione. Furono costituite officine regie per la fabbricazione delle armi, corazze e maglie di ferro.
Quando l'esercito era radunato, i movimenti da compiersi venivano segnalati mediante stendardi recati alla testa delle colonne in marcia, ovvero con la voce, con corni e trombe. Sulla schiera delle lance si levava alta l'insegna, costituita spesso nei tempi più antichi dalla figura di un animale, ovvero da un drappo su cui era raffigurato uno di questi animali.
Vi erano poi stendardi recanti un serpente, per le cui fauci il vento entrava imprimendo al corpo cavo dell'animale un movimento di rotazione, ed altre insegne ornate di piume e di uccelli. Lo stendardo principale era portato di solito da uno dei guerrieri più rinomati e prodi.

L'aspetto esteriore degli eserciti germanici era assai diverso a seconda dei vari popoli; mentre quello dei Goti e dei Vandali risplendevano di metallo, Agatia ci dipinge le orde franco-alemanne tuttora nella figura primitiva. Comandante in capo era il re: Egli guidava personalmente l'esercito in guerra, ma poteva delegare ad altri il comando supremo. Sembra che l'esercito fosse suddiviso ovunque allo stesso modo, cioè per migliaia, centene e decine. Dove prevaleva l'originario esercito popolare la massa combatteva a piedi, ma in seguito acquistò sempre più predominanza la cavalleria che trasformò tutta l'arte militare e l'ordinamento degli eserciti, principalmente fra i Germani insediatisi in suolo romano.
Tra i Franchi alla fine dell'epoca merovingia la cavalleria costituisce il nerbo dell'esercito. Da principio domina la cavalleria leggera, ma poi va sempre crescendo il contingente di cavalleria pesante, e Carlo Magno stabilì che ogni possessore di una determinata estensione di terra dovesse servire in piena armatura. Presso alcuni popoli, come ad es. i Goti, i cavalieri smontavano e combattevano a piedi. Parecchi Stati barbarici marittimi ebbero accanto all'esercito di terra una flotta, sopra tutto i Vandali. Sulla strategia e la tattica dei barbari l'arte militare romana esercitò naturalmente una considerevole influenza. Tuttavia fra i popoli più settentrionali si perpetuò tenacemente la formazione a cuneo per l'assalto delle fanterie. Il comandante dell'esercito talvolta lo vediamo combattere in prima fila, ma ordinariamente si teneva indietro. Egli era riconoscibile dalla più ricca armatura, dal seguito che lo circondava e dallo stendardo.

L'educazione militare era molto curata, specialmente fra i nobili. Nel regno degli Ostrogoti si ebbero vere e proprie scuole per la scherma e gli esercizi corporali. Allo scopo di mantenere la disciplina nell'esercito vigevano pene aggravate per i reati commessi sotto le armi; fra i Longobardi era comminata la pena di morte per la rivolta, la disobbedienza ed il tradimento sotto le armi. La maggiore decadenza dell'arte e delle istituzioni militari si ebbe fra i Visigoti.

Quanto alle fogge esteriori, si conservarono tuttora quelle nazionali specialmente fra i barbari rimasti su suolo germanico, ma erano diverse a seconda delle varie popolazioni. I Sassoni si riconoscevano dalle lunghe capigliature, dai mantelli da guerra, dalle lunghe lance e dalle corte spade. L'abito dei Longobardi era ampio e per lo più di lino solcato da larghe fasce d'altro colore; invece i Vandali ormai rammolliti si abbigliavano di ampie vesti di seta e si adornavano abbondantemente d'oro. Il costume franco arieggiava quello degli odierni montanari bavaresi, quello dei Burgundi il costume degli odierni montanari scozzesi.

Carlo Magno abitudinariamente portava il semplice costume nazionale franco; solo nelle ricorrenze solenni indossava un abito intessuto d'oro, scarpe adorne di pietre preziose, il mantello sorretto da una fibbia d'oro, sul capo un diadema d'oro e pietre preziose, accanto una spada riccamente adorna.


In complesso si può dire: i Germani si coprivano di una tunica di lana o di lino, sopra la quale portavano un mantello di varia ampiezza e lunghezza di panno o di pelliccia o foderato di pelliccia; alle gambe per lo più calzoni di varia lunghezza e larghezza. Caratteristici erano i lunghi lacci dei calzari che salivano incrociandosi dalla caviglia al ginocchio e la cintura, non di rado adorna, larga e munita di una fibbia. Lunghe capigliature fluenti contraddistinguono i re dei Franchi e la maggior parte dei liberi Germani; mai troviamo altre fogge di capigliatura fino all'uso dei capelli corti o arricciati col ferro, uso quest'ultimo evidentemente dovuto ad influenze romane.
Ad esse è certamente pure dovuta l'abitudine di portare la faccia rasata che vediamo seguita da molti re e nobili; ma si riscontra nello stesso tempo l'uso di portar baffi, barba a punta e barba piena. Le donne o recavano i capelli disciolti fermandoli sulla fronte con nastri o, a quanto pare, li riunivano in trecce, che, se raccolte sul capo, erano fermate da uno spillone talora prezioso. Oltre a ciò erano d'uso fazzoletti da testa e veli. Alle orecchie recavano dei cerchi e adornavano il collo con collane d'ogni sorta. Si aggiungano braccialetti ed anelli che fra i Germani stanziati in suolo romano potevano essere muniti di un disco a scopo di sigillo. L'abito delle donne consisteva ordinariamente in una tunica sorretta sui fianchi da una cintura ed in una specie di mantello; le nobili e ricche peraltro solevano portare anche altri oggetti di vestiario. Una particolare menzione meritano le fibbie, le cui forme straordinariamente varie sono una derivazione della fibula romana dell'epoca più recente; esse sono spesso sontuose ed artistiche; le più grandi e adornate con la massima fantasia si trovano nella Scandinavia. Accanto alle fogge germaniche si mantenne la tunica e la clamide romana. Il lusso ben presto si sviluppò rapidamente anche fra i germani.

Conformemente all'uso antico, i morti erano soliti essere interrati con le armi, gli ornamenti, con cibi e bevande, e talora persino in compagnia di animali, soprattutto con il fedele cavallo di battaglia. Lentamente, questi oggetti furono però soppiantati dagli oggetti voluti dagli usi cristiani, finché da ultimo questi cessarono del tutto, privando le generazioni future di una delle più importanti fonti del sapere. Quanto al modo di dar sepoltura ai morti, esso varia secondo i diversi popoli e le diverse regioni; accanto al semplice interramento del cadavere, si ha la sepoltura in casse di legno, in locali a pareti in muratura, in mezzo a grossi mucchi di pietra; sul Mar del Nord e sul Baltico sembra abbia predominato l'uso della cremazione, che più tardi costituì l'antitesi tra la sepoltura cristiana e la pagana.
L'altezza degli scheletri per gli uomini adulti è spesso di 6 piedi, per le donne di 5, ma non raramente superavano queste misure. Lo scheletro rivela un corpo ben proporzionato e vigoroso. I teschi sono ordinariamente allungati ed esili, ma subirono profonde modificazioni per la mescolanza di elementi etnici stranieri.
Se si guarda in complesso, ci si offre un quadro estremamente variopinto; l'antico lotta col nuovo, il germanico col romano; ovunque transizione e trasformazione, vita e movimento nonostante la profonda decadenza: è questa la gestazione da cui dovrà nascere il MedioEvo.

Sul volgere di questo periodo culmina la sua personalità più spiccata, Carlo Magno. Egli, son solo fondò un impero universale germanico, ma incarnò anche una nuova civiltà o almeno l'apogeo dello svolgimento della civiltà dell'epoca, egli creò una rinascenza intellettuale, dovuta al connubio dell'antica tradizione e delle influenze bizantine colle nuove energie germaniche. L'emblema esteriore di questa rinascenza é in certo modo il duomo di Aquisgrana che ancor oggi si erge con la sua cupola elevata.
Gli servirono evidentemente da modello le chiese di Ravenna e di Roma nonchè la chiesa di S. Sofia a Costantinopoli. L'antico ed il moderno sono fusi con molta arte in questo monumento. L'opera esercitò una larghissima influenza sulle costruzioni posteriori ed in virtù di questo impulso l'antica basilica cristiana si andò trasformando nel duomo romanico; si cercò ora di innestare armonicamente nel disegno architettonico dell'edificio il campanile che prima rimaneva separato perchè aggiunto in seguito.
Ma anche gli edifici profani non rimasero indietro. Ad Aquisgrana, Ingelheim e Nymwegen sorsero superbi palazzi reali, sorretti da colonnati, adorni di mosaici e di pitture. Con ciò Carlo aprì una nuova era, tornò a far rivivere la pittura, che si rinnova così dal punto di vista dei temi prescelti per il pennello, come dal punto di vista della tecnica; non più motivi esclusivamente religiosi, ma anche motivi profani. Questa pittura - pur essendo rozza quasi primitiva, risente a dire il vero fortemente le influenze dell'antico, ma vi si vede svegliarsi la tendenza alla concezione originale ed indipendente, ad una vivace espressione dei sentimenti.

Di testimonianze ne abbiamo però pochissime, e le abbiamo molto vicine in Italia e in Alto Adige. Carlo Magno nei primi anni 800, fece costruire nel Grigioni a Monastero (Mustair) subito al di la' della Val Venosta dopo il Passo di Tubre, la chiesa di S. Giovanni con degli affreschi nello stile che verra appunto detto "carolingio", e che sono molto simili i quelli che si vedono nella Valle Venosta che si arricchisce di due capolavori carolingi: a Malles con il S. Benedetto dove si edifica l'oratorio monastico e la chiesa, dove appunto ci sono delle pitture parietali sorprendenti, e poi subito un po' piu' a valle a Naturno queste pitture andranno a decorare una piccolissima chiesetta Romanica, quella di S. Proculo, che conserva nella sua semplicità isolata nella campagna una delle opere piu
straordinarie e misteriose dell'arte carolingia, dove ancora oggi gli storici dell'arte rimangono stupefatti non per la grandezza dell'opera - in se stessa molto semplice - ma per la sua originalità drammatica, che ne fa uno dei più importanti tesori dell'arte carolingia in Italia, e il piu' rappresentativo.
Una piccola chiesetta isolata che oggi si nota a malapena passando sulla statale della Venosta, e che prima o poi sara chiusa al pubblico, smantellata e portata interamente in qualche museo, come avvenuto in quella di Mustair, oggi al museo di Zurigo.

Meno progredita rimase la plastica. Salvo per quellle opere intagliate in legno (veri maestri di quest'arte) quella della pietra non era mai stata un'arte posseduta dai Germani. Ed anche ora non produsse opere nè di gran mole nè di gran valore, ma nel lavoro minuto offre esemplari degni di attenzione; cosa che armonizza del resto col fatto che sotto Carlo l'arte industriale in genere salì quasi alll'improvviso, favorita dalla ricchezza, dall'inclinazione al sontuoso e dal gusto per il bello e per l'arte. Anche qui si sente l'eco dell'antichità, ma le forme antiche sono modificate liberamente e con originalità. Il progresso del resto di fronte alle rozze produzioni dell'epoca merovingia con i loro intrecci lineari é notevole.

La stessa tendenza a migliorare ed abbellire servendosi dell'antico si rivela anche nella scrittura. La scrittura merovingia disuguale e mal fatta, ricevuta in retaggio da questa età, si riforma in meglio sotto l'influenza dell'antica minuscola. Per alcuni speciali scritti si tornò persino ai caratteri unciali. All'arte della scrittura si accompagnò la pittura per le opere di lusso, per le quali si ricorse persino alla pergamena purpurea, all'oro, all'argento ed a tutti i possibili colori, abbellendole con ornati e figure con una perfezione d'arte che fa rimanere attoniti. Mentre i Merovingi avevano adoperato rozzi sigilli con una testa, i Carolingi invece impiegarono a tale scopo antiche gemme intagliate. Al disordine della circolazione monetaria aveva già rimediato Pipino, abolendo la libera coniazione delle monete ed avocandola allo Stato e nello stesso tempo rinunziando completamente alla coniazione dell'oro. La zecca ora era una prerogativa della corona. Carlo Magno continuò in questo stesso indirizzo e lo ribadì. Mentre le monete dei Merovingi recanti una testa non erano che imitazioni delle monete del basso Impero romano e dell'impero bizantino, Pipino vi sostituì il nome del sovrano, un monogramma e simili. Carlo aumentò l'unità monetaria, coniò monete più grandi, modificò il conio e lo portò nelle monete imperiali alla perfezione. Se l'arte era stata sinora essenzialmente arte religiosa, se la Chiesa aveva provveduto essa ad armonizzare l'antico con la vita dell'epoca, ora l'arte divenne puramente. profana.

L'elevazione del laicato in tutti i campi della vita intellettuale é una delle principali opere compiute da Carlo Magno. Come egli dominava la Chiesa e decideva o faceva decidere in suo nome questioni religiose, così anche dei laici cominciarono ora a scrivere dei libri, a coltivare le arti e le scienze come non era più avvenuto da secoli e non doveva in seguito verificarsi per secoli fino all'umanesimo e quindi della rinascenza.

Il principale campione del laicato e in quest'epoca Eginardo, un vero e proprio uomo della rinascenza che avrebbe potuto stare benissimo nel XV secolo in Italia. Egli era stato educato nel chiostro di Fulda e nella scuola palatina, ed il suo versatile ingegno si era poi sviluppato ancor più nel commercio con uomini ragguardevoli e sopra tutto con lo stesso Carlo Magno. Eginardo si intendeva di tutto; era architetto, poeta, erudito, scrittore, uomo di Stato e storico. La maggiore importanza egli ha per noi quest'ultima sua qualità, e come storico trovò in Carlo Magno un tema da trattare quale assai di rado ad un contemporaneo può toccare in sorte.
Egli scrisse quindi una vita del suo amico e sovrano, in forma perfetta, ma calcata fortemente su modelli classici, specialmente su Svetonio. L'imperatore aveva un chiaro concetto dell'importanza della storia, e perciò egli fece conservare in parecchi esemplari le deliberazioni delle diete, fece raccogliere in un libro le lettere politicamente importanti, e scrivere una storia prammatica dell'impero in forma di annali, animata da spirito puramente storico non infirmato da influenze ecclesiastiche.
Non fa meraviglia che il laicato si sia imposto anche nella lingua parlata. La lingua nazionale di Carlo era l'alto tedesco, e la sua corte parlava prevalentemente questa lingua. A proemio del codice delle leggi franche egli pose una apologia dei forti e valorosi Franchi che avevano spezzato il duro giogo romano. Carlo si sentiva migliore, più grande dei Romani. Per questa ragione cercò di mantenere genuino lo spirito popolare franco-germanico. Per i mesi e per i venti introdusse nomi tedeschi, iniziò la compilazione di una grammatica tedesca e fece raccogliere in iscritto le antichissime epopee germaniche.

La stessa Chiesa se voleva sfondare adottò la lingua popolare: si ebbero traduzioni del voto battesimale, del credo, del paternoster, dell'atto di contrizione, ecc. Una poesia fatta col sistema germanico dell'allitterazione descrive la fine del mondo; essa è di colorito cristiano, ma piena anche di immagini pagane.
Una incisione ci mostra il ritratto del sovrano, con l'elmo nazionale germanico antico, con armi germaniche, coll'emblema di Roma e col motto: "Restaurazione dell'impero romano". Questo motto compendia la figura di questo grande Germano.

Carlo è stato la più vasta e feconda mente del Medio-Evo; egli comprese e vide chiaramente che l'esistenza dell'impero dipendeva dal trionfo dello spirito nazionale franco, anzi dello spirito germanico in genere, che i suoi più pericolosi nemici erano i Romani, spesso superiori di numero, e la Chiesa universale col papa in testa.
Egli quindi si servì dei Romani solo per quel tanto che gli poteva riuscire utile, abbassò il papato e fece della Chiesa un'istituzione dello Stato.

Ma le condizioni sociali si rivelarono più forti della sua volontà. La maggior parte di quanto egli creò non resse a lungo e si mutò in parte nell'opposto.

Sotto suo figlio Lodovico il pio e suo nipote si ebbe ancora un tentativo di rifioritura intellettuale e sociale; più d'un seme che Carlo aveva gettato diede i suoi frutti. Ma ovunque la società era rosa dal verme della decadenza:

spuntò un nuovo periodo e si abbatté su tutti,
su Germani e Romani:
il Basso Medio-Evo

una nuova era di preponderanza della chiesa per garantire l'indipendenza del clero di fronte all'autorità laica e quindi di esaltare il potere dei vescovi e soprattutto del papa, ponendo così le basi dell'assolutismo papale.
Un arma che acquistò una forza irresistibile.

Noi per capire questa forza dobbiamo tornare quindi all'inizio di uno
dei più grandiosi e singolari fenomeni che la storia conosca:
IL PAPATO e la CHIESA

 

ma non prima di aver dato uno sguardo
alla genesi dell'impero Bizantino

BISANZIO, GENESI DI UN IMPERO > >

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