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50. L'EPOCA ANTICA - CONFUCIO - LAO TZE


Confucio con i suoi discepoli

Prima di iniziare il vero e proprio periodo storico, diamo subito gli anni e le dinastie che ci accompagneranno in questa e nelle successive pagine dove le andiamo a narrare. Fin dall'inizio di questo periodo storico i cinesi contavano gli anni a cominciare dall'ascesa al trono dei singoli sovrani. Il computo era riportato in apposite liste di corte che appunto elencavano i sovrani stessi. Mettendo in fila (ma non sempre è poi stato così facile) ognuno di essi si può ricostruire una certa cronologia sufficientemente valida.
A partire dall'anno 163 a.C. venne introdotto un nuovo sistema, quello dei "nianhao" (denominazione degli anni). Per più di 15 secoli ogni imperatore indicò i suoi anni di regno con più di un nianhao. Mentre a partire dal 1368 (inizio della dinastia Ming) ogni imperatore adottò un unico nianhao, e così è poi entrato nell'uso, in Europa e parzialmente anche in Cina, di chiamare gli imperatori cinesi delle ultime dinastie con quello degli anni di regno.

 


ETA' MITICA - LE DINASTIE

Età mitica fino al 2697 a.C. - con i tre "divini reggitori" o "San Huang":
Sui Jen - datore del fuoco
Fu Hsi - conquistatore degli animali
Shen Nung - inventore dell'agricoltura
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Età leggendaria 2697 - 2206 a.C.
5 sovrani, fra cui
Uang Ti, "l'Imperatore giallo"
Yao, l'iniziatore della storia della Cina

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Dinastia Xia 2206-1766 a.C..
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Dinastia Yin (detta anche Shang o Ciang) 1767-1122 (o 1027) a.C..
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Dinastia Zhou (o Chou - Ciou)
Dinastia Zhou Occidentali 1122 (o 1027) - 771 a.C.
Dinastia Zhou Orientali:- 770 - 256 a.C.
- Periodo delle Primavere e degli Autunni - 770 - 476 a.C
- Periodo degli Stati Combattenti - 476 - 221 (o 256) a.C.
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Dinastia Ch'in 221 (o 256) - 207 a.C.
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Dinastia Han
Han Occidentali 206 a.C.- 8 d.C.
Han Orientali 25 - 220
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Tre Regni
Wei 220 - 263
Shu Han 220 - 265
Wu 220 - 280
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Dinastia Jin
Jin Occidentali 265 - 317
Jin Orientali 317 - 420
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Dinastie del Sud e del Nord
Dinastie del Sud
Song 420 - 479
Qi 479 - 502
Liang 502 - 557
Chen 557 - 589
Dinastie del Nord
Wei Settentrionali 386 - 534
Wei Orientali 534 - 550
Wei Occidentali 535 - 556
Qi Settentrionali 550 - 577
Zhou Settentrionali 557 - 581
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Dinastia Sui 581 - 618
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Dinastia Tang 618 - 907
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Cinque Dinastie
Liang Posteriori 907 - 923
Tang Posteriori 923 - 936
Jin Posteriori 936 -946
Han Posteriori 947 - 950
Zhou Posteriori 951 - 960
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Dieci Regni
Wu 902 - 937
Wuyue 907 -978
Han del Sud 907 - 971
Chu 907 - 951
Shu Anteriori 908 - 925
Min 909 - 944
Jingnan 913 - 963
Shu Posteriori 934 - 965
Tang del Sud 937- 975
Han del Nord 951 - 976
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Dinastia Song
Song del Nord 960 - 1127
Song del Sud 1127 - 1279
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Dinastia Liao 91 6- 1125
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Dinastia Jin 1115 - 1234
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Dinastia Yuan 1279 - 1368 (unificazione mongola)
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Dinastia Ming 1368 - 1644 (la Cina torna ai Cinesi)
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Dinastia Qing (o Ching) 1644 - 1911 (Manciù)
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Repubblica di Cina 1912 - 1949

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Repubblica Popolare Cinese dal 1949

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Come l'oscurità nel crepuscolo, così i tempi primitivi passano sensibilmente in quelli leggendari; come il crepuscolo passa nell'aurora, così dall'epoca mitica e leggendaria si passa nell'epoca antica quasi storica.


Quella sopra è l'immagine iniziale di una lunga storia della Cina con la sua evoluzione,
dai boschi ai villaggi, dai villaggi alle città; una storia col tratto a penna riportata su un antico foglio fatto di stracci, lungo 6 metri alto 40 cm.
(l'originale lo possiede l'autore di " Storiologia" )


Il sole non é ancora così alto da togliere dalla loro oscurità le colline più basse o l'operosa attività delle valli, spiccano ancora illuminate dai suoi raggi soltanto le vette più alte, quasi pietre terminali delle massime regioni, e soltanto qua e là erra uno sprazzo di luce sopra una cima rocciosa, monumento solitario sul dorso montano.
Ad una personalità possente, alla figura radiosa di Ceng Tang (salì sul trono a 13 anni ) tiene dietro anche questa volta poco più che una serie di nomi vuoti; a lui che come «un tizzone ardente » pose termine alla moltitudine degli Hsia. A lui «puro d'irruenza e d'inerzia, di durezza e di fiacchezza», ma che aveva un sentimento così nobile e religioso dei suoi doveri regali, succede un magro albero genealogico, nel quale soltanto qua e là spicca una figura tratteggiata più nettamente.

Nella massima parte di questo periodo e ad ogni modo nei suoi primi quattro secoli ( la dinastia Yin detta anche Shang data 1767- 1122 a.C.) la storia non sa raccontare di più che un alternato decadere e rifiorire della dinastia stessa, - forse dipendente dai contrasti alla successione diretta a vantaggio di fratelli e di parenti vari, - e il ripetuto trasferimento della sede regale, che forse all'inizio esprimeva il continuo moto da oriente ad occidente. Nell'iniziare un periodo nuovo di questa storia sembra quindi che si tratti insomma di una cosa antica con un nome nuovo, di un'etichetta nuova sopra una vecchia mercanzia e ci potremmo sentire indotti ad unire anche questo periodo ai precedenti, come qualche volta è stato fatto.

Tuttavia a ciò si oppone una circostanza; a questo punto non siamo più alla mercé della tradizione, ma possediamo una testimonianza palpabile e materiale dell'esistenza di questa dinastia. Vi è infatti, un certo numero di vasi di bronzo, che differiscono molto da quelli contemporanei alle dinastie successive non solo per la forma e per la decorazione, ma specialmente per le loro iscrizioni; poiché prescindendo dalla differenza esteriore di tali scritti, le ultime presentano un sistema di denominazione (secondo il giorno di nascita), che non ricompare più tardi, ma in compenso è identico con quello dei re Shang, a noi conservato dalle notizie storiche del tempo e ci permette di assegnare una data al maggior numero di quei vasi. Essi perciò ci lasciano scoprire almeno come semistorico il tempo della loro fabbricazione e ci consentono pure uno sguardo alla cultura artistica di questo.

Le più recenti indagini sembrano indicare che l'ornamento geometrico dei tempi primitivi cede molto il campo alla decorazione animale, senza però esserne del tutto soppiantato. Lo stesso dicasi della forma animale primitiva del vaso; comincia intanto a mostrarsi timidamente un motivo nuovo, l'ornamento vegetale - cosa che è certamente un progresso, fatto però mantenendo e prendendo per base lo stadio piú antico. E questo può valere anche a proposito della cultura in genere. Oltre a discorsi pieni di saggezza di forse dubbia antichità, conservati (a quanto si vuole) come provenienti da questo periodo, lo Sciu-king contiene un documento notevole, attribuito certo ai chou, ma considerato a buon dritto dalla tradizione come un dono dell'ultimo rampollo degli Shang al primo re della nuova dinastia e perciò come un possesso di quella precedente.

Il donatore stesso, secondo lo Sciu king, lo designa quale una rivelazione divina al grande Yu e quindi come una specie d'integramento dello Yu-kung; ma un'opera, rimasta autorevolissima durante l'intero periodo degli Shang, sarebbe anche in questo caso una testimonianza delle idee di quel tempo.
Si può supporre che ad esso dovesse ancora la sua origine. Questo cosiddetto "grande piano" (kung fan) è in altre parole un tentativo di ridurre a sistema tutta la fede, il pensiero e il sapere di quell'epoca e di collegare questo sistema col mantenimento dello Stato.
Accanto alla scienza naturale con i suoi cinque elementi (acqua, fuoco, legno, metallo e terra), che qui indicano propriamente le cose concrete necessarie alla vita, ma lasciano già presentire il loro sviluppo ulteriore nelle potenze cosmiche, creatrici di tutto in un loro ciclo eterno; accanto all'astronomia, all'astrologia e alla fisica, i fenomeni delle quali sono posti in relazione col carattere e con le disposizioni degli uomini, quasi al modo delle più recenti previsioni dei calendari, noi vi troviamo l'economia politica, la religione e l'etica - e in questa la dottrina intorno al potere del buon esempio e, come accenno, quella della bontà originaria della natura umana.

Ora tutto questo è subordinato al concetto dello Stato e viene considerato come un mezzo per il benessere di questo, il cui amore deve il principe tenere in gran conto, cercando specialmente di raggiungere egli stesso la più alta perfezione.
Questo credo etico-filosofico-politico, questa antichissima morale di Stato in veste di uno « speculum » per il principe, in complesso è fatto della stessa materia, che ricompare in ogni sistema religioso o morale dei tempi posteriori, ma che è qui trattata per lo più in modo così straordinariamente semplice, così puerilmente ingenuo, che si crede quasi di vederla sgorgare dalle considerazioni dell'uomo primitivo sulla natura; in certo modo sono delle regole contadine, convertite in filosofia.
"Se questa originalità primitiva del ragionamento distingue il trattato da tutti i suoi simili più recenti, d'altra parte (a parere di A. Conradi) sta troppo vicino ad essi, per potere essere respinto in una più remota preistoria; si potrà perciò accordargli piuttosto una posizione media fra il periodo degli Hsia e quello dei chou, essendo esso differente per la materia ed anche per lo schematismo numerico dei «Consigli», che trattano un soggetto simile e sono attribuiti ai tempi di Yü.

Se poi i re della dinastia Shang non hanno pensato ad approfittare di quella sapienza o non vi sono riusciti, se non poterono stornare il destino che li attendeva, dal secolo XIV a.C. le nubi cominciarono ad addensarsi sopra di loro, e sull'orizzonte occidentale guizzarono i primi baleni dell'uragano, che si avvicinava.
Già intorno al 1400 a.C. , forse a causa di forti movimenti barbarici nel nord-ovest dello Sciansi, Pan-keng fu costretto a trasferire la capitale dal confine occidentale dello Sciansi a mezzogiorno dell'Huang-ho, nella posizione ben protetta di Yin (Yen-sci, Honan), dalla quale in seguito fu denominata la dinastia, e questo pare abbia importato un breve sollievo per essa e per l'impero.
Ma forse quello stesso movimento, ad ogni modo una pressione, che proveniva da quella regione, pochi decenni più tardi (1327 a.C.) costrinse Tan-fu, discendente del Liu, già da noi ricordato, a spostare la sua tenda ancora di un tratto verso la Cina centrale: «fino ai paesi inferiori del monte Ki, venne con Kiang e con le mogli, per stabilirsi qui con loro»; qui, nella pianura di Ciou, che è la chiave dello Scensi orientale e quindi della Cina, rinunziò ai costumi degli Jung (barbari), scacciò i selvaggi indigeni e indusse il suo popolo a stabilirsi in una sede fissa.

Con questo la nuova stirpe dei Chou entrò nella piena zona luminosa della civiltà cinese, ed allora cominciò il gioco, ripetutosi in seguito così spesso, e che è probabilmente così antico come lo Stato incivilito cinese: il vicino barbaro è domato e reso civile dalla cultura superiore, che lo costringe - lui più debole - ad uno stato di dipendenza, facendolo suo vassallo; ma nello stesso tempo quella cultura gli presta le armi, con le quali esso estende la sua potenza e la sua giovane civiltà sui suoi più rozzi vicini, finché abbastanza rafforzato e spinto anche dalle masse, che stanno dietro di lui e che ne sono irresistibilmente attratte, irrompe con un fiero assalto contro la sua dominatrice.
Così avvenne allora. Che i chou, escludendo forse la loro casa principesca, siano stati dei barbari, lo lascia più che supporre, fra le altre cose, la loro leggenda nazionale; inoltre recentemente l'Hirth ha dimostrato probabile perfino la loro origine turca dal loro nome di «spada corta», al quale forse poteva essere aggiunto il nome personale « Kilik ».
È notevole del resto anche la loro antica ed intima relazione con la tribù dei Kiang, la quale chiaramente è collegata con l'antico popolo nomade del medesimo nome, che fu il ceppo dal quale derivarono i Tibetani (?); questa relazione rese forse possibile a chou fino il suo primo stabilirsi nello Scensi, sposando un'ereditiera.

Nel frattempo il suo tempo non era ancora venuto; anzi la dinastia Yin sotto Uu-ting (1324-1266) appare ancora così rafforzata, da essere in grado di arrischiare, a quanto si dice, una spedizione contro i selvaggi Tsù e una guerra vittoriosa, che forse fu un contraccolpo, nel «paese dei diavoli» (Kui-fang), che si è soliti collocare a nord o a nord ovest. Ma da quel tempo le cose andarono peggiorando irrimediabilmente, finché Chou-sin, principe (a quel che pare) di egregie doti, ma senza volontà perchè schiavo della sua favorita Thâ hi, le spinse all'estremo con la sua stolta prodigalità, dissipando in orgie dissolute le ricchezze spremute ai suoi sudditi, oltre che con la sua avidità e la crudeltà selvaggia.
Il popolo cominciò a mormorare, probabilmente apparvero delle società segrete - di fronte alle quali, siccome da «eretiche amicizie», il «grande piano», certo per esperienza, metteva in guardia il sovrano; i vassalli fecero defezione a centinaia e «cercarono rifugio», come suona la frase corrente e che certo nasconde vari intrighi di alto tradimento, presso i chou, comandati allora dall'energico Fah.

Questi nel 1122 (o 1027) col suo esercito, rinforzato da tribù barbare del sud-ovest, fece una definitiva irruzione nel territorio della Corona; Chou sin, battuto a Muhye, fuggì nella sua capitale e vi si diede la morte, quasi come Sardanapalo; ben presto la sua testa e quella della favorita, mozzate dallo stesso vincitore; i trionfatori mirarono il regno perduto, che fu ripartito fra i fratelli e i fedeli del nuovo re.
Così la Cina per la prima volta, fin dove ci è dato vedere con una certa chiarezza, rimase preda di una stirpe non affine; per la prima volta cadde nelle mani di Barbari e sotto questi auspici, abbastanza profetici, entrò nella storia autenticata da documenti. Si potrebbe credere che questo sia stato il segnale del suo imbarbarimento. Ma similmente a quello che avvenne in seguito sotto i Mongoli e i Manciù, pare che anche allora avvenne proprio il contrario: i conquistatori, non solo dal lato spirituale ma arche da quella materiale, furono assorbiti dal popolo di civiltà più antica, furono soggiogati e divennero forse dei Cinesi reazionari, ossia più realisti del re.

Questa era certo accortezza politica ed essi, quali uomini nuovi, non erano ancora abbastanza autorevoli per poter esser liberali; inoltre nell'antica patria si erano già a metà trasformati in Cinesi, anzi, se il bizzarro «libro delle trasformazioni» (Yih-king), il cui enigmatico Esagramma, residuo stilizzato della scrittura annodata (?), si vuole provvisto di testo dal padre di Fah, se questo Yih king è effettivamente il manuale della morale di Stato, esposta in motti pungenti - come fu interpretato - la civiltà presa a prestito dai chou sarebbe caduta sopra un terreno fertilissimo.
Difatti, se noi non conosciamo molti particolari che siano sicuramente antichi, non solamente il libro corrisponde affatto con questo poco, ma ne è soprattutto l'immagine complessiva, ne rende l'impressione totale. Questo vale anche per la rimanente eredità letteraria del primo periodo dei chou, tanto che - non del tutto a torto - questo fu incolpato addirittura di avere rimaneggiato almeno le parti più antiche dello Sciu-king, che in quelle è così ricco da poterci dare un'idea chiara, un'immagine coerente delle condizioni della cultura in quel periodo.

La seconda metà dello Sciu-kìng e lo Sci-king ci danno quell'idea e quell'immagine piuttosto rispetto alle condizioni generali e di fatto. Il chou-lì abbozzato (a mio parere) nella parte essenziale da chou kung, il nobile fratello dì Fah; -il suo gigantesco esercito di funzionari, secondo la nostra esperienza sui popoli allo stato di natura, potrebbe essere appena addotto come un argomento contrario -, e lo Ngi-li, alquanto piú recente, ma che sembra pure avere le sue radici in quel tempo più antico, c'informano del li, ossia della religione, delle convenienze, del rituale o di tutto ciò, che può esprimere quella parola intraducibile, la quale in una sillaba congiunge tutto quello che dà un materiale etico alla vita cinese.

Non vi appartiene infatti solamente ciò che è religioso e morale, ciò che costituisce un tenore di vita virtuosa, ma anche l'adempimento di determinate forme stabilite, la cortesia verso gli uomini del proprio tempo, cioè il cerimoniale, l'etichetta e inoltre la cortesia verso il mondo degli spiriti, cioè il rituale. In questo ultimo probabilmente è il punto di partenza di un fenomeno così caratteristico del Cinese; l'intero sistema cerimoniale sembra risalire all'antico animismo, al timore della legione di spiriti, che ne circonda da ogni parte, che si deve pacificare con una costante venerazione, con uno scrupoloso adempimento di ciò che ad essi è dovuto.
Questa delicatezza è per la sua origine un prodotto del timore e in ultima analisi è della medesima famiglia della fede - «deos fecit timor». Ma certamente la disposizione naturale di questo popolo, attaccato alla vita, e il suo desiderio di ordine e di esteriorità hanno contribuito a svolgere le cose in un simile modo. L'adempimento della forma ha, a dire il vero, da un certo punto di vista uno scopo morale, cioè di regolare il cuore e le passioni; questo non ha però potuto impedire che esso fosse preso per la sostanza e che così l'idea della moralità sì sia confusa con quella dell'usanza e della convenienza.

Ma poiché esso è concepito sempre e dovunque in relazione con lo Stato, che per il Cinese era addirittura un'idea religiosa, tanto meno ci può far meraviglia il vedere in questi due manuali di morale pratica accentuato appunto questo lato, essendo essi scritti soltanto per le classi superiori; in realtà il chou-li è una costituzione idealistica dello Stato sulla base del « li », quale condotta irreprensibile, mentre l'altro da' precetti minuziosi per la vita familiare e ufficiale della gente per bene. Da questo complesso si può ottenere un'immagine, che qui deve essere tratteggiata a grandi linee.

Il fondamento di tutto l'edificio civile è appunto come prima cosa la famiglia, basata sull'autorità paterna, sul patriarcato. Prima scuola di vivere civile in Cina è sempre stata la famiglia o meglio una sorta di clan familiare osservando minuziosamente la gerarchia (e prima di tutto obbedienza ai più anziani). E dalla famiglia prese l'idea morale, grazie il cui aiuto fu innalzato l'intero edificio: la pietà (hiao), vale a dire la subordinazione riverente e affettuosa. Questa è dovuta nella sua forma più compiuta - fino alla rinunzia di ogni possesso e volontà propria - al padre, come al capo supremo della famiglia, indi alla madre, subordinata alla sua volta al marito da una simile relazione di pietà, e finalmente ai fratelli maggiori, come in genere ai membri più anziani della famiglia; il corrispettivo loro per questa pietà e una benevola sollecitudine, la seconda potenza morale dell'organizzazione familiare.
Da questo si scorge già che la moglie non e più la schiava di un tempo; anch'essa, rispettosa e rispettata, sta nel suo cerchio stabilito di doveri e di diritti. A dire il vero poco riguardo si usa alla giovinetta, ed anche la figlia del principe deve dormire sulla nuda terra, mentre il figlio riposa nel proprio letto. Ma senza la consorte non può compiersi il sacrificio agli antenati, - e quindi il matrimonio e una istituzione fondamentale dello Stato - ; mentre il marito domina al di fuori, la moglie comanda nella casa, e già nel tempo antico comandava talora anche a suo marito e signore; nello Sciu-king troviamo l'esempio di un regale marito ligio alla moglie.
Ancora di più era onorata la madre e presso gli antichi chou - forse come reazione del matriarcato, superato solo da poco tempo - troviamo perfino tracce di un culto ufficiale della madre, come anche di una situazione ancora piú libera e senz'altro di piena uguaglianza della moglie; ancora nel X secolo una di esse ottenne perfino l'ufficio di ministro.

Siccome lo Stato è solo una famiglia più ampia, anche per esso valgono i medesimi rapporti: il principe occupa il posto del padre, i funzionari quello dei figli maggiori ; questi rapporti sono poi estesi anche all'impero, poiché i principi con i loro funzionari di fronte al re, considerato quale padre, passano nella situazione dei figli maggiori e il popolo, considerato come un fanciullo minorenne, in quella dei figli minori.
Il sistema religioso è infine soltanto una proiezione della famiglia e dell'impero; come il Lichtenberg osserva con ragione se "Dio creò l'uomo a sua immagine" i cinesi "crearono Dio a loro immagine". Con una moralità singolare che ha le radici delle virtù nelle regole nate e codificate prima di tutto nell'ambito della famiglia o clan famigliare prima ancora delle leggi di uno Stato. E come ha sintetizzato Marcel Granet "Nè Dio nè leggi".
Con questa non piccola differenza rispetto alla religione giudaico-cristiana: questa ci fa nascere e ci accompagna individualmente (ma anche nella stessa comunità piccola o grande che sia) con quella che viene definita "civiltà della colpa" il peccato originale (proprio una bella invenzione per dominarci fin dalla nascita!).
L'altra che non conosce nella sua psiche il tormento solitario della coscienza dovuto a norme trascendentali ha invece come radici soltanto le regole codificate dalla convinenza umana. Al suo interno il clan familiare sa cosa è il bene e cosa è il male, il o i più anziani sono dio e giudici nello stesso tempo ma su fatti reali, e non astratti, inventati.
Lo stimolo maggiore per mantenersi un clan familiare virtuoso è soprattutto quello di essere più virtuoso dei clan che gli stanno accanto. Potrebbe sembrare ipocrisia, invece è un sistema (per quanto rigido) che infonde sicurezza all'individuo sia all'interno del proprio gruppo familiare sia nei rapporti con gli altri gruppi.


Anche il cielo è soltanto una Cina nella quarta dimensione; i suoi dei sono distribuiti esattamente nella medesima maniera e nei medesimi rapporti di grado, come gli uomini nei gradi della società terrena, e dagli uomini sono venerati secondo il grado reciproco dell'uomo e del Dio.
È come una piramide, la cui base è formata dal culto degli antenati, praticato dal popolo, e il vertice dalla venerazione del re verso il cielo, che è pure in fondo un culto degli antenati anch'essa, poiché non senza ragione egli è chiamato «figlio del cielo».

Se però il sistema e lo svolgimento organico d'idee antichissime, andato di pari passo con lo svolgimento dello Stato che le rispecchia, esso è pur nobilitato dall'aver sostituito all'antico timore degli spiriti la convinzione che Dio e gli spiriti luminosi vogliono soltanto il bene - convinzione che lo solleva quasi all'altezza di una vera religione, come in varie preghiere dello Sciu-king.
Da questo risultò la fede nella bontà innata dell'uomo creato da Dio.

Con questa credenza in Dio non era però minimamente congiunta la speranza in una vita beata dopo la morte. Certo gli antenati dei re e dei principi erano talora immaginati nel cielo, «a destra ed a sinistra di Dio», ma la loro unica sollecitudine era pure rivolta al mondo, al benessere dei loro discendenti; essi erano soltanto uomini di questo mondo glorificati. E tale era, anche l'altissimo Iddio. Poiché se voleva il bene, se voleva in altri termini che l'uomo svolgesse al massimo grado la sua bontà congenita, ciò aveva l'unico scopo che l'uomo fosse felice in questo mondo e che contribuisse al progresso dello Stato.
(Bontà congenita, non nato nel peccato! quale differenza !!!)

A questo perciò toccava la principale sollecitudine. Si partiva dal principio che la bontà congenita della natura umana potesse essere offuscata soltanto da condizioni sfavorevoli di vita e in seconda linea dalla ignoranza. Quindi base fondamentale della sapienza di governo era il principio: "prima nutrisce il popolo, poi istruiscilo". Far questo era il dovere del principe e il mezzo più essenziale di educazione era il buon esempio dato da lui. Perciò se il popolo peccava, la colpa e la responsabilità cadeva sul principe, e quanto profondamente un nobile sovrano potesse sentire la gravità del suo ufficio lo attestano, fra le altre, le belle parole di Tang, conservate nello Sciu-king:
«A me ed a me solo fu concesso di dare quiete ai vostri Stati e alle vostre famiglie; ma io me ne sgomento e ne tremo, come se dovessi piombare in un profondo precipizio. Non voglio occultare il bene che e in voi e non voglio arrischiarmi a scusare il peggio, che e in me. Voglio fare questa ricerca d'accordo con la volontà di Dio. Se in voi si trova una colpa, deve questa pesare su di me; se una colpa si trova in me, non voglio scolparmi a carico vostro. Oh! siamo, giusti in tutte queste cose e saremo felici ! ».
(In occidente invece quando le cose vanno male (disgrazie, epidemie, terremoti, distruzioni, guerre ecc.) la colpa - dice il prete dal pulpito - è sempre del popolo, le sue disgrazie sono sempre una punizione divina, anche chi si è sempre comportato bene, perchè il peccato è universale e anche lui purtroppo deve pagare le colpe dei malvagi - Ma - si chiede questo - a cosa serve allora mirare alle virtù?).

Ad ogni modo questa antica organizzazione dello Stato cinese mostra dì avere una base del tutto idealistica.
È ora impossibile il rappresentare anche solo a grandi tratti il poderoso edificio innalzato su questa base e condotto a termine fino nei minimi particolari con pedanteria veramente cinese. Come dopo un'accurata misura e canalizzazione del paese -- poiché la classe agricola fu ed è ancora la base della Cina - si ripartisse la terra coltivabile in tanti gruppi di nove quadrati uguali con una fontana, ognuno dei quali gruppi era appunto quello tsing già ricordato con i suoi otto fittaioli ereditari, che dovevano coltivare in comune per il demanio il nono appezzamento mediano; come le rendite di questo fossero in parte impiegate per sopperire alle spese dello Stato e in parte accumulate sotto forma di sementi per gli anni dì carestia; come fosse regolato lo sfruttamento dei boschi e delle acque nel modo più opportuno e preciso, fino all'impianto di ghiacciaie, e ordinata la caccia, il pascolo, la pesca e l'allevamento dei bachi da seta; come si tracciasse attraverso il paese un sistema di vie e di strade, sulle quali il traffico commerciale potesse svolgersi, con posti di ristoro per i viaggiatori e come fosse promosso lo scambio delle merci con l'istituzione di mercati, regolati minuziosamente; come quella ripartizione del suolo servisse come base per la divisione amministrativa e per l'ordinamento militare, fondato sull'obbligo generale del servizio dal 15° al 65° anno; come si provvedesse alle scuole e alle università e ad ogni classe e ad ogni professione si assegnasse un campo d'azione circoscritto nettamente; - il descrivere tutto questo richiederebbe molto più spazio di quello che qui è concesso.

Era necessario per un ordinamento così grande un apparato di funzionari, suddiviso e ordinato minutamente secondo il grado, dai sindaci dei villaggi fino ai sei ministeri, sui quali stavano alla loro volta i tre consiglieri della Corona; tutte le fila si raccoglievano poi nelle mani del re, che governava l'impero, quale grande proprietario del suolo.
Governo dello Stato e culto non erano separati; come il re era ad un tempo sommo sacerdote, così i principi e poi i funzionari, ognuno nel suo distretto, soprintendevano ai sacrifici agli spiriti protettori di questo; i funzionari erano ad un tempo ufficiali dello Stato e maestri del popolo, che essi al mattino e alla sera, prima e dopo il lavoro, dovevano istruire nelle scuole e nei luoghi di riunione intorno alla religione, ai riti, ecc.; ogni padre di famiglia poteva poi a sua volta presiedere nella sua casa al culto degli antenati.
Con ragione questa si è chiamata una gerarchia di funzionari. Anche al divertimento del popolo si era provveduto; le grandi feste dei sacrifici e gli antichi tiri a segno con l'arco (la festa dei tiratori), che avevano luogo una volta all'anno, terminavno come un tempo con banchetti, presieduti dal podestà preposto al distretto.

Così nella Cina antica si governava molto e il popolo in realtà era trattato come minorenne; un funzionario consegnava per così dire ad un altro il contadino, che veniva al mercato e che rimetteva la decima dei frutti o denunciava la nascita di un figlio - e per questo erano tenuti accuratamente dei registri per il censimento della popolazione. Però il governo era saggio; le prestazioni di servizi - costruzione di strade, servizi di caccia o di guerra - non erano oppressive, almeno in tempi tranquilli, e i funzionari spesso erano quello che dovevano essere, cioè i padri del loro distretto. Il contadino e l'artigiano potevano così attendere tranquillamente ai loro affari e vivere comodamente e il commercio, l'industria e l'intera cultura potevano arrivare ad una grande prosperità.

In questo semplice contesto lo Sci-king distribuisce colori e luci. Nelle sue 300 canzoni, alle quali hanno contribuito tutte le classi sociali ed ambo i sessi, non solo ci dà un'immagine vivente della cultura materiale dal secolo XII fino al VII a. C., ma ci permette soprattutto di gettare uno sguardo profondo nel carattere e nel cuore degli uomini di quel tempo. L'intera gamma dei sentimenti risuona per esso davanti a noi, la felicità e le pene dell'amore, la millanteria, la facezia e lo scherno, lo scherzo e il motto, la rabbia, l'amarezza e il santo sdegno, tutte le note sono da esso toccate. Con meraviglia sotto l'aria indifferente del giallo volto mongolico vediamo spuntare lineamenti affini ai nostri e a noi simpatici, pieni di umanità genuina e di sentimento profondo, espresso sovente con commovente semplicità.
"Lutto e fedeltà di vedova".
* * «
Il ko cresce qui entro sopra il cespuglio, il convolvulo si avviticchia sempre nell'aperta campagna. Il mio diletto non è più; chi è ancora mio? io sono sola".
* *« Il cuscino per il capo, così bello e fino! così belli i ricami della coperta ! Il mio diletto non è più; chi e ancora mio? si fa giorno e sono sola".
* * «Il ko cresce vigorosamente coperto di spine, il convolvulo si avviticchia intorno alla tomba. Il mio diletto non è più. Chi e ancora mio? io me ne sto sola".
* * «Dopo molti giorni di estate, dopo molte notti d'inverno, certo dopo cento anni, io vado dove egli ora dimora".
* * «Dopo molte notti d'inverno, dopo molti giorni d'estate, certo dopo cento anni, io vado da lui nella sua cameretta".

oppure:
* * «Il sorbo ricco di ombra, egli non lo taglia, non lo spacca! Il padre di Sciao si è trattenuto presso di lui".
* * «Il sorbo ricco di ombra, egli non lo taglia, non gli fa alcun male! Il padre di Sciao si è riposato presso di lui".
* * «Il sorbo ricco di ombra, egli non lo taglia, non gli piega alcun ramo. Il padre di Sciao ha sostato presso di lui».

Canzoni simili - e ve ne sono non poche - parlano da se stesse. Abbastanza spesso bensì il sentimento appare meravigliosamente carico di arabeschi e l'insieme esprime una gran calma e una mancanza di fantasia, alla quale sia negato quasi del tutto il dono di concepire e di riprodurre plasticamente; - vi aleggia, in una parola, lo spirito del settentrione. E a questo si aggiunga ancora che una forte percentuale delle canzoni è di soggetto politico, si riferisce in qualche modo allo Stato - ne la cosa ci deve meravigliare, data l'importanza di questo per il Cinese, che in questo paese classico della tribù, col suo sistema patriarcale di governo si doveva naturalmente sentire molto più intimamente legato ai suoi interessi, ma appena atto ad esprimere con la parola il sentimento puro, libero da ogni ornamento esteriore.

Frattanto, seguendo l'interpretazione ortodossa cinese, la quale dal tempo dello stesso Confucio è stata maestro nel porre un senso recondito in simili relazioni profonde, si è, a mio parere, spinto troppo oltre il campo di questa poesia; ricercate così filologicamente - secondo la loro tecnica - come in paragone alle poesie della giovinezza di altri popoli, le canzoni dello Sci-king sembrano rivelarsi in grande parte come semplici canti popolari, abbastanza spesso cantati durante il lavoro in forma di dialogo, spesso come tintinnio ritmico di parole, destinato solo a battere il tempo.
E in parecchi di quei canti di lavoratori nel senso più largo della parola - canti per la messe, per il sacrificio, per la guerra; - che erano, a quanto pare, cantati da un coro, da un anticoro e da solisti e accompagnati da pantomime corrispondenti, noi ci troviamo dinanzi (come fu già ricordato) a drammi embrionali e possiamo anche in questo caso fare risalire a canti di lavoratori i primordi di questa forma di poesia.
Vi è quindi in questa poesia un lineamento primitivo e quasi originario, che spicca anche nella sua forma e nella sua tecnica, la quale si giova di un insieme inalterabile di versi fissi, che per lo più si ricollegano ad un fatto naturale, intrecciando con leggere variazioni e a modo di ritornello intorno alle strofe quei versi od altri simili, formati liberamente.

La poesia presenta quindi il medesimo carattere delle arti figurative di quel tempo. Queste difatti, per quanto possiamo vedere, seguono il medesimo principio della ripetizione ritmica dell'ornamento, mentre sono ancora lungi dalla rappresentazione figurata, almeno come fine a se stessa.
Questa civiltà, genuina personificazione dello spirito della Cina settentrionale, quale fu in parte fissata sistematicamente nei suoi contorni fondamentali, e rimasta non solo nel periodo dei chou, ma per l'intero avvenire il modello, la civiltà ideale, che fu sempre nuovamente sviluppata, corretta e ampliata, che si è sempre tentato nuovamente di riuscire ad attuare; è la cultura ideale del confucianesimo.

Non è certo un umile ideale ! Eppure non fu abbastanza valido per assicurare anche solo per pochi secoli al nuovo edificio politico la pace interna e uno svolgimento prospero e tranquillo. Questo risultato ebbe poi in fondo una ragione meccanica. Poiché come il campo dello Stato era circondato dai fondi dei suoi otto affittuari, così anche la provincia, dominio diretto della dinastia e base reale della sua potenza, quasi cuore del paese, era stretta attorno dalle otto province rimanenti, date in feudo ai grandi vassalli. Se un tempo era stata dieci volte maggiore di uno degli Stati vassalli, questo rapporto doveva presto invertirsi, spostandosi con questo il centro di gravità. Poiché mentre il territorio regale non era suscettibile di alcun ingrandimento, le province di confine nel compiere la missione di civiltà della Cina si estendevano continuamente a spese delle tribù vicine semibarbare.

Il pericolo per la dinastia inerente a questa condizione di cose avrebbe potuto certo esser previsto nella costituzione della dinastia dei chou, giunti al trono appunto per quella via al pari dei loro stessi predecessori. Invece quella costituzione non assicurava al re nemmeno un sufficiente potere sopra i principi, essendo fondata sulla teoria che il sentimento spontaneo di sommissione all'autorità e il rispetto dell'antico costume - in poche parole l'innata bontà dell'uomo - fossero sufficienti sostegni del trono.
Questo era un nobile pensiero, ma del tutto impolitico e la punizione non si fece attendere. Fu poi un'ironia amara della storia rispetto a questo sistema l'avere essa chiamato a compier l'ufficio di carnefice della dinastia appunto quella famiglia di principi, che avrebbe dovuto esserle vincolata non solo dai legami religiosi, ma da un debito di gratitudine particolare per esserne stata innalzata da umili origini a un grado così elevato.

Il principio della fine della dinastia dei chou fu che i possessori dei grandi feudi, che si andavano continuamente accrescendo, cominciarono ad emanciparsi sempre più dai legami feudali.
La loro posizione era sempre stata discretamente indipendente; ora poi usurparono a poco a poco anche i diritti riservati alla Corona: la giustizia e la legislazione spettanti a questa, la determinazione dei riti, ecc. Soltanto alcune formalità esteriori di cortesia erano da loro adempite verso il re; erano del resto sovrani ed alla fine del secolo VIII a.C. alcuni di loro assunsero già il titolo regale. Quello che fecero i grandi, lo tentarono anche i piccoli. Si dichiararono liberi dal vincolo feudale e con ogni mezzo si adoperarono per accrescere la potenza della loro casa, per potere poi presentarsi quali competitori alla corona.
Difatti le cose volgevano già a questo; in realtà soltanto la gelosia reciproca dei grandi Stati impedì che la dinastia dei chou fosse rovesciata fin dal secolo VIII. Si era in uno stato di piena anarchia. Da principio si
tentò ancora di fronteggiarla e le province si unirono insieme in una grande lega, per cui la Cina da Stato feudale si mutò in una confederazione di Stati.
Questi del tutto indipendenti per gli affari interni, regolarono quelli comuni in congressi periodici; la presidenza e il potere esecutivo non furono naturalmente esercitati dal re, ridotto a un semplice fantoccio, ma da uno dei principi sotto la sua supremazia nominale.
Con questo si era nuovamente creato un potere supremo di fatto, ma la situazione riuscí di poco migliore. Difatti il principe, che temporaneamente aveva la presidenza, si valeva di questa sua carica di maggiordomo principalmente per accrescere il suo regno a spese dei più deboli.

E cosí questo periodo preparò soltanto la fase successiva ed ultima di questa evoluzione, cioè la lotta aperta per l'egemonia fra i principati, che in simile modo si erano fatti grandi. Essa cominciò al principio del secolo VI a.C., - che del resto vide anche il tentativo fallito di una lega della pace -, dopo il governo di cinque dei così detti « tiranni ». I due ultimi erano stati i re dello Tsín e dello Tsú; fra i loro successori si venne finalmente nel secolo III a.C. ad una lotta decisiva per il possesso della corona.
Era uno svolgimento del tutto naturale e che non poteva essere trattenuto dall'abilità di un solo uomo. Ma forse il suo corso sarebbe stato più mite, piú moderato, meno terribile, se sul trono regale fossero stati almeno seduti dei sovrani degni, modelli veri di vita principesca. Ma fin dal secolo X la dinastia dei Chou era fradicia fino all'osso ; quasi senza eccezione essi furono o tiranni crudeli e sanguinari, che non indietreggiavano dinanzi ad alcun eccesso o più spesso miserabili ed effeminati, servi di ogni lascivia, sprofondati nella vita voluttuosa degli « harem », guidati da favorite e da eunuchi, - si crede spesso di leggere una descrizione di Tacito nella "sua" (e solo sua) scellerata Roma. E così la decadenza fu affrettata dall'alto in basso.

Devono essere stati giorni ben calamitosi per la Cina. Continue guerre imperversavano nel paese; oggi l'esercito del feudatario muoveva attraverso la campagna, che domani sarebbe calpestata dai cavalli del piccolo gentiluomo, in conflitto col suo vicino; il giorno dopo forse il principe confinante irrompeva nel paese, mettendolo a ferro e fuoco, uccideva quanti nomini o vecchi erano ancora rimasti nei villaggi e traeva via in catene come schiavi le donne e i bambini dalle rovine fumanti delle loro case e dai templi posti a sacco, mentre i loro mariti e i loro fratelli erano tenuti lontani in servizi di guerra o come soldati stavano in campo contro lo Stato vicino, contro i barbari del sud-est, contro gli Hienn-yün (Unni), poiché non vi erano allora eserciti stanziali.
Si mancava anche di lavoratori e sui campi desolati crescevano alte le male erbe. Dove poi la semina aveva prosperato, era abbastanza spesso distrutta da una delle inondazioni, dalle quali la Cina settentrionale è tribolata e che erano allora più frequenti, perché ogni Stato senza riguardo agli altri regolava i suoi corsi d'acqua e convogliava a valle nello Stato vicino le acque eccedenti.

Sopraggiunsero gravi carestie e se queste un tempo si erano combattute trasportando i cereali nelle regioni colpite da quelle rimaste immuni, mancò in parte o del tutto questo rimedio per essersi arrestati il commercio e il traffico. Questo si arretrava dinanzi alle gabelle, riscosse da ogni minimo staterello sui bagagli e sulle merci, e non ci si arrischiava più sulle strade, percorse soltanto da ladroni, oltre che dagli eserciti in marcia.

Su quello, che la guerra e la carestia non divoravano, ci metteva la mano il principe. La sua avidità era quasi insaziabile, quasi esorbitanti erano le imposte; non solo il principe nel suo territorio e nemmeno il re soltanto, ma bensì il principe vicino con vari pretesti imponeva spesso altre decime. Furono chiusi al popolo sotto pena di morte i parchi principeschi, le foreste demaniali, di cui gli era stato prima concesso il godimento; le pubbliche provviste di cereali, messe da parte per gli anni di carestia, e cedute un tempo a buon mercato - furono allora adoperate dal principe a scopo di speculazione e di usura. Tuttavia le entrate così accresciute servivano in minima parte a coprire le spese della guerra e dello Stato; soprattutto dovevano esse provvedere al lusso incredibile dei principi; in palazzi fastosi, in piaceri, in favorite e in banchetti vi dissipava quello che il popolo affamato risparmiava a furia di stenti. Qui una vita raffinatissima, là cenci e miserie. E i funzionari gareggiavano col signore nelle estorsioni.

Peggiore di tutto era poi la piena decadenza del diritto e del costume. Non vi era più alcuna autorità che fosse obbedita, nessun vincolo che fosse sacro; degli innocenti perivano per mano del carnefice, l'omicida e il ladro occupavano sfacciatamente gli uffici pubblici; l'adulterio, l'incesto e l'uccisione dei consanguinei erano fatti quasi di ogni giorno. «Il mondo cominciò a sconnettersi - lamenta Mencio - e la legge e il diritto furono calpestati. Empi discorsi e azioni atroci avevano il sopravvento. Il figlio uccideva il padre e si versò il sangue anche del supremo reggitore».

Non vi era perciò da meravigliarsi se il popolo era dovunque in fermento, se esso «era malcontento ed offeso e se uomini e donne maledicevano i loro oppressori», come è detto in un altro passo.
" Soltanto i più pazienti, postosi sulle spalle il loro ultimo avere, cioè il vomere, lanciavano indietro una arrabbiata maledizione e se ne andavano nello Stato vicino per vedere se là arridesse loro una sorte migliore; molti però affluivano ad ingrossare le bande di ladroni e qua e là si alzavano perfino incendi di grandi sollevazioni".

"Un acerbo malcontento, un profondo disagio serpeggiava anche tra le classi superiori. In parecchi si rafforzava il terrore di una fine imminente del mondo. E il cielo ne mandava anche i segni : stormi di cavallette, eclissi di sole, folgori singolari. Altri d'indole più grossolana senza darsi pensiero del futuro si abbandonavano interamente ai godimenti della giornata, mentre molti, e non i peggiori, si allontanavano dal movimento mondano, nauseati dalla vacuità e dalla superficialità dei suoi costumi, ricercando la solitudine monastica. In tutti però sopravviveva un altro sentimento; come nei tempi peggiori del sacro impero romano e germanico sorse nel popolo la leggenda dell'imperatore, addormentato sulla montagna, che un giorno verrebbe nella sua maestà ad unificare l'impero, così anche nella Cina si volgeva lo sguardo dì nuovo alla felicità degli antichi tempi e nel popolo si agitava il profondo desiderio di un imperatore, che riconducesse la pace".

Però il tempo non era ancora maturo per questo; e come la reazione contro i turbamenti e le agitazioni dell'epoca, ebbe origine nell'impero romano una nuova religione, il cristianesimo, così nella Cina la forte tensione degli animi fece nascere del tutto naturalmente una serie di sistemi filosofici, - poiché per il Cinese la filosofia e specialmente la filosofia morale è l'equivalente della religione.
Sorsero così innanzitutto grandi pensatori, che ardenti di sollecitudine per l'avvenire dello Stato o commiserando di cuore il popolo tormentato cercarono di additare una via di salvezza. I primi e ad ogni modo i maggiori tra essi sono Confucio e Lao-tze, per tacere di Kuang-tze, una specie di Machiavelli cinese. -
Confucio o Khung-Khiu, come propriamente si chiama, - poiché la forma Confucio è quella di Khung-fu-tze, «l'alto funzionario e filosofo Khung», latinizzata per opera dei missionari gesuiti del secolo XVI.

CONFUCIO

Confucio dunque, discendente dall'antica dinastia degli Sciang, nacque nel 551 a. C. a Tsou nello Sciantung occidentale. Fin da fanciullo si segnalava per il suo carattere posato e propenso al formalismo e di lui si narra un tratto caratteristico che cioè il suo balocco prediletto sia stato un corredo di piccoli arredi da sacrificio. Entrato a venti anni al servizio dello Stato e avendo poi presto rinunciato ai piccoli posti, che non potevano soddisfarlo, si diede ad esporre la morale e le dottrine degli antichi ad un circolo sempre crescente dei suoi discepoli. Fu poi nominato dal suo principe prima governatore di una città e infine ministro della giustizia; in questi uffici svolse un'attività così benefica «da divenire l'idolo del popolo, mentre il suo elogio andava di bocca in bocca in ogni angolo di questo».

Rovesciato poi per gl'intrighi di un principe vicino, di lui invidioso, depose a 57 anni il suo ufficio e si dedicò fino alla sua morte (nel 478) all'insegnamento e alla redazione dei libri sacri della sua nazione.

Questa vita ci mostra già la sua predisposizione naturale; egli fu un uomo di Stato e non un filosofo uso a lambiccarsi il cervello; non elaborò alcuna teoria, alcun sistema delle sue dottrine, che noi dobbiamo mettere insieme dalle opere redatte dai suoi discepoli, in parte con le sue proprie espressioni. La sua professione di fede si può da quelle rapidamente avvicinarsi nel modo seguente.
Il fondamento del benessere della società (cioè di quella cinese) sta nella massima perfezione possibile raggiunta dai singoli e in modo specialissimo dal principe. La riforma della società deve quindi cominciare da quella dell'individuo.
"Un tempo, nelle antiche età della Cina - alle quali Confucio rivolge indietro lo sguardo appassionato - vi furono re e saggi perfetti per natura, i così detti «santi». Ora non ve ne sono più, - anche se forse ricompariranno prima o poi -, ma è possibile avvicinarsi alla loro condizione e perfezionare se stessi fino a divenire uomini ideali; questo possono farlo tutti, perché l'uomo è buono di sua natura. Le virtù fondamentali dell'uomo ideale sono la rettitudine e la sincerità. Nel «santo» sono innate; gli altri se le acquistano con uno studio assiduo ed esteso di ciò che è buono. Una volta che quelle siano acquistate, ne derivano da se stesse le tre virtù generali : scienza, umanità (cioè fedeltà al dovere e valore; e quali basi di un perfezionamento sempre maggiore si presentano l'amore dell'apprendere, l'esercizio assiduo dell'umanità, la fermezza del carattere, la pratica di vergognarsi del male. Se si aggiungono quali complementi necessari il rispetto alla legge e il buon costume (il decoro), l'uomo-modello è compiuto".

L'espressione tecnica per designarlo è kung-tze ossia « figlio di re », che noi tradurremo forse meglio con la parola inglese « gentleman ». Poiché anche Confucio, al pari degli Inglesi ed anche in grado maggiore, esige dal suo uomo esemplare oltre alla perfezione etica anche la padronanza compiuta delle forme esteriori. Egli dice espressamente che "la decenza e il cerimoniale vengono soltanto in seconda linea e non devono essere fine a se stesse" . Ma questo ci lascia qualche dubbio, quando egli ci propone come ideale del principe il «perfezionamento di se stesso con la più sollecita attenzione all'abbigliamento, regolando nel modo più scrupoloso ogni movimento secondo il cerimoniale».

Confucio stesso era del resto su queste cose "esteriori" un pedante senza pari; un capitolo intero dei suoi «Colloqui» è occupato dalla descrizione di infiniti dettagli dell'etichetta, di cui circondava ogni sua azione.
Ora questo perfezionamento personale non si deve conquistare minimamente per se stesso, ma invece - e questo è l'essenziale della sua dottrina - perché soltanto così di
veniamo capaci di compiere giustamente i cinque doveri fondamentali, che ci spettano come uomini e come cittadini:
* la riverenza verso i genitori; * quella verso i superiori; * quella verso i principi; * i doveri verso gli amici; * i doveri verso la moglie.

Se il loro adempimento è generale, e lo sarà se il principe precede gli altri col suo buon esempio, viene così stabilita la base per l'armonia, la tranquillità e l'elevazione di tutto il regno.
Principale occupazione far regnare l'ordine all'interno dello Stato educando i cittadini a una vista virtuosa.

Lo Stato quindi, e solamente lo Stato, era lo scopo finale della sua dottrina. Nessun errore è maggiore di quello, per cui vien considerato come il fondatore di una religione. Della religione, - così nel nostro significato della parola come in quello cinese - Confucio ha parlato pochissimo, anzi ha evitato a quanto pare volentieri di dire la sua opinione su questa come su altre questioni speculative.

« Tu non comprendi la vita, come vorresti conoscere la morte? » rispose Confucio a un discepolo, che lo interrogava sul nostro stato dopo di essa.
Non bisogna però immaginarselo come un uomo irreligioso ! Anche in questo era un cinese ortodosso; credeva agli spiriti e ad una provvidenza divina, anzi si stimava uno strumento eletto di questa e posto sotto la sua speciale protezione; questo espresse una volta che gli si tendevano insidie:
«Dopo la morte del re Uen la causa della verità non fu a me commessa? Se il Cielo avesse voluto lasciarla perire, sarebbe stata confidata a me, che sono pure mortale? Ma poiché il Cielo non vuole lasciar perire la causa della verità, come possono nuocermi gli uomini di Kuang? » (del suo persecutore).

Se egli evitava di addentrarsi di più in questo argomento, questo avveniva in parte perché il parlarne non corrispondeva ai suoi scopi pratici e politici e forse anche alla sua disposizione naturale e in parte perché esso era pure un elemento evidente della sua idea fondamentale. Infatti la sua intera dottrina non è in realtà nulla di nuovo, ma un riassunto di ciò che era stato vissuto e usato già lungo tempo prima e specialmente nel primo periodo dei chou, - ad ogni modo una scelta molto rispettosa di quanto vi era di meglio (di quella famiglia clan di cui abbiamo parlato sopra, "nè dio nè leggi")

Nell'accentuare la riverenza come base di ogni relazione, nel mettere fortemente in rilievo il cerimoniale - spingendosi fino alle minuzie, egli si appoggiava alla tradizione.
Così in complesso anche nella sua etica. Molte delle sue sentenze più belle ricordano dei pensieri dei «libri santi» ; p. e.:

---- «La virtù non rimane sola, ma si acquista dei vicini».
---- «L'uomo saggio e il virtuoso non cercano di vivere, se ciò deve avvenire a costo della loro virtù».
---- «Stima quali beni sommi la fedeltà e la rettitudine !».
---- «Aver dei difetti e non cercare di lasciarli, questo si chiama veramente avere un difetto»;
---- «Vedere quello che è giusto e non farlo è viltà
».
---- «Non è grave se gli uomini non ti conoscono, è grave se tu non conosci gli uomini».
---- «Non ho mai conosciuto un uomo che vedendo i propri errori ne sapesse dar la colpa a se stesso».
---- «Non preoccuparti del fatto che la gente non ti conosce. Preoccupati piuttosto del fatto che forse non meriti di essere conosciuto».
---- «Ciò che non vuoi sia fatto a te stesso non farlo agli altri».
---- «Imparare senza pensare è fatica perduta; pensare senza imparare è pericoloso».
---- «Si può indurre il popolo a seguire una causa, ma non far sì che la capisca».
---- «L'uomo superiore vuole arrivare a un certo punto portarvi anche gli altri. Poichè vuol capire di far sì che anche gli altri capiscano. Questa è la forza della superiorità: trovare l'esempio in se stessi».
---- «Quel che cerca l'uomo superiore è in lui stesso; quel che cerca l'uomo dappoco è negli altri».
---- «Allontanarsi dal mondo, restare sconosciuti e non avere rimpianti: a questo può arrivare solo l'uomo superiore».
---- «Belle parole e un aspetto insinuante sono raramente associati con l'autentica virtù».
T
utte queste sono nuove forme di antichi pensieri cinesi.

In parecchi punti, a dire il vero, egli ha ampliato la cerchia del suo pensiero e posto più in alto le sue mire. Così esige l'educazione ed un continuo esame di sè stessi:
---- «chi molto chiede a sè stesso e poco agli altri», egli dice, «sarà esente da disgusti», e «se tu vedi, uomini degni cerca d'imitarli; se vedi uomini di carattere opposto al tuo, raccogliti in te stesso ed esaminati».

Al principe Ji Kangzi che gli chiedeva consiglio sul suo paese infestato dai ladri, Confucio fu lapidario " Se non foste voi stesso così avido, quelli non ruberebbero nemmeno a pagarli".
"Per governare, c'è forse bisogno di uccidere?"
"Che cosa significa governare? Essere da esempio, da esempio sul lavoro. Non stancarsi mai.... Il sovrano deve incarnare la rettitudine"
Il popolo è tanto? bisogna farlo prosperare! E dopo che sono prosperi cosa si può ancora dare loro? l'Educazione".

A Confucio è sempre premuto che qualsiasi regola morale fosse rispettata in primo luogo dai capi e dai principi. Un altro suo celebre detto suona così:
« Se il principe è retto, il popolo fa il suo dovere, anche senza che nessun ordine sia stato emanato; quando invece egli stesso non è retto, anche se emana tutti gli ordini che vuole non sarà mai ubbidito ».

Ha poi approfondito il concetto di amicizia, che fino dal tempo antico ha rappresentato in Cina una parte così grande. Egli dà questo precetto:
«non avere amici, che non ti siano pari! ».

Questo sembra egoismo e in un certo senso anche lo è, ma è quell'egoismo elevato, che cerca la propria perfezione - come accade nell'amore, che da una Francese piena di spirito fu chiamato «l'egoismo in due».

È nuovo infine anche il precetto della reciprocità, della quale Confucio dice che a lato della rettitudine è l'elemento che pervade tutta la sua dottrina riassumendola; la regola è quella già citata sopra «non fare agli altri quello che non desideri per te stesso ! ».
È questa la forma negativa del precetto
aureo del nuovo Testamento (Vangeli); ed è forse la maggior cosa che Confucio abbia ideato (500 anni prima di Cristo). Se pure soffre di una certa limitazione, - poiché vale solo per le cinque relazioni sociali già ricordate, - questo non può diminuire il suo merito; mostra tuttavia come tutte queste innovazioni, germogliate organicamente sull'antico sistema, non oltrepassando i suoi confini. E Confucio ha ben ragione, quando riassume tutta la sua attività in queste parole : « io tramando e non creo ».

Ma questa è appunto la ragione principale del buon successo incomparabile, che ha avuto la sua dottrina. Per quanto fosse allora imbarbarito o dimenticato, il sistema, che egli rinnovava, aveva da più di mezzo millennio messo tutte le sue radici nell'anima cinese, anzi era il prodotto più caratteristico di quest'anima, e mi si passi la parola, la sua stessa proiezione.

Un'altra ragione fu la sua personalità. Se possiamo credere al giudizio dei suoi discepoli l'impressione, che faceva il suo contegno, deve essere stata straordinaria. Vi può essere in ciò qualche esagerazione. Ma, come ce lo figuriamo dalle sue stesse espressioni, col suo contegno grave e dignitoso, il suo umore asciutto, la sua propensione all'etichetta e sopra tutto con la sua assennatezza calma e pratica, il suo attaccamento (per così dire) alle cose di questo mondo, abbiamo in lui l'immagine del Cinese puro sangue, del Cinese settentrionale della più bell'acqua.

Egli, il «re senza corona», come l'hanno chiamato i Cinesi, era la personificazione più completa del genuino carattere popolare cinese, quali furono Lutero e Bismarck per quello tedesco. E come egli non avrebbe potuto per questo costituire alcun sistema di educazione se non quello dell'antica Cina, così la sua personalità giovò a stabilirne l'efficacia.

Tuttavia non ebbe subito un generale buon successo: per quasi 300 anni la sua dottrina fu praticata soltanto dalla sua scuola, prima di essere riconosciuta come religione dello Stato. La ragione di ciò pare non debba cercarsi soltanto nei turbamenti politici. La dottrina di Confucio era in fondo reazionaria e aristocratica. Ma appunto a questo tempo appartengono l'innalzamento del popolo, e inoltre i primi esordi del centro meridionale di cultura, la prima vigorosa manifestazione dei concetti della Cina meridionale intorno al mondo e con tutto questo la dottrina di Confucio dovette venire a patti.

Nel chiudere questa breve narrazione, dobbiamo qui concludere che era naturale che con un sistema così popolare di proverbi e con tanto amore per l'intoccabile tradizione della Cina antica Confucio diventasse il punto di unione di tutto il pensiero e di tutta la condotta familiare e statale del suo immenso Paese. La crisi del Confucianesimo si verificò soltanto nel 1900, con l'abolizione dell'antico sistema degli «esami letterari». Quando nel 1912 finì l'Impero e fu creata la Repubblica, Confucio fu messo da parte, accusato di aver impedito uno sviluppo moderno del Paese con le sue idee perpetuatesi per quasi 2500 anni.
Gli intellettuali più giovani della Cina, che avevano studiato in Occidente, giunsero persino a negargli la paternità dei libri più famosi che gli erano sempre stati attribuiti.
Il pensiero di Mao ha soppiantato completamente, nella Cina comunista, il tradizionale pensiero di Confucio. (*)
Questo non significa però che sia scomparso nel mondo cinese il confucianesimo. (*)
Come del resto non è scomparso in occidente il cristianesimo dopo l'illuminismo, il relativismo, la Rivoluzione francese e il laicismo degli Stati Europei con il "Libera Chiesa in libero Stato".
Anche il Cristianesimo al pari (anche se in un altro modo) del Confucianesimo
è accusato di conservatorismo, imputato di aver cristallizzato la società, una per 2000 anni, l'altra per 2500.

(*) Confucio profetizzò anche delle "utopie" e la stessa Repubblica, qualora i sovrani delle dinastie avessero perduto il potere, e qualora gli uomini avessero rovesciato il sistema di un pessimo governo nella speranza di costruirne sulle sue rovine uno migliore.
"Quando prevarrà il Grande Principio [della Grande Similitudine], tutto il mondo diverrà una repubblica; si eleggeranno uomini di talento virtuosi e capaci; si parlerà di accordo sincero e si coltiverà la pace universale. Cosí gli uomini non considereranno i loro genitori soltanto come loro genitori, né tratteranno i figli soltanto come tali. Ai vecchi verrà assicurato un giusto sostentamento sino alla morte, agli uomini di mezza età un impiego, e ai giovani i mezzi per progredire. I vedovi, le vedove, gli orfani, gli uomini senza figli e gli infermi saranno convenientemente mantenuti. Verranno salvaguardati i diritti di ogni uomo e l'individualità di ogni donna. Gli uomini produrranno ricchezza, disapprovando che essa venga sciupata, senza però desiderare di tenerla per propria esclusiva soddisfazione. Lavoreranno detestando l'ozio, ma non soltanto in vista del proprio vantaggio. In questo modo le macchinazioni egoiste saranno frenate e non troveranno il modo per sorgere. I ladri, i truffatori e i traditori ribelli non esisteranno piú. Per questo le porte esterne potranno rimanere aperte e non sarà necessario chiuderle. È questo lo stato di cose che io chiamo la "Grande Similitudine"".
(da Li-chi, VII, 1, 2-3 citato in Dawson, Ethics of Confucius - Cfr. W. Durant, Storia delle civiltà, vol. "l'Oriente", pag. 772-773).

Significa che Confucio era anche reazionario:

"a lungo andare la filosofia di Confucio trionfò. Vedremo piú tardi come il potente Shih Huang-ti, avendo come primo ministro un legalista, cercò di porre fine all'influenza di Confucio ordinando che venissero bruciate tutte le sue opere letterarie. Ma la forza della parola si dimostrò più forte di quella della spada; i libri che il "Primo Imperatore" cercò di distruggere divennero santi e preziosi proprio grazie alla sua ostilità, e gli uomini morirono come martiri per salvarli.
Quando Shih Huang-ti e la sua breve dinastia tramontarono, un imperatore più saggio, Wu Ti, rimise in auge la letteratura di Confucio, distribuí cariche fra i suoi seguaci, e rafforzò la dinastia degli Han introducendo i concetti e i metodi di Confucio nella educazione della gioventù cinese e nella politica. Vennero decretati sacrifici in onore di Confucio; i testi dei Classici furono scolpiti su pietra per ordine imperiale e divennero la religione ufficiale dello Stato.
Osteggiato a tratti dall'influenza del Taoismo, ed eclissato per un certo periodo dal Buddhismo, il Confucianesimo venne restaurato ed esaltato dalla dinastia dei Tang, ed il grande T'ai Tsung ordinò che in ogni città e villaggio dell'impero si erigesse un tempio a Confucio e che vi si offrissero sacrifici da parte degli eruditi e dei funzionari.
Durante la dinastia dei Sung sorse una influente scuola di "neo-confuciani", i cui innumerevoli commentari sui Classici diffusero la filosofia del Maestro, sotto le più varie forme, in tutto l'Estremo Oriente, e determinarono il sorgere della filosofia in Giappone. Dagli inizi della dinastia degli Han sino alla caduta dei Manciù - cioè per duemila anni - la dottrina di Confucio foggiò e dominò tutta la mentalità cinese.
La storia della Cina potrebbe narrarsi come la storia di questa influenza. Nelle generazioni successive gli scritti del Maestro divennero i testi delle scuole ufficiali, e quasi tutti i fanciulli passati per queste scuole li impararono a memoria. Il conservatorismo stoico del Vecchio Saggio è quasi penetrato nel sangue del popolo e ha dato alla nazione e agli individui una dignità e una profondità che non sono uguagliate in alcuna parte del mondo o della storia. Con l'aiuto di questa filosofia in Cina si svilupparono un'armoniosa vita sociale, un'ammirazione piena di zelo per il sapere e per la saggezza, e una cultura pacata e stabile che rese la civiltà cinese abbastanza forte per sopravvivere a ogni invasione, e per plasmare a propria immagine ogni invasore.
Soltanto nel Cristianesimo e nel Buddhismo possiamo trovare di nuovo un così eroico sforzo per trasformare la natura degli uomini e mitigare la loro brutalità. E oggi, come allora, a un popolo che soffre per il disordine di un'educazione intellettualista, per un codice morale decadente e per l'indebolimento del carattere individuale e nazionale, non si potrebbe prescrivere migliore rimedio che l'accostamento alla filosofia di Confucio da parte della gioventù in genere".
(
W. Durant, Storia delle civiltà, vol. "l'Oriente", pag. 774-775 . anno - Era il 1956 !!! - E la "Prescrizione" sembra proprio che abbia funzionato nei successivi 50 anni !!!).

 

Abbiamo detto sopra che l'innalzamento del popolo, e inoltre i primi esordi della cultura, la dottrina di Confucio dovette venire a patti.
Una manifestazione di queste due cose fu, a quanto pare...

la dottrina Tao di LAO TZE ( o Lau Tzu o... Laozi (vecchio maestro))

Non vi è contrasto maggiore di quello fra Confucio e Lao-tze! Comincia dalla nascita e dalla vita esteriore. Confucio, Cinese settentrionale, nobile di stirpe regale, uomo di Stato, durante tutta la sua vita mira a prender parte al governo e a mettere in atto praticamente i suoi principi e raccoglie intorno a sé una schiera di giovani, ai quali gli va inculcando; il suo contemporaneo, poco più vecchio di lui è un Cinese meridionale, figlio di un contadino, direttore della biblioteca regia, che mai entra nella vita pubblica e finalmente disgustato dal movimento mondano, si rifugia nella solitudine.
In realtà questo è tutto quello che sappiamo con sicurezza della vita di Lao tze. A quanto pare, mentre visse non ebbe mai discepoli, i risultati delle sue meditazioni solitarie furono da lui consegnati nel libro grandioso Tao teh - king il « libro del Tao e della virtù ». (o Dao (si legge Tao - e significa "via")

Questo contrasto si riscontra anche nelle loro dottrine. Il punto di partenza e lo scopo sono differenti. In ambedue certo il fondamento é la nostalgia del felice passato. Confucio però prende le mosse molto tranquillamente dal tempo più antico dello Stato cinese incivilito, mentre Lao tze dai giorni beati e ben più remoti, i tempi dell'innocenza paradisiaca, quando ancora si usava la cordicella annodata invece della scrittura.
Quegli è un uomo, al quale sembrano poche le formalità del mondo, questi un altro per il quale il mondo ne ha troppe. Là vi è l'aristocratico, qui il socialista.

L'uno è il politico positivo, l'uomo attaccato alle cose di questo mondo, chiaro, vigoroso e calmo in ogni sua parola, l'altro l'asceta mistico, che vede il fine ultimo nella ricongiunzione con l'eterno e che annuncia le sue oscure massime col linguaggio di un veggente.

Confucio é grande per la sua limitazione, Lao-tze ancora maggiore per la sua mancanza di ogni limite. Confucio che, come si dice, lo visitò un giorno, lo ha egregiamente caratterizzato come «il dragone che si solleva sul vento e sulle nubi e ascende fino al cielo», irraggiungibile e inafferrabile. Difatti lo spirito di Lao-tze, simile al mitico dragone si spingeva sopra le nubi e sempre avanti fino alla fonte primordiale di ogni esistenza. Questo egli chiama il « Tao ».

Si resta in dubbio sul modo, in cui egli vuole che questa parola sia intesa: se come « norma » o come « vírtù » o come Aóyoç lo stesso Aóyoç, che compare nel Vangelo di S. Giovanni, «nel principio era il verbo», e che ha una parte anche nei sistemi filosofici indiani; - difatti il vocabolo cinese ha tutti questi significati. Lo si é tradotto anche a dirittura con la parola «Dio». In ogni caso è il principio originario, immenso, impersonale, inafferrabile, esistente di per se stesso e che ha prodotto tutte le cose. « Vi era nella natura », dice il savio (che citiamo qui secondo la magistrale interpretazione di V. von Strauss), « qualche cosa d'incomprensibilmente perfetto, prima che fossero il cielo e la terra. Era tranquillo e impalpabile, solitario e immutabile; esso tutto penetra e non si espone ad alcun rischio. Sì può considerare come la madre dell'universo. Non conosco il suo nome. Se ho da designarlo, gli do il nome di Tao. Se m'ingegno di qualificarlo, lo chiamo grande; come grande lo chiamo smisurato; come smisurato lo chiamo lontano; come lontano lo chiamo sempre di ritorno».

Se vi aggiungiamo gli altri suoi detti sul Tao, si trova che la sua cosmogonia ha una grande somiglianza con la dottrina dello Schelling.
Questo Tao è ad un tempo il principio morale e le sue qualità fondamentali sono l'assenza di passioni, la dolcezza, la misericordia. Un tempo, nelle epoche antichissime e beate, lo si conosceva, si onorava e si seguiva. Ma poi gli uomini si sono allontanati da lui ed hanno posto nel suo luogo le loro virtù, misera opera terrestre: la pietà, la giustizia, il sapere, l'accortezza e per ultimo il decoro, del quale Lao-tze dice che « è l'aspetto esteriore della fedeltà e della rettitudine ed il principio dell'insubordinazione ». Con questo son venuti nel mondo tutti i mali, che il mondo ora patisce: la guerra, i castighi l'ipocrisia e via dicendo; perciò, egli dice, « s'indossano ora abiti variopinti, si cingono spade taglienti, ci si riempie di bevande e di cibi; i palazzi sono splendidi, i campi deserti e i granai vuoti » ; perciò il popolo é affamato, carico d'imposte e già così gravemente oppresso da augurarsi egli stesso la morte. È un'accusa tremenda contro la decadenza del suo tempo e contro la sottile vernice del formalismo dominante, che noi possiamo ricomporre dalle sentenze disperse di Lao-tze.

Per rimediare a questo male, si deve ritornare al Tao, ritorno che è già di per se stesso il dovere morale dell'uomo; bisogna lasciarsene penetrare del tutto e finalmente entrare in comunione con esso, che è «il luogo di salvezza di ogni essere, il tesoro supremo degli uomini buoni, l'ammenda salvatrice dei cattivi». Ma per questo, via le usanze, che sono contrarie al Tao, via la riverenza, la legge, la scienza, l'accortezza, l'abilità, via l'intera cultura! Soltanto nel privarsi di tutto, nella mancanza di desideri, - nel vuoto, come la chiama, - si può trovare la salvezza!

« I cinque colori fanno loro preda dell'occhio dell'uomo, le cinque note ne rendono sorde le orecchie, i cinque sapori ne turbano la bocca, la caccia e il cavalcare seducono il cuore dell'uomo e dei tesori, difficili a raggiungere, sviano i suoi passi. Per questo il vanto opera secondo il suo petto, non secondo ciò che alletta l'occhio ».

Sono pure frequenti dovunque i detti in prosa e in verso, nei quali egli esorta ad allontanarsi del tutto dal mondo, che solo contamina il cuore.

Per l'affrettarsi alla caccia dei guadagni e degli onori, per l'azione in genere é venuta su noi l'infelicità; l'ideale è quindi l'inazione, il quietismo. Allora la mitezza, la misericordia e l'abnegazione, vittoriose perché deboli, entreranno nel cuore, allora questo riconoscerà l'eterno, acquistandosi così un'unione durevole con esso, col Tao. «Conoscere ciò che é eterno, vuol dire essere illuminato. Chi conosce l'eterno è comprensivo e per questo è del cielo, per questo del Tao; é del Tao e quindi durevolmente; senza rischio egli perde il suo corpo ». -

E più oltre:
« ritornando alla luce, nulla si perde per la distruzione del corpo. Ciò vuol dire vestirsi di eternità ».
È questa la via « dell'uomo santo ». Egli con ciò diviene un modello per tutto il popolo, e poiché questo sopravvive a lui, è già raggiunto sulla terra il desiderato stato primitivo, nel quale non vi é più alcuna scienza ed alcun'arte, alcuno Stato, alcun grado sociale ed alcuna autorità, ma esiste soltanto una convivenza pacifica e contenta di poco.

A grandi tratti è questa un'immagine della sua dottrina, che é una reazione acre contro un'epoca corrotta. Si può anche riprendere il suo fine come uno sterile vaneggiamento, ma questo nulla toglie alla bontà dell'intenzione di lui. E nei particolari vi sono pensieri che non cedono a quelli più elevati di tutti gli altri popoli. Citiamo due soli esempi; o L'uomo santo è sempre un buon aiutatore dell'uomo e per questo non abbandona alcun uomo; è sempre un buon aiutatore della creatura e per questo non abbandona alcuna creatura. Questo significa mandare una splendida luce. Perciò l'uomo buono è l'educatore di chi non é buono e quest'ultimo è il tesoro del buono ».

E poi la sua sentenza più bella, nella quale egli si solleva alla massima altezza della morale cristiana, cioè il detto; «Ricambiate l'inimicizia col beneficio». Si comunicò questo detto a Confucio, che fu pregato di dire la sua opinione su di esso. La risposta di lui è caratteristica del suo modo di pensare. «Con che cosa», disse egli, ricambierete allora il bene? Ricambiate l'inimicizia con la giustizia e il bene col bene ».

In verità in quella sentenza vibra una nota, quale fino allora non era stata udita in Cina, e così in tutta la dottrina di Lao-tze. Perciò gli è stata perfino negata la qualità di Cinese, oppure si é voluto rivendicare alla sua dottrina nel complesso o nei particolari un'origine indiana o perfino ebraica. Quest'ultima opinione si appoggia su questo che per es. vi comparirebbe perfino il nome « Jehovah » nella forma « Ji hi-wei ». Ma nulla giustifica questa ipotesi, anzi le si oppongono difficoltà rilevanti, nelle quali naturalmente non posso qui entrare. Voglio ricordare soltanto che il nome Ji-hi-wei, - col quale si designano del resto solo tre proprietà del Tao, assenza di suono, assenza di colore e immaterialità - , al temi o di Lao-tze si doveva pronunziare « dik ghik mi » e non aveva nulla che fare con Jehowah.

La cosa è alquanto diversa rispetto all'origine indiana, perché di somiglianze col pensiero indiano in Lao-tze ve ne sono parecchie. Tuttavia anche su questa ipotesi non si può ancora decidere; delle somiglianze generali non costituiscono ancora una prova, e tanto meno in quanto che é sempre possibile, se non sicuro, che i fondamenti del sistema risalgano ad una remota antichità, siamo i residui di un'antica religione popolare essenzialmente propria della Cina meridionale. Forse, come ho già una volta accennato, sono i residui di una formulazione filosofica del matriarcato, i quali allora tornavano a galla con la elevazione dell'elemento popolare. Se la dottrina non aveva avuto origine dal popolo, l'aveva avuta a favore del popolo; difatti si può certo chiamare socialistica.

Veramente sul popolo anche oggi non ha alcuna azione. Era anche troppo profonda ed oscura, per essere generalmente intesa; doveva prima degenerare, divenire da filosofia fede e da fede superstizione, perché la moltitudine la comprendesse. E questo processo si completò, a quanto pare, in seguito a una miscela di idee straniere, specialmente indiane che dovette incominciare ben presto. Poiché, se anche Lao tze stesso non ha per avventura preso nulla in prestito dall'India, mi sembra che questo sia invece certo per i suoi primi seguaci, per Lieh-tze (che si suppone del secolo V a. C.) e per il geniale Ciuang-tze (circa 330 a. C.).
Vi troviamo per es. la dottrina della trasmigrazione delle anime, che senza alcun punto di partenza nel precedente pensiero della Cina, compare ora ad un tratto: vi troviamo il « santo » di Lao-tze sulla buona via per essere trasformato nel « risci », dotato di poteri soprannaturali; vi troviamo perfino i mezzi, coi quali l'asceta indiano si adoperava per giungere alla conoscenza divina, la contemplazione che conduce allo spasimo estatico; anche la veste letteraria della dottrina, la favola animale, cosi prediletta agli Indiani, compare ora per la prima volta nella Cina. E queste reminiscenze giungono fino ai particolari più minuti.
Non si limitano unicamente ai Taoisti, anche altre ne incontriamo in altri campi una cosmogonia e una cosmologia prima sconosciuta, con i «cinque elementi» divenuti elementi reali e con la teoria delle isole qual'è nella figurazione indiana del mondo; nuovi concetti nella geografia e nella storia naturale, specialmente di esseri favolosi, come con un solo occhio, con una sola gamba, con orecchie pendenti, quelle caricature dell'epopea indiana note a tutto il mondo, che quasi nello stesso tempo anche la Grecia prese in prestito; una trasformazione della musica - in breve è un vero diluvio di novità, che nel secolo IV a. C. sembra scendere sulla Cina; e certo non sarà un caso se appunto allora si fanno avanti con un vigore sorprendente la fantasia e una potenza di personificazione che riduce a forma plastica anche le idee.

E infine si aggiunge un elemento affatto nuovo anche nell'arte; ora per la prima volta la figura umana, sia da se sola sia come parte di un gruppo o di una scena, diviene soggetto di una rappresentazione plastica, oppure di una pittorica ; anzi un'intera forma artistica, la pittura, sembra ora comparire per la prima volta. Veramente non ci è rimasto alcun saggio di essa, ma abbiamo relazioni contemporanee, che parlano di quadri di statue e descrivono sculture o pitture rappresentanti divinità, principi, eroi e dignitari dei tempi primitivi, con le quali erano adornati templi e palazzi. A questo può aver contribuito un influsso persiano, che si crede di avere osservato per es. in un vaso dell'ultimo periodo dei Ciou, e perché in genere era forse il grande regno di Persia, che apriva la via verso oriente al pensiero indiano. Ma come nel rimanente anche in questo campo spetta a quest'ultimo la parte del leone, tanto più in quanto fra i soggetti descritti se ne sono trovati che sono senza dubbio indiani, come la lepre nella luna e la testuggine, che porta un monte (cioè il mondo)

L'arte anzi è stata sempre un efficace mezzo di propaganda delle religioni indiane e specialmente nella Cina, come si mostra in seguito nell'introduzione del Buddismo.

E in realtà anche il periodo che ci occupa ci fa questa impressione complessiva: una vita intellettuale grandemente accresciuta con un nuovo concetto del mondo, con un'al te nuova e una nuova religione; - é difatti evidente che tutta questa importazione straniera e specialmente l'arte, che trasformò i vecchi schemi spiritici in divinità dotate di corpo e di personalità, erano atte meglio di ogni altra cosa a dare al popolo una filosofia di suo gusto e a fare del Taoismo una religione. È per ora invece molto dubbio se l'india abbia avuto parte in alcuno dei molti altri sistemi filosofici di questo periodo, in quelli degli etici, degli edonici, dei sofisti, ecc. ; la tendenza di questi corrisponde certo, come pare, a quella dei sistemi indiani contemporanei, ma essi possono esser debitori della loro origine anche a speciali condizioni indigene. Tuttavia pare che il Taoisno (più antico) abbia agito sopra un altro di quei sistemi, sulla dottrina di Moh Tih (intorno al 450), dell'apostolo dell'amore universale umano, la quale col suo carattere liberale ed anzi socialistico ci appare del pari figlia genuina del suo tempo.

E se non fu il Taoismo, fu almeno questo spirito del tempo, che dimostrò il suo potere anche sugli ortodossi; intatti anche Meng tze, (Mencio), che fu l'avversario più acerbo di Moh Tih e il promotore energico del Confucianismo, che a causa del suo metodo d'insegnamento si può chiamare il Socrate della Cina, pone in prima linea e più nettamente di Confucio il bene del popolo.

Però presso tutti questi elementi stranieri vediamo di nuovo stare in prima fila in questo movimento intellettuale la Cina del sud, sia come intermediaria, sia dando del proprio. Sono difatti aule della Cina meridionale, le cui pareti erano adornate dalla maggior parte di quelle immagini e appunto da gruppi di figure ed é un Cinese meridionale che ce ne ha confermato la notizia descrivendole, e appunto questi, Küh Yuan, da noi più volte ricordato (morto circa nel 290 a. C.) è l'autore di quelle poesie, le « elegie di Tsù » che hanno determinato una completa rivoluzione nell'arte poetica cinese.
« Io attaccai i quattro draghi al carro, salii sulla fenice e così mossi verso l'alto tra la polvere e la tempesta. Colui che guida il carro del sole mi comandò di affrettarmi; la via era lunga e la mia meta lontana. Abbeverai i cavalli nello stagno, dove il sole si tuffa, legai le redini all'albero del sole in oriente e col ramo dell'albero fatato io lo arrestai. Così vado attorno senza scopo per l'aere; dinanzi a me è l'auriga della luna, dietro il dio delle tempeste, il dio del tuono al mio fianco quale consigliere; io sventolai l'arcobaleno come una bandiera, da campanelle di perle destai suoni tintinnanti ».

Questo è il suo stile, differente come il sole dalla luna dalla lirica antica, da quella settentrionale; una poesia tutta slancio selvaggio di fantasia, che muove all'assalto del cielo, ricca d'ingredienti indiani e che anche nel volo dei pensieri ricorda modelli indiani, ma che col suo tono dottrinale ed allegorico rimane pur sempre un genuino rampollo del suolo cinese. E soprattutto vi è effusa una sofferenza profonda, una profonda malinconia - non soltanto il vago dolore universale, che quale sintomo di un tempo di fermento è tipico anche dell'epoca poco lontana dall'introduzione del Buddismo, ma anche il dolore per la propria sorte, per l'esilio immeritato e sopra tutto e più fortemente di ogni altro per il fato calamitoso della patria, alla quale nessuno viene in aiuto. Questo dolore ha spinto il poeta a darsi da se stesso la morte.

L'anno è un mistero, la tradizione taoista sembra che si sia incamminato andando verso occidente, verso "Il regno del riposo dell'anima" e là ha ottenuto la vita eterna; ed è per questo che molti autori non fanno cenno all'anno della morte.
Mentre altri sostengono che Lao-Tze fosse andato verso ovest per diffondere presso i popoli barbari (quindi non cinesi) il suo insegnamento: da ciò nacque anche la convinzione che il Buddha altri non fosse che Lao-Tze stesso, il quale aveva adattato la sua dottrina alla mentalità indiana.

E così - il dolore e la morte di Lao per il fato calamitoso della patria, il periodo e l'antichità stessa si vanno estinguendo in un desiderio disperato di un imperatore, che ha da venire per salvare l'impero e il popolo.

E la salvezza infatti venne
Lo Stato feudale oscillante crollò...

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