-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

71. SCIOGUNATO ASHIKAGA . GLI INDIPENDENTI (DAIMYO) 1333-1573

La sicura speranza dell'imperatore Go Daigo di mantenere di nuovo nelle proprie mani, dopo la caduta degli scikken, le redini del governo, come un tempo i grandi Tenno del periodo della Taikwa e di Nara, doveva presto dimostrarsi solo una bella speranza, piuttosto ingannevole. Poiché lo sciogunato, concesso da Go Daigo al suo proprio figlio, era proprio quello a cui mirava invece Takaugi, il valente generale della famiglia degli Ascikaga, che faceva risalire la propria origine a quella dei Minamoto e che rimase deluso e amareggiato per quella concessione; a Takaugi Go Daigo era debitore innanzi tutto della distruzione degli Hogio. Per i suoi meriti lo aveva ricompensato solo con alcune province povere orientali.

Venne così il conto da pagare. Un rampollo sopravvissuto degli Hogio, che arrischiò il tentativo d'impadronirsi di nuovo di Kamarura viene tolto di mezzo proprio da Takaugi subito accorso, che però si stabilisce poi di propria iniziativa in Kamakura e con una sua autonoma autorità si crea da se stesso sciogum (1335).

Invano Go Daigo manda i suoi eserciti contro il vassallo infido, da lui dichiarato ribelle; egli stesso è costretto a fuggir nuovamente da Kyoto, dove Takaugi entrato vittorioso, pone sul trono imperiale un giovane principe a lui arrendevole (Komio, nato nel 1322 (?), morto nel 1380).
Da lui Takaugi si fa nominare sciogun, dignità nella quale la famiglia degli Ascikaga si doveva mantenere per un lungo periodo fino al 1573.

Ma Go Daigo, che aveva trovato rifugio nel paese montuoso di Yamato di difficile accesso, nel tempio fortificato di Yoshino, non aveva alcuna intenzione di riconoscere il nuovo imperatore; rimasto in possesso delle insegne imperiali, difese invece ancora i suoi legittimi diritti al trono, e la stessa cosa fece a lungo dopo la sua morte, avvenuta poco dopo (1338), il suo successore.

Così - e questo è un nuovo esempio della debolezza di quell'affermazione sempre ripetuta della santità non mai violata della persona dell'imperatore - per mezzo secolo (1336-1392) due rami della dinastia stanno con ostilità l'uno di fronte all'altro quali anti imperatori, che nella storia giapponese sono chiamati la dinastia settentrionale e quella meridionale.

Tuttavia questo non si deve intendere come una divisione dell'impero, in seguito alla quale una linea abbia regnato sulla metà settentrionale del paese e l'altra su quella meridionale. Questa denominazione indica solamente che Go-Daigo e i suoi successori tennero la loro corte a mezzogiorno di Kyoto; in questa stessa antica capitale i loro avversari imperiali ebbero prima e dopo la loro sede, sotto la protezione degli sciogun Ashikaga, che in loro nome ebbero realmente il governo dell'intero impero, governo però non del tutto effettivo, specialmente nelle province più remote.
Con l'aiuto dei rispettivi partigiani di volta in volta divampano con vario successo nuove guerre fra le due dinastie nemiche, senza però giungere alla distruzione definitiva dell'una o dell'altra parte.

Soltanto all'influenza del terzo sciogun Ashikaga, all'eminente statista Yoshimitsu, sotto il cui brillante dominio la sua casa raggiunse il culmine della potenza, riuscì a preparare la fine di questo stato di cose, divenuto intollerabile, avendo potuto indurre l'imperatore della linea Go Daigo, sempre in angustie e per lo più soccombente, ad una abdicazione spontanea in favore della dinastia settentrionale.
Il compromesso, che formava la base di questa rinuncia che cioè in avvenire la dignità imperiale dovesse spettare a vicenda ai due rami della famiglia sovrana, più tardi, a dire il vero, non fu mantenuto.

Il periodo di Muromaci, come spesso si suole chiamare il dominio degli Ashikaga dal loro palazzo nella via Muromaci in Kyoto, ci mostra un nuovo fiorire del lusso, della letteratura e dell'arte, come di nobili intrattenimenti sociali, almeno fino intorno alla metà dei secolo XV e in verità per lo più soltanto nella capitale.
Sotto il serio influsso delle dottrine della setta zen, che esaltavano l'educazione di se stessi, si sviluppano i convegni estetici noti sotto il nome di cerimonie del tè (ciano-yu).
Yoshimitsu, dopo un passaggio puramente di forma allo stato monastico, si fa edificare presso Kyoto, sopra una collina idilliaca, situata sulla riva di un laghetto, una villa, chiamata per la splendida decorazione Kynkaku gy, ossia il tempio del padiglione d'oro (1397) che deriva dal rivestimento in lamine d'oro delle tegole che però oggi sono del tutto scomparse e alcuni resti sono appena percettibili.


Fa riscontro a questo un altro degli edifici sontuosi di quel tempo, Ghynkaku o il padiglione d'argento, edificato nel 1473 da Yoshimasa, l'ottavo sciogun degli Ashikaga (1445-1490), nipote di Yoshimytsu. Il ricco arredamento dei superbi edifici religiosi e civili favoriva i progressi delle belle arti. Sorsero nuove scuole di pittura, apprezzate specialmente per i loro dipinti monocromatici, le quali si accostavano ai grandi artisti vissuti sotto la dinastia cinese dei Sung (960-1279), ed anche oggi ci offrono nomi celebri di pittori, come quelli di Cyo-densu (1352-1431), di Gyosetsu (secoli XIV e XV), come del suo scolaro Sess-ciu (1420-1506).
Nel 1439 fu ancora ristabilita l'accademia di Ashikaga (provincia di Shimotsuke), da lungo tempo decaduta; allora furon fatti venire dalla Cina e dalla Corea libri preziosi per integrazione delle biblioteche.

Ma con gli spiriti battaglieri della nobiltà feudale e le discordie in seno della propria famiglia, nemmeno gli splendidi Ashikaga potevano stabilire definitivamente una condizione di cose ordinata e durevole e le lotte intestine non cessarono. Dai governatori provinciali di un tempo, dagli scíugo e dai gita dello sciogunato erano derivati in gran numero piccolie grandi principi territoriali, che intendevano divenire sempre più indipendenti dal governo centrale, indebolito e che nell'epoca feudale solevano esser chiamati «daimyo» (letteralmente: grandi nomi).

Con l'appoggio dei loro samurai, o nobili feudali, numerosi, avidi di preda, ambiziosi, combattenti al loro servizio, questi daimyo miravano ad estendere sempre più i loro possedimenti con perpetue guerre tra vicini. In luogo di un ordine legale dominava per lo più una rozza violenza; l'agricoltura e più ancora il commercio e l'industria nelle città finora poco sviluppate ne pagavano le conseguenze e languivano.
In questi tempi rozzi, di costumi decadenti si va svolgendo nella classe dei samurai quel codice d'onore cavalleresco, non scritto, fondato sulle dottrine confuciane, al quale certo solamente più tardi toccò il nome di «bushido», cioè la via del cavaliere, oggi tanto adoperato e divenuto il gergo di una classe.

È caratterizzato da un fervido culto degli antenati, da un'incondizionata fedeltà e devozione per il signore feudale, da un estremo disprezzo della propria vita e dalla pratica dell' «Karakyri» ossia del solenne suicidio mediante lo sventramento per le minime offese all'onore.

Le contese tra i due rami della casa degli Ashikaga per la successione nello sciogunato condussero ad una guerra desolatrice durata undici anni (1467-1477), nella quale molti daimyo e appunto i più potenti presero partito per l'uno o per l'altro dei contendenti; Kyoto e i paesi vicini soffrirono spaventose devastazioni; molti tesori artistici vi andarono distrutti. Senza che uno dei due partiti abbia potuto annientare minimamente l'altro, la guerra ebbe termine per la morte dei daimyo, che ne erano a capo e, per il completo dissolvimento generale di tutto l'impero.

Le agitazioni non cessarono del tutto per un circa secolo. L'autorità degli sciogun della casa Ashikaga, divenuti dipendenti dei loro grandi principi vassalli, come gli Hosokaua, gli Shiba e gli Hatakeyama, e quella in genere del governo centrale era svanita.
Tutto lo Stato era diviso in alcune centinaia di principati feudali, piccoli o medi, uniti insieme soltanto passivamente, nel quale i daimyo, implicati in continue guerre tra vicini, miravano a mantenere un certo ordine tutto al più entro i loro propri confini.
Non solamente le classi inferiori soffrivano povertà. La stessa Corte imperiale a Kyoto, un tempo cosí sontuosa, le cui fonti d'entrata erano per la maggior parte inaridite per l'aumento dei possedimenti non tassabili dei daimyo e dei monasteri, mancava talora dei mezzi più necessari alle cerimonie prescritte, per es., nell'avvento al trono e nei seppellimenti, come ai restauri del palazzo.

Tra i generali ambiziosi, che in questo tempo di condizioni politiche incerte credettero di scorgere la possibilità di ascendere al supremo potere verso la metà del secolo XVI, occupa una posizione eminente Oda NOBUNAGA (1534-1582) pur essendo uno dei daimyo minori.
Questo geniale, intraprendente e bellicoso condottiero dei suoi samurai, con alcune spedizioni guerresche per lo più fortunate aveva saputo estendere gradatamente il suo dominio all'inizio piuttosto modesto, sopra una parte considerevole del Giappone medio; questo dominio territoriale, oltre alla sua fama, ben presto diffusa, di prode e abile generale, gli assegnava una considerevole autorità nello Stato, anche per la sua vicinanza alla sede dell'imperatore e dello sciogun che vivevano entrambi in una crisi materiale oltre che politica a causa dei continui disordini.

Difatti si vuole che Oda Nobunaga abbia ricevuto dall'imperatore il mandato di porre un termine ai disordini, che da molti anni turbavano la capitale. Ad ogni modo egli seppe adoperare abilmente il potere conseguito, reprimendo una sollevazione contro l'Ashikaga residente in Kyoto, e così, grazie all'aiuto di Nobunaga, Yoshiaki (nato 1537, 1568 73) nel 1568 vi fece il suo ingresso come sciogun, ultimo della sua casa.
Poiché ben presto prorompe un'aperta lotta fra lui e il suo generale, sospettato gelosamente non senza ragione, che presenta una lista di 17 punti per la trasformazione del governo sciogunale.
Nobunaga nella lotta rimane vincitore; Yoshiaki è condotto in prigione, più tardi può tornare a Kyoto, dove muore soltanto nel 1597, trascurato e dimenticato.

Lo scyogunato degli Ashikaga, da lungo tempo ormai impotente, con la sua deposizione (1573) è definitivamente tolto di mezzo e con questo il nome della sua casa scompare dalla storia del Giappone.

Per quanto riguarda le relazioni esterne, i successori mongoli di Kublai avevano già tentato di riannodare rapporti amichevoli con l'impero insulare, però senza trovare una favorevole accoglienza nel governo giapponese di quel tempo. Tuttavia, subito dopo la fallita invasione dei Mongoli nel Giappone (che abbiamo ricordato in altre pagine), aveva già preso piede un commercio non insignificante dei Giapponesi sulle coste della Cina.
Dopo che in quest'ultima in sostituzione di una signoria straniera era qui ritornata una dinastia nazionale, quella dei Ming (1368), si venne di nuovo a relazioni e a uno scambio discretamente regolare di ambascerie e di ricchi donativi fra i due Stati.

Cosí nel 1401 Yoshimitsu inviò all'imperatore della Cina con le sue lettere mille once d'oro, forse come tributo, ma secondo il concetto vigente in Cina a proposito di simili doni, non corrispondente però ai fatti. Forse era una riparazione fatta dai giapponesi per qualche torto.
Nell'anno successivo l'imperatore della Cina gli concesse in cambio il titolo di «re del Giappone».

Quanto poco però una simile concessione di titoli, derivante dal diritto di alta sovranità su tutti gli altri Stati, preteso almeno teoricamente dalla Cina, corrispondesse agli effettivi rapporti di potenza delle due parti, è dimostrato dal fatto che nei negoziati diplomatici della Cina si trattava in sostanza sempre di pregare il governo giapponese che impedisse ai suoi sudditi di commettere sulle coste cinesi delle piraterie, che la Cina stessa non riusciva a reprimere.

Dalle animate relazioni commerciali nel secolo XIII, con l'aiuto dei corsari cinesi si era infatti a poco a poco sviluppata una pirateria giapponese, intraprendente e molto lucrosa, dalla quale la popolazione pacifica non di rado doveva soffrire gravemente, come un tempo quella delle coste dell'Atlantico per gli attacchi dei Normanni; questo fenomeno non è del resto del tutto isolato in seguito all'unione piuttosto abituale del commercio marittimo e della pirateria, avvenuta anche più tardi in altri mari indifesi.

Probabilmente l'oro inviato da Yoshimitsu, appunto dal più vittorioso e potente fra gli sciogun della casa degli Ashikaga, si deve intendere come un'indennità per simili piraterie, non avendo certo egli necessità di procacciarsi il favore della Cina; del resto il governo giapponese mostrò più volte la sua buona volontà verso la Cina, inviandogli prigionieri alcuni presunti pirati catturati per esservi giudicati.

Quale pericolosa estensione avessero assunto questi attacchi briganteschi risulta fra le altre cose dal fatto che soltanto nell'isola di Hainan, situata dinanzi all'estremo meridionale della Cina, secondo una cronaca ufficiale cinese del luogo, nel corso di soli 200 anni (1378-1573) avvennero non meno di 16 di simili saccheggi pirateschi dei «bahan», come furon chiamati i bastimenti dal nome del dio della guerra (in giapponese «hahiman»), il cui simbolo portavano sulle loro bandiere, con segno cinese.
Non meno avevano da soffrire dai temuti bahan anche le coste del vicino Stato di Corea, che stava sotto l'alta sovranità e la protezione della Cina. Tuttavia anche allora non mancarono delle relazioni amichevoli, specialmente nel campo spirituale. Una iscrizione di un tempio (del 1563) dell'estremo occidente della Cina, nella provincia di Kansu, riferisce che là nell'anno 1383 un sacerdote giapponese fece il voto di restaurare un tempio incendiato circa mezzo secolo prima durante le guerre del tempo e che poi risorse nell'antico splendore.

È anche significativo l'aiuto prezioso fatto più volte dalla Cina al Giappone - impoverito da tenpo dalle continue guerre civili - (per es., nel 1474 e 1483) e concesso con ingenti somme di monete di rame.

Nel periodo torbido e malsicuro, quando il dominio degli Ashikaga andava declinando, avvenne il primo arrivo degli Europei, avvenimento appena avvertito nel Giappone, riconosciuto invece in Occidente potenzialmente rilevante, e fertile di risultati. Ma anche tutto da disputarsi tra potenze europee.

Sappiamo con certezza soltanto che intorno al 1542-43 alcuni Portoghesi a bordo del bastimento di un corsaro cinese furono spinti da una burrasca verso il Giappone e sbarcarono nell'isola di Kiushu a sud-ovest.
Quanto sia poco giusto il nome consueto di «scoperta del Giappone», per una simile opera puramente del caso, appare già da questo che non si trattava affatto di una terra del tutto sconosciuta, ma di una che già da oltre 1000 anni era in rapporti stretti con la Cina, e la cui navigazione per di più si estendeva allora anche oltre la Cina, fino alle spiagge dell'India.

In realtà anche i Giapponesi con il loro bellicoso contegno contrastavano gli altri popoli, che esercitavano là il commercio marittimo, e non avevano mancato di richiamare già da lungo tempo l'attenzione dei Portoghesi. Il viceré d'Albuquerque, il grande fondatore dell'impero portoghese nelle Indie, nella descrizione di Malacca, da lui conquistata nel 1511, dove fino allora erano solite approdare due o tre navi portoghesi all'anno, dà un'eccellente descrizione di questi samurai giapponesi, che portavano due spade: «uomini di poche parole e che non danno alcuna notizia sugli affari del loro paese».
Così pure parla di loro l'opera del portoghese Barbosa, compiuta già prima del 1516, intorno alle scoperte conosciute fino a quel tempo, e li conosce sotto il nome di «Lequeos», che allora abbracciava tutto il mondo insulare a oriente della Cina, ancora inesplorato e che soltanto più tardi fu limitato al gruppo insulare delle odierne Liukiu o Riukiu a mezzogiorno del Giappone.

I Portoghesi arrivati nel Giappone vi trovarono un'accoglienza amichevole. Certo vi contribuirono non poco le loro armi da fuoco, ammirate con stupore; fu questa un'innovazione naturalmente ben accetta, dati i torbidi guerreschi del tempo, e presto appresa, tanto che la fabbricazione e l'uso di quelle armi si diffusero nel paese con una rapidità sorprendente; oggi ancora si è conservato per le pistole il nome di «tanegascima», portato dall'isola posta davanti a Kiushiu e nella quale sbarcarono per primi quei Portoghesi.

Le relazioni portoghese piuttosto seducenti, quando ritornarono nell'India, accesero naturalmente nei loro intraprendenti compatrioti il desiderio di conquistare per le proprie merci un nuovo mercato così vantaggioso. Il loro punto di partenza fu presto Makao, il vicino stabilimento dei Portoghesi in Cina, fondato intorno al 1557.
E rapidamente ai mercanti portoghesi seguirono dei missionari cristiani. Poiché parve che il nuovo mercato non aprisse prospettive piene di promesse al solo commercio, ma che offrisse del pari un campo di lavoro fruttifero anche all'opera delle missioni cristiane. Un uomo come Francesco Saverio, l'entusiasta compagno di Loiola, al quale era stata commessa l'introduzione nelle Indie del giovane ordine dei Gesuiti, fu quello che si prese questo compito con lo zelo a lui proprio.

Saverio si fondò sul racconto di un samurai fuggito dal Giappone, che era giunto a Goa; dal collegio dei Gesuiti di quella città e nel 1548 fu battezzato come primo cristiano giapponese, sotto il nome di Paolo de Santa Fé. In sua compagnia Saverio, dopo aver superato ostacoli e pericoli, sbarca già nel 1549 a Kagoshima, patria di Paolo e capitale dei daimyo di Satsuma, uno dei principi più potenti di Kiushiu. Questi lo accoglie amichevolmente, aspettandosi di ottenere per i suoi porti il commercio lucroso con i bastimenti portoghesi, che spesso ancoravano davanti a Bungo, in uno degli altri principati di Kiushiu. Poiché questo non avvenne, proibì poi ai suoi sudditi di passare al Cristianesimo.

Con esperienze simili e con mediocri successi, Saverio continua senza scoraggiarsi l'opera di conversione in alcune altre province di Kiushiu; del tutto inutile si dimostra anche la visita alla capitale Kyoto, un tempo splendida, ora terribilmente devastata e spopolata dalle guerre civili.
Ai successori di Saverio, meglio versati nel difficile linguaggio e nelle particolarità del paese e degli uomini, doveva riuscire di ottenere migliori successi e presto essi poterono vedere intorno a sé una schiera numerosa di devoti seguaci.
Non solo fra le popolose classi inferiori, l'opera di entusiasmo e d'abnegazione dei Gesuiti e i loro ospedali, uniti per lo più alle chiese e aperti anche ai più poveri, destarono un plauso vivace. Anche nei notevoli circoli dei samurai, salendo fino al daimyo, in considerazione dei grandi vantaggi offerti dal commercio portoghese, parve che fosse il caso di favorire i Gesuiti, molto riveriti dagli stranieri e così influenti, al cui credito oltre alla solenne pompa del culto contribuivano anche le loro cognizioni nel campo della medicina e dell'astronomia, di molto superiori alla scienza cinese e giapponese.

Già nel 1563 ebbe luogo il battesimo del primo daimyo, del principe di Omura, uno dei minori sovrani di Kíushiu, e il numero dei convertiti al Cristianesimo fino al 1570 é stimato a ventimila.
Grazie alle lettere di questi Gesuiti e alle relazioni dei navigatori portoghesi si erano nel frattenpo aumentate considerevolmente le conoscenze degli occidentali intorno al Giappone. Una prova convincente è la carta pubblicata in quest'opera e ricavata da un atlante, decorato artisticamente e dipinto a ricchi colori (vedi l'immagine all'inizio del cap. 65), opera del cosmografo portoghese Fernao Vaz Dourado, che l'ha completata nel 1568 in Goa e dedicata al viceré delle Indie di quel tempo.

Questo prezioso monumento cartografico, la più antica carta manoscritta del Giappone, costruita da occidentali, contiene solo una parte dell'impero, mancando di tutta la metà maggiore nord-est dell'isola principale di Rondo, nella quale i missionari non erano ancora arrivati. Non ci devono naturalmente recar sorpresa parecchie divergenze della carta, che oggi ci é ben nota, dai nomi effettivi; così verso il margine sud-est della carta la penisola di Yamato sporge troppo a sud nel mare e alla sua punta é già iscritto il «Cabo des Sestos», nome che per lungo tempo presso i Portoghesi, come presso i loro successori, designò la. punta meridionale del Giappone.
Il territorio intorno alla capitale porta la designazione «O Meaco» secondo la parola giapponese «Miako», che al pari di «Kyoto» significa capitale. Abbastanza giustamente la punta meridionale della Corea è scritta quale «Costa de Conrai».

Se consideriamo che erano passati solo tre decenni da quando i primi Portoghesi avevano messo piede sulle coste del Giappone a loro ancora sconosciute, questa carta, dotata di numerosi particolari ci appare in ogni caso come un lavoro stimabile e importante. Con i suoi caratteristici contorni rimase in realtà il tipo di carta più autorevole del Giappone fino a oltre la prima metà del secolo XVIII.

Terminiamo qui questo periodo di indipendenti
e vediamo ora il ritorno all'unità dello Stato

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