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16. LA CULTURA ASSIRA - RELIGIONI - MITI

Straordinariamente mista e complicata appare la cultura dell'Asia occidentale nell'età di Amarna, alla luce dei ritrovamenti nell'antica Cananea, completati dai monumenti geroglifici e cuneiformi. Con unità e coerenza molto maggiore si svolge il grande impero assiro-babilonese nel millennio e mezzo precedente il fiorire dell'immortale cultura greca.
Al chiudersi del regno nuovo il popolo egiziano, ormai decrepito, aveva finito di rappresentare la sua parte nella civiltà dell'Oriente antico; decadenza pienamente compensata, per l'Asia, dal rafforzarsi della signoria assira. Si può forse perfino ammettere che nel campo delle conquiste scientifiche gli Assiro-Babilonesi abbiano svolto un'attività molto maggiore che non i dotti egiziani. La scienza assira ci si presenta come universale, multiforme ed elaborata. Può essere, è vero, un puro caso che sia già fin d'ora giunta a noi ampia notizia di tanto impegno di studi nella regione dell'Eufrate e del Tigri, mentre le fonti egiziane tacciono di fenomeni paralleli pure in realtà prodottisi nella valle del Nilo.

Appunto le ultime scoperte nella regione cananea ed il ritrovamento della corrispondenza diplomatica tra l'Asia anteriore e l'Africa settentrionale (ne abbiamo già parlato nel precedente capitolo) vengono a dimostrare la vivacità delle relazioni fra i due grandi Stati civili, che porta con sè lo scambio e il perfezionamento di tutti, o almeno della maggior parte dei rami del sapere.

Per la civiltà assira in tutta la sua estensione si è certamente scoperto, dalla metà del secolo scorso, una miniera d'incalcolabile valore: la grandiosa biblioteca di tavolette di argilla, raccolta ed ordinata dai dotti preti di Ashshurbânipal, l'ultimo potente signore di Assiria, il Sardanapalo dei Greci; scoperta da Layard e Rassam nel lato sud-ovest e nord del palazzo del gran castello reale di Ninive, dove oggi è il villaggio curdo di Kujung'ik, sulla riva sinistra del Tigri, vicino a Mossul fiorente città di commerci.

Questa raccolta di "libri", unica in tutta la storia dell'antico Oriente e formante la più antica biblioteca del mondo, non era certamente la sola da cui i sacerdoti assiro-babilonesi dell'Asia minore attingevano la loro sapienza.
Il solo impianto e ordinamento della mirabile raccolta, ancora visibile nell'attuale stato di ro
vina (si parla di circa 100 metri cubi di tavolette) presuppone decenni, forse anche secoli di pratica e di sviluppo biblio-economico.
Inoltre gli « antichi originali » dai quali sono copiate molte, forse anche la maggior parte delle tavole, si trovavano sparse, secondo quanto annotano gli scribi, nelle più svariate città, quindi facevano di certo già parte di antiche raccolte di "libri", forse a loro volta dipendenti da biblioteche pubbliche vere e proprie.
Ad un caso fortunato dobbiamo dunque una volta di più ai frammenti di un materiale già esistente, frammenti che illuminano un angolo dell'oscuro passato dell'Oriente antico.
Eppure nel lungo periodo che va dall'antico babilonese al regno neo-assiro non si é trovata finora una tale abbondanza di iscrizioni importanti per la storia della cultura, quale nella raccolta di Kujung'ik. Appunto in base a questa caratteristica raccolta sembra dunque opportuno schizzare un disegno della civiltà e cultura assira nel suo pieno rigoglio, lasciando ai futuri ritrovamenti e alle future indagini e il compito di tratteggiarne altre fasi.


Questi documenti scritti si accompagnano con molti prodotti artistici da quando il regno assiro raccolse l'eredità della antica cultura babilonese, fino al suo termine; nè il loro studio é senza frutti per il quadro da tracciare.
I recentissimi scavi nella Babilonia e Assiria ci hanno offerto ragguagli autentici sul materiale da costruzione, sul prosciugamento, disseccamento e preparazione dei mattoni, d'uso generale, sul come si cementassero col bitume e si smaltassero le pareti, sulla messa in opera dei pilastri e delle colonne (di rado usate), sui basamenti a terrazze e il raggruppamento di singoli locali, sulle vie di scolo, sulla costruzione dei tetti e sulla tecnica del rivestimento. Possiamo studiare esattamente, in alcuni ottimi modelli, la costruzione dei palazzi e dei templi: e conosciamo meglio di prima il sistema principale delle numerose piramidi-tempio, il cosiddetto sistema a scalee.

Studiosi competenti ci hanno messo davanti agli occhi un quadro dell'arte delle fortificazioni, dal quale vediamo chiaro la costruzione delle spesse muraglie delle fortezze assire, con i loro parapetti e merli, con le casematte, le porte e le torrette, nonché le maniere di assalto di queste fortezze mediante arieti, montoni e bolcioni e il loro sistema di difesa.
Ricche di risultati riguardo all'edilizia furono in specie le campagne della Orientgesellschaft a Qalat Shirgat, nel luogo dell'antica capitale assira Ashshur: ci fecero conoscere la pianta delle case private assire, col vestibolo, il cortile a lanterna, le stanze principali provviste di nicchie e una serie di camerette rettangolari divise l'una dall'altra da pareti sottili di mattoni di fango.

Vennero pure alla luce i vari modi d'inumazione dell'età assira, l'uso di sarcofagi in forma di vaso o di tinozza e di tombe di mattoni e di terra. Svariati avanzi dei palazzi assiro-babilonesi ci mostrano la tecnica più semplice dell'architettura decorativa, derivata dall'arte tessile. Già nell'antica età assira dovevano esser assai perfezionate la tessitura dei nastri mediante assicelle e il ricamo a colori.

Anche il rivestimento dei muri procedette evidentemente dalla tappezzeria, forse già dall' antico progredita poi con l'uso di appendere tappeti alle pareti. Nell'arte decorativa hanno parte notevole i modelli ornamentali a galloni e orlature, ovvero in forma di rosette, archi e a zigzag, quali li vediamo splendidamente eseguiti in un frammento di pavimento del palazzo di Sanherib a Kujung'ik.
Col perfezionarsi della fabbricazione dei mattoni anche la pittura, della quale é rimasta qualche traccia nei bassorilievi, influì sulla decorazione delle pareti. Specialmente la metà inferiore dei muri era ornata di figure colorate, per lo più policrome, più tardi sostituite da splendidi bassorilievi.

Appena si può oggi prevedere quel che ci insegneranno riguardo alla plastica assira, questi bassorilievi, eseguiti per lo più su grandi lastre di alabastro; riguardo all'incisione di coni le centinaia di cilindri a sigillo, e riguardo all'industria - e ai lavori in metallo - i ritrovamenti minori. Ma bastano già a formare, insieme alle svariate scene sacrificali, un capitolo particolare della storia dell'arte antica in Oriente, i lavori statuari del regno assiro, la statua evidentemente ritrattistica del gran re Ashshurnassirpal, i bassorilievi di Salmanassar II, di Sanherib, Asarhaddon e Ashshurbânipal, la statua benissimo conservata del dio Nebo, o i bassorilievi di un eroe o del dio del sole, i notissimi e impressionanti tori e leoni colossali - più di 40 ne ha scoperti il solo Layard - le rappresentazioni di animali favolosi e geni ed i curiosi emblemi sulle diverse pietre terminali.
E quanto c'insegnano i maggiori monumenti dei sovrani, considerati ciascuno di per sé !
Quale storico dell'arte non si fermerebbe dinanzi alle figurazioni, benissimo conservate, del celebre obelisco nero di Salmanassar II con i curiosi animali esotici e i vari oggetti offerti come tributo?, o non s'interesserebbe agli splendidi battenti, dell'età dello stesso re, scoperti a Balavat, che offrono il modello meglio conservato della tecnica assira del bronzo?
Fatti di guerra, scene di caccia, cerimonie del culto ed azioni della vita ordinaria si presentano all'osservatore. Egli vede le truppe assire vittoriose avanzarsi per ripidi monti, per alti boschi e per fiumi impetuosi.

Assiste alla espugnazione e saccheggi di fortezze straniere, ben visibili coi loro merli, col grande portale fiancheggiato da torri. Tien dietro alle fasi dell'attacco, quando si appoggiano le lunghe scale per l'assalto o quando si accostano alle mura i potenti arieti, su quattro o sei ruote, con le loro gigantesche travi rivestite di bottoni metallici.
Nelle piante di queste fortificazioni, oltre alla corona di merli è, pressoché regolarmente, segnato nell'interno un tempio o altare, il santuario protetto e difeso dagli abitanti della fortezza. Né mancano chiare figurazioni del modo di fabbricare, del tingere i mattoni, dell'innalzare i muri. Una quantità specialmente ricca per lo storico della cultura promettono le rappresentazioni delle spedizioni guerresche in genere, in cui figurano in quantità fogge assire e straniere. Vediamo i guerrieri, a piedi e a cavallo, col lungo mantello a quadri spiovente fin sul malleolo, oppure in veste succinta fino al ginocchio; l'uno e l'altra attillate, sostenute da una cintura e frangiate all'orlo; a piedi nudi, o più rado in sandali, lunghi i capelli, la barba, coperta la testa di un elmo alto.
Gli schiavi vanno invece a testa nuda e portano una veste liscia, fino al ginocchio, talvolta senza cintura. Molto ricco - come si vede chiaro da bassorilievi di età più tarda - è l'abbigliamento del re, mirabilmente operato a tessuto o a ricamo. La barba e i capelli, accuratamente ondulati, cadono in lunghe anello; il capo é coperto di un elmo conico assottigliato in alto e nelle figure più recenti adorno di disegni circolari e terminante in punta; elmo che si ritrova, per molti anni, come insegna reale su impronte di sigilli.

L'abbigliamento è completato da orecchini, da braccialetti portati sull'avambraccio e al polso, da una cintura o sciarpa con fiocchi e da sandali con legacci artisticamente intrecciati, fin sui polpacci. Mentre il re per lo più vien rappresentato con spada e bastone, talora anche con una specie di scettro o col fulmine, l'armatura del guerriero consiste nella spada al fianco, nell'immenso arco pendente - quando non è adoperato - dalle spalle, nel gran turcasso con le frecce che ne spuntan fuori, in una specie di clava e nello scudo, a forma allungata per l'assalto, più piccolo e rotondo, con borchie e spunzoni, per battaglie in campo aperto.
I guerrieri a cavallo portano per lo più la lancia; dei pedoni che vanno a coppia, uno reca l'arco e le frecce, l'altro lo scudo. Dei prigionieri, assai di frequente raffigurati, solo qualche volta gli uomini - forse personaggi altolocati - portano una veste listata per lungo; di regola sono ritratti nudi, così i bambini, con le mani legate dietro la schiena e aggiogati insieme mediante collari; dinanzi al vincitore o s'inginocchiano, o si prostrano a terra, o alzano le mani fino alla fronte.

Le donne procedono libere in lunga veste semplicissima, sorretta da una cintura, dalle brevi maniche: da una specie di cappello esce e ondeggia sulle spalle la lunga e disadorna capigliatura. Diciamo di passaggio che gli artisti quasi si compiacciono di raffigurare i tormenti e le mutilazioni inflitte a questi disgraziati, il taglio delle varie membra, la decapitazione e le teste esposte, come orribili trofei, sui muri delle fortezze.

I cavalli assiri recano finimenti magnifici e ricchi ornamenti sul capo: con i muli, essi formano l'attacco dei carri di guerra, poco profondi e con due ruote a sei raggi. Non mancano, di regola, il turcasso dentro o accostati al carro, ed una lancia infioccata, sporgente dalle parte posteriore dell'ossatura. L'auriga sta in piedi, a sinistra del re pronto a scagliare il dardo; a testa nuda, come tutti quelli che si trovano presso il sovrano, eccita con la frusta i cavalli o i muli; in tempo di pace invece é il re stesso che tiene le briglie, mentre il suo - per lo più unico - compagno solleva una specie di stendardo con emblema rotondo.

Anche il trono reale vien portato al campo su ruote o, in casi di difficile viabilità, trascinato dietro al sovrano sulle spalle di uomini robusti. È questo il «trono mobile», come è chiamato nelle iscrizioni, in contrapposto al «trono stabile», che alcune rappresentazioni più tarde ci mostrano artisticamente lavorato, posante su piedi girevoli o sostenuto da animali favolosi, con tre piani riuniti da colonnette e con sopra disteso il re su un cuscino. Presso questo trono fisso vediamo sempre i servi che reggono l'ombrello e il ventaglio. Il quadro ne é completato dalla famosa «scena del giardino » di Ashshurbânipal:

accanto al trono, occupato dalla regina in adorna veste con maniche, lunga fino ai piedi, appare come giaciglio del suo reale consorte un letto allungato, sostenuto da quattro piedi torniti, con guanciali, piumino e una coperta gallonata e infiocchettata all'estremità. Alcuni dei bassorilievi di Balavat ci presentano anche le occupazioni della vita quotidiana, della caccia e della guerra. Per la pesca si usavano grandi reti, quali le vediamo anche in più tarde rappresentazioni di cacce, messe al posto o portate da schiavi seguìti dai cani da caccia.

Oltre al mezzo più semplice di navigazione su pelli di montone ripiene d'aria, conservatosi fino ad oggi (una specie di odierno canotto), vediamo anche delle barche primitive, la cui capacità, a giudicare dai carichi di sassi, non dev'esser stata piccola; le due fiancate, che nei modelli meglio lavorati vanno a finire in prue intagliate, portano fianchi alti, su ciascuno dei quali siede un rematore. Però la costruzione delle navi aveva già prima raggiunto una maggiore perfezione; un bassorilievo del tempo di Ashshurbânipal rappresenta un grosso battello, che termina a punta, a diversi piani, probabilmente spinto da 18 rematori.
Molto evidente è pure la raffigurazione dei guadi, che alla presenza di un sorvegliante seduto vengono colmati di pietre con strati d'erba.

Che tipo di cibarie consumassero, prendendole da grandi marmitte ed otri panciuti, i guerrieri affamati, seduti su sgabelli bassi e serviti da schiavi, non si vede chiaro dai bassorilievi. Essi ci dànno invece un'idea chiara del come si allestivano i sacrifici al campo: la statua del dio, cui si sacrificava, era posta in una nicchia e le vittime - vacche, arieti ed agnelli - portate avanti, oppure l'altare sostenuto da colonne si collocava sotto una tenda innalzata su alte stanghe e dal tetto lievemente arcuato: qui eseguivano le sacre cerimonie i preti, riconoscibili dal loro copricapo alto e appuntito; la musica di lunghi flauti e di arpe policorde tenute orizzontalmente accompagnava i canti e gli inni alle divinità.

A chiudere la rassegna di quanto possiamo imparare dall'attento esame anche di un solo grande monumento dell'arte assira, ricorderemo in fine le rappresentazioni di ogni sorta di pagamenti di tributi, dei portatori curvi sotto il peso degli otri, dei cammelli carichi, delle forniture di capre e di cavalli, degli oggetti preziosi trasportati dentro grosse caldaie e specialmente delle grosse zanne di elefante, quali dovremo certo riconoscere in alcuni pezzi trasportati a spalla.
Se ora noi ci fermiamo a studiare la cultura dell'impero assiro, riconoscibile nei ricordi scritti dei suoi dotti, ci si presenta una quantità di testimonianze autentiche, insospettata fino a pochi decenni fa: quantità considerevole, sebbene le 22.000 tavolette o parti di tavolette di argilla finora scavate a Knjung'ik non formino che una frazione dei tesori là sepolti.
Questa raccolta di tavole (ordinate e cernite perfino dall'autore dell'opera da dove abbiamo attinto queste pagine (C. Bezold, La civiltà dell'Oriente antico) e che contribuì con un lavoro di oltre dodici anni di studi nelle stesse tavole) può definirsi una biblioteca nel vero significato della parola.

Nella notazione, più o meno lunga, che chiude quasi tutte le tavolette di contenuto scientifico, vi é per lo più un'annotazione ufficiale che indica il documento relativo come proprietà «di Ashshurbânipal, re del mondo, re di Assiria» : nel resto della segnatura il re dichiara di aver fatto copiare le tavole da antichi esemplari, e dopo un'accurata revisione e correzione di averle esposte nella reggia per prenderne egli stesso visione.
«Se qualcuno cancellasse il mio nome (scritto su di esse) - minaccia Ashshurbânipal - cui il dio Nebo e la dea Tashmitu hanno concesso «larghi orecchi ed occhi limpidi» - «possa il nome di lui esser distrutto da Nebo, lo scriba dell'universo !».

La suddetta notazione è importantissima anche per determinare l'appartenenza dei singoli pezzi della biblioteca; una riga di richiamo alla fine di una tavola contiene le parole iniziali della tavola successiva dentro una intera «serie», venendo così a riunirsi le parti corrispondenti in « libri » veri e propri.
Antichi «cataloghi» di tali libri o delle loro sezioni, essi pure composti dai sacerdoti assiri, rappresentano un pregevole e intelligente lavoro di bibliotecario, di cui invano si cercherebbe l'eguale in tutto quanto l'Oriente antico.

Il contenuto di questa mirabile raccolta abbraccia tutti i rami della cultura assirobabilonese. Una parte cospicua é occupata dai testi storici, scritti in gran parte su prismi a sei o a dieci facce. Ecco qui messe «in argilla», in prosa tornita e solenne, le razzie e le spedizioni guerresche, le rivolte sedate, i grandiosi edifici e gli impianti per l'irrigazione, i popoli vinti trapiantati nei territori assiri confinanti, le cerimonie ufficiali del culto e le regie cacce al leone.


Le imprese dei sovrani bellicosi ed avidi di bottino sono ordinate secondo gli anni di regno e le gloriose spedizioni. La drammatica descrizione di singole battaglie, dei crudeli maltrattamenti inflitti ai vinti, delle fortezze espugnate e ridotte in cenere, il dettagliato elenco delle prede fatte o dei tributi imposti formano i temi principali di queste iscrizioni.

Una fonte importante per lo storiografo deriva anche dagli «oracoli», che la robusta fede dei re assiri metteva in bocca ai loro protettori divini, in specie al dio del sole Shamash, al dio Marduk ed alla dea Ishtar, e che contengono chiare allusioni ad avvenimenti politici e militari del tempo di Asarhaddon e di Ashshurbânipal.
Le iscrizioni storiche di Kujung'ik sono infine completate da un'ampia estesa letteratura epistolare, che era da aspettarsi si svolgesse in Assiria, dopo Chammurabi e la corrispondenza con i sovrani della XVIII dinastia egiziana. Contiene essa i dispacci scambiati dal re o dai suoi parenti e alti dignitari con i funzionari ed ufficiali subalterni; lettere e rapporti circa provvedimenti militari e movimenti di truppe, circa affari d'amministrazione nelle province, imprese edilizie dello Stato, feste, processioni e cerimonie religiose d'ogni genere, naturalmente in stretta connessione con osservazioni e profezie astrologiche, con interpretazioni di sogni e di presagi.

Non sono rare anche comunicazioni private, talvolta spedite - come da noi - in una busta chiusa e provvista d'indirizzo, referti di malattie e richieste di assistenza medica: lamenti di torti patiti in seguito a colpe o delitti; istanze, ringraziamenti e proteste di devozione di vario genere.
Le poche parole segnate per le spedizioni di bestiame, vino o frumento dovevano certo servire di controllo per il numero e la data di consegna degli articoli o capi. Come i nostri contrassegni per identificare i proprietari di cani saranno invece da confrontare, mutatis mutandis, quei pezzetti d'argilla forati e in forma d'oliva, che gli schiavi e le schiave portavano al collo attaccati ad una cordicella, e che recavano il loro nome, quello del loro proprietario e una data.

Era da aspettarsi che in uno Stato così bene ordinato come l'assiro dovessero trovarsi elenchi di funzionari e tabelle di contingenti militari. L'esame di queste ultime, compiuto poco fa, ha dimostrato che l'esercito stabile si componeva, in varie unità tattiche, di carri da combattimento, cavalleria e fanteria, divisa alla sua volta in porta-scudi, porta-lance, arcieri e, pare anche, frombolieri: una parte di questa prestava servizio come guardia del corpo del gran re.
Ma anche il censimento dell'impero è rappresentato da parecchie liste, registranti i nomi dei vari membri di una famiglia, le loro occupazioni e i loro possedimenti fondiari. Queste liste ci portano alla classe di gran lunga più copiosa della letteratura assiro-babilonese in generale, ai documenti commerciali, assai largamente rappresentati anche nella biblioteca di Ashshurbânipal.

Dal prezioso codice di Chammurabi abbiamo già visto come già nell'antico regno babilonese il possesso fosse accertato e stimato e le relazioni commerciali regolate mediante convenzioni e trattati. Lo svolgimento, compiutosi in linea retta per quasi tremila anni, del sentimento giuridico e della giurisprudenza, da quel tempo fino all'inizio dell'era nostra, é un fenomeno unico nella storia dell'umanità.
Anche i soli nomi di testimoni, registrati in gran numero nei singoli documenti, offrono interesse: ci fanno conoscere le principali ditte commerciali di Assiria e Babilonia, i mercanti di schiavi, i fornitori, l'influente negoziante all'ingrosso e l'avvocato esperto in tutte le arti dell'interpretazione della legge, mentre da altri passi risultano i doveri e le facoltà del giudice, arbitro supremo della giustizia in rappresentanza del re.
I contratti di compravendita riguardano il possesso di schiavi e di terreno fabbricativo, di case e campi, di vettovaglie e oggetti d'uso. Parecchie centinaia dei contratti di Kujung'ik riguardano acquisti e scambi, di affitti e appalti, di pegni, prestiti e donazioni; obbligazioni e atti d'investitura si alternano con quietanze, contratti di fornitura e contratti di nozze.

La tassa dell'interesse pare fosse regolata dallo Stato. Una tecnica particolare si andò formando per la chiusura dei documenti e per l'apposizione dei sigilli; e quel che dice Erodoto degli Assiro-Babilonesi : «ognuno possiede un sigillo», va inteso con qualche restrizione solo in quanto una serie di documenti nella, biblioteca di tavolette di argilla a Kujung'ik porta l'annotazione:- «invece del loro sigillo, hanno impresso qui le loro unghie»: annotazione verificabile di fatto dalle impronte delle unghie e che ricorda la «croce» apposta invece della firma dai nostri analfabeti.

La natura dei documenti commerciali richiedeva che fossero regolarmente datati ciò avveniva in vari modi. Nei tempi più antichi gli anni prendevano nome da grandiosi fatti naturali o da importanti atti di governo, da conquiste e scorrerie in terre nemiche, da costruzioni di templi e canali, da consacrazioni di immagini divine. È probabile che solo molto più tardi si cominciasse a servirsi degli anni di regno come determinazione cronologica: sistema d'altronde già seguito nelle antiche iscrizioni babilonesi e in certi casi mantenutosi fino al termine del regno neobabilonese.

La maniera di datazione più comune in Assiria, e solo dopo la morte di Alessandro il Grande rimpiazzata da un computo per era di uso generale, consiste in ciò; ciascun re, dall'inizio del suo regno, dà per la durata di un anno il nome all'anno; ma per tutti gli anni successivi trasferisce tale onore via via in ciascuno dei suoi più alti dignitari; dal nome di questi l'anno viene così designato, come in Grecia dal nome degli arconti e a Roma da quello dei consoli.
I nomi di questi dignitari od eponimi sono registrati dai cronografi assiri in elenchi speciali, alcuni dei quali recano brevi annotazioni sugli avvenimenti d'importanza politica o per altra ragione notevoli. Un'eclisse di sole quasi totale, prodottasi il 15 giugno 763 a. C. e in tal. modo pervenuta a nostra notizia, servì agli storici di riprova per la attendibilità degli elenchi, acquistando con essa la cronologia assira una base sicura.

Questo sistema di datazione degli Assiro-Babilonesi, insieme alle loro notazioni cronografiche, al metodo intercalare dei mesi fissato ufficialmente fin dai tempi dì Chammurabi e al doppio sistema di numerazione già formato nell'antico regno babilonese, presuppongono necessariamente un notevole studio della matematica ed una osservazione attenta, sistematica, ininterrotta dei corpi celesti.
L'alta antichità dei calcoli matematici dei dotti babilonesi é stata di recente provata da una quantità di tavole di moltiplicazione scavate a Nippur, la quale insieme alle liste di quadrati e cubi ci apre la via a conoscere le loro teorie dei numeri. Inoltre é ormai fuori di dubbio che la patria di ogni astrologia sia da cercarsi nell'Assiria e nella Babilonia. Certamente, la lunga via che dalle prime osservazioni delle fasi lunari, del sole radiante e delle stelle scintillanti conduce alle complicate previsioni astronomiche ed alle tavole di effemeridi redatte in scrittura cuneiforme, non è certo stata percorsa nella maniera rigorosamente scientifica, quale noi oggi ci aspettiamo nell'entrare in un osservatorio.

Furono all'inizio i paurosi fenomeni celesti che alle trepide menti dei Babilonesi, come presso a poco a quelle di tutti gli antichi popoli civili, apparvero come manifestazioni più chiare dei voleri di una divinità infausta e adirata. Minacciose masse di nubi, lampi e tuoni, furia di venti o uragani, meteore e stelle cadenti, e soprattutto le eclissi del sole e della luna crearono anche qui, per l'impressione che producevano in chi li osservava, quelli che l'Usener chiamò "dei momentanei".

Solo dopo continue osservazioni della volta celeste si giunse a determinare le lunazioni e quindi i mesi; e solo in seguito alle sproporzioni lamentate fra l'anno lunare e i bisogni dell'agricoltura, dipendente dalle stagioni, si pervenne ad accordarlo con l'anno solare, precisando anche l'esame delle stelle fisse. Oggetti principali di queste osservazioni astronomiche sono il sole e la luna nella loro reciproca posizione celeste, la loro levata, tramonto ed eclissi, nonché il corso dei pianeti Venere, Giove, Mercurio e Marte e la fissazione di una serie di gruppi di stelle fisse, chiamati, dagli oggetti cui si facevano rassomigliare, con nomi particolari, come « arco », « scudo » o « carro ». Ma nel campo di osservazione dell'antico astrologo rientravano anche i contorni delle nubi ammassate e la loro somiglianza con figure animali, le linee descritte dal fulmine nel firmamento, la direzione del vento e la caduta di meteoriti. Da tali osservazioni si traevano per lo più presagi di terribili eventi; morti e morìe, sconfitte e schiavitù, persino il crollo di certe divinità.

Per uso speciale del re e della sua corte, si redigevano estratti dei documenti più estesi, in riguardo agli atti di governo del sovrano, alle misure politiche, agli edifici di Stato, alle cacce di corte. Nella biblioteca di Kujung'ik esistono numerosi saggi di tali rapporti astrologici, presentati al re in certe occasioni, e nei quali, per motivi facili a comprendersi, non si facevano che fauste predizioni. Appunto queste tavolette di poche righe, or ora ricordate, sono della massima importanza, in quanto un paio di volte alla profezia astrale e ad un breve augurio per Sua Maestà è aggiunta la data; mentre alcune altre contengono le più antiche osservazioni d'indole puramente astronomica. Senza dubbio da queste concise, e dapprima isolate, annotazioni sorse l'astronomia vera e propria, che in Babilonia e Assiria deve aver percorso in pochi secoli la via decisiva dalla osservazione al calcolo.

Fra le notizie della raccolta di Kuiung'ik e i tardi testi babilonesi si apre qui una lacuna, che per ora non può essere colmata. Ma nel deciframento di questi ultimi la scienza dei cuneiformi ha riportato una delle sue più splendide vittorie. Oggi sappiamo che i Babilonesi dell'età dei Seleucidi e Arsacidi, oltre a calcolare l'ascesa e discesa eliaca dei pianeti e la loro congiunzione col sole, avevano anche riconosciuto la periodicità delle eclissi, giungendo perfino a calcolarne in precedenza la visibilità per un determinato punto di osservazione. Insieme a vari sistemi di osservazione dei pianeti si sono scoperti due sistemi di computo delle lunazioni, nei quali l'errore poté esser ridotto di molto, che per es. la durata media del mese sinodico medio, ossia del periodo da luna nuova a luna nuova, differisce da quella oggi stabilita di solo 0,4 minuti secondi.

Anche le stelle fisse furono accuratamente studiate e nomi di gruppi di stelle come «toro», «gemelli», «scorpione» e «pesci» non lasciano dubbio che l'origine di alcune delle nostre costellazioni sia da ricercarsi in ultima analisi nella Babilonia. E si badi che per questa parte l'indagine moderna é appena incominciata: chi ha studiato un po' da vicino le centinaia di tavolette nel Museo Britannico, contenenti queste curiose annotazioni, chi li ha viste ricomporsi insieme da frammenti - non per il lavoro del filologo occupato nelle tavole ma per i calcoli dell'astronomo da lui separato da miglia e miglia, é convinto che l'antichissima storia dell'astronomia dovrà registrare ancora molte e molte scoperte.

Riprendendo, dopo questa breve digressione, l'esame delle tavole di Kujung'ik, dal secondo e terzo al settimo secolo a. C., noteremo subito la grande somiglianza delle predizioni astrologiche con quelle di un altro gruppo di testi le centinaia dei cosiddetti "Omina". Queste iscrizioni, specialmente importanti per lo storico delle religioni, si distinguono dalle astrologiche solo per riguardo agli oggetti in esse considerati. Mentre la fantasia della credula anima popolare leggeva in quelle gli eventi del futuro, il favore e la grazia o l'ira e la vendetta degli dei dal cielo ora radioso di sole e di stelle, ora grave di nembi e di tempeste, attingeva in queste la nozione dell'avvenire da fatti, stati e movimenti terrestri.

Quasi ogni fenomeno, imprevisto o immediato, poteva valere come presagio; e le stesse interpretazioni e profezie, che i Babilonesi derivavano dai moti degli astri, furono da essi attinte dagli eventi osservati sulla terra e spiegati come «omina». Libri interi, uno dei, quali comprendeva più di cento tavolette d'argilla, sono pieni di tali curiosi eventi.
Si osservavano accuratamente e si interpretavano i movimenti, le voci e l'accoppiamento dei vari quadrupedi come leoni, iene, volpi, buoi, cavalli e asini, cani, pecore e porci: il volo e i nidi degli uccelli, i sibili e guizzi dei serpenti, i danni arrecati dalle cavallette, dagli scorpioni, dalle tignole. Si badava a quel che succedeva nelle strade della città, nei canali e nei fiumi. Il fumo, il fuoco, le fiamme, le orme, le ombre potevano, per certe proprietà, rivelare il futuro.
L'oniromanzia (divinazione basata sull'intepretazione dei sogni) era tenuta in alto conto e produceva le più strane forme di superstizione.

Infine servivano di segno precursore anche gli atteggiamenti dei neonati, così degli uomini come delle bestie. Stupisce il vedere l'enorme posto occupato nella libreria di Sardanapalo da questi Omina, finora solo in piccola parte resi accessibili e che, nonostante il loro insipido contenuto, meritano molta attenzione quali resti ancestrali di un'antica religione naturalistica.
Lo stesso dicasi di due altri generi affini, solo recentemente resi noti, la mantica del fegato e dell'olio. Molto più di mille frammenti della biblioteca si occupano dell'esame del fegato, «risplendente» dalla pecora sacrificale appena sgozzata; una « serie » speciale di testi dedicati alla epatoscopia, mostrano la grande importanza attribuita dagli Assiri a questo viscere, di cui ci son conservati modelli in argilla con le più svariate suddivisioni e iscrizioni.

Anche la lecanomanzia (divinazione consistente nell'osservare i fondi o le superficie dell'acqua in un catino) fu praticata fin dai tempi di Chammurabi. Sull'acqua che riempiva una patera i sacerdoti officianti « gettavano » particelle d'olio, traendo pronostici se si mescolavano e si separavano i due liquidi, dal movimento delle gocce d'olio e dal formarsi di bollicine e cerchietti. (in verità ancora oggi in uso in alcuni paesi meridionali della stessa Italia - per togliere il malocchio).

La precisione con cui nei testi relativi é descritto lo spargersi dell'olio sulla superficie dell'acqua é stata, pochi anni fa, confermata da G. Quincke, la prima autorità vivente nel campo di questi complicati fenomeni fisici.

Il rapporto cronologico di tali arti divinatorie e degli « omina » con lo sviluppo dell'astrologia non si può finora determinare. Ma é verosimile che un intimo legame unisca fra loro tutte queste pseudo-scienze di origine superstiziosa. L'epatoscopia e la lecanomanzia sono mischiate a speculazioni astrologiche, mentre gli omina si confondono con i presagi tratti dall'osservazione celeste, limitati come sono a certi periodi o momenti di tempo.

Anche i primordi della medicina babilonese non possono separarsi da concezioni e interpretazioni astrologiche, mentre d'altra parte numerosi omina si occupano di malattie. Si teneva conto sul serio dell'influenza degli astri sul modo di cura e sugli ingredienti terapeutici sia vegetali che animali, come d'altronde si facevano dipendere dalle costellazioni lo scoppiare di una epidemia o le singole malattie.
Una serie di libri di medicina - il più grande comprendeva almeno 63 tavolette -- ci mostrano la classificazione e la diagnosi delle varie malattie. Nei testi finora pubblicati sono descritte con maggior precisione l'eresipela (?), le oftalmie e le malattie della cavità addominale, dell'intestino e della bile.
Significativi e notevoli per la storia dell'alcolismo sono diverse ricette contro le dannose conseguenze dell'ubriachezza, contenute in una di queste opere, nella prima serie di tavole mediche, edita ed illustrata scientificamente da un dotto tedesco.
Vi troviamo per esempio la prescrizione seguente: «Se un uomo ha bevuto una bevanda inebriante [probabilmente birra] e ha perduto la testa, se dimentica le parole e mentre che parla le "oblitera" se non é più in senno e ha gli occhi sbarrati, lo guarirai triturando e mescolando undici materie vegetali [seguono i nomi]; beva la miscela con olio e birra (?), in cospetto della dea Gula [probabilmente personificazione dell'aurora], la mattina prima del levar del sole e prima che qualcuno lo abbia baciato, e guarirà ».

Un libro particolare sembra, stando al titolo, fosse dedicato ai fenomeni della febbre. Un'altra opera intitolata "Se un malato ha stati patologici di tutte le parti del corpo": dopo la prima tavola introduttiva, una si occupa della fronte, la successiva dell'occhio destro, la quarta dell'occhio sinistro, la quinta della lingua, e così via via dell'orecchio destro, dell'orecchio sinistro, della nuca, delle mani.
Ma dai testi ancora inediti, che in tutto comprendono pressoché un mezzo migliaio di frammenti, avremo ragguagli anche intorno alle malattie di petto e del cuore, della pelle a dei genitali, nonché intorno all'avvelenamento da morsi di serpenti, di scorpioni o colpi di insolazione.

A questi scritti di medicina, soprattutto se trattano di malattie mentali, sono frammisti scongiuri di ogni sorta, che ci conducono alla sezione della letteratura assiro-babilonese più importante per la storia della cultura: i documenti religiosi degli antichi abitanti della regione dell'Eufrate a del Tigri.

Per giudicare a dovere questi scritti non dovremo mai dimenticare che la letteratura conservataci a Kujung'ik non è certo, in massima parte, un prodotto della civiltà semito-assira, ma ha le sue radici nell'antica età sumerica, precedente a questa semitica.
Nei testi espressamente citati come copie di antichi originali é difficilissimo distinguere gli elementi più moderni dai più antichi, potendosi solo in pochissimi casi trovare un punto d'appoggio cronologico per la datazione di quegli originali.
Quanto più i testi appaiono sistematizzati, tanto più legittimo è il sospetto che siano giunti alla loro forma attuale attraverso un lungo periodo di sviluppo. Quanto più chiara d'altra parte certi scritti portano l'impronta della compilazione, tanto più fondatamente li riterremo rappresentanti relativamente fedeli di antiche concezioni. La qual cosa si spiega col fatto, generalmente ammesso, che gli Assiro-Babilonasi accolsero per intero, e fecero proprie, le idee religiose ereditate dai Sumeri. Infatti, tutto dimostra che fino all'età di Sardanapalo la lingua e la scrittura sumerica eran tenute come sacre in Assiria. I preti assiri non trascuravano lo studio dell'antica lingua sacra, allora già da molto tempo estinta; per essere più efficaci, gli inni e i canti, le formule magiche e gli scongiuri dovevano esser recitati nella lingua non semitica; si badava perfino, a quanto pare, alla giusta pronunzia dei canti rituali.
(E' un po simile all'adozione del latino, anche quando ormai l'intera popolazione par
lava e scriveva in volgare).

In questo modo si spiega facilmente la cultura bilingue del sacerdozio alla corte del gran re assiro e la tradizione scolastica di tale cultura, da cui si svolse una ricca filologia. Un primo impulso la diede l'applicazione della scrittura cuneiforme, di per sé complicata, del sumerico ad una lingua semitica come l'assiro-babilonese.
Perché non andasse dimenticato l'uso dei singoli gruppi di cuneiformi, ammontanti a circa quattrocentocinquanta, se ne compilarono liste ordinate variamente, adoperate da alunni di talento linguistico nello studio dei vari testi della biblioteca.
Così in tre elenchi fondamentali di queste raccolte i segni sono spiegati prima secondo la pronunzia sumerica e il valore verbale assiro, ovvero secondo il valore sillabico assiro e il nome del segno o finalmente - combinazione dei due primi casi - secondo la pronunzia numerica, il nome del segno (corrispondente al nome delle nostre lettere dell'alfabeto) e il valore verbale assiro.
Altre tavole contengono segni arcaici con le corrispondenti forme moderne, cioè del VII secolo a. C. Altre ancora registrano la pronunzia eguale o simile delle parole sumere o assire, oppure riaccostano parole di eguale o simile significato.

In questo modo ci sono conservate ampie liste bilingui di indole enciclopedica, comprendenti quasi tutti i sostantivi e verbi di uso più comune del lessico assiro: nomi di animali, piante e minerali, di oggetti di legno o bronzo, di pesi e misure, di città, paesi e fiumi o canali, di stelle, divinità e templi.

L'insegnamento scolastico della lingua sumera risulta inoltre da una serie di paradigmi, di preposizioni unite a nomi, di coniugazioni di vari verbi, derivazioni da una stessa radice e brevi frasi-modello. Queste ultime erano di regola ricavate, come si vede dal loro contenuto, da qualche opera letteraria che poi l'alunno doveva interpretare nel corso dei suoi studi. Si compilavano anche, per scopi didattici, commenti veri e propri ad opere, il cui contesto ci è talvolta rimasto, a confronto, fra i mattoni della biblioteca di Kujung'ik.

L'odierno decifratore riconosce in queste tavolette d'argilla una vivace attività filologica, un enorme lavoro mnemonico, e una accuratezza e metodica linguistica apprezzabilissima per quell'epoca; egli approfitta, come già i preti di Ashshurbânipal, di quei preziosi aiuti per la comprensione della scrittura e lingua sumerica, non senza gratitudine per le tante glosse di un qualche antichissimo dotto.

Ma il profitto maggiore trasse l'odierna indagine dalla abitudine degli antichi scribi di redigere i testi religiosi stessi - dei quali è ormai tempo di occuparci - in due lingue, l'antica lingua sacra sumera e la loro lingua materna assira.
La redazione di questi scritti è di regola interlineare: a una riga di originale sumero tien dietro una o due righe di assiro con la traduzione più o meno esatta della riga iniziale: seguono due altre righe nella stessa redazione bilingue, e così via.
Solo in ripetizioni a mo' di litania, nelle quali per lo più non vi è mutamento che di singole parole dentro una frase, i preti si risparmiarono di aggiungere la traduzione assira.
Tutto fa credere che il sumero costituisse il testo originale e l'assiro la interpretazione più tardi aggiunta. Ad ogni modo il giudizio su questi prodotti letterari richiede per ogni singolo caso la critica più severa. Che non di rado si ha l'impressione che i preti assiri stessi si siano provati a comporre poesie religiose in sumero, appunto come nel medio-evo si componevano tanti inni e preghiere in lingua latina o come fino ai giorni nostri vediamo rifiorire la poesia religiosa nella letteratura neo-ebraica.

A stabilire definitivamente quando si tratti o no di materiale linguistico autentico, potrà solo giovare la conoscenza sempre più approfondita della struttura del sumerico e l'esame critico comparativo delle parti componenti la biblioteca di Ashshurbanipal con le iscrizioni di un Gudea. Le concezioni però contenute in questi testi saranno forse state nell'insieme tramandate intatte dai più tardi custodi assiri del culto, se non altro per scrupolo religioso.

Vengono innanzi tutto formule magiche e scongiuri contro ogni sorta di spettri e fantasmi, contro spiriti maligni, di sette dei quali si dicono i nomi -, contro il delirio o l'ottenebramento di un «indemoniato».
L'uso di queste arti magiche, in azione e in parole, si faceva tanto più generale quanto più efficaci parevano questi esorcismi, certo derivati da antiche forme religiose popolari, quanto più sollecito effetto lo stregone sperava - o dava per ottenuto - dalle cerimonie magiche.
Riti locali e formule passavano da divinità a divinità, da tempio a tempio, finché
diventavano parti integranti, per il servizio divino, della religione di Stato.

Di questo processo, svoltosi forse per secoli, ci sono conservate tracce nella biblioteca di Sardanapalo, in una serie di libri di scongiuri, parte ordinati a secondo le peripezie, le malattie e le sofferenze morali alla cui guarigione dovevano servire, parte a secondo gli spiriti maligni contro i quali eran rivolti, e parte finalmente secondo le cerimonie cui eran destinati ad accompagnare.

Specialmente di quest'ultima sezione conosciamo meglio due modi di cerimonie magiche, ambedue riguardanti «abbruciamenti»: dai quali hanno preso la loro antica denominazione. La prima di queste raccolte, la cosiddetta serie di Shurpu, composta di nove tavole, dà istruzioni per cerimonie svariate contro malattie, colpe e avversità. A distruggere l'influenza degli spiriti maligni si "abbruciano" per esempio una cipolla, un dattero, una pannocchia di palma, una pelle di pecora e di capra e lana, pronunziando, insieme a ciascuno di questi riti, parole sull'uomo preso da una «trista maledizione come da un demone».
Il primo di questi scongiuri dice così:
«Come questa cipolla viene sbucciata e buttata nel fuoco, e la fiamma divampante la consuma; come essa mai più si pianta in un'aiuola, mai più si circonda di solco e fossa, mai più mette radici nel terreno, mai più cresce la sua canna, mai, più vede essa la luce del sole, mai più viene portata sulla mensa di un dio o di un' re, così sia sbucciata la maledizione, il fascino, la pena, i tormenti, la malattia, il dolore, la colpa, il misfatto, il delitto, il peccato, la malattia che sta nel mio corpo, nella mia carne, nelle mie membra ! La consumi oggi la fiamma divampante, sia distrutto l'incanto e possa io vedere la luce! ». -

Il secondo libro magico del «abbruciamento», intitolato Magli, é diretto contro le mali arti degli stregoni e delle streghe. Secondo una credenza universalmente diffusa, le streghe fanno delle figurine di argilla, legno o bronzo, rappresentanti gli uomini ch'esse vogliono tormentare; ma se si fanno delle figure della stessa materia, rappresentanti le streghe stesse, e dopo uno scongiuro si buttano nel fuoco, la loro potenza demoniaca viene spezzata.

Daremo un breve saggio anche di questa forma di scongiuri:
«Chi sei tu, strega bavosa, nel cui cuore sta la parola della mia sventura, sulla cui lingua è nata la mia fascinazione, sulle cui labbra e sorto il mio avvelenamento, sulle cui orme si apposta la morte? O strega, io afferro la tua bocca, io afferro la tua lingua, io afferro i tuoi occhi sfavillanti, io afferro i tuoi piedi agili, io afferro i tuoi ginocchi che cammimano, io afferro le tue mani che gesticolano, io ti lego le mani sul dorso. Il lucente dio della luna distrugga il tuo corpo, ti getti in un baratro di acqua e di fuoco ! Come il contorno di questo sigillo, così possa, o strega, ingiallire e illividire la tua faccia! ».

La via percorsa e le persistenti tracce lasciate da alcune di queste concezioni babilonesi appaiono già dal fatto che uno dei nomi dei «sette» spiriti maligni sopra ricordati, quello di Gello ladra di bambini, sopravvive ancora nella tarda letteratura greca, mentre un altro, di Lilith demone femminile notturno, ritorna nel testo ebraico del profeta Isaia (cap. 34, v. 14), è più volte menzionato negli scritti cabalistici del Talmud e nei testi mandei e ricorre perfino nella «Walpurgisnacht» [Faust, I, 4118-23] di Goethe quale «prima moglie di
Adamo, dalle belle chiome».

Però il mondo babilonese dei fantasmi e ben lontano dall'essere esaurito con questi « sette » e con le streghe e stregoni e loro favoreggiatori. In questi ultimi anni si é avuto notizia dalle tavolette di uno spirito maligno che perseguita i bambini, la demonessa Labartu, in forma d'asino con muso di leone, ruggente e urlante: che poteva esser scongiurata solo col fare e distruggere una sua immagine di argilla, nonché per mezzo di amuleti appesi al collo del bambino stregato, uno dei quali, specialmente curioso si e conservato fino ad oggi.
In tali testi è molto pronunciato un pandemonismo, che sembra risalga ad antiche forme religiose animistiche, e solo in tarda età e in singoli punti sia stato influenzato da concezioni mitologiche astrali.

Non si può finora stabilire se debba ricondursi a quel più antico stadio di sviluppo religioso anche il sacrificio di un animale vivente, agnello o porco, prescritto in tali testi a preservazione della vita umana minacciata.

Ma indubbia prova del progresso nello sviluppo della religione ci dànno i numerosi testi nei quali gli antichi scongiuri sono staccati dal loro cerimoniale e ridotti a preghiere vere e proprie, accompagnate, nelle sezioni più tarde di questa letteratura, dai riti sacrificali propriamente detti, come ravvivamento di quell'antico cerimoniale.
Qui la parte principale tocca alle grandi divinità assiro-babilonesi, le stesse che s'invocano anche nei testi storici e nelle epigrafi degli edifici. I culti locali scompaiono a poco a poco dinanzi a quella che é riconosciuta religione di Stato, gli attributi degli dei e dee assumono una forma stabile, le loro funzioni si compiono secondo regole fisse, le loro parentele o appartenenze sono del pari stabilite.

Ma anche questi canti ed inni risalgono in gran parte, come si vede dalla redazione bilingue, all'età sumerica. Solo in pochi casi ci é dato seguire lo spostarsi e il mutarsi delle forme delle singole divinità da questa epoca fino al loro sviluppo nell'età dei Sargonidi, in decisiva dipendenza da avvenimenti politici (quando Stato e Religione si uniscono in un appoggio reciproco, perchè e utile ad entrambi per tenere a bada il suddito).


Così nell'età di Chammurabi il culto preponderante di Marduch (il Merodach dell'Antico Testamento) riassorbì gli attributi di Illil, antica divinità locale di Nippur, e di Ea, venerato a Eridu; Nebo, dio locale di Borsippa, fu attratto nel culto di Marduk, di cui passava per figlio; e le diadi e triadi originali subirono uno spostamento analogo nei gradi delle divinità, fenomeno per cui non possiamo a meno di ricordare tratti paralleli della religione egiziana.
Non ci é dato finora di stabilire, nemmeno approssimativamente, quando e in che modo sia sorta, accanto a tutte queste mutazioni, la succitata dottrina astrale, che più tardi deve avere influito sulla formazione di tutte quante le idee religiose.

È certo che di questa dottrina non si parla ancora nelle antiche iscrizioni sumeriche finora scoperte; ma è certo che in età più tarda consiste nella unione delle divinità con numeri determinati. Così a Sin, il dio della luna, era attribuito, per motivi ovvi, il numero 30: al dio Ea il 40, a Bel il 50, a Shamash, dio del sole il 20, alla dea del cielo Anu il 60, alla dea Ishtar il 15, al dio del fuoco il 10, al dio delle tempeste il 6; dai cuneiformi impiegati a esprimere il nome di due demoni sembra risultare che in ciascuno di essi si ravvisasse «un terzo» e «due terzi» del valore o dell'essenza della dea Ishtar.

La biblioteca di tavolette contiene in abbondanza preghiere, inni e canti a tutte queste divinità, cosicché è facile determinare esattamente i nomi, la genealogia, l'attività e le qualità, gli attributi e i culti dei singoli dei e dee. Appunto in questo campo i più recenti lavori degli assiriologici hanno dato frutti maturi.
Sta per essere compiuta un'eccellente raccolta e illustrazione di tutti i passi sulla «Religione della Babilonia e Assiria», per opera di M. Jastrow.

Marduk, divinità locale di Babilonia, sbiadito nell'età assira rispetto al dio nazionale Ashshur, è stato studiato nei suoi aspetti successivi fino al regno di Ashshurbanipal; e la pubblicazione di numerosi canti e poesie mitologiche ci ha fatto veder chiaramente le figure di Nergal, dio del mondo sotterraneo, concezione solare in origine; di Ninib, in cui si venerava il cammino del sole; di Sin, dio della luna, e di Tamiz, «il vero figlio della profondità dell'acqua ».

Come esempio di questi inni riportiamo qui una preghiera di una raccolta liturgica, per la prima volta tradotta, e che molti secoli fa si recitava nella festa del capodanno, cioè al principio della primavera:
« Orsù, parti, o Bel, il re ti aspetta; orsù, parti, o Belit nostra, il re ti aspetta! Muove Bel da Babel; i paesi s'inchinano dinanzi a lui; muove da Sarpanitum : si ardono erbe odorose; muove da Tashmîtum: incensieri pieni di cipresso si accendono. L'uno e l'altro a fianco di Ishtar di Babele, suonano il flauto il prete di Assinnu e il prete di Kurgaru, sì, suonano ». -

Era riservato alla Deutsche Orient-Gesellschaft di scoprire, negli scavi di questi ultimi anni, anche il luogo dove quest'inno era recitato: un padiglione posto fuori della capitale Ashshur, innalzato su blocchi di calcare.
Ma anche preghiere in genere, da rivolgersi all'uno o all'altro dio, non mancano nella raccolta di Sardanapalo. Così all'incirca dice un passo, la cui bellezza attrasse già da decenni l'attenzione degli assiriologi, di una « lamentazione » bilingue:
« O Signore, molti sono i miei peccati, grandi i miei misfatti. Io non conosco il peccato che ho fatto. lo non conosco il misfatto che ho commesso. Non conosco l'abominio, di cui mi son cibato; non conosco l'impurità, su cui ho messo il piede. Il Signore mi ha guardato, nell'ira del suo cuore. Il Signore mi ha visitato, nel corruccio del suo cuore. La dea si è adirata contro di me e mi ha colpito di malattia. Il Signore, che non conosco, mi ha angustiato. La dea, che non conosco, mi ha fatto male. Cercai aiuto, e nessuno mi strinse la mano. Piansi, e nessuno si avvicinò al mio fianco. Gridai, e nessuno mi badò. Sono pieno di dolore, sono oppresso, e non alzo gli occhi ».

Data la simpatia dei preti assiri nel disporre in rubriche e classi ("serie") i tesori della loro letteratura, fa meraviglia - e non è certo da attribuirsi al caso - che appunto molte delle «preghiere» non si siano trovate tante «serie», quanto era lecito aspettarci in confronto di altre classi di testi.
Tanto più difficile riesce anche allo studioso moderno della biblioteca di ricomporre questi scritti nel senso e secondo le intenzioni dei suoi predecessori assiri.

Solo certi salmi penitenziali e una sezione di testi intitolati «Preghiere a mani sollevate» e rivolte a varie divinità e gruppi di divinità, formano classi facilmente riconoscibili.
Oltre a ciò, un paio di gruppi di inni si distinguono dai rimanenti per la loro peculiare composizione: così in specie i cosiddetti inni allitteranti, con acrostici e telestici; e una sorta di preghiere in cui, a somiglianza dei salmi ebraici, uno stesso pensiero viene espresso in due righe consecutive, il che appare anche esteriormente dalle lineette che dividono le coppie di righe l'una dall'altra.

Molte numerose nell'antica biblioteca sono anche le iscrizioni rituali, che ci permettono di studiare fin nei dettagli il culto sacrificale della religione assiro-babilonese. Di tre grandi classi di rituali dei sacrifici abbiamo finora più precisa notizia, riferentisi a tre classi di arcipreti, il cosidetto «indovino», l'«evocatore» o sacerdote espiatore, e il «cantore».
Da queste iscrizioni veniamo a conoscere il sacrificio degli animali, il sacrificio incruento e il sacrificio d'incenso, con le differenti parti di questi riti: quali pezzi di carne degli animali immolati si consacrassero agli dei, le sostanze animali destinate all'altare, come latte, burro, miele, i prodotti del suolo, come datteri, vino, pane, sale e varie specie di legni odoriferi. In questi testi, di non facile comprensione, sono pure ricordati i preparativi della tavola sacrificale, che di rado manca nelle corrispondenti rappresentazioni figurate, i piatti, i catini e altri svariati utensili; nonché le prescrizioni per le cerimonie purificatrici del sacerdote, la unzione, le vesti, l'acqua consacrata per vari scopi.

Ad illustrare quanto abbiamo detto, diamo un'occhiata alla traduzione, di recente offertaci da H. Zimmern, di un paragrafo del rituale per il sacerdote espiatore:
«Appena il sole e levato, il re deve lavarsi con acqua, indossare una pura veste rituale, sedersi nella casa del bagno. L'evocatore deve accendere dinanzi al re tutti i catini dei profumi, sovrapporre le spine, compiere tutto il sacrificio dell'agnello, offrire carne del fianco destro, carne di chinsa, carne di shumi, cospargere la carne di chiusa di farina fine e cipresso, libare birra (?), latte, vino per Ea, Shamash, Marduk, ricoprire (la libagione) di farina, aspergere, offrire una libagione funebre agli Anunnaki [divinità secondarie, forse personificazioni delle nubi], sacrificare un agnello ».

Anche in queste iscrizioni hanno parte cospicua le concezioni astrali dei Babilonesi. Così in certi giorni di ciascun mese, e precisamente il 7, 14, I9, 21 28, considerati come nefasti, eran vietate diverse operazioni. Il «supremo pastore del popolo» non doveva mangiare né carne arrostita su carboni, né pane cotto sulla cenere (?) ; né indossare l'abito di gala, né salire sul trono, né sul cocchio reale.
Perfino la cura dei malati, l'esorcismo e il render giustizia erano proibiti in quei giorni, essendo graditi agli dei solo i riti corrispondenti alla «consacrazione» di un dato giorno.

Alle cosiddette emerologie per brevi periodi di tempo, corrispondono i riti festivi per solennità ricorrenti solo una o due volte all'anno: i «grandi giorni», dei quali finora meglio conosciamo il giorno di capodanno.
L'equinozio di primavera, ossia il primo giorno del mese Nisan (marzo-aprile) era celebrato con particolare solennità. Si tenevano processioni di ogni sorta in onore del dio Marduk, che «usciva» egli stesso nel suo «carro-nave».

Solo in questi ultimi anni, e di nuovo per merito di H. Zimmern, si è potuto dimostrare che i riti di queste solennità - svolgentisi nel padiglione poc'anzi ricordato - sono strettamente connessi a miti babilonesi, specialmente al mito della creazione del mondo, di cui più sotto diremo.

Da vari testi della nostra biblioteca appare probabile che i dotti sacerdoti della corte di Sardanapalo celebrassero le singole fasi di questo mito con una rappresentazione solenne formante il centro del rituale: quei testi conterrebbero una specie di commento alle varie cerimonie corrispondenti al mito. Liturgie simili a quelle per la festa del principio dell'anno esistevano probabilmente anche per le solennità del solstizio d'inverno e d'estate.
Almeno risulta da un commento babilonese di più tarda età, nel quale - come nei testi di Kujung'ik ora ricordati - fatti mitologici sono messi in relazione con cerimonie del culto, che anche in quei giorni avevano luogo processioni.
All'inizio di quel commento vi è un passo del seguente tenore:
« L'undecimo giorno del mese di Tamûz [giugno-luglio], al solstizio, le figliuole vanno da(lla cappella di) Esagil a(lla cappella di) Ezida, e il terzo giorno del mese Kislev (novembre-decembre) le figliuole vanno da Ezida a Esagil. E perché vi si recano nel mese di Tamiz? (Risposta) : Le figliole di Esagil vanno a Ezida per prolungare la notte ; (poiché) Ezida è la dimora della notte. E quanto alla scelta del giorno nel mese di Kislev, le figliole vanno da Ezida a Esagil per prolungare il giorno ; (poiché) Esagil e la dimora del giorno ».

Per vedere più dentro in questi culti e prescrizioni rituali dovremo dunque ricorrere alla mitologia assiro-babilonese, alle leggende e poemi diffusi fin da tempo antichissimo nella regione dell'Eufrate e del Tigri e probabilmente sempre più spogliati, nel loro graduale sviluppo, del loro carattere locale più intimo, via via che andava formandosi la più volte ricordata dottrina astrale.

Appunto in questo campo dell'indagine dei cuneiformi la critica spregiudicata deve fin troppo spesso ricordarsi della insufficienza dei sussidi attuali e del carattere frammentario del materiale finora disponibile. Le allusioni nei testi rituali e del culto, le rappresentazioni mitologiche sui cilindri a sigillo e su altri prototti artistici presuppongono, proprio come nell'antico Egitto, la conoscenza di una quantità di miti, dei quali finora o non ci e pervenuta nessuna notizia o solo scarsi cenni in brevi frammenti di narrazioni epiche.

Non si sentiva il bisogno di fissare con la scrittura ciò che era nella coscienza di tutti, ciò che passava di bocca in bocca e si vedeva rappresentato in occasione di feste. Il che può spiegarci come mai il numero dei miti veri e propri, di cui esistono descrizioni nella biblioteca di Kujung'ik, sia piccolissimo in confronto delle iscrizioni religiose redatte per scopi pratici.

Tanto più lieti ci sentiamo di possedere singoli testi che ofrrono notizie intorno all'origine dell'universo, alla perdita dell'immortalità da parte di un uomo, a certi avvenimenti del mondo sotterraneo, al diluvio universale ed a notevoli fenomeni celesti durante l'anno solare.

La creazione del mondo ci è narrata in un curioso poema scritto su sette tavole; se ne conosceva il contenuto già prima della scoperta dei cuneiformi da un libro composto in greco, circa il 300 a. C., dal prete babilonese Berosso, e del quale uno dei padri della chiesa, Eusebio, ci ha conservato alcuni estratti.

«Quando in alto il cielo non aveva ancor nome (e) al disotto la terra solida non aveva ancor nome; quando le acque di Apsi, loro primo genitore, e di Mummu Tiamat, loro prima genitrice, erano mescolate insieme; quando non era ancor formato alcun campo, né terreno paludoso; quando gli dei non esistevano ancora, nessuno aveva ancor nome e il destino non era fissato; allora furon creati i primi dei nel cielo, allora sorsero Lachmu e Lachamu... ».

Così comincia il racconto babilonese, che prende il suo nome « serie » dalle prime parole «Quando in alto», corrispondente al «titolo» nei nostri libri.
Nel corso del racconto, la dea primigenia Tiamat si ribella ai nuovi dei creati. Questi si radunano ed eleggono a loro duce Marduk-Illil-Bel, il « signore », il più saggio fra loro, che si accinge a lottare contro il mostro. Tiamat manda un urlo spaventoso, recita scongiuri e maledizioni. Però Marduk distende la rete e con quella la cattura; manda contro di lei il vento maligno che le penetra in bocca, non appena essa la apre; scaglia Marduk il giavellotto, taglia in mezzo il corpo di lei, le trafigge il cuore. Anche tutti i suoi accoliti sono sconfitti; con la irresistibile clava Marduk spezza il cranio di Tiamat. « Allora il signore si riposò; considerò il cadavere di lei... e lo divise in due parti. Di una metà fece la volta celeste: la serrò a chiavistello, vi pose dei custodi, con la consegna che non ne lasciassero uscire le acque; egli varcò il cielo, penetrò con lo sguardo lo spazio e si fermò dinanzi all'oceano, alla dimora di Nudimmud. Il signore prese le misure per la costruzione dell'oceano; come un edificio a lui simile fondò Esara; nell'edificio di Esara, creato come cielo, fece abitare Anu, Bel ed Ea ».

Narrata così la vittoria del signore degli dei, si descrive la creazione dei corpi celesti: l'anno viene fissato, i dodici mesi stabiliti: si assegna il luogo alle stelle, si regola il corso della luna, «l'astro della notte, regolatore dei giorni», si dà un triplice nome alla «stella dell'arco».

Dopo un'ampia lacuna nel testo, forse prima occupata dalla creazione degli animali e delle piante, segue nella tavola sesta la creazione dell'uomo: «Sangue voglio raccogliere - dice Marduk - ossa... voglio fabbricare un uomo, un uomo... Voglio creare gli uomini... perché servano agli dei... Voglio mutare le vie degli dei, disporre altrimenti... Tutti quanti devono essere oppressi (?), al male... ».

Un inno a Marduk con i suoi nomi e titoli chiude il poema. Si vede subito l'importanza di questa gemma della letteratura assiro-babilonese e per determinarne il carattere mitologico-astrale e per le concezioni cosmologiche in essa contenute. D'accordo con altri testi, vi riconosciamo l'universo diviso in tre parti principali, il cielo, la terra e le acque. Vi si descrive chiaramente il corso del sole e della luna, che nel sorgere e tramontare passano le porte del cielo. Dalla loro unione con cinque pianeti è assai probabile traesse origine il sette come numero sacro, riflesso anche nelle sette regioni mondiali e celesti. Le stelle fisse e le costellazioni appaiono alla luce della mitologia.

E diversi testi ci parlano anche del cupo sotterraneo regno dei morti, con le sue sette, o due volte sette porte ben guardate, dove troneggia la dea dell'inferno. Uno degli scritti da tempo meglio noti della raccolta di Kujung'ik, la cosiddetta "Discesa di Ishtar agli inferi" personifica il morire della natura nell'inverno e il suo ravvivarsi nella primavera, connettendosi strettamente con la leggenda di Demeter e Cerere. Il testo comincia così:
«Sul paese senza ritorno, sulla terra... pose l'orecchio Ishtar, la figlia di Sin [il dio della luna];... sulla casa tetra, dimora di Irkalla, sulla casa donde non esce più chi vi entra, sulla via il cui cammino è senza ritorno, sulla casa in cui manca la luce a chi vi entra: dove si cibano di polvere, si nutrono di fango, non vedono luce, siedono nelle tenebre; dove, come uccelli, hanno una veste d'ali, la casa la cui porta e chiavistello è ricoperta di polvere».

Una situazione affatto simile presuppone un testo di Tell-el-Amarna che tratta delle nozze di Nergal, signore delle tombe, con Erishkigal, regina dell'inferno lo stesso testo in cui, come dicemmo, uno scriba egiziano segnò con punti rossi la divisione delle parole, ad agevolare lo studio del mito. In occasione di un banchetto degli dei, la dea degli inferi, che non lascia mai il suo regno e non prende alcuna parte alle feste degli dei luminosi delle regioni supreme, riceve da Namtâru, dio della peste, il cibo che le spetta del convito divino.
Nel seguito del racconto Nergal penetra nell'inferno, si slancia sulla dea, la afferra per le chiome e la trascina giù dal trono a terra, per troncarle il capo.
«Non mi uccidere, fratello mio —dice la dea paurosa della morte - voglio dirti una cosa» ; Nergal rallenta allora la stretta, ed essa continua:
«Sii mio marito, io sarò tua moglie. Farò che sia tua la signoria sull'ampia terra; porrò nelle tue mani la tavola della sapienza (del destino). Tu sarai re, ed io regina ! »
.
Udendo queste parole, Nergal la stringe a se, la bacia, le asciuga le lacrime: «Quel che tu da lune lontane desideravi da me, avvenga ora! ».

Anche la fede nell'immortalità e rappresentata da un curioso mito, pur esso risalente all'età di Amarna, ma che figura anche, in frammenti, nella biblioteca di Sardanapalo. Adapa, pio figliolo di Ea dio delle acque, per il quale prende i pesci del mare, spezza per disgrazia le ali al vento del sud, attirandosi così l'ira del dio celeste Anu. Fatto sospettoso e ammonito da Ea, rifiuta di gustare il cibo messogli davanti da Anu, cioè il cibo e la bevanda della vita, pensando che il dio del cielo gli avesse offerto il cibo e la bevanda della morte. Così egli perde, per stoltezza, il godimento della vita eterna e l'acquisto dell'immortalità. « Prendetelo e riportatelo sulla sua terra-! ». Con queste parole di Anu termina lo strano poemetto mitologico.

Ma il contenuto astrale di tali miti spicca più di tutto nell'epos, più volte studiato ed illustrato, di Gilgamesh, il nome del cui eroe ritorna in un racconto eterogeneo di Eliano. Troppo ci vorrebbe per dare un cenno, anche sommario, del contenuto di questa «epopea nazionale», divisa in dodici tavole a sei colonne e della quale conosciamo, oltre alla redazione meno antica conservata nella biblioteca di Kujung'ik, anche frammenti di più antiche recensioni del terzo millennio, fra cui una di Nippur.

Nello stato attuale, il poema narra le strane avventure di un re dell'antica città di Uruk, l'Erech della Bibbia, sostenute in parte da lui solo, in parte col suo amico Enkidu. Qui pure hanno parte cospicua gli sforzi per il conseguimento dell'immortalità.
Ma questa creazione letteraria acquista speciale valore dal fatto che almeno una parte di essa, e precisamente l'undecimo canto, il cosidetto episodio del diluvio universale, si accosta talmente al racconto della Bibbia, da doversi riportare l'uno e l'altro, in ultima analisi, ad un medesimo mito, ovvero da doversi cercare nella Babilonia l'origine del racconto della Genesi.

Viveva - narra il mito - nella città babilonese di Shuripak presso l'Eufrate un uomo così pio che il dio Ea lo avverti di un diluvio, di una rovina universale che doveva colpire il mondo. Per consiglio del dio, egli si costruì una casa-nave, cioè un'arca, vi mise la famiglia e il bestiame, insieme a utensili e provviste e celebra sacrifici «come per la festa di capodanno» ; quindi, nel termine fissatogli dal dio del sole Shamash, chiude la «porta» della nave e aspetta lo scatenarsi dell'annunciato diluvio.

«Appena l'aurora risplendette - narra il testo tramandato in forma metrica e in stile poetico e solenne - sorse dal fondo del cielo una nuvola nera. Vi tuona dentro il dio delle tempeste, Nebo e Marduk procedono avanti, passano come araldi su monti e piani. Nergal stacca l'àncora della nave; Ninib se ne va e comincia l'attacco. Il bagliore dei fulmini inviati dagli Anunnaki illumina le contrade. L'impeto di Adad sale fino al cielo e ogni luce si muta in tenebre»
Sei giorni e sei notti dura lo spaventoso diluvio, riempiendo il mare di cadaveri umani, a mo' di avanotti. «Finalmente, venuto il settimo giorno - narra il salvato, cui si dà il nome di «assegnatore», Atrachasis, ovvero di Utnapishtim - io feci uscire una colomba. La colomba volò via e ritornò: poiché non c'è terraferma, essa ritorna. Allora io feci uscire una rondine. La rondine volò via e ritornò: poiché non c'è terraferma, essa ritorna. Allora io feci uscire un corvo. Il corvo volò via e vide che le acque si ritiravano; si mette a mangiare, razzola (nel fango), gracchia, ma non ritorna. Allora io feci uscire (tutti) ai quattro venti, celebrai un sacrificio ed offrii una libagione sulla vetta più alta del monte. Qui vi posai sette e sette vasi di Adagur, li cosparsi di calamo aromatico, di legno di cedro e di mirto. Sentirono gli dei l'odore, il gradito profumo, come mosche si raccolsero gli dei presso il sacrificatore », ecc.

Il dio Bel, sulle prime corrucciato per il salvataggio delle creature, muta consiglio dopo che Ea ha biasimato il castigo del diluvio; entra nella nave, e fatti inginocchiare accanto a sé Atrachasis e sua moglie, li benedice: «Prima Utnapishtim era un uomo; ora siano egli e sua moglie pari a noi dei; Utnapishtim soggiornerà lontano, alla foce dei fiumi ». -

Il materiale mitologico in forma epica conservatoci nella biblioteca di mattoni vien per ora completato dal mito della procellaria Zu, dal racconto di Bel e del mostro (cane selvatico o leone), e da varie favole animalesche, nelle quali ha parte principale l'aquila. Non ci è dato finora di giudicare quali trasformazioni e modificazioni abbian subìto nel corso dei tempi le idee in esse contenute. Sarebbe pertanto prematuro il tentativo di riaccostare questi ricordi epici, giunti a noi per caso e in frammenti, alle allusioni a idee eterogenee che incontriamo nei testi ritualistici, provandoci a ridurle a «sistema», a ricostruire la cosmologia babilonese nel suo insieme: ovvero di cercar di esporre lo svolgimento della dottrina mitologico-astrale dei Babilonesi.

Già l'enorme spazio di tempo entro cui - come è dimostrato - si svolsero alcuni dei miti, deve metterci in guardia contro ogni affrettata sistematizzazione. Se di tutte le tradizioni della dottrina cristiana, vecchia di circa duemila amai, non ci rimanessero oggi che una mezza dozzina di brevi narrazioni frammentarie, d'incerta datazione, insieme ad una serie di descrizioni, pure frammentarie, di cerimonie del culto, come potremmo scrivere con questo materiale una storia della religione cristiana?

Solo nella edizione critica accuratissima di tutta la letteratura di Kujung'ik, nella elaborazione filologica dei testi così ottenuti e nell'ampliamento del materiale per mezzo di nuovi scavi sistematici sul suolo dell'antica Ninive si possono trovare le pietre per la ricostruzione futura, almeno fino ad una certa altezza, dell'edificio della religione assiro-babilonese.
Per la esposizione della civiltà qui considerata nel suo insieme vale, quanto mai, il motto di prudenza e modestia dies diem docet.

E sempre nel suo insieme, andiamo ora
alla cultura israelitica.

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