-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

18. GLI ARABI: GENESI, IL REGNO, LA RELIGIONE

cartina gigante con le conquiste arabe dal 622 al 945 (usa il back per il ritorno ) > >

L'Arabia, (ci riferiamo a quella antica, storica) è formata da un grande altopiano, digradante verso est, ma tagliato a picco verso ovest. Dinanzi alle montagne di arenaria che la limitano ad ovest, dette Sarât (il dorso) e da considerarsi come i contrafforti della catena armeno-siriaca, si distende una stretta pianura marittima, la Tihâma, che offre, specialmente a sud e quando l'acqua non fa difetto, tutti i requisiti necessari alla civiltà.
Qui, nella regione dell'Jemen con la capitale Sanâ, fiorivano già molto prima dell'E. V. l'agricoltura e il commercio: città stabili, castelli e templi attestavano la laboriosità, la concordia, la religiosità dei loro abitanti. Ma la sorgente principale della loro prosperità, il commercio coll'India, fu nell'epoca ellenistica deviato dal loro paese; da allora cominciò, e sempre di più si accentuò, la decadenza dell'Arabia meridionale. Pure i Sabei riuscirono ancora a sottrarsi all'influenza politica dell'impero romano; Elio Gallio tentò invano, nel 24 a. C., di sottometterli alla signoria di Augusto. Ma all'inizio del medioevo il centro della potenza politica araba si era già spostato verso settentrione, nella regione costiera del Hig'âs, con le città di Mecca, Medina e Tâïf.

L'interno della penisola, il Neg'd, è appena sezionato da due catene che vanno a finire a nord-ovest, l'Ag'a e la Salmâ, oggi G'ebel Shammar, nelle quali si continua la formazione granitica del Sinai: un deserto, ma non dappertutto uniforme. Soltanto a sud si distende fino alle regioni marittime di Mahra e Hadramant un deserto di sabbia inabitabile e mai attraversato da uomini, il Roba al-chali (« quartiere vuoto ») ; a nord la regione ha piuttosto i caratteri della steppa.
Qui dopo la stagione delle piogge, in primavera, il suolo si copre di erba abbondante, che assicura il nutrimento alle greggi di cammelli dei nomadi arabi e quindi a questi stessi. Può darsi che nei tempi preistorici il clima migliore offrisse sostentamento ad una più numerosa popolazione. Ma le nostre notizie, anche le più antiche, ci mostrano sempre l'eccesso della popolazione costretto ad emigrare.

Gli abitanti della penisola, erano suddivisi in tribù e sottotribù innumerevoli. Due gruppi in specie si staccano nettamente l'uno dall'altro, gli Arabi settentrionali e meridionali, i cosidetti Kelb e Kais dell'età islamitica: già distinti per la lingua, non meno certo che per i costumi e l'indole del popolo: caratteristiche mantenutisi anche dopo le confusioni prodotte dall'impulso migratorio e dallo sviluppo dell'attività industriale.

Noi ora proviamo a narrare al presente questo lontano passato.

Il deserto, che occupa la massima parte dell'Arabia, determina le condizioni sociali degli abitanti. La sua vegetazione permette solo l'allevamento del bestiame, che nelle migrazioni deve essere spinto attraverso estesissime regioni: il che esclude per gli Arabi una divisione politica in base ai luoghi abitati. Solo la consanguineità raggruppa le famiglie in schiatte, e queste in tribù.
Anche i grandi aggruppamenti di tribù sono ricondotti a pretesa affinità di sangue, e così, come presso gli Ebrei, tutto il popolo è costretto in un sistema genealogico. Ma il sentimento della omogeneità non abbraccia però il popolo tutto quanto: al di là del gruppo delle famiglie più strettamente imparentate, che pongono sempre le tende l'una accanto all'altra, esso si fa sentire ancora soltanto nella tribù, che in numero di qualche migliaio di uomini, emigra e occupa in comune i pascoli. Chi osa penetrare nel dominio di un'altra tribù, corre rischio di essere ucciso e derubato da questi stranieri, e come tali sono suoi nemici. Egli è invece salvo se gli riesce di toccare la veste o di entrare nella tenda o nella casa di un nemico.
Tale protezione vien spesso volontariamente concessa ad un viandante; anzi, il membro di una tribù può persino accogliere per sempre uno straniero nella propria famiglia. Così la tribù può annettersi intere famiglie, all'inizio tollerate solo come coinquilini, ma dopo alcune generazioni ammesse a tutti i diritti della consanguineità.

Dentro la tribù, tutti i membri hanno gli stessi diritti e doveri che scaturiscono dalla consanguineità. Ciascuno è tenuto a soccorrere il fratello in caso di bisogno, senza domandare se questi abbia torto o ragione. Tale dovere incombe prima di tutto solo alla sua famiglia; ma quando questa non sia forte abbastanza, tutta là tribù ne prende il posto.
In questa comunità, per quanto fondata sulla libertà e l'eguaglianza di tutti, si riscontrano i rudimenti del principio autoritario. Le famiglie e le tribù si adattano a vedere governare uomini, che l'opinione pubblica ha volontariamente riconosciuto per guide e signori a causa delle loro qualità personali ma anche delle loro sostanze. Anche quando, come non di rado avveniva, tale dignità passava di padre in figlio, questi doveva riguadagnarsela cercando di esserne degno.

Questi signori (sàijid) non godevano di speciali diritti, quantunque nelle deliberazioni prese in comune si tenesse in special conto la loro opinione. In compenso, tanto maggiori erano generalmente i loro doveri: si richiedeva da loro che fossero sempre pronti a prender le parti della tribù e dei compagni bisognosi di aiuto, con la loro vita in tempo di guerra, con le loro sostanze in tempo di pace. Loro cura precipua quella di mantenere la concordia della tribù, spesso minacciata dalll'egoismo dei singoli.

Contese d'indole finanziaria tra fratelli di tribù si appianano nelle quotidiane assemblee. In caso di dissidi fra persone estranee alla tribù, si consulta un uomo o una donna rinomata per saggezza, spesso un sacerdote o un indovino. Solo dalla buona volontà delle parti contendenti o dalla superiorità di una di esse dipende poi se la sentenza viene o no eseguita.
Non essendo concesso il potere esecutivo nemmeno ai capi della tribù, non esiste giustizia criminale e ciascuno deve farsi giustizia da sè contro un ladro o contro l'assassino di un parente. Se nel territorio di una famiglia si trova qualcuno ucciso da mano ignota e il sospetto cade sopra un membro della famiglia stessa, questa presta a favore di lui il giuramento di purificazione, la cui efficacia però può essere distrutta da un nuovo giuramento per parte della famiglia dell'ucciso.
Il più prossimo erede della vittima ha il dovere di vendicarne l'uccisione. Ma poiché il parentado del colpevole prende per lo più le sue parti, dalla vendetta di sangue sorge la inimicizia di sangue, che spesso si trascina per intere generazioni con sempre rinnovati assassini. La vendetta del sangue può anche compensarsi mediante il pagamento di cammelli e i capi debbono cercare, dentro alla tribù, che si venga ad un accordo, per cui possono interporsi, ma non ordinarlo. Per lo più le famiglie si decidono ad un accordo solo dopo essersi esaurite in lunghe ostilità. Si evita la vendetta del sangue quando l'uccisore venga dal suo parentado volontariamente consegnato ai danneggiati perchè sia compiuta la vendetta; ma ciò è ritenuto così poco onorevole, che il parentado preferisce per lo più di ucciderlo da sè.

Questo diritto del deserto valeva ancora, essenzialmente, nelle città del Hig'às. Come i Beduini nelle loro tende, così le singole famiglie se ne stavano qui nei loro quartieri, libere e indipendenti, senza accettare ordini da nessuno. Nella Mecca il sentimento dell'onore, spesso esagerato nel deserto, era alquanto mitigato dagli interessi comuni, per il santuario della Kaaba e per il commercio che ne dipendeva; i rapporti economici più complicati davano alle famiglie più facoltose una superiorità sulle più povere, maggiore che non nel deserto. Ma a Medina si era ancora nelle condizioni più primitive. Appunto all'inizio di questo periodo storico le inimicizie di sangue vi erano così frequenti, che nessuno poteva dirsi sicuro della propria vita.

Soltanto nel nord e nel sud l'Arabia aveva visto gli inizi di una più rigida organizzazione politica. L'agricoltura favorita dalla fertilità del suolo e la prosperità arrecata al paese dal commercio con l'India fecero sorgere nello Jemen, fin dall'antichità, istituzioni monarchiche, accanto ad una nobiltà feudale uscita dalla organizzazione per tribù dei Beduini, la quale per un certo periodo andò di pari passo con la monarchia.
Le famiglie stabilite nei castelli dell'Arabia meridionale si mantenevano sempre unite in pace e in guerra, appunto come nel settentrione i loro nomadi cugini. Dopo che col decadere del loro commercio fu scomparsa anche la loro potenza, che aveva pur sfidato gli eserciti di Augusto - nè riuscirono a resuscitarla gli Ebrei, per lungo periodo influenti nel paese, i cui signori avevano convertito, per qualche tempo, alla loro fede - il re Ela Asbeha, del regno abissino di Aksîim, si stabilì nell'Arabia meridionale, certo per invito dell'imperatore di Bizanzio.

Il suo secondo governatore, Abraha, le cui imprese son ricordate in una grande iscrizione arginale del 543, fece anche una campagna a settentrione, certo per attaccare la Persia, ma non si spinse oltre la Mecca. Allora i signori feudali dell'Arabia meridionale, malcontenti della signoria straniera, si rivolsero per aiuto appunto a questo antico avversario della potenza bizantino-cristiana. Il re Chosrau Anosharwàn fece partire una spedizione, che d'accordo con la nobiltà ostile cacciò via il governatore abissino. Da allora in poi lo Jemen, benchè quasi solo nominalmente, rimase sotto il dominio persiano.

Nel nord, sul confine del deserto siriaco, già molto prima e con più durevoli effetti gli Arabi si erano intromessi nella politica mondiale.
Già sotto il re assiro Tiglatpileser III (745-728 a.C.) troviamo qui un regno Aribi, governato da regine e che fino all'età di Asarhaddon appare fra gli stati vassalli dell'Assiria.
Nell'epoca persiana l'unica nostra fonte per la storia dell'Arabia settentrionale è l'iscrizione di Taima, che ci dà un'idea dell'ordinamento del culto cittadino, con i suoi sacerdoti e il patrimonio de' suoi templi. Nell'età ellenistica troviamo qui il regno dei Nabatei, che al sud arrivava quasi fino a Medina. La capitale era Petra, castello roccioso posto circa a mezza strada fra il Mar Morto e la punta del golfo arabo: importanti rovine, numerose iscrizioni sulle tombe di roccia, e migliaia di tavolette di recente ritrovate, ne attestano ancor oggi la fiorente cultura.
I Romani lasciarono loro l'indipendenza, come alleati, fin sotto Traiano; ma nell'anno 106, avendo già mostrato sotto Tito un atteggiamento ambiguo durante la rivolta giudaica, il loro regno fu soppresso e ridotto a provincia dell'Arabia.

La loro parte di mediatori fra il commercio orientale e occidentale fu assunta allora da Palmira, pure soggetta alla signoria araba, quantunque fra i suoi abitanti prevalessero gli Aramei, fortemente grecizzati. Il re Odenat (260-268) riuscì a sottomettere tutta la Siria, tanto che il debole imperatore romano Gallieno lo riconobbe coimperatore per l'Oriente.
Morto lui, sua moglie Zenobia ne mantenne ancora per un certo tempo la potenza, finchè Aureliano nell'anno 273 distrusse Palmira. Il suo tragico destino deve aver fatto profonda impressione sugli Arabi del deserto: ancora nei primi secoli dell'Islam si narrava della Sainab, una leggenda in qualche modo connessa con quei drammatici fatti storici.
Da allora non vi furono più nel nord regni arabi indipendenti.

I Romani e i Bizantini loro successori ebbero sempre l'accorgimento di rendere vassalli i signori arabi dei confini, difendendosi così per mezzo loro dalle incursioni dei nomadi. In tale posizione troviamo a Damasco, nel VI secolo, la dinastia dei Ghassànidi. Il più illustre rappresentante di questa casa, al-Harith V, fu nominato «patrikioss» da Giustíniano, che gli affidò il comando supremo su tutti gli Arabi della Siria settentrionale.
Ma pare che dopo la sua morte la potenza raccolta nelle sue mani si dividesse di nuovo in tanti principati. (Solo dopo l'invasione dei Muslim [Musulmani] ritroviamo un Ghassanide a capo supremo di tutti gli Arabi della Siria).

La stessa politica dei Romani la tennero verso gli Arabi anche i loro antichi nemici ereditari, i Persiani. A Shapur I (241-272) -si attribuisce la nomina di Amo in Adì della casa dei Lachmidi a re sugli Arabi di Babilonia. Questi, e i suoi successori, risiedettero a Hira, circa dieci miglia a sud delle rovine di Babilonia. Mundhir V (580-602), l'ultimo di quella casa, si mostrò più volte disobbediente ai Persiani, tanto che Chosrau II, dopo averlo attirato a Ctesifone, se ne sbarazzò. Ma se ne videro dopo le conseguenze: nel 610: tremila Arabi invasero il territorio dell'Eufrate e sconfissero i persiani presso Dhu Kàr. La mancanza di una valida difesa dei confini facilitò, anche in seguito, ai Muslim la conquista del paese.

Non meno della politica, anche la vita religiosa degli Arabi si trovava in uno stadio assai primitivo. L'animismo ne era la base, la credenza cioè che, al pari dell'uomo, tutta la circostante natura avesse un'anima.
In uno stadio un po' più progredito, le anime si staccano dagli animati, nei quali si crede risiedere una forza spirituale, un demone. Secondo i Semiti, gli alberi, le caverne e le fonti erano abitate da spiriti maligni. L'adorazione per questi spiriti comincia da quando rivelano il loro nome agli uomini, come Jahwe a Giacobbe nel sogno di Bethel. Solo quando si conosce il nome di uno spirito lo si può invocare e così agire su di lui. Mediante il sacrificio rituale gli dei acquistano una consanguineità con la tribù dei loro fedeli, ne divengono il patrono e spesso l'antenato, venendo così a perdere il loro carattere primitivo.

Gli speciali rapporti delle singole tribù con i loro dei conducono necessariamente al politeismo. Ma il legame fra una tribù e il suo dio non è così stretto, come per es. in Israele quello fra Jahwe e il suo popolo. Non di rado singole famiglie prendono il nome da dei diversi da quello della tribù, e la stessa divinità è venerata da tribù diverse. Avendo gli dei sedi fisse, godono - quando la tribù dei loro fedeli passa in un'altra regione - del culto di chi ne prende il posto; e quelli tornano a loro una o due volte all'anno, in occasione delle feste.

Certi santuari esercitavano un'attrazione speciale. Ad Okàs ed alla Mecca, per es., le varie tribù si recavano in pellegrinaggio anche da lontani paesi. Durante le feste regnava nel deserto la tregua di Dio. Nelle solennità religiose si tenevano anche fiere e mercati, nei quali si scambiavano non solo merci, ma anche prodotti intellettuali. Per una buona parte a queste fiere, e quindi indirettamente alla religione, debbono gli Arabi lo sviluppo di una lingua al disopra dei dialetti, di una poesia legata a forme determinate, di una comune concezione del mondo.

La venerazione degli dei da parte di differenti tribù preparò necessariamente la fusione delle varie forme di divinità: su tutte dominò, già durante il paganesimo arabo, la semplice idea di un dio, Allah, di fronte al quale tutti gli altri scesero sempre più al grado di idoli, finchè con la predicazione del profeta si venne a scuotere la base della adorazione a loro tributata. Il culto degli idoli rimase per un certo tempo, avendo gli Arabi maggior dimestichezza con essi che non con Allah; ma questo antico culto non bastava più a soddisfare, come nell'uomo primitivo, tutto il sentimento religioso. Quanto più scemava l'importanza del culto, tanto più cresceva il valore dei sentimento religioso in genere, rivolto ad Allah.
Egli è il vero custode dei patti, per quanto questi dapprima continuassero a concludersi in sedi speciali del culto e fossero in tal modo posti sotto la protezione degli idoli. Allah è in specie il protettore dell'ospite appartenente ad altra tribù, senza però che per riguardo a lui si venga meno al dovere verso i parenti. La sua volontà è l'irrevocabile destino. Ma questa fede nel destino non indebolisce l'energia dell'uomo: anzi lo spinge ad agire, senza aspettare nessun aiuto dall'alto ("aiutati che Dio ti aiuta").

Questo allontanarsi dal paganesimo fu pure affrettato dall'influenza delle religioni monoteiste, che già da molto tempo avevano destato grande interesse e quindi sempre più seguaci anche in Arabia. Nell'Arabia meridionale il giudaismo prese così tale predominanza, che alcuni signori indigeni si convertirono ad esso e perseguitarono il cristianesimo rivale.
Gli Ebrei avevano ricchi possedimenti nelle oasi del nord-ovest, a Taima, Chaibar, Jathrib, Fadak, dove vivevano in comunità chiuse, delle quali facevano certo parte molti Arabi convertiti. Sebbene si fossero resi indispensabili come mercanti, i Beduini li tenevano in disprezzo; cosicché sembra che poca influenza religiosa avranno potuto esercitare in queste regioni.

Posizione del tutto diversa assunse il cristianesimo di fronte agli Arabi, molto sensibili alle impressioni esterne. Tutti i Beduini del nord avevano stretti rapporti con la popolazione stabile aramea, la cui civiltà già da tempo si era compenetrata col cristianesimo. Come religione di Stato, esso esercitava una forte attrazione nel tardo impero romano (con la sua sede a Costantinopoli); ma anche la dinastia dei Lachmidi di Hira, soggetta al regno persiano, aveva finito per convertirsi al cristianesimo.

Fin nell'interno dell'Arabia, e in specie nelle città commerciali del Hig'as, dovette penetrare una conoscenza sia pure superficiale delle dottrine e costumi cristiani, grazie ai continui rapporti con le tribù parenti nel settentrione. Molto vi avranno contribuito anche gli anacoreti, le cui celle si trovavano sparse dalla Palestina e dalla penisola sinaitica fin nell'interno del deserto.
Il deserto serviva pure di rifugio a diverse sètte perseguitate dalla chiesa ortodossa bizantina, e qui avranno diffuso le loro dottrine spesso con maggior successo che non la ortodossia ufficiale.

Gli Arabi, come già detto, debbono soprattutto alla poesia, il più importante loro patrimonio spirituale comune, la coscienza di formare un solo popolo, nonostante i contrasti di tribù. La poesia si era potuta sviluppare protetta in certo modo da istituzioni religiose. Con idee religiose era certo congiunta fin dai primordi. Ha le prime radici nell'impulso allo svago, nella gioia del suono e del ritmo, che aiuta l'uomo della natura a sostenere le fatiche del lavoro; le prime canzoncine nacquero forse durante le marce dei nomadi.

Ma nelle parole pronunciate in forma solenne l'uomo della natura include nello stesso tempo la speranza che esse abbiano la forza di ottenergli ogni effetto desiderato; così l'antica poesia serve pure alla magia, non ancora di carattere ostile in questo stadio della religione.
È in guerra che tocca all'esperto della parola di maledire il nemico, come Balak richiedeva da Bileam. Dalla maledizione si svolge, via via che la fede nella sua potenza magica sparisce, la poesia satirica: trasportata, per le relazioni tra le singole stirpi, sul terreno personale, diventa essa un'arma temutissima, finchè si abbassa a formare una sorgente di guadagno per il poeta ricattatore.

Come in tutto il mondo, così in Arabia un'altra fonte di poesia sta nell'amore sessuale, non però cantato di per se stesso nella poesia d'arte (la sola che conosciamo da vicino), ma adoperato dal poeta come spunto per il suo tema particolare, consistente per lo più nella glorificazione della propria persona, della propria tribù ovvero, nei bardi professionali, nell'elogio di un patrono.
Per tali poesie «ad intento» (qaside) era in uso da lungo tempo una forma, si può dire, fissa. Prima di venire al soggetto vero e proprio, il poeta deve diffondersi nell'elogio dell'amata, esprimere la bramosia della perduta gioia d'amore, descrivere lungamente qualche aspetto della natura.

Gli Arabi eccellono nella descrizione del deserto e dei suoi animali caratteristici, in specie del cammello. Anche queste descrizioni però non sono soltanto frutto di osservazione propria, ma spesso si aggirano in forme tradizionali. Questa poesia non offre pertanto molta occasione a sviluppare la propria individualità, cosicchè risaltano solo quei poeti che offrono i più spiccati contrasti, tali il re e poeta vagante Imruulkais, i cui antenati della casa principesca dei irida nell'Arabia meridionale avevano raccolto, sul finire del VI secolo, le più forti tribù beduine del nord per scorrerie e saccheggi nell'impero romano e persiano; e che si consumò nello sforzo di riguadagnare alla sua casa l'antica posizione, finchè mori ad Ancira nell'Asia minore, ospite dell'imperatore di Bizanzio; tali Suhair, il cantore della illuminata saggezza della vita, e il bardo professionale el-Asha.

Non solo i poeti dell'arte, ma anche i pastori di capre della tribù dei Hudhail, attendati presso la Mecca, si servono nei loro sfoghi poetici di una lingua comune, nutrita di tutti i dialetti ed intesa dappertutto, eppure nettamente distinta dalla lingua dell'uso quotidiano.
Questa «lingua dei canti», analoga a quella che troviamo presso molti «popoli naturali», sembra abbia dominato, oltre tutto il Neg'd e lo Hig'as, fin nella Babilonia; solo gli Arabi della Siria ne ricevettero più che non le dessero. Da essa nacque l'arabo classico, divenuto in grazia all' Islam lingua universale nell'Asia anteriore e in tutta la sponda meridionale del Mediterraneo.

Fatta questa iniziale sintesi andiamo ora
al fondatore dell'Islam

Secondo la tradizione, il patriarca Abramo condusse Agar e il loro figlio Ismaele  verso l’interno dell’immenso deserto a nord della penisola Araba, in una desolata valle a sud della terra di Canaan. Vennero presi dalla sete e Agar, temendo per la vita del bambino, salì su una roccia per vedere se vi fosse qualcuno che poteva aiutarli. Non vedendo nessuno corse verso un altura, anche questa volta senza esito. In preda al panico, la donna corse sette volte da un punto all'altro, finché alla fine della settima corsa, stremata, sedette a riposare su una roccia. Apparve l’angelo, che le ordinò di alzarsi e di sollevare il fanciullo. Le annunciò che Dio avrebbe creato, per mezzo di Ismaele, una grande nazione. Quando riaprì gli occhi, Agar vide una sorgente d’acqua scaturire dalla sabbia proprio nel punto in cui in tallone del bambino aveva premuto il terreno.

Da allora la valle divenne luogo di sosta per le carovane che percorrevano il deserto, poiché l’acqua era buona e abbondante: il pozzo prese il nome di Zemzem. Un giorno Abramo fece visita al figlio e Dio gli mostrò il punto esatto, vicina al pozzo, sul quale lui e Ismaele dovevano edificare un santuario. Spiegò loro come doveva essere costruito: il nome dell’edificio, derivato dalla sua forma, sarebbe stato Ka’bah, ovvero cubo. I quattro angoli dovevano essere orientati secondo i punti cardinali, e in quello orientale doveva essere collocata l'oggetto più santo: una pietra d'origine celeste e di colore nero, indubbiamemte un meteorite.
II "grande pellegrinaggio" alla Mecca, così come venne istituito da Abramo, doveva avere luogo una volta l’anno, ma altri minori potevano essere compiuti in qualsiasi momento. In numero sempre crescente, da tutte le patti dell'Arabia e da altri paesi, i pellegrini iniziarono il loro afflusso alla Mecca.


Il pellegrinaggio. Quando l’edificio della Ka’bah fu del tutto completato, Dio comandò ad Abramo di istituire il rito del pellegrinaggio alla Mecca:
"Purifica la Mia Casa per coloro che vi compiono circumambulazione, si fermano in piedi vicino ad essa e si inchinano e fanno le prostrazioni. E proclama agli uomini il pellegrinaggio, in modo che essi possano venire a te su snelli cammelli, da ogni profonda vallata" (Corano XXII, vv. 26-27).
Con il passare dei secoli, e per vari motivi, la purezza del culto al Dio unico andò perdendosi. Anche il pozzo di Zemzem fu soppresso.

Il pozzo di Zemzem
Adiacente al lato nordoccidentale della Ka’bah c’è un piccolo spiazzo detto Hijr Ismà’il, perché sotto le pietre che lo pavimentano si trovano le tombe di Ismaele e Agar. Una notte ‘Abd al-Muttalib, mentre dormiva in quel luogo, come amava fare per essere più vicino possibile alla Casa di Dio, ebbe la visione di una figura che gli ordinava di scavare il pozzo di Zemzem, dopo avergli dato le indicazioni per trovarlo.
Con il ritrovamento del pozzo venne alla luce anche il tesoro sepolto sotto la sabbia. Con abilità e coraggio ‘Abd al-Muttalib riuscì a scongiurare lo scontro tra i clan. Da allora fu stabilito che fosse il clan di Hàshim a prendere in custodia il pozzo di Zemzem.

Diretti responsabili furono i membri della tribù di Giurhum, proveniente dalla Yemen. I Giurhum si erano assicurati il controllo della Mecca, e i discendenti di Abramo lo avevano tollerato, perché una moglie di Ismaele apparteneva a quella tribù. Ma venne un tempo in cui i Giurhum cominciarono a commettere ogni sorta di iniquità, tanto da finire cacciati dalla città. Prima di partire, riempirono il pozzo con parte del tesoro del Santuario e lo coprirono di sabbia.

Dopo di loro, divennero Signori della Mecca i Khuza’ah, una tribù araba discendente da Ismaele, emigrata nello Yemen e poi ritornata nel nord. Costoro non fecero nessun tentativo per ritrovare il pozzo, e posero l’idolo siriano Hubal all’interno della Ka’bah.

Nel IV secolo d.C. circa, un uomo di nome Qusay, membro della tribù araba Quraysh, discendente da Abramo, sposò la figlia del capo dei Khuza’ah. Alla morte del suocero, Qusay governò la Mecca e divenne il custode della Ka’bah. Ebbe quattro figli. Nonostante il più importante e onorato, già mentre il padre era in vita, fosse ‘Abdu Manaf, il padre gli preferì come successore il meno capace primogenito ‘Abd ad-Dat.

Lo scontro si verificò nella generazione successiva, quando una metà dei Quraysh si raccolse attorno al figlio di ‘Abdu Manàf, Hashim, che era senza dubbio l’uomo più degno del tempo. La violenza era tassativamente proibita, non solo nell’area del Santuario ma anche in un raggio di molti chilometri intorno alla Mecca.
Si arrivò dunque a un compromesso tra le due fazioni: fu convenuto che i figli di ‘Abdu Manaf mantenessero il diritto di esigere le tasse e di provvedere i pellegrini di cibo e bevande, mentre i figli di ‘Abd ad-Dàr avrebbero continuato a tenere le chiavi della Ka’bah e gli altri diritti.

Lungo la via delle carovane e a circa undici giorni di cammello a nord della Mecca si trovava l’oasi di Yathrib, abitata da tribù di ebrei, ma sotto il controllo di una tribù araba proveniente dal sud.

Questa tribù successivamente si divise in due clan, Aws e Khazraj, in lotta tra loro. Hashim chiese la mano della donna più influente dei Khazraj ed ebbe da lei un figlio, ‘Abd al-Muttalib, che fin da giovane mostrò di possedere doti di condottiero.
E infatti, alla morte dello zio, a lui venne conferito il compito di nutrire e dissetare i pellegrini. ‘Abd al-Muttalib era rispettato dai Quraysh per il suo coraggio, e per le doti di affidabilità, generosità e saggezza. Gli mancava però qualcosa di molto importante per la società araba: i figli.

‘Abd al-Muttalib pregò Dio di favorirlo mandandogli figli, e aggiunse alla preghiera il voto che, se fosse stato benedetto con dieci figli, avrebbe sacrificato uno di essi alla Ka’bah. La preghiera venne esaudita, e quando i figli raggiunsero l’età adulta, il padre li radunò e disse loro del patto con Dio, pregandoli di aiutarlo a mantenere l’impegno preso; li condusse al Santuario dove ognuno di loro consegnò la propria freccia perché fosse giocata a sorte. uscì la freccia del più giovane e più amato ‘Abd Allah.

Le proteste delle donne della famiglia convinsero ‘Abd al-Muttalib a consultare una saggia donna della sua città natale, Yathrib. Poiché il riscatto di un uomo stabilito alla Mecca era di dieci cammelli, la donna consigliò di gettare le sorti tra il ragazzo e dieci cammelli. Solo la decima volta la freccia cadde verso i cammelli: al posto del ragazzo si dovettero dunque sacrificare cento cammelli. Quella era la volontà di Dio, e ‘Abd Allah fu salvo.
Il padre decise allora di dargli moglie e fu scelta una nipote di Qusay, la bella Amina, figlia di Wahab. Il matrimonio si celebrò nel 569, anno che precedette quello conosciuto come "l’anno dell’Elefante".

Nascita di Muhammad.
Nel 570, ‘Abd Allah fu assente dalla Mecca, poiché si era recato a commerciare in Palestina e in Siria. Sulla via del ritorno, si fermò presso la famiglia della nonna, a Yathrib, ma lì cadde ammalato e in pochi giorni morì. Grande fu il dolore di tutta La Mecca, e l’unica consolazione della moglie Amina fu il bimbo nato alcune settimane dopo la morte del padre: il 20 aprile. Al neonato, subito portato dal nonno al Santuario e nella Casa di Dio per innalzare una preghiera di ringraziamento, fu dato il nome di Abul-Kasim ibu’Abd-Al-lah, detto Muhammad (MAOMETTO)

Quando ebbe sei anni la madre volle portarlo a conoscere i parenti di Yathrib. Durante il viaggio la donna si ammalò e morì in pochi giorni. Il nonno si prese cura del bimbo rimasto orfano, riversando su di lui tutto l’amore che aveva per il figlio morto. Due anni più tardi, sul letto di morte, affidò Muhammad ad Abu Talib, fratello del padre del ragazzo, che non fu meno affettuoso e premuroso del vecchio ‘Abd al-Muttalib.
Lo zio, lo avviò, ancora adolescente, verso l’attività commerciale carovanica, avendo modo così, nei primi anni della sua vita, di assimilare la cultura del deserto. E’ proprio grazie al suo lavoro che il giovane verrà a contatto con uomini di diverse religioni.

Maometto rimase celibe più a lungo di quanto fosse solito nella società araba, a causa della sua povertà. Allora usava sposarsi tra cugini e il giovane invano chiese allo zio la mano della cugina Umm Hàni, che fu data in sposa ad un altro cugino per motivi economici e di alleanze tra i clan. Tra i più ricchi mercanti della Mecca c’era anche una donna, Khadijah, (KADIGIA) del potente clan degli Asad e lontana cugina dei figli di Hàshim. Dalla morte del secondo marito, era solita assumere uomini che commerciassero per lei. Khadijah aveva già sentito parlare di Muhammad, che nella città di Mecca godeva la fama di al-Amin, "il fidato, l'onesto".
Pare che al suo servizio Maometto accompagnasse alcune carovane dalla Mecca verso il sud, forse anche fino a Bostra, in cui, come principale fortezza bizantina della regione orientale del Giordano, si accentrava il commercio del grano. Forse mostrava già allora speciali attitudini : certo é che la sua padrona, benché di circa quindici anni maggiore a lui, lo prese in speciale simpatia.

Un giorno Kadigia gli affidò l’incarico di portare alcune merci in Siria. Al ritorno dal viaggio Maometto, si recò personalmente a casa di Khadijah con le mercanzie che aveva acquistato in Siria e col ricavato delle vendite.
Khadijah era una bella donna, anche se più vecchia di Maometto di circa quindici anni. Il guadagno non sembrò interessarla quanto il fascino del giovane stesso.
Essa stessa gli propose di sposarla; e questo matrimonio non solo lo tolse alle cure materiali, ma gli diede anche per altri lati tanta felicità.
Come marito di una negoziante, si occupò all'inizio con zelo degli affari di lei; nè rinnegò in seguito questa sua prima attività, come si vede dalla preferenza con cui usa le metafore tolte dalla terminologia commerciale.

Il matrimonio con Kadigia con le leggi in uso non era facile a farsi; i due appartenevano a due ceti sociali molto diversi. Inoltre lei era donna con un padre ancora in vita. Gli oppositori non sarebbero mancati. Kadigia del resto - co il patrimonio dei due suoi ex mariti, era uno dei migliori partiti del paese.
Le norme matrimoniali erano anche quelle severe, e nel caso di Maometto per sposare la donna lui avrebbe dovuto donare 20 cammelli al padre di lei, che era un prezzo fissato in base al patrimonio che possedeva la vedova. Tuttavia si racconta che ci furono ugualmente delle ostilità da parte del padre, perché indipendentemente dal donativo non voleva che sua figlia sposasse un suo subalterno, un semplice impiegato, oltretutto povero. 
La leggenda dice che lo si fece bere molto prima di firmare davanti ai testimoni il contratto matrimoniale, e che Maometto non disponendo di simili averi, né i soldi per acquistare i cammelli, tutti i suoi familiari si prodigarono per trarlo d'impaccio; si tassarono affinché il matrimonio potesse avere tutte le carte in regola per essere regolare. 

Kadigia gli diede 6 figli, di cui ne morirono 4 in tenera età. Fu una buona moglie che lo appoggiò nel realizzare con la sua forza d'animo il suo progetto politico e religioso; infatti essa non dubitò mai un istante che Maometto fosse l'inviato del Signore dell'universo e il portavoce della forza vitale da cui dipendeva ogni creatura.
Che Maometto l'amò sinceramente si riscontra in alcune affermazioni che egli ebbe modo di fare in seguito. Quantunque dopo si unì a donne più belle e giovani di Kadigia, Maometto ripeteva spesso che avrebbe voluto vivere in paradiso per essere accanto a sua moglie Kadigia.
Fu indubbiamente molto importante l'appoggio morale della moglie; proviamo a pensare se al ritorno di Maometto dal colle di Hira fosse stato accolto con scetticismo, prediche o addirittura di sarcasmo per le sue assurde visioni. Kadigia invece incoraggiò Maometto anche quando il Profeta ebbe l'impressione, dopo il suo primo magico momento, di aver vaneggiato, sognato, e cominciò lui stesso a dubitare di essere stato vittima di una pura illusione dei sensi. 
Alcuni familiari informati erano decisamente più scettici della moglie, alcuni parenti lo rimproverarono, gli diedero del ciarlatano, che gente come lui -visionari- ne era pieno il paese, e gli augurava, un suo zio, Lahab, che crepasse; gli tirò perfino delle sassate, perché disse, disonorava il parentado; che non volevano un pazzo in una famiglia che godeva di prestigio, onorabilità e un buon equilibrio psichico. 

Ma fu sua moglie, pur mantenendo il segreto in pubblico delle visioni, che gli fece placare gli ultimi dubbi, e lo convinse quando lei stessa non aveva più dubbi, e che Maometto poteva anche convincere gli altri. 
Paradossalmente il nucleo iniziale della religione islamica, i cui principi avrebbero ben presto rivendicato in un modo netto il predominio del maschio sulla femmina, fu dunque opera congiunta di un uomo e di una donna: Maometto e Kadigia. Senza di lei non ci sarebbe probabilmente mai stato un Maometto.
A dirlo è lo stesso Maometto, che riconobbe sempre alla sua compagna una assoluta parità: riteneva molto importante il suo giudizio e ascoltava sempre prima di ogni altro il suo parere. (insomma non era poi così tanto maschilista).

Dunque abbastanza presto, come pare, Maometto s'interessò di questioni religiose: fatto non infrequente allora in uomini d'ingegno vivace, ormai insoddisfatti del culto pagano. La tradizione asserisce che durante i suoi viaggi ebbe occasione di intrattenersi con cristiani e con ebrei; é probabile che nella Mecca stessa frequentasse alcuni cristiani, che della Bibbia però avevano solo una scarsa conoscenza.
Mentre diversi dei suoi contemporanei, come per es. il poeta Umaija ibn abi 'sSalt, di Tâïf, la città prossima alla Mecca, si accontentavano di un monoteismo generico, pare che Maometto si dedicasse all'ascetismo e passasse i giorni e le notti sul monte Hirâ presso la Mecca a fantasticare sulla salvezza dell'anima. Riconosciuta la vanità dei molti dei adorati dai suoi compaesani, si chiese per quanto tempo ancora Iddio li avrebbe lasciati in quella falsa credenza, proprio Lui che si era rivelato a altri popoli per mezzo di profeti. E si immaginò dì essere egli stesso chiamato a tale ufficio di profeta.

Ma la sua innata timidezza lo trattenne a lungo dal presentarsi in pubblico come tale. Un fatto avvenutogli sullo stesso monte Hirâ, dove spesso si ritirava in ascesi, lo tolse dai dubbi. Vide dinanzi a sé una figura che ritenne dell'angelo Gabriele e alla quale attribuì la voce interna che gli diceva di essere l'inviato di Dio. Ciò che sentì dire e ciò che sentì dentro di sé lo turbò moltissimo, tornò a casa sconvolto ed ebbe appena la forza di riferire tutto a Kadigia.

Sua moglie Kadigia ebbe subito fede nella sua missione divina ed egli stesso non esitò più, quando sempre più frequenti si ripeterono quelle apparizioni durante i quali credeva di udire la voce di Gabriele. Egli era solito proclamare, a mo' di rivelazione, ciò che credeva di aver udito in quello stato d'animo non appena tornava in sè, dopo quelle visioni.

Un po' alla volta intorno a Maometto finì per raccogliersi un piccolo numero di credenti, quasi tutti appartenenti a famiglie poco importanti, nonché alcuni artigiani e schiavi. Ma più cresceva questo consenso delle masse e più le relazioni delle famiglie dominanti - soprattutto di elite come quelle dei Qurayshiti - andavano peggiorando; anche perchè Maometto seguitava a scagliarsi contro gli idoli e i riti dei loro dei, e sempre più evidenti furono le divergenze con le antiche tradizioni e le credenze del luogo.
Kadigia nonostante avesse scelto un marito così ribelle del "sistema" lei era pur sempre una appartenente delle famiglie dominanti, una certa protezione al marito la dava, ma con la sua morte avvenuta nel 619, senza il suo appoggio, la posizione di Maometto finì per farsi critica.

Non ebbe più la protezione della potente famiglia che era alla Mecca molto influente, nè quella dello zio morto anche lui, che benché non avesse mai aderito alla sua dottrina, rimasto impressionato dal coraggio che dimostrava suo nipote, lo difendeva sempre dagli attacchi dei Qurayshiti che ne chiedevano perfino la morte. Tornò a farsi viva l'ironia, perfino dei propri familiari; aumentarono gli insulti per la strada, le minacce di morte, a considerarlo mentecatto, a non più rivolgergli la parola, a non avere più la florida azienda ereditata dalla moglie (che era di trasporti) nessun rapporto con i commercianti locali.

Maometto dopo tutte queste minacce non operava più all'ombra della Kaaba (questo era ormai considerato dai Qurayshiti una provocazione, una bestemmia, un insulto agli dei) per fare proseliti alla sua religione, ma si limitava a incontrare i molti viaggiatori che venivano in città in pellegrinaggio o nelle varie festività delle dee. Predicava loro le sue dottrine. Alcune volte incontrava indifferenza e scherno. Ma non tutti si comportavano così, già nel 620 aveva incontrato alcuni pellegrini di Yathrib (un'oasi posta a 200 miglia a nord della Mecca) e trovandoli ben disposti ad ascoltarlo, avviò una serie di rapporti provocando un cambiamento radicale nelle loro credenze, fino al punto che in questi mesi difficili, quasi caduto in disgrazia alla Mecca, sollecitato da questi nuovi seguaci, Maometto pensò costantemente una eventuale emigrazione a Yathrib.
Yathrib non era una città, ma solo un raggruppamento di villaggi sparsi in una zona fertilissima; gli abitanti erano tutti dediti alla agricoltura e non come a La Mecca che invece essendo un crocevia di strade carovaniere, era quasi tutta interessata al commercio, e gli stessi abitanti traevano profitto dal fatto che i numerosi mercanti avevano la consuetudine di far sosta proprio in questa città per vendere le loro merci e acquistarne delle altre.

La Mecca oltre ad avere la vocazione di centro commerciale di ogni tipo di merci, aveva altre due grandissime risorse: la prima era che esisteva - l'abbiamo già accennato sopra - la fonte Zemzem che fin dai tempi antichi era considerata una fonte sacra in quanto unica provvidenziale dispensatrice di acqua in una zona tutta arida. E il controllo della distribuzione dell'acqua (a pagamento) era appannaggio dei Qurayshiti, come pure l'altra risorsa collaterale: il santuario sito nei pressi della fonte stessa e che già allora era chiamato Santuario della Kaaba, cioè del cubo, con murata in una parete dello stesso la Pietra Nera, probabilmente un meteorite, che era considerata un simbolo delle divinità.
A parte tanti altri idoli pagani, le divinità maggiori erano le tre dee: Al-Lat, Al-Uzza, Al-Manar, simboli religiosi che davano da vivere a una folta legione di sacerdoti.
Quindi i Qurayshiti non operavano solo nella sfera del commercio, ma avevano sotto il diretto controllo l'intera sfera religiosa, che direttamente o indirettamente alimentava lo stesso commercio e attività (come avviene ancora oggi nei più celebri santuari di ogni religione); i forestieri dovevano pagare l'acqua in contanti, inoltre se volevano implorare le divinità per la loro felicità dovevano acquistare ogni cosa dai vari punti vendita dei Qurayshiti, come i ricordini e l'abbondante paccottiglia nelle bancarelle venduta ai pellegrini, e in più avevano in mano anche tutto l'indotto, le locande, i ristoranti, e altri negozi, che davano lavoro a migliaia di loro dipendenti.
Con questa lucrose attività i Qurayshiti avevano accumulato enormi ricchezze.

Dove quindi praticamente orbitava la vita commerciale di tutta la Mecca era intorno alla tribù dei Qurayshiti che contavano all'incirca cinquemila componenti, suddivisa in singoli gruppi familiari o clan. Quando altre tribù rivaleggiavano con i Qurayshitii, i potenti capi clan cercavano con una accorta politica di matrimoni di legare ai propri interessi i concorrenti. Operando in questo modo avevano creato una lobby, un vero e proprio monopolio delle attività commerciali, che organizzava alla Mecca sì anche assemblee democratiche, ma non esisteva una minoranza, perchè la maggioranza era sempre dei Qurayshiti (come lo erano i patrizi a Venezia) quindi loro ad avere in mano tutti i poteri: politici, economici e anche religiosi.

Ora se Maometto andava in giro dicendo che le dee e gli idoli erano fasulli, che i riti erano bestemmie, che i sacrifici erano grotteschi, e che le preghiere erano una offesa al vero Dio, quello che era ormai considerato uno "squilibrato provocatore", che tuttavia riscuoteva credito, mise in allarme i Qurayshiti. Ma non per una questione di fede, ma per motivi economici. Vi era il pericolo che i credenti nel rinunciare alla vecchia fede, rinunciassero all'acqua sacra, alla Kaaba, ai sacrifici, ai pellegrinaggi, e c'era anche il timore che una volta ripudiate queste cose, la stessa città perdendo la reputazione avrebbe perso anche tutti gli altri commerci.
Ecco perché furono i primi a indicarlo come un impostore, diffamatore della fede dei padri, un pazzo che insultava gli dei, quegli stessi dei che avevano dispensato bellezze e prosperità alla Mecca come in nessuna altra città.
Un uomo insomma da combattere, perché aveva sovvertito l'ordine cittadino delle classi e dei ceti, con atti sprovveduti, che avevano causato perfino la rovina della sua stessa azienda, sperperato i beni della moglie. Insomma un mentecatto da allontanare, e che perfino i suoi parenti avevano da lui preso le distanze.
Queste illazioni non è che Maometto non le comprendeva, anche lui era un commerciante, quindi li capiva; mica voleva distruggere le lucrose attività; lui stava operando su una riforma religiosa, e che nel realizzarla avrebbe semmai reso ancora più famosa la Mecca. Avrebbe fatto diventare la città un centro spirituale, e la Kaaba la "casa di Allah". Cercò dunque di far capire questi vantaggi ai Qurayshiti, avanzando alcune proposte di compromesso. Fino al punto (ricevendo dopo giorni di preghiera, un'altra "ispirazione", la "voce" dell'angelo Gabriele) di riconoscere alle tre dee una funzione intermediaria, riabilitando così il prestigio delle tre divinità, e colmando in qualche modo la profonda spaccatura creatasi con i Qurayshiti "affaristi" e con i sacerdoti delle tre divinità; le due categorie che si sentivano minacciate.
Si stava già celebrando il grande evento della riconciliazione con feste e banchetti, ma all'ultimo momento Maometto ritrattò il compromesso, quando si accorse che aveva commesso un gravissimo errore. Se proseguiva su questa linea della mediazione, avrebbe prima di tutto dimostrato di essere arrendevole (e alcuni già facevano girare pungenti battute "altro che visioni, per denaro si è venduto anche lui"); diventava pari ai sacerdoti di quelle divinità, compresi i ciarlatani dei tanti idoli; e tutta la base della sua religione (monoteistica) crollava.
La ritrattazione non fece che aumentare le ostilità, le beffardi battute sul suo equilibrio psichico circolavano in quantità, le minacce di morte aumentarono, e se lui -perché ricco- in qualche modo si difendeva, i suoi seguaci furono oggetto di attacchi violenti, non trovavano più lavoro, non riuscivano a commerciare più nulla, e gli si negò perfino l'accesso alla Kaaba.
Il Profeta fu costretto allora a trovare una via di uscita e poiché non potevano né lui né i suoi seguaci assolutamente restare in città, l'unica soluzione era quella di abbandonarla, di cercare un rifugio in un altro luogo.

Nel 622 fu costretto ad abbandonare la Mecca per insediarsi in un'oasi posta a 200 miglia più a nord, a Yathrib, destinata ad essere in seguito conosciuta col nome di Medina.

Questa città, che portava ancora il vecchio nome di Jathrib, giace in una pianura irrigua del Hig'as settentrionale, presso alle montagne che dividono il Neg'd dalla Tihâma. Al pari delle altre antiche sedi di civiltà nelle oasi a nord-ovest dell'Arabia, Medina era composta di case dentro un recinto, con attorno campi coltivati. I principali abitanti di questa oasi erano gli Aus e i Chàsràg', più tardi compresi sotto l'onorifico nome musulmano di Ansar, cioè «aiutatori» (del profeta) ; e che si consideravano come appartenenti alle tribù del mezzogiorno. Si dice che prima della loro immigrazione là città fosse in potere degli Ebrei, la cui potenza economica però era stata spezzata, pare, dalla spedizione di Abràhà, governatore abissino dell'Arabia meridionale; da allora gli Ebrei vivevano sparsi sotto gli Aus e i Chàsràg', prima loro clienti. Solo la tribù dei Kàinuka conservò il suo quartiere chiuso, ma non senza aver perduto il possesso delle terre: rimasto solo alle due tribù dei Nadir e dei Koràisà, domiciliati fra gli Aus, coi quali solo da poco avevano stretto rapporti politici sulla base di una perfetta eguaglianza.


Gli Arabi di Jathrib da tempo si erano trasformati in buona parte in contadini, con coltivazione soprattutto di datteri, senza però abbandonare del tutto le abitudini della libera vita di nomadi. E proprio per questo n
on riconoscevano nessuna autorità; ma, da quando avevano cominciato a fare più spesso a fare vita sedentaria, non potevano più, come prima, schivare i conflitti sempre rinnovantisi. Ne venivano lotte interne continue, finché scoppiò una guerra fratricida fra le tribù degli Aus e dei Chasrag', cui partecipò tutta la città. Gli Aus ebbero la peggio. Una parte di essi aveva accondisceso a una pace vergognosa e in seguito alla cessione dei terreni si era ridotta pressoché al grado di cliente; l'altra parte, troppo altera per accettare simili patti, aveva preferito essere esiliata dal proprio territorio. Ma alleatisi con le tribù giudaiche dei Nadir e dei Koraisa gli Aus eran venuti alla riscossa, e in una battaglia decisiva presso Buath eran riusciti, dopo lunga lotta, a strappare la vittoria ai Chasrag'. Però non si era venuti ad una pace onorevole; durava la guerra di tutti contro tutti, e la mancanza di sicurezza era tale che nessuno poteva più occuparsi dei propri affari senza rischio della vita. Questo stato di cose doveva apparire alle due tribù tanto più insopportabile, in quanto esse non avevano ancor perduta la coscienza della loro affinità. Ma nessuno fra loro era tanto autorevole, da poter sedare la contesa; l'arbitro indispensabile poteva venire solo di fuori. E così la contesa fratricida spianò la via al profeta.

Qui Maometto creando una comunità, cominciò a concentrare un potere che ben presto si propagò attraverso l'oasi e il deserto circostante, fino a controllare alcune vie commerciali.
Quando i Qurayshiti iniziarono a comportarsi da arroganti...lui rispose "Dio diede il permesso al Suo apostolo di combattere e proteggersi".
Fu in questa fase di potenza in espansione e in lotta che la dottrina del Profeta assunse la sua forma definitiva.


L'ardente entusiasmo che dominava il profeta, si manifesta anche nella forma dei suoi discorsi, pieni di audaci immagini e di slancio retorico, con movimento ritmico e colorito poetico. Cominciano spesso con strani giuramenti e sono sempre brevissimi.
Presso i suoi semplici compaesani queste rivelazioni non incontravano molta simpatia: ne raccoglieva derisioni, o il sospetto di esser posseduto da un demone. Egli allora si difendeva con attacchi violenti, perfino mandando maledizioni, contro i suoi avversari, alcuni dei quali li assalì personalmente come Abû Lahab, che gli era perfino parente - citato per nome.
I seguaci di Maometto dovevano credere nell'unico Dio e abbandonarsi alla Sua volontà: da tale abbandono, l' ISLAM, prese il nome la sua religione.
Un termine che si può tradurre "sottomissione" e deriva dal verbo arabo "aslama" che significa "sottomettersi".

È probabile che fin dai primi tempi egli mettesse una offerta-tassa-contributo a vantaggio dei poveri e bisognosi delle comunità, tassa che acquistò poi a Medina maggiore importanza. Dovere principale dei credenti, compiendo il quale entravano nella comunità, era la preghiera, recitata dapprima tre volte al giorno, più tardi cinque volte. A ciascuno era poi lasciato di compiere altri esercizi religiosi, come l'invocazione di Dio, in specie nelle veglie notturne, da lui stesso in principio zelantemente praticata, secondo l'esempio degli asceti cristiani. Certo fin dai primi tempi la preghiera era preceduta da una abluzione, come si faceva anche in diverse sétte cristiane.
Nella snervante ed infruttuosa lotta contro la miscredenza dei suoi compaesani delle classi più alte, Maometto si confortava con l'esempio dei profeti anteriori, che non si erano trovati meglio di lui. Così gli piace narrarne, nelle sue rivelazioni, le vicende, in specie quelle di Mosè.
Tuttavia la sua conoscenza della Bibbia e assai superficiale e riboccante di errori. Alcuni tratti attinse forse alla leggenda giudaica, la cosiddetta Haggada, ma più ancora a maestri cristiani, dai quali conobbe il Vangelo dell'infanzia, la storia dei sette dormienti, la saga di Alessandro ed altri elementi inalterabili della letteratura universale del medioevo. Si aggiungano alcune leggende arabe, come quella della rovina dei Thamûd, a necessario complemento della quale forse egli stesso inventò la scarna leggenda del profeta Salich. In questi racconti lo stile si fa sempre più diffuso e languido; gli piace di ricamarci sopra lunghe disquisizioni retoriche sul modo in cui Dio si manifesta in tutta la natura.
Ma i suoi avversari non si accontentavano di rifiutare la sua predicazione. Fiutando nella diffusione della nuova fede un pericolo per i loro comuni interessi, cercarono, con mezzi e atti di ogni sorta, di staccare da lui gli schiavi e i liberti a lui convertitisi.

Questi erano continuamente perseguitati, perfino incarcerati, e si narra che Abû Bekr, l'amico di Maometto, impiegasse una parte considerevole delle sue sostanze a riscattare quei martiri; ma i suoi mezzi non potevano naturalmente bastare a proteggere tutti i fedeli dalla iniqua persecuzione. Ecco perchè il profeta si decise a sottrarre con la fuga a Medina almeno una parte della sua comunità agli oppressori.

I sei Chasrag'iti, coi quali Maometto si era incontrato in occasione del pellegrinaggio del 620 sull'Akaba, il passo fra Mina e la Mecca, tornarono in patria e qui si adoperarono per la diffusione della nuova fede, aiutati da uno dei musulmani prima emigrati in Abissinia.
L'anno dopo cinque di loro, con sette nuovi proseliti, tornarono alla Mecca, incontrandosi con Maometto nello stesso luogo. Obbligatisi dinanzi a lui alle leggi fondamentali dell'Islam, ritornarono in patria accompagnati da un valente conoscitore del Corano.
La comunità-madre della Mecca ebbe da attraversare ancora una crisi: in molti meccani provocò dubbio e scandalo il racconto di un viaggio miracoloso a Gerusalemme, che Maometto - evidentemente in seguito a un sogno - diceva di aver fatto di notte in compagnia dell'angelo Gabriele, e durante il quale - secondo la tradizione più tarda - sarebbe giunto fino in cielo.
Ma si dice che Abû Bekr, dando per il primo l'esempio di fede incrollabile, riuscisse a far tacere i dubbiosi e gli ostili persecutori.

Tuttavia le ostilità d'ora in avanti se ci dovevano essere dovevano essere rivolte più solo alla Mecca; ed erano ormai tutti coscienti che nel fare l'intesa con Maometto questo voleva dire aprire un conflitto con i Qurayshiti de la Mecca che stavano rendendo la vita difficile al Profeta, oltraggiato e infamato e che per sfuggire a degli attentati ormai doveva vivere alla macchia.
Il patto fu chiaro, i pericoli connessi pure, molti sarebbero potuti morire, si parlò dunque senza mezzi termini di guerra, e tutti i presenti ne accettarono i rischi. Anche perché il conflitto prometteva a guerra vinta un proficuo bottino, la razzia della Mecca avrebbe mutato le condizioni economiche di Yathrib.

In occasione del pellegrinaggio annuale alla Mecca dell'anno 622 a Giugno, 73 cittadini di Yathrib, giunsero in città per visitare i santuari delle tre dee; cosa che fecero per avere il pretesto di accamparsi nella notte in una vicina gola del deserto; poi come dei cospiratori s'incontrarono con Maometto e i suoi seguaci per concordare le iniziativa da prendere, organizzare una forza con i fedeli di Maometto che vivevano alla Mecca ormai anche loro sottoposti alle ostilità e all'odio.

Maometto volle essere sicuro di quello che offrivano, li fece giurare che lo avrebbero difeso anche a costo della loro vita come se fosse stato un loro familiare, poi aggiunse "Io appartengo a voi e voi appartenete a me. Io combatterò colui che voi combatterete, vivrò in pace con chi verrà lasciato in pace da voi". Il patto fu concluso, le decisioni furono prese, e si concordò che i seguaci di Maometto della Mecca a piccoli gruppi senza farsi troppo notare avrebbero raggiunto Yathrib, per concentrarsi e per creare una forza disposta a lottare.
Questa "fuga" dalla Mecca prese il nome di "HIGRA", che significa però "emigrazione" - distorta dagli europei in EGIRA. Iniziata il 16 Luglio del 622, costituisce il punto di partenza dell'era musulmana: cioè quando i fedeli di Maometto lasciarono la Mecca per raggiungere il 20 settembre Yathrib (Medina). 
Il califfo Omar in seguito, da questa data avrebbe fatto iniziare l'era e il calendario musulmano.

L'accordo stipulato, ma anche la "fuga", attraverso voci raggiunse i Qurayshiti, trovarono un valido motivo per sentirsi ora veramente minacciati; decisero immediatamente che Maometto doveva essere eliminato, organizzando una spedizione omicida composta da un uomo di ogni grande famiglia, in modo che non potesse ricadere la responsabilità dell'assassinio del Profeta a una sola famiglia e per evitare di dare l'avvio a una faida della famiglia dello stesso, com'era tradizione.
L'attentato organizzato nella notte, fallì per pochi minuti, Maometto si era alzato dal letto e aveva raggiunto il suo amico Abu Bakr, per andargli a dire a notte fonda "Allah mi ha concesso finalmente di andare a Yathrib".
Abu Bakr rimase sconcertato, ma poi appena fattasi l'alba informato da alcuni voci quanto era accaduto nella notte e che era stata messa una taglia di cento cammelli sulla cattura di Maometto, attraverso un piccolo finestrino sul retro della casa fuggirono insieme in una caverna nel deserto rimanendovi nascosti tre giorni. Poi procuratisi due cammelli, evitando tutte le piste e le oasi a tutti note, percorrendo sentieri di montagna, compiendo un lungo giro, i due fuggiaschi impiegarono quattro giorni per coprire la distanza delle duecento miglia, finché  raggiunsero finalmente la città di Yathrib.

Gli abitanti che seguitavano a pregare per l'arrivo di Maometto, come un presentimento che fosse accaduto qualcosa, da giorni scrutavano l'orizzonte, finché un mattino un ebreo rivolto a loro disse "E' arrivato finalmente".
Arrivato a Yathrib! che diventerà, Madinat al-Rasul (an-nabi), cioè "la città del Profeta", poi abbreviata in MEDINA, che significa solo città.

A Medina Maometto non volle nessuna accoglienza trionfale, né volle che una casa particolare fosse messa a sua disposizione; lasciò decidere al suo cammello; quando questo stanco del lungo viaggio si fermò testardamente in un punto, e lì il Profeta decise di fermarsi, e lì fece innalzare la sua prima abitazione.
Primo pensiero fu di innalzare accanto una moschea per la preghiera: costruito di tegole crude e coperto da un tetto di foglie di palma, in breve fu pronto.

La sua attività Maometto la inizia dopo alcune settimane redigendo un documento che diventa la prima legislazione di una città islamica. Ma non rivendicò il ruolo di capo, bisognava solo giurargli obbedienza personale, e del resto gli stessi medinesi non si sottomisero alla sua autorità, si erano solo impegnati a difenderlo, perché secondo un concetto espresso dal Corano, una promessa fatta da un membro impegnava tutto il resto del clan, e la Medina convertita era ora un unico clan, un unica famiglia.
Quindi nel testo tramandato dal famoso documento, Medina riconosceva l'ospitalità, dava protezione incondizionata a Maometto, lo nominava suo signore.

Fu il documento redatto, un trattato diplomatico molto ben riuscito; furono risolte tutte le discordie dei clan e si trasformò in una popolazione tutta unita a difendere il suo legislatore, più che un capo.
Fu solo con l'estendersi della sua influenza, del suo carisma, della sua intelligenza, e non in virtù di una sua pretesa o altro accordo formale che Maometto divenne poi "un re" del luogo.

Del resto Maometto nel presentarsi a Medinesi, che molti di loro non conoscevano fino al suo arrivo, con una dose di capacità politica non indifferente disse che considerava tutti gli abitanti "credenti o no" membri di una sola comunità, e che la divisione fra clan era valida solo per il suo stretto significato parentale, così la cultura e la tradizione familiare dovevano rimanere circoscritte nelle proprie mura familiari, ma che era prerogativa principale - e quindi unica per tutti - quella di osservare una legge comune: mai combattersi gli uni contro gli altri in caso di dispute, che le questioni di ogni tipo avrebbero dovute comporsi "...davanti a Dio e... a Maometto che avete voi voluto come legislatore"; inoltre tutti dovevano impegnarsi a difendere Medina, in ogni occasioni di attacchi, e che nessuno durante questi poteva concludere accordi di pace, o dichiarare guerra ad altre genti o clan stranieri.

L'unità era e doveva rimanere inviolabile; e che solo così poteva nascere un "Grande Unico Popolo"
Erano come si vede discorsi che andavano al di la' delle semplici composizioni pacifiche dei clan di un villaggio, ma contenevano già il grande messaggio non solo religioso ma fondamentalmente politico per creare prima una città civile, poi una grande nazione, e con essa un grande popolo.
Maometto diventa così un organizzatore, un legislatore, un uomo politico, e costruisce il suo edificio che diventa la base e il punto di partenza dell'Islam.


Le varie famiglie si riunirono in un'unica comunità, posta sotto la protezione di Allah e comprendente anche i pagani e gli ebrei. La predominanza oltre che l'autorità toccava ovviamente ai nuovi credenti, essendo questi l'anima della corporazione; ed erano loro a fare osservare alla comunità alcune regole e leggi.

Sostegno principale di Maometto nella nuova patria furono e suoi compaesani emigrati dalla Mecca, e Muhag'erûn. Mentre i Meccani discretamente agiati si distribuivano nei vari quartieri della città, quelle privi di casa e di mezzi - e non erano pochi - si raccolsero intorno al profeta, formando la sua guardia del corpo e contribuendo non poco ad accrescerne la considerazione presso i suoi nuove concittadini. (ma a dire il vero, i Medinesi sopportarono con un po' di irritazione i nuovi arrivati messi nei posti migliori; questa insofferenza rimase latente fino alla morte di Maometto, poi la lotta per la successione diede il via a forti contrasti e a qualche ostilità di troppo).

Nei premi tempi del soggiorno a Medina l'interesse religioso del profeta era dominato dai suoi rapporti con gli ebrei. Forse egli sperava che si sarebbero convertiti alla sua dottrina. Pensava che gli sarebbe stato ancora possibile guadagnare a sé la comunità ebraica sul piano intellettuale. Infatti si accesero animate discussioni per stabilire se Abramo era ebreo o no. Problema non futile se si pensa che entrambi i due gruppi, gli ebrei e gli arabi, consideravano Abramo loro progenitore.

Per questo Maometto cercò di propiziarseli, adattando in diversi punte al loro culto il culto della sua comunità. Già alla Mecca aveva introdotto il sistema di pregare rivolto verso Gerusalemme. Ad imitazione del digiuno giudaico nel giorno dell'espiazione, il 10 tishri prescrisse il digiuno per il giorno della Ashma, il 10 muharram. Avendo potuto a Medina celebrare pubblicamente e indisturbato il servizio religioso insieme alla sua comunità, stabilì l'ufficio del «muedhdhin» [muezzin], incaricato di chiamare (a voce e dall'alto di una torre) i fedeli alla preghiera.

Con ciò veniva a mettersi in forte contrasto con le due religioni monoteiste. Mentre nelle sinagoghe d'Oriente l'invito alla preghiera si faceva a suon di corno, i cristiani adoperavano grosse raganelle di legno (semanteria - tric e trac - invece delle campane non ancora in uso) come ancora oggi la chiesa romana fa durante la settimana santa.
In contrasto con queste due usanze, Maometto scelse la voce umana per chiamare i suoi fedeli alla preghiera.

Ma presto si accesero dispute d'ogni sorta fra Maometto e i dottori ebrei. Per quanto le cognizioni di questi ultimi, in una comunità così remota, fossero scarse, essi erano molto superiori, per sapere e per acutezza di mente, al profeta ignaro di ogni disciplina di studi: né potevano restar loro celate le tante lacune della sua scienza biblica, esposte nelle sûre.
Ma i loro motteggi in proposito non valevano a scuotere in lui la fede nella verità delle sue rivelazioni. L'opposizione degli ebrei alla sua dottrina voleva solo dire per lui che essi si erano scostati dalla retta fede e che avevano falsificato le sacre scritture, la cui origine divina egli aveva pur riconosciuta.

Non fu un inizio facile. Alcune contrarietà nacquero soprattutto proprio con gli Ebrei, che prima lo avevano accolto dandogli perfino incondizionato appoggio, poi si dissociarono dalle sue idee religiose; pur essendo la religione che professava Maometto monoteistica e che si riallacciava ad Abramo; gli ebrei ritenevano quella mosaica-ebraica l'unica degna di fede biblica e questo diede origine a una prima spaccatura, inizialmente piccola, poi via via sempre più grande quando gli ebrei rifiutarono con poche eccezioni di riconoscerlo come Profeta. 
Maometto aveva cercato di mettere in risalto l'affinità fra le due religioni, che riguardavano un Dio unico, una base comune. Ma fu inutile, e la tradizione é concorde nel riferire che gli ebrei erano molto preoccupati dalla piega che stavano assumendo gli eventi dopo il suo arrivo. Quando poi iniziarono azioni di disturbo, quando prendendosi gioco di lui ci furono alcune provocazioni, Maometto si allontanò dagli ebrei, quasi pentendosi di aver dato loro credito e iniziò di rimando a predicare una rivelazione premosaica.

"Quella degli hanifi; dell'Arabia antica (ca. 2000 a.C.), rappresentanti di una religione monoteistica né ebraica né cristiana; nella quale alla credenza in una rivelazione primordiale si associava l'attesa che di tempo in tempo essa trovasse i suoi banditori in "profeti della verità". Probabilmente è a essi che Maometto dovette la sua convinzione di essere stato chiamato ad annunciare l'unica religione primordiale quale profeta degli arabi" (A. Bertholet, Dizionario delle Religioni, Editori Riuniti).

Dobbiamo qui premettere che fino a questo periodo, era piuttosto ancora difficile separare l'etnia degli Ebrei e degli Arabi. Erano entrambi semiti. Secondo la Bibbia, il nome Ebreo discenderebbe da Eber, a sua volta discendente da Sem figlio di Noè (il capostipite dei popoli semiti) e antenato di Abramo, il comune patriarca delle due religioni: dell'ebrea, che sarebbe discesa da Isacco figlio di Abramo e di Sara; e dell'araba, che (secondo Maometto) sarebbe discesa da Ismaele figlio dello stesso Abramo e di un'altra moglie alla quale il patriarca si era unito su consiglio di Sara stessa dal momento che, in un primo momento, essa non era riuscita a dargli un figlio.
Il testo biblico stabilisce così una parentela strettissima fra ebrei e arabi. E secondo alcuni studiosi ebrei e arabi si avvicinano ai misteriosi habiru, o agli aramei, nomadi presenti un po' in tutto il vicino Oriente fra il 2000 e 2200 a.C.

Secondo questa provenienza storica, Ebrei ed Arabi potrebbero essere chiamati più che "cugini", "fratelli". Entrambi onorano il patriarca Abramo come progenitore dei loro popoli. Quando Abramo, intorno al 1800 a.C., da Ur, in Caldea (forse per una grave carestia sui luoghi) parte con la sua discendenza ed erra verso nord e verso ovest, verso la Siria e il Mediterraneo forse non esiste ancora nessuna separazione fra Ebrei ed Arabi. Esiste solo la famiglia di Abramo. Gli antichi egiziani danno a questi nomadi semiti che si aggirano attorno all'Egitto il nome di "vagabondi delle sabbie" o Ara-Bar. Dunque sono tutti Ara-Bar quelli che poi si chiameranno Ebrei e Arabi.

Una vera separazione più che "divisione", avviene quando una parte della discendenza di Abramo, divenuta troppo numerosa, si reca in Egitto dove vive pacificamente. Cambiata la situazione politica sotto i faraoni Ramesete II e Meneptah, questo popolo vittima di persecuzioni, sotto la guida di Mosè decise di andare in Palestina, dove consolidò un regno con il vincolo religioso fra le stirpi dei due rami. Infatti anche gli arabi di oggi riconoscono Mosè come profeta:Moslen. Anche i dieci comandamenti proclamati da Mosè sono fondamento comune della religione ebraica, maomettana oltre che cristiana.

Questa polemica iniziata con gli ebrei ebbe presto conseguenze pratiche. Già nel secondo anno del suo soggiorno a Medina egli prescrisse che chi pregava dovesse rivolgersi non più verso Gerusalemme, ma verso il santuario della Kaaba. E mise sempre di più in rilievo il carattere nazionale, prettamente arabo, della sua religione. Eliminò il digiuno della Ashma, prima prescritto ad imitazione degli ebrei, sostituendolo col digiuno, ancor oggi osservato, durante tutto il mese di Ramadan (Sawm o Siyam). Uno dei cinque "pilastri" della fede islamica - gli altri 4 sono * La testimonianza di fede (Shahada), * Le preghiere rituali (Salat o Namaaz), * L'elemosina canonica (Zakat), * Il pellegrinaggio alla Mecca (Hajj) ).


All'opposto dei cristiani, che durante il digiuno della quaresima si astenevano solo dal mangiar carne, prescrisse ai fedeli completa astensione dal cibo durante il giorno, lasciandoli liberi di compensarsi durante la notte.
A motivare questo riaccostarsi al culto della sua città natale, Maometto asseriva che la sua religione era identica a quella di Abramo; il quale aveva fondato il santuario della Mecca per il figlio Ismaele e istituito il pellegrinaggio annualmente celebrato; e una volta ripulito questo dagli abusi pagani, si sarebbe tornati subito alle divine tradizioni di Abramo.

In tal modo egli veniva anche a motivare lo scopo più prossimo e più importante della sua politica estera, l'assoggettamento cioè degli Arabi pagani. Le circostanze non gli concedevano di aprir subito una campagna regolare contro di essi. Ma le carovane dei Meccani, che passavano da Medina, svegliarono ben presto i credenti. Pare che fin dal primo anno e all'inizio del secondo Maometto tentasse ripetutamente, ma invano, di catturare quelle carovane. Solo all'inizio del mese sacro di Rag'ab una colonna mobile, inviata da lui con ordini precisi, riuscì a sorprendere una ricca carovana di Meccani, la cui scorta - fidando nella tregua di Dio - non aveva preso speciali misure di sicurezza, ed a portarne via copioso bottino.

Ma quando vide l'indignazione suscitata in Medina stessa da questa violazione del diritto delle genti, Maometto ripudiò la sua iniziativa, pure indubbia, dando a credere che i suoi ordini fossero stati male interpretati. Più tardi però, quando la vista della ricca preda ebbe a sufficienza risvegliati gli appetiti, non temette di dichiarare, in una delle sue rivelazioni, legittima la lotta contro gli infedeli anche nel mese sacro, facendo poi spartire la preda.

Di lì a due mesi si presentò di nuovo l'occasione di ripetere questo bel colpo. Si aspettava alla Mecca la carovana siriaca di Gaza, cui partecipavano coi loro capitali quasi tutte le ditte della Mecca. Era condotta da Abû Sufjân, capo della casa degli Umaija. Per invito di Maometto circa 300 volontari, tanto immigrati quanto medinesi, si tenevano pronti ad una scorreria contro la carovana. Ma Abû Sutjân, che se l'aspettava, fece passare i suoi per un'altra via, lungo la costa. Intanto i Meccani, avvertiti da un corriere del pericolo imminente, si misero in marcia verso nord, in numero -- si dice - tre volte maggiore dei mussulmani.

Maometto aveva pensato di sorprendere Abû Sufjân presso Badr, località sulla strada carovaniera, fornita di acqua potabile. Ma invece di lui si vide venire incontro un buon numero di truppe. Ci volle tutta la grande forza persuasiva di Maometto per indurre i suoi uomini ad accettare la battaglia. Ma una volta decisi, l'ubbidienza e la disciplina, a cui i suoi seguaci erano abituati per via delle preghiere quotidiane in comune, riportarono la vittoria sopra la disordinata preponderanza dei Meccani.
Grande fu l'effetto morale di questo primo successo. Quasi ogni famiglia meccana ebbe da piangere la morte di un parente o da riscattare un prigioniero. A Medina la vittoria aumentò di molto l'influenza del profeta, rendendogli possibile una energica opposizione contro i suoi avversari che fin allora aveva dovuto tacitamente sopportare.

I Medinesi rimasti tuttora pagani dovettero ora convertirsi all'Islam. Molti di loro lo fecero con qualche riserva, e questi «incerti» diedero ancora molto da fare al profeta. E con gli Ebrei andò ancora peggio.
I primi ad accorgersi della sua potenza furono i Kainukâ, tribù di orefici. Prendendo il fatto che essi avevano ucciso un musulmano, in una rissa con un ebreo, Maometto riunì i suoi soldati contro di loro e li costrinse alla resa, dopo averli assediati per due settimane nel loro quartiere. Condannati a morte, ebbero, per intercessione del capo dei Chasrag', commutata la pena nella perdita di ogni avere e nell'esilio.

Continuando Maometto a disturbare il commercio carovaniero dei Meccani, questi, alleatisi con i loro vicini Thakif di Tâïf, decisero di vendicare la sconfitta di Badr. Misero insieme un esercito di 3000 uomini, poderoso in proporzione ai mezzi degli Arabi, fra cui 700 protetti da corazze, con 200 cavalli e 3000 cammelli. Portando dietro una moltitudine di donne, procedevano lentamente. All' inizio del 624 giunsero alla pianura che si stende al nord di Medina fino al monte Ochod, distante una buona mezz'ora dalla città. Maometto voleva prima, consigliato dal capo dei Chasrag', aspettare l'assalto in città, ma poi l'ardore battagliero dei suoi lo indusse a uscire contro i nemici. Alla vista del poderoso esercito, i credenti si persero d'animo; ciò nonostante Maometto non rinunziò a combattere in campo aperto, né si scoraggiò nemmeno quando il capo dei Chasrag' si ritirò in città con 300 uomini.

Malgrado questo cattivo inizio, i Musulmani si trovarono in vantaggio e già penetravano negli accampamenti dei nemici. Purtroppo una divisione di arcieri, incaricata a coprire il loro fianco sinistro, credette bene di abbandonare il suo posto per unirsi all'entusiasno. Ne approfittò Chalid ibn al-Walîd per dare addosso, alla testa della cavalleria meccana, al fianco scoperto dei musulmani, offrendo così il primo saggio delle sue capacità militari, più volte poi dimostrata quando poi passò a servizio dell'Islam.

La battaglia era perduta per i musulmani; Maometto stesso ferito, e la voce sparsasi della sua morte tolse ai suoi l'ultima ombra dl resistenza. Per fortuna di questi ultimi, i Meccani non seppero trarre profitto della vittoria; soddisfatti del loro successo tornarono semplicemente in patria.

Questa sconfitta non poteva certo, agli occhi dei suoi seguaci, recar danno al profeta, ben sapendo di averla meritata con la loro disubbidienza. Ma presso i Beduini dei dintorni la sua reputazione fu molto compromessa, come si vide per es. dall'assassinio di 40 dei suoi missionari nel territorio della tribù dei Hawasin. Egli dovette cercare di compensare con una nuova impresa quanto aveva perduto in prestigio guerresco. Gli Ebrei furono anche questa volta la vittima più vicina e più facile. Sotto un pretesto da nulla assalì i Nadû, rinchiudendoli nel loro quartiere. Dopo quindici giorni di assedio, e poiché non osavano aiutarli nemmeno i Koraisa, loro compagni di fede, dovettero capitolare. Emigrarono nell'oasi di Chaibar, a 20 miglia a nord di Medina; dove già si trovava una numerosa colonia ebraica. Maometto assegnò i loro possessi ai suoi Muhag'irûn.

Nel corso dell'anno 626 il profeta condusse anche scorrerie contro alcune tribù beduine, spingendosi una volta fin verso la Mecca. In tali spedizioni non rischiose soleva condurre con sè due delle sue mogli. In una di queste spedizioni la sua favorita Àïsha, figlia di Abû Bekr, allora quattordicenne, messasi una sera a ricercare una collana smarrita, si trovò lontana dal campo e vi fece ritorno solo al mattino seguente, accompagnata da un giovane già prima da lei conosciuto. Venuta perciò in sospetto di infedeltà, il profeta la rimandò dai genitori. Ma trascorso un mese Allah gli confermò l'innocenza di lei mediante una rivelazione; così fu decretato che ogni accusa contro una donna maritata, quando non fosse avvalorata da quattro testimoni, dovesse ritenersi calunniosa ed esser punita con cento scudisciate.

Il suo genero Ali si era trovato fra quelli che volevano persuadere il profeta a separarsi da Àïsha; da questo tempo inizia certamente l'odio col quale essa perseguitò Ali durante il suo califfato. Ad ogni modo questa avventura della collana non esercitò alcuna influenza sulla posizione sociale delle donne nell'Islam, come si é creduto. L'obbligo del velo per le donne maritate era già antico in Arabia, e il profeta lo aveva già prima intimato di nuovo in altra occasione. Ma il velo non ha impedito alle donne, tanto prima dell'Islam quanto dopo fin nell'età degli Umaijadi, di mostrarsi assai liberamente in pubblico e spesso di esercitare un'influenza assai considerevole. Solo l'istituzione dell'harem, introdotta in seguito dagli Abbasidi secondo l'esempio bizantino- cristiano, finì per abbassare la dignità della donna.

Nonostante le scorrerie di Maometto fra i Beduini, i Meccani erano nel frattempo riusciti a mettere insieme una forte lega contro di lui. Circa nel marzo del 627 mossero contro Medina pressoché 10.000 uomini, compresi 4000 Koraishiti, sotto il comando supremo di Abû Sutjan. Questa volta marciarono con straordinaria rapidità, tanto che Maometto ebbe solo una settimana di tempo per prepararsi al loro assalto. Data la superiorità dei nemici, non c'era da prendere in considerazione una battaglia in campo aperto. Bisognava difendersi dentro Medina stessa, tanto più che secondo lo statuto della comunità solo in questo caso tutti quanti i cittadini erano obbligati a seguire l'esercito. La città era discretamente protetta da tre lati da file contigue di case, ma scoperta dal lato settentrionale.
Consigliato da un antico schiavo persiano, Salman, Maometto fece qui scavare una larga fossa, per garantirsi dall'attacco della cavalleria. Un tale mezzo di difesa era fino allora sconosciuto in Arabia, e destò così tanta meraviglia che questa spedizione prese il nome di «guerra della fossa».
Lo scopo fu pienamente raggiunto: i nemici si videro costretti a porre l'assedio e si stancarono ben presto, per la difficoltà dell'approvvigionamento oltre esserci i campi nudi senza alcun prodotto.

Fallite anche per la loro indecisione, le trattative con la tribù ebraica dei Koraisa, dimoranti appunto sul limite estremo della città, e vedendo che le cavalcature, il possesso più prezioso degli assedianti, morivano in massa per l'inclemenza del clima, i Meccani dovettero in breve decidersi alla ritirata. Lo stesso giorno Maometto assalì i Koraisa, la cui condotta era sempre stata ambigua e che dopo quindici giorni di assedio furono costretti ad arrendersi. Per dare un esempio, Maometto fece giustiziare gli uomini, in numero di 600, mentre le donne e i bambini furono venduti come schiavi.

Da quando Maometto prescrisse di pregare col viso rivolto verso la Kaaba, riconoscendone così la santità, dovette continuamente mirare, come scopo supremo della sua politica, ad impadronirsene. Dapprima tentò di prendere parte, in pace con i suoi, al pellegrinaggio generale dell'anno 627. Accordatosi, probabilmente per mezzo di suo zio Abbas, con i capi della città e trovatili in disposizioni pacifiche, si mise in viaggio, in veste di pellegrino, verso la Mecca, insieme a 1500 uomini armati della sola spada. Ma pare che nel frattempo gli umori verso di lui fossero mutati. Giunto a dieci miglia dalla città, venne a sapere che i Meccani con i loro alleati avevan posto il campo dinanzi alla porta di settentrione e spinta innanzi la cavalleria sulla strada di Medina. Allora Maometto piegò a destra, ed evitando gli avamposti della cavalleria, giunse ad Hodaibija, sul confine del territorio sacro. Di qui aprì trattative coi Meccani, inviando a tale scopo in città il proprio genero Othman, più di altri influente per appartenere alla stirpe degli Umaijadi. Passati tre giorni senza che ritornasse, si sparse la voce che fosse stato assassinato.

Maometto non avrebbe potuto lasciare impunita una tale violazione del diritto delle genti, per quanto non preparato alla battaglia. Raccolse pertanto intorno a sé i suoi uomini; e all'ombra di un grande albero si fece giurare di nuovo fedeltà. L'aver prestato questo «omaggio della soddisfazione», cioè della soddisfazione divina, costituì più tardi un alto titolo di gloria. Quella voce però risultò infondata; i Meccani si mostrarono ben disposti a un accordo pacifico. Col parlamentario: inviato al suo campo Maometto concluse un armistizio per dieci anni. Acconsentì inoltre a rinunziare per questa volta al suo proposito e a tornare indietro; in compenso i Meccani, passato l'anno, gli avrebbero lasciata libera la città per tre giorni, sì che egli e i suoi potessero attendere indisturbati alle cerimonie del pellegrinaggio. Se durante l'armistizio qualcuno dei Koraish si fosse scatenato contro di lui contro il volere del suo parentado, questi dovevano consegnarlo; mentre i disertori potevano restare indisturbati alla Mecca. Questa concessione mosse a sdegno i compagni del profeta, tanto più avendo egli rinunziato ad esser qualificato come «messo di Dio» nel documento del trattato. Ma l'avvenire gli diede ragione.

Secondo le convenzioni, egli aveva consegnato ai Banû Suhra uno dei loro clienti. Costui però uccise strada facendo uno dei due custodi che dovevano riaccompagnarlo alla Mecca, e fuggì presso la costa. Intorno a lui si raccolsero di li a poco numerosi fuggiaschi, che si trovavano nella sua stessa condizione; e sotto la sua guida presero ad assalire le carovane meccane che di là passavano. Toccò allora ai Meccani stessi di pregare il profeta di cancellare quel malaugurato paragrafo del trattato e di riprendersi i banditi.

Allo scopo di offrire ai suoi seguaci un compenso per l'apparente insuccesso dì Hodaibija, Maometto li condusse, poco dopo e cioè nella primavera del 626, contro le ricche colonie di Ebrei di Chaibar, Wadilkora e Fadak. Costoro avevano preso con sé, perché li difendessero, 4.000 Beduini della tribù dei Ghatafan; ma quando questi videro che gli Ebrei non osavano tener testa al profeta in campo aperto, ma si rinchiudevano nei loro castelli, li abbandonarono.
All'inizio i Musulmani, non possedendo macchine da assedio, non riuscirono a concludere nulla. Solo ricorrendo al tradimento riuscì loro di penetrare in uno dei quartieri, dove trovarono arnesi da guerra e li misero in opera contro gli altri castelli. Allora gli Ebrei capitolarono, col patto di poter liberamente uscire insieme alle donne e ai bambini, previa consegna di tutti i loro beni.
Ma non sembrando opportuno di stabilire colonie di credenti a grande distanza da Medina, il che avrebbe sottratto
forze all'Islam tuttora giovane, il terreno fu lasciato agli Ebrei, col patto che versassero la metà delle rendite.

Nel successivo pellegrinaggio Maometto poté quindi, secondo il patto, entrare nella Mecca. I pagani avevano abbandonato la città, ma oltre ai suoi parenti, rimastivi con suo zio Abbas a capo, egli ebbe la soddisfazione di ricevere la confessione di fede di alcuni fra i più accaniti precedenti avversari, tra i quali di Châlid ibn al-Walîd, il vincitore di Ochod, detto poi «la spada dell'Islam» e dell'Umaijade Amr ibu al-As, in seguito primo governatore d'Egitto.

La nuova potenza che cominciava a formarsi in Arabia attrasse fin da allora l'attenzione dei governatori delle province confinanti dell'impero bizantino. Kyros (Ciro), patriarca di Alessandria, viceré di Egitto sotto l'imperatore Eraclio e detto dagli Arabi, con storpiatura del suo soprannome greco, Mukaukis, mandò in dono al profeta, di cui doveva ben conoscere i gusti, insieme ad altro, due belle schiave. Una di queste, Maometto la lasciò al suo poeta di corte Hassan ibu Thâbit, il cui ufficio era di celebrare le gesta dei Musulmani. L'altra, Marija, se la prese egli stesso per concubina ed ebbe la gioia che gli partorì un figlio, mentre tutte le sue mogli legittime, ad eccezione di Kadîgia, eran rimaste sterili.
Gli pose nome Abraham, a ricordo del patriarca di cui si sentiva chiamato a ristabilire la fede; ma il figlio morì ancor prima di aver compiuto un anno.
Non altrettante pacifiche furono, fin dal principio, le relazioni dei Musulmani coi Bizantini della Siria. Diffondendosi la potenza di Maometto anche fra i Beduini dell'Arabia settentrionale, presto venne a contatto con i posti di confine romaici. Un messo, che egli aveva inviato nel 629 dal comandante della fortezza di Bostra nella regione orientale del Giordano, fu imprigionato e ucciso.

Per vendicare questo delitto Maometto spedì al nord un esercito di 8.000 uomini, guidati dal suo figlio adottivo Said ibu Haritha. Le truppe ghassanide di confine mossero contro i Musulmani e nella battaglia ingaggiata a poche miglia al nord di Medina rimasero vincitori i credenti, ì quali si spinsero allora fino a Muta, presso l'estremità meridionale dei Mar Morto.
Qui s'imbatterono in un esercito bizantino, nel frattempo raccolto sotto il comando del patrikios Teodoro. Al valore dei Musulmani, per quanto grande, non poteva compensarne la deficienza numerica, caduti Said e due altri generali nominati in sua vece da Maometto, Chalid ibn al Walid riuscì a stento a ricondurre a Medina le truppe decimate.

Per attenuare la cattiva impressione di questo scacco, Amr ibn al-As fu spedito di lì a poco contro i Beduini al nord del deserto; e le sue azioni energiche indussero nello stesso anno la maggior parte delle tribù a convertirsi all'Islam.

I Koraishiti della Mecca avevano da tempo rinunziato alla speranza di una nuova vittoria sul profeta, badando solo a mantenere l'armistizio di Hodaibija e di evitare nuovi pericoli per il loro commercio già di per sé indebolito. Al profeta invece non attendeva che un pretesto per finirla una buona volta con essi. E il pretesto di dichiarare rotta la pace gli fu offerto da una rissa scoppiata fra una tribù di Beduini convertiti all'Islam e alcuni partigiani dei Koraish, ed alla quale si diceva avessero preso parte anche cittadini della Mecca.

Nel Ramadan dell'anno 630 Maometto marciò contro la sua città natale con un grosso contingente di Medinesi e Beduini, in tutto 10.000 uomini. Già a mezza strada parecchi Meccani, fra i quali suo zio Abbâs, gli vennero incontro e si unirono a lui. Solo un esiguo partito di cittadini pensava ancora sul serio alla resistenza. Posto che ebbe il profeta il campo a Marr as-Sahran, a nord-ovest della Mecca, gli si presentò Abû Suijan stesso, una volta l'anima dell'opposizione contro di lui, per fare confessione di fede.
Ottenuta la promessa di piena sicurezza per sé e per tutti quelli che avevano cercato asilo in casa sua, Abû Suijan tornò in città. Di buon grado i suoi concittadini seguirono il consiglio di non opporsi all'entrata del profeta. Solo un manipolo di inconciliabili si tenne pronto alla lotta. Maometto fece entrare le sue truppe nella Mecca da tre parti contemporaneamente. Chalid ibn al Walid trovò breve resistenza solo alla porta meridionale, occupata dai par
tigiani della guerra, forse con la speranza di aprirsi il varco verso lo Jemen. Senza una seria resistenza la città si sottomise al suo grande figlio, otto anni prima cacciato in esilio.

Giunto dinanzi alla Kaaba, Maometto girò sette volte attorno al santuario, toccando ogni volta la pietra nera. Con ciò sembrò accogliere il rito pagano nella sua religione. Ma fece distruggere gli idoli posti nel tempio ed impose anche la consegna degli idoli rimasti nelle case private, quantunque non si aspettasse dai suoi concittadini la immediata conversione all'Islam.
Solo quattro dei suoi antichi avversari espiarono con la morte colpe particolarmente gravi. Verso gli altri mostrò tanta benignità, tale da far nascere la gelosia dei Medinesi: che però, come presto si vide, temettero a torto che egli pensasse di stabilirsi alla Mecca.

Solo per una quindicina di giorni Maometto poté godere, nella sua città natale, del successo. Nel frattempo si era addensata contro di lui una nube minacciosa. I Thakif di Taïf, la città vicina al sud della Mecca, si erano alleati con la tribù affine dei Hawasin, beduini sparsi dappertutto nel Neg'd.
Un esercito di 30.000 uomini, poderosissimo per l'Arabia, si era accampato presso Honain. Venuti alle mani, i Beduini all'avanguardia delle truppe maomettane furono dapprima sopraffatti dalla cavalleria nemica; ma gli alleati, nonostante la superiorità numerica, non riuscirono a scuotere la salda resistenza delle truppe medinesi, formanti il nocciolo dell'esercito.
La maggior parte dei Hawasin poterono fuggendo scampare a Taïf, solo perché i Beduini di Maometto ricordatisi intempestivamente di esser loro legati da parentela, li inseguivano svogliati, in un modo non proprio bellicoso. Però un ricco bottino rimase ai vincitori: Maometto ebbe così modo di rafforzare nella fede i neofiti suoi compaesani, offrendo doni «da guadagnare il cuore».

Non altrettanto bene riuscì a Maometto la sua impresa contro la città stessa di Taïf. Quando subito dopo la battaglia di Honain, senza trattenersi a dividere la preda si spinse sotto le mura, trovò accanita resistenza da parte dei Thakîf; né valsero a spezzarla le sue rozze macchine da assedio, via via incendiate dai nemici. Trascorse due settimane in vani e noiosi tentativi, Maometto tornò al campo, dov'era rimasto il bottino di guerra. Qui giunsero anche molti Beduini fuggiti da Taif, per rientrare in possesso dei loro averi o riscattare i loro parenti, in premio della loro conversione. In tal modo egli poté, senza altri pensieri, lasciarsi dietro i pagani tuttora rinchiusi a Taïf, visto che i loro alleati ora li tenevano a bada.
Tornato il profeta a Medina, nel corso dei due anni successivi gli si presentarono deputazioni di quasi tutte le tribù beduine, per fare atto di volontaria sottomissione.

Quindi da quel momento si trovò di rado costretto a vendicare un'aggressione contro suoi missionari o agenti di tasse. Nel 630 si arrese anche la città di Taïf, ormai quasi ridotta alla miseria dalle orde beduine senza posa scorrazzanti sotto le sue mura. Gli ambasciatori, venuti a far atto di sottomissione, chiesero invano una breve proroga in favore della loro dea Lat. Maometto fu inesorabile. Mughira ibn Shuba, un Thakif già prima presentatosi al profeta e che ritroveremo quale arrivista senza coscienza, ebbe l'incarico di distruggere la statua della protettrice della città.
Ogni resistenza spirituale da parte del paganesimo era ormai finita. Anche i Cristiani dell'Arabia settentrionale non esitarono a rinnegare la loro fede. Solo nel sud la chiesa di Nag'ran, che già sotto un re ebreo aveva resistito ad una violenta persecuzione, si mantenne fedele al cristianesimo. Invano il profeta sfoggiò tutta la sua persuasiva col vescovo Abu'l-Harit e col principe Abdalmasich, venuti di persona a Medina per le trattative; essi furono irremovibili e Maometto dovette accontentarsi di un trattato che garantiva loro libertà di religione e di culto in compenso di un notevole tributo.

Un indizio sicuro che Maometto teneva incontrastata fin d'allora la sua signoria sull'Arabia, ci é offerto dal riconoscimento della sua autorità da parte dei maggiori poeti del suo tempo. Nell'età pagana i poeti eran stati non solo l'orgoglio della loro tribù, ma con la forza delle loro parole avevano esercitato anche una notevole influenza politica. I due più celebrati poeti dell'età di Maometto, Lebid e al Asha, si convertirono all'Islam e l'ultimo di essi anzi esaltò il profeta in un panegirico, tuttora conservatoci.
In fondo Maometto non era molto tenero con la loro arte, nella quale vedeva una continuazione dell'antico paganesimo. Se poi i suoi rappresentanti si arrischiavano di usarla contro la fede, egli era implacabile. Kaab, figlio di Suhair, di uno dei più illustri poeti dell'età pagana, della tribù dei Musaina, vedeva con dispetto, come erede dell'arte paterna, la diffusione della nuova fede, la quale con le sue incomode esigenze turbava profondamente le abitudini della vita quotidiana. Quando poi il suo stesso fratello Bugiair si fece maomettano, egli diede sfogo ai suoi sentimenti con amari versi satirici. Il profeta non poteva lasciare impunita una cosa tale. Kaab fu dichiarato fuori della legge, sì da non essere più sicuro della sua vita se non avesse ottenuto il perdono del profeta.
Egli mise pertanto tutta l'arte sua nel comporre un sonante encomio del nuovo signore del mondo arabo. Giunto felicemente a Medina, ottenne per mezzo di un'astuzia il permesso di leggere il suo carme. Maometto ne riportò così profonda impressione, che gettò al poeta, come dono, il suo mantello, non di rado adoperato in Arabia, al pari che nella Francia medievale, come ricompensa ai poeti e cantori.

Kaab ritenne il dono così prezioso da rifiutare più tardi i diecimila dirham che glie ne offriva il califfo Moawija, il quale solo dopo la morte del poeta poté acquistare la veneranda veste dai suoi eredi. Da allora fu custodito, come uno dei più preziosi possessi, nel tesoro del signore dei credenti, prima a Damasco, poi a Bagdad; finché nell'anno 1258 fu preda delle fiamme quando i Mongoli espugnarono questa città.

Solo una volta ancora Maometto condusse, una spedizione armata. Era tuttora invendicata la disfatta di Muta inflitta alle sue truppe dai Bizantini. Nel cuore dell'estate del 630 chiamò le sue genti per una campagna contro i Romaici. Da che cosa vi fosse indotto, non é chiaro; forse credeva di dover tenere occupati i Medinesi non soddisfatti nemmeno dopo la spartizione del bottino di Honain. Si mise in marcia verso il nord, con 30.000 uomini; ma non andò oltre Tabûk, oasi con campi di grano e piantagioni di palme, presso il confine dell'impero bizantino.
Qui fece sosta, forse per la vecchiaia che gli fiaccava già la sua energia, o perche' convinto della inattuabilità del suo proposito. Qui venne a fargli omaggio il principe cristiano di Aila, ora Akaba, sulla punta settentrionale dei braccio orientale del Mar Rosso.
Non era lontano il giorno in cui doveva esser al paganesimo arabo eliminato l'ultimo sostegno. Dopo la presa della Mecca il profeta aveva mel frattempo tollerato che la cerimonia del pellegrinaggio continuasse ad esser celebrata alla maniera pagana.

Nel 630 mandò Abû Bekr a guidare i pellegrini da Medina alla Mecca, probabilmente per non sanzionare con la sua presenza gli abusi che vi regnavano. Ma al termine della cerimonia il suo genero Ali diede lettura a nome suo, a Mina, di un decreto, conservatoci nei primi versetti della IX sûra e in cui il profeta si stacca definitivamente dagli idolatri.
Nessun miscredente dovrà più in avvenire compiere il pellegrinaggio nel terreno santo.
I trattati conclusi dal profeta con gli infedeli restano in vigore fino al termine convenuto, purché questi continuino ad eseguirli puntualmente. A chi non è legato da un trattato, resta la scelta fra la conversione all'Islam o la guerra fino allo sterminio.
Fino al termine dei mesi sacri i pagani hanno tempo di tornare in patria indisturbati; dopo, saranno assaliti dovunque si trovino. Questa rottura raggiunse lo scopo: solo in pochi casi i Musulmani furono costretti, nell'Arabia stessa, a ricorrere alle armi.
Verso la fine dell'anno decimo dell'Egira, nella primavera del 632, Maometto poteva considerare la sua missione in Arabia. come compiuta. A testimonianza di ciò egli intraprese con tutte le sue donne e con largo seguito di fedeli, un solenne pellegrinaggio alla Mecca, detto nella biografia tradizionale il «pellegrinaggio di congedo».

Tutto quel che egli fece in quei giorni e riferito con minuta esattezza, ed è quel pellegrinaggio considerato fino ad oggi dai musulmani come modello per il retto compimento dei doveri religiosi.
Si dice che nel secondo o terzo giorno il profeta tenesse un'allocuzione, soprattutto per fissare il computo dell'anno in base a dodici mesi lunari oltre a inculcare ancor di più ai credenti i doveri fondamentali dell'lslam.

Tornato dal pellegrinaggio il profeta trovò a Medina varie notizie minacciose. Nell'Arabia centrale un capo dei Banû Hanîfa, di nome Musailima, si era sollevato e con una lettera insolente invitava il profeta a riconoscerlo come suo pari.
Anche nel lontano oriente eran scoppiate fra i Banû Assad agitazioni sospette. Ciononostante il profeta decise una nuova campagna contro i Bizantini. Nel maggio del 632 affidò il comando delle truppe da spedirsi contro i Cristiani a Usama, figlio del Said caduto a Muta.
Durante questi preparativi il profeta cadde malato, pare di febbre malarica a Medina. Sebbene non avesse che 68 anni, la sua forza aveva molto sofferto dagli strapazzi degli ultimi tempi. Dovette rinunziare all'abitudine di passare qualche notte nelle tende delle sue donne, e prendere stabile dimora presso la moglie favorita Aisha. La fedelissima 24enne Aisha! Sua moglie già da 13 anni.

Chi era Aisha? Alla morte di Kadigia (lui aveva ormai 48 anni) gli era stata promessa in sposa da Abu Bakr una bambina, lei, AISHA, che aveva soli 6 anni con la clausola che il matrimonio non fosse consumato al momento, ma ovviamente più tardi. A Maometto evidentemente piaceva questa bambina, già matura, sveglia, intelligente, bella, e divenne sua moglie a tutti gli effetti già dopo l'emigrazione a Medina nel 623-24; questo ci dice che Ashia doveva quindi avere circa 12 anni quando la sposò.

Che avesse preso il posto di Kadigia nonostante tutte le altre che poi Maometto si prese in casa, lo sappiamo dagli scritti di Ashia stessa e di Maometto; Ashia consolidò e riuscì a conquistare un ruolo di primaria importanza nel governo della casa, e nonostante il Profeta fece poi entrare come concubine altre undici donne di stupenda bellezza, Ashia conservò sempre impertubabilmente la sua autorità e la supremazia sulle altre. E di altre Maometto se ne invaghì molte.
Del resto Maometto scrive senza falsi pudori e ipocrisie "Preghiera, profumi e donne mi hanno sempre rinfrancato più di ogni altra cosa", e nonostante avesse proibito agli altri uomini con la sua legge di non possedere più di 4 mogli trovò una sua propria giustificazione nella "sua" stessa "Legge". Ma furono proprio questi passi del Corano che in Europa quando fu letta qualche pagina ipocritamente si inorridì. Ma in Europa non è che era molto diverso, vigeva anche qui il cosiddetto  "fate come vi dico, ma non fate come io faccio"; c'erano papi che avevano harem più numerosi di Maometto, si sollazzavano in più di una Mille e una notte e facevano figli come i conigli.

Nel nostro mondo occidentale le belle abitanti di un feudo, diventavano subito preda del nobile; potevano essere usate come si voleva, erano considerate come un bene mobile; perfino una bella donna che prima era stata di buona famiglia ma poi divenuta moglie di un vinto poteva essere venduta o regalata per farne quello che si voleva, che avesse 10 o 20 anni. Nè si condannavano gli adulteri se questi andavano con attrici, locandiere, cameriere e serve, perché si disse che faceva parte del loro natura concupire i "poveri" padroni, e che se si cominciava a fare i processi ai padroni per tutte quelle donne lascive che giravano per casa non si finiva più. Di conseguenza si tollerava e si difendeva chi aveva stuprato o preso con la violenza una donna. Non era lui nel peccato ma semmai chi lo aveva fatto commettere, era la loro condizione, la loro appartenenza al diavolo che in quel modo cosi sordido (che era però piacevole ma non lo dicevano) le usava per far peccare il povero integerrimo padrone.

La morale così era salva. Se esercitata la violenza su una schiava, su una colona, sulla propria serva, o su una di condizione plebea, non era comminata nessuna pena, perché queste non avevano nessun diritto alla tutela, non era ascoltata nessuna loro ragione, non ne avevano la "facolta" giuridica. Anzi erano e rimanevano sempre delle volgari donnacce e perfino ree se si permettevano di infamare l'onorato tizio e caio.
L'adulterio stesso se fatto dal marito non fu mai condannato in Italia fino al 1968; Una ipocrisia di non lontana memoria quindi.
Mentre è una verità -come dice Maometto- che profumi e donne rinfrancano più di ogni altra cosa. Questo lo sapevano anche gli "ipocriti" occidentali, che fino al 1958 nella cattolica Italia, lo stesso Stato incassava soldi con le Case di Tolleranza. Ed erano chiamate di "tolleranza" perchè d'accordo con la "morale cristiana", non era peccato frequentarle, era un "peccato" dispensato perfino alla confessione. Perché riconosciuto "un lecito sfogo" del maschio, sulle "patentate" "puttane di Stato".

Il jihad (che significa "sforzo") che invece molti occidentali associano a shaid (guerra santa - talvolta nel corano è usato nel significato di sforzo interiore, ovvero resistenza per adeguarsi alla volontà di Dio,  sforzo inteso come lotta) è anche resistenza alla invadenza delle idee moderne considerate immorali, prima fra tutte le permissività sessuale o l’uso di alcool: l’uso richiesto del Hijab ( velo islamico) è appunto jihad , un segno di resistenza a una cultura considerata lesiva di principi morali. In effetti anche le autorità religiose cristiane sostengono una resistenza a certi aspetti della cultura moderna ( talvolta in sintonia sostanziale con quelle islamiche ) e questo fatto è considerato assolutamente legittimo: nessuno definirebbe il papa un sovversivo perchè condanna le unioni gay, i rapporti extraconiugali e quelli prematrimoniali, i desideri sessuali dei preti, l’aborto ecc. ecc.

 

Torniamo a Maometto nei suoi ultimi giorni.
Dopo aver esortato all'ubbidienza i fedeli, piuttosto scontenti della nomina del giovane Usama a capo dell'esercito, il Profeta fu costretto a rinunziare alla pratica quotidiana deIla preghiera, ufficio che trasmise (ma non era una indicazione di successione) al suo vecchio amico e suocero Abû Bakr. Perdeva sempre più le forze e la sua coscienza era turbata da allucinazioni. Il 7 giugno, di domenica, voleva dettare le sue ultime volontà (e forse anche indicare il suo successore); ma Omar credette bene di non accondiscendere al suo desiderio, temendo che in quello stato delle disposizioni non ben ponderate potessero compromettere gli interessi della religione. Nell'ultima notte la febbre era quasi scomparsa e al mattino l'infermo parve migliorato. Raccoltisi i credenti per la preghiera, il profeta uscì dalla porta che dalla tenda di Aisha metteva nella moschea, per vedere ancora una volta i suoi fedeli. Appena rimessosi a letto, la febbre riprese a salire fortissima e cominciò l'agonia. Verso mezzogiorno, Aisha sentì che la stretta della sua mano si affievoliva. Ancora un debole rantolo poi il suo «sublime compagno del paradiso» giaceva morto.

Ragioni di Stato e di interesse politico avevano imposto di rinunciare a un rito funebre ufficiale. Abu Bakr disse, che aveva sentito dire da Maometto che i profeti debbono essere sepolti nel luogo stesso in cui sono spirati. Nessuno aveva mai sentito dire una cosa simile, ma per non incorrere alla sua inimicizia, fu anche dagli altri così deciso. Si tolsero i tappeti della stanza di Aisha e lì stesso fu scavata una fossa in cui fu deposto il corpo di Maometto.

Ma perchè questo? Nel fare un funerale ufficiale, qualcuno avrebbe dovuto guidare il corteo funebre mettendosi alla sua testa, e ciò avrebbe automaticamente determinato la successione alla direzione dello Stato.
E la scelta non era semplice: Abu Bakr e Omar, suoceri del Profeta, il genero Alì, e lo zio Abbas, si ritenevano tutti degni di accedere alla più alta carica dello Stato islamico e autorizzati alla successione.

Al momento della morte del Profeta, Abu Bakr si trovava fuori città. Rientrato a Medina, aveva prese in mano la situazione con lucidità e fermezza. Fece inoltre un discorso nella moschea che scosse profondamente i fedeli. Dopo aver reso lode a Dio, disse con fermezza: "O gente, per chi voleva adorare Muhammad, invero Muhammad è morto; per chi voleva adorare Dio, invero Dio è Vivente e non muore". (in breve voleva dire "morto un papa se ne fa un altro").

Ai musulmani si presentò il difficile problema di stabilire un successore. E fin dal primo momento nacquero e si evidenziarono i primi contrasti.

Questa la breve biografia del fondatore dell'Islam.
Passiamo ora alla sua influenza

MAOMETTO E LA SUA DOTTRINA > >

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