-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

67. L'IMPERO TEDESCO FINO AL 1152
(da C. Magno a Corrado III)

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la cartina a grande dimensione - quindi nei minimi dettagli
con l'impero negli anni di Ottone (962) è a fondo pagina

Il più potente tra i re dei vari Stati particolari, in cui si era spezzato l'impero carolingio dopo la deposizione e la morte di Carlo III (il Grosso - m. 888), era Arnolfo di Carinzia, un Carolingio, nipote di Ludovico il Tedesco, figlio illegittimo di suo figlio Carlomanno. Egli era stato elevato al trono nell'887 in sostituzione di Carlo III. I re della Francia e delle due Borgogne si riconobbero come suoi vassalli e papa Formoso lo chiamò in aiuto contro i suoi nemici. In tutto ciò Arnolfo si presenta quale il rappresentante della monarchia carolingia unitaria ed egli aveva infatti la convinzione d'essere il re cui spettava la dignità imperiale. Arnolfo esercitò influenza anche negli altri regni particolari, per quanto lo abbia fatto solo incidentalmente. Egli batté i Normanni, fece due spedizioni in Italia, prese a viva forza Roma nell'896, vi si fece incoronare imperatore e costrinse i Romani a prestargli il giuramento di fedeltà e sudditanza. Ma il potere imperiale di Arnolfo, così prima come dopo la sua incoronazione, rimase poco più di una semplice parvenza e lo sfasamento della monarchia carolingia non venne da lui arrestato. Appena egli se ne fu tornato in Germania, l'Italia e specialmente il papato ritornarono ad esser preda delle lotte di parte, di fazioni che non conoscevano né misura nelle loro cupidigie né ritegno nella loro furia.

Roma vide il giorno nefasto in cui papa Stefano (gennaio 897) fece esumare dalla tomba il cadavere di papa Formoso, morto da circa 9 mesi, lo fece trascinare in giudizio, condannare, offrire i suoi resti allo scempio. Seguirono e si perpetuarono per anni controversie intorno alla validità o invalidità delle consacrazioni fatte dal papa deposto, ed in mezzo a questi litigi il papato, che pur pretendeva ancora di dominare il mondo e di giudicare i re, cadde nelle brutture di quel periodo che è stato chiamato il periodo della pornocrazia. Spadroneggiarono donne spudorate che innalzarono alla tiara i loro ganzi o i loro figli.
In Francia ed in Borgogna l'influenza esercitata da Arnolfo fu del pari transitoria e la sua pur splendida vittoria sui Normanni a Lówen sulla Dyle (1° nov. 981) non servì a liberare durevolmente il paese dagli assalti di quella gente e quindi non procurò nemmeno a lui una durevole influenza sulle regioni che ne erano afflitte. Combatté pure contro i Moravi, ma anche qui non sempre con fortuna, ed essendosi servito in questa lotta di Ungari come truppe ausiliarie, contribuì ad insegnare a questo nemico assai più temibile la via della Germania. Tuttavia l'idea dell'impero, mal rappresentata dai principi italiani e burgundi che in quegli anni o successivamente si fecero incoronare a Roma imperatori (Guido nell'891, Lamberto nell'892, Ludovico nel 901, Berengario nel 915) ebbe in Arnolfo un energico rappresentante e cominciò ad essere associata alla sovranità sui paesi da lui governati, che costituivano in sostanza la parte germanica dell'impero carolingio. E tale rimase in seguito sotto i re succeduti ad Arnolfo, dando origine così alla formazione del sacro romano impero della nazione tedesca.

Alla morte di Arnolfo (899) suo figlio LUDOVICO, eletto suo successore, era ancora un bambino. I grandi del regno lo riconobbero, ma la reggenza che governò in suo nome godette di poca autorità. Alla prematura morte di Ludovico i grandi convennero ancora di procedere all'elezione di un nuovo re e la scelta cadde sul franco CORRADO. Egli era parente dei Carolingi; questa parentela può essere stata una delle ragioni della scelta, ma non la sola, perché altrimenti il re lo si sarebbe cercato tra i signori franchi occidentali parenti assai più stretti dei Carolingi. Invece ciò non fu fatto e vi deve aver contribuito la circostanza che il processo di separazione dei futuri popoli della Francia e della Germania era nel sentimento comune già troppo progredito.

Ma il prevalere dell'autonomismo non si rivelò soltanto nello svolgimento storico indipendente intrapreso dalla Francia, dalla Borgogna e dall'Italia; anche in Germania, nella Sassonia, nella Svevia, nella Baviera, nella Franconia e nella Lorena i più potenti signori tentarono a detrimento della monarchia di ripristinare i ducati nazionali, quella istituzione popolare che aveva dovuto cedere dinanzi all'espansione dello Stato franco nell'VIII secolo, e così spezzare il regno in un numero più o meno grande di Stati particolari autonomi.

A provocare questo movimento contribuirono le tradizioni del passato, che specialmente in Baviera erano molto tenaci, l'indebolimento subìto dall'autorità reale in seguito all'introduzione della feudalità, e infine il bisogno delle varie popolazioni, strette e molestate da vari nemici, di avere dei capi che non fossero distratti da altre cure di meno immediato interesse locale.
In Sassonia ed in Baviera i nuovi ducati nazionali si costituirono senza contrasti, forse perché qui la lotta contro gli Ungari rese particolarmente necessaria ed urgente l'organizzazione unitaria della difesa.
In Lorena, in Franconia e nella Svevia invece sorsero delle competizioni tra vari potenti signori per la conquista della dignità ducale, e ciò facilitò a re CORRADO I (911-18) il compito di difendere e sostenere i diritti della monarchia. Certo egli godette di scarsa autorità in molta parte delle regioni della riva destra del Reno; tuttavia, come la sua elezione dimostrò che non era spenta l'idea di una monarchia tedesca, di quella monarchia che per due generazioni aveva rappresentato una delle principali suddivisioni dell'impero carolingio, così i suoi sforzi per rinvigorire l'autorità regia non furono vani, benché a re Corrado personalmente la corona abbia procurato ben poche ore di pace e di tranquillità.

Quando alla sua morte i Franchi ed i Sassoni si accordarono ad eleggergli a successore il duca Enrico di Sassonia il terreno era già nei paesi della riva destra del Reno più propizio per la monarchia carolingia che non al momento della morte di Arnolfo e di suo figlio Ludovico. Si può dire che le basi erano gettate.
Re ENRICO I (918-36) aveva lottato contro il suo predecessore Corrado per la salvaguardia dei diritti e degli interessi del suo ducato, ed anche da re rimase anzitutto principe sassone; anche le sue guerre ed i suoi trattati con gli Ungari e con gli Slavi servirono prima d'ogni altro ad assicurar meglio e ad ampliare la Sassonia. Ma, prendendo a base la sua salda posizione in Sassonia, Enrico seppe far valere la sua influenza ed i diritti della corona anche in Franconia, nella Svevia e nella Baviera ed oculatamente impedì che i vescovi acquistassero una influenza simile a quella che avevano raggiunta sotto il governo del fanciullo Ludovico e di Corrado.
La loro influenza diminuì notevolmente, ed Enrico declinò l'offerta, quando l'arcivescovo di Magonza, dopo la sua elezione, lo volle incoronare e consacrare. Si dice che abbia risposto non sentirsi degno di tanta distinzione, e che gli bastava l'elezione ed il nome di re. Questa fu certo una semplice scappatoia ed é da ritenere che egli non volle piuttosto che il clero ed in specie l'arcivescovo di Magonza acquistassero alcun titolo particolare alla sua gratitudine.

La storia di queste incoronazioni dimostrava infatti ben chiaro come tali cerimonie potessero essere fraintese e sfruttate.
Un monaco del convento di Corvey, che una generazione più tardi scrisse la storia dell'epoca presente, vide nell'elevazione al trono di Enrico un trionfo dei Sassoni sui Franchi; ma essa indica piuttosto l'unione di questi due popoli a formare il saldo nucleo della nuova monarchia tedesca che riunì in un solo Stato le regioni della riva destra del Reno già appartenute all'impero franco con quelle della riva sinistra affini per lingua, diritto e costumi, l'Alsazia ed il ducato di Lorena colle grandi diocesi di Colonia e di Treveri.

In questo Stato tutti i popoli delle accennate regioni, più gli Slavi germanizzati dei paesi orientali di confine si fusero a formare la grande nazione tedesca, le cui gesta e traversie costituiscono il fattore più importante di una parte notevole della storia dei secoli successivi. Il regno di Enrico stabilì saldamente la forma in cui si sarebbe avverata questa evoluzione del popolo tedesco ed in cui esso si sarebbe reso atto a restaurare l'impero distrutto con la monarchia carolingia. Re Enrico trascorse giorni duri e seppe anche coraggiosamente sopportare le umiliazioni.
Pochi anni dopo la sua elezione a re egli si trovò nell'impossibilità di difendere anche la sola Sassonia dalle scorrerie degli Ungari. E quindi concluse con loro nel 924 un armistizio per nove anni, ottenendo questa pace a prezzo di un tributo annuo. Le altre parti del regno stavano anche peggio, alla mercé dei barbari. Il trattato sarebbe vergognoso se re Enrico non avesse approfittato della tranquillità con esso acquistata per accrescere la potenzialità del suo regno e metterlo in miglior stato di difesa. E lo fece anzitutto organizzando una cavalleria più addestrata e meglio armata; poi con la costruzione di villaggi cintati da mura che potessero servire di rifugio ai contadini dei dintorni di fronte agli assalti dei barbari, i quali non amavano soffermarsi a lungo in un luogo per fare degli assedi. Enrico non ha fondato città nel senso giuridico del comune; la comunità rurale rimase per circa un secolo ancora l'unica forma di organizzazione locale dei paesi germanici. Però le località cintate stabilite da Enrico non erano dei semplici trinceramenti, ma, come osservammo, dei veri villaggi, la cui esistenza più tardi promosse e provocò appunto la trasformazione del comune rurale in comune cittadino.

Fra gli agrari milites il re ne fece scegliere uno su nove che fu obbligato a dimorare nella località cintata ed a costruirvi abitazioni per sé e per gli altri otto compagni. Costoro gli dovevano consegnare un terzo dei frutti che egli era tenuto ad immagazzinare come provvista, salvo quanto era necessario al proprio consumo. Le assemblee pubbliche, vale a dire sopra tutto le assemblee giudiziarie popolari e i giudizi vescovili, come pure tutti gli altri convegni e le feste con i relativi banchetti (convivia) dovevano tenersi nelle nuove località cintate.
Queste disposizioni miravano ad abituare la gente alla vita in quei luoghi chiusi ed è da credere che tali riunioni siano state pure utilizzate per istruire i militi alla difesa della propria piccola fortezza. Gli uomini che Enrico assoggettò al servizio sopra descritto sono chiamati agrari milites, ma non è verosimile, ad onta del pericolo delle incursioni, che i liberi agricoltori si siano prestati ad un servizio così vincolato. La massa dei vassalli dipendenti dalla volontà dei signori fondiari perché tenuti a prestazioni di servigi e di imposte o perché limitati nella capacità giuridica e tenuti a prestazioni di servigi e di imposte era assai numerosa in Sassonia, e sicuramente re Enrico applicò le misure sopra accennate soltanto ai vassalli servi o semiliberi dei suoi possedimenti privati e dei beni della corona e fors'anche dei beni della chiesa.

L'adozione di provvedimenti uguali od analoghi venne per deliberazione del re e dei grandi feudatari del ducato imposta ai chiostri. Questi ultimi furono obbligati a circondarsi di muraglie di determinata altezza ed a scavare un fossato distante dodici piedi dalle mura. Per la difesa di queste opere si sarà analogamente provveduto con il concorso obbligato dei vassalli. È verosimile che lo stesso ordine sia stato dato alle chiese ed ai feudi, sebbene a noi non ne sia giunta notizia. Non è poi possibile stabilire con certezza se la disposizione che obbligava al servizio uno su nove vassalli stia in relazione con la durata novennale dell'armistizio, nel senso che ciascuno di questi nove fosse tenuto a
servire a turno per un anno nelle guarnigioni dei luoghi fortificati. Ma lo si può supporre, perché in seguito cessa ogni traccia di questa istituzione. Dopo la vittoria riportata da Enrico sugli Ungari nel marzo 933, sulla quale non abbiamo tuttavia che poche e vaghe notizie, le accennate misure d'ordine militare non vennero ulteriormente mantenute. Per lo meno non se ne parla più. Del resto nelle lotte cogli Ungari e del pari in quelle assai gravi con gli Slavi confinanti deve essersi fatto anche ricorso alla chiamata generale alle armi, il che servì a mantenere in vigore questo obbligo.

Come nel caso dei luoghi fortificati, anche al servizio nella cavalleria e per le esercitazioni d'istruzione devono essere stati chiamati vassalli di condizione non libera, i ministeriali ed i gruppi di persone non libere da cui si svolse in quest'epoca la classe dei ministeriali. La formazione di questa classe fu assai favorita dal bisogno che avevano i re di trovarsi intorno nei momenti difficili una schiera di soldati addestrati più fidati e meno pretenziosi dei liberi vassalli.

Re Enrico combatté con successo anche ai confini occidentali del regno, decise ad entrare a far parte del suo regno il duca di Lorena, oscillante tra Francia e Germania, e mantenne pure svariate relazioni con la Francia e la Borgogna. Quando si sentì vicino alla morte, raccomandò che fosse eletto a re suo figlio OTTONE, il primogenito dei figli avuti in seconde nozze.
Dopo la morte del padre il figlio minore di lui Enrico si narra che abbia protestato contro la propria esclusione, ma a nessuno venne in mente di seguire la cattiva abitudine dei Merovingi e dei Carolingi di dividere il regno tra i figli alla morte del padre.
L'idea dell'unità del regno e l'importanza preminente che dal tempo di Arnolfo in poi aveva di fatto acquistato nella materia della successione al trono l'elezione popolare, la cui esigenza non era stata mai dimenticata completamente neppure a tempo dei Merovingi e del Carolingi ma era rimasta lettera morta, contribuirono ad impedire che sorgesse il pensiero di dividere il regno tedesco.
Né fu riconosciuto un diritto di successione ereditaria al trono nella famiglia reale.

Dopo la morte di ENRICO (2 luglio 936) i grandi di Sassonia e Franconia adunati a Fritzlar elessero a loro re OTTONE, e poche settimane dopo si radunarono i grandi signori ecclesiastici e laici di tutto il regno ad Aquisgrana, ripeterono l'elezione e la confermarono con una solenne incoronazione ed unzione di Ottone.
Ottone non rifiutò la consacrazione ecclesiastica, e, data la sua natura riflessiva, deve aver agito così per buone ragioni. Forse egli cercò nella solennità e nella pompa di questa cerimonia un sostegno della propria autorità. Egli non considerò quale titolo del suo potere il diritto ereditario. In uno dei suoi primi atti di governo lasciò comprendere in modo evidente di sapere che, malgrado il perdurare della propria famiglia, il re avrebbe potuto in seguito anche essere scelto in un'altra famiglia.

Re Enrico aveva ripetutamente vinto gli Slavi dimoranti attorno all'Elba, con i quali i Sassoni conducevano una vita di guerra continua, ed aveva iniziato l'assoggettamento del paese situato tra l'Elba e l'Oder. La conquista progredì ora principalmente per merito del marchese Gero, cui Ottone aveva affidato la difesa dei confini orientali del regno, e che per quasi trent'anni, sino cioè alla sua morte (965) condusse con tale accortezza ed energia che lo si deve considerare come il vero e proprio fondatore del dominio tedesco tra l'Elba e l'Oder. Egli fu un uomo di una durezza e crudeltà spietata, uno di quegli uomini che sogliono evocare e plasmare in tal modo le guerriglie di confine, ma forse appunto per questo sentì altrettanto maggior bisogno di manifestare esteriormente la sua devozione religiosa.
Egli elargì molta parte del suo patrimonio per dotare il monastero di Gernrode da lui fondato sul Harz, la cui chiesa ancora oggi conserva notevoli residui dell'architettura di quei tempi. L'assoggettamento degli Slavi fu accompagnato dalla loro conversione al cristianesimo. I vescovadi, i monasteri e i castelli furono i primi nuclei degli ordinamenti e stanziamenti che prepararono ed aiutarono lo stabilirsi della signoria tedesca in questa regione.

Questi successi rafforzarono la monarchia. I ducati nazionali continuarono bensì a sussistere, ma i duchi dovettero assuefarsi a considerarsi semplici funzionari e vassalli del re. Tuttavia non poca resistenza opposero ancora gli interessi particolari delle varie stirpi ed anche più quelli dei numerosi potenti signori ecclesiastici e laici che non potevano dimenticare quanta indipendenza avevano goduto sino a poco tempo prima.

Re Ottone, malgrado le sue doti politiche e militari e malgrado che la sua elevazione al trono fosse avvenuta in maniera solenne e senza contrasti, dovette lottare cinque anni con sempre nuove ribellioni dei grandi del regno, tra i quali due suoi fratelli, Thankmar ed Enrico, poi i duchi di Franconia e di Lorena e l'arcivescovo di Magonza lo posero in serio pericolo. Una fortunata combinazione venne in aiuto del re nel momento più critico, ed egli poté aver ragione dei suoi avversari, dopo di che regnò per dieci anni con piena autorità, pur dovendo in questo periodo sostenere ripetuti conflitti coi grandi del regno.

In Francia allora il re LUIGI IV lottava con un potentissimo vassallo, -il duca Ugo di Francia, che al pari di Luigi IV aveva in moglie una sorella di Ottone. Questi fu coinvolto nel conflitto tra i due suoi cognati, ma più che per la ragione della parentela per l'influenza delle tradizioni dell'impero carolingio. Ottone nel 940 assicurò al suo regno la Lorena, ambita dalla Francia, nel 946 per sostenere la causa del re francese passò la frontiera e si spinse sino a Parigi e a Rouen, e nel 948 un sinodo tenutosi ad Ingelheim, su territorio tedesco, sotto la protezione di Ottone decise la questione del trono francese.
Ottone non avanzò pretese di sorta ad un'alta sovranità formale sulla Francia. Le forme con cui egli fece valere la propria influenza in Francia furono assai riservate, ma in realtà egli esercitò una profonda influenza. La debolezza della monarchia francese che non riusciva a tenere a posto i suoi strapotenti vassalli fece rivivere la tradizione carolingia per cui Germania e Francia non erano che parti di un unico regno, ma essa non ebbe alcuna forza nell'opinione pubblica.

Analoghe ragioni avevano già prima indotto re Ottone ad intervenire in Borgogna per difendere il giovane re Lotario contro i suoi grandi feudatari, e nel 951 egli scese in Italia per liberare Adelaide, sorella di Lotario e vedova di un altro Lotario, l'ultimo re d'Italia, dalle mani del marchese Berengario II che pretendeva per sé e per la sua casa la corona d'Italia e teneva prigioniera Adelaide.

L'origine di Adelaide e la fama della sua bellezza può darsi abbiano contribuito a spingere Ottone, che allora era vedovo, all'impresa d'Italia (951), ma il movente più forte lo si deve anche per cercare nelle tradizioni della monarchia carolingia.
Ottone arrivò fino a Pavia senza incontrare grande resistenza; vi svernò, emanò ordini come signore d'Italia senza farsi precedentemente eleggere ed incoronare re d'Italia, si intitolò anche rex Francorum et Langobardorum, ovvero anche et Italicorum, e sposò Adelaide che intanto era riuscita a fuggire dalla prigionia di Berengario.

Ottone tornò in Germania senza aver completamente sottomesso Berengario, il quale però in seguito, nel 952, si recò in una dieta tenuta ad Augsburg e ricevette in feudo l'Italia da Ottone. Per questi fatti si accesero non pochi conflitti fra i grandi di Germania, i quali misero ben presto Berengario in grado di regnare in Italia si può dire come un vero e proprio sovrano autonomo.
Anche contro papa Giovanni XII Berengario si rivolse ed il papa chiese aiuto ad Ottone, dicendo che Ottone aveva obbligo di prestarglielo perché rivestito del patriziato che gli spettava come successore dei Carolingi.

Ottone calò nuovamente in Italia attraverso il Brennero, si recò a Pavia, e senza incontrare notevole resistenza arrivò a Roma, dove il 2 febbraio 962 si fece incoronare imperatore dal papa. Solo dopo ciò Ottone si accinse alla conquista dei castelli dove si era rifugiato Berengario con i suoi figli.
Ma durante queste lotte ebbe in mano la prova che il papa manteneva rapporti con i suoi avversari e che tentava persino di mettergli contro gli Ungari, ancora pagani, dalle cui invasioni Ottone era riuscito a liberare la Germania solo pochi
anni prima (955) con la battaglia svoltasi nelle pianure del Lech.
E siccome inoltre il papa conduceva una vita indecorosa, Ottone marciò su Roma, convocò qui il 6 novembre 963 un sinodo composto da tutto il clero romano e della nobiltà, lo integrò coi vescovi tedeschi ed italiani che si trovavano al suo seguito e citò il papa a rispondere dinanzi ad esso di assassinio, spergiuro e di altri gravi delitti, nonché di vita libertina.

Benché questi suoi delitti fossero noti il papa tenne testa richiamandosi al privilegio per cui un papa non poteva essere giudicato e minacciò di scomunica i componenti del sinodo. Ma il sinodo non si lasciò intimorire, e siccome Giovanni ad onta di una nuova intimazione non si presentò, pronunziò in una terza seduta la sua deposizione ed elesse al suo posto LEONE VIII.
Tutto questo avvenne sotto gli auspici e per volontà dell'imperatore. Come a suo tempo Carlo Magno aveva in un sinodo adunato a Roma (dicembre dell'800) esaminato le accuse elevate contro Leone III, così ora Ottone presiedette il sinodo che doveva giudicare il papa.

Al tempo di Carlo il papa si era scagionato delle accuse mediante un giuramento; sotto Ottone il papa fu riconosciuto colpevole e deposto. Il regno di Ottone sotto questo aspetto appare chiaramende come una restaurazione dell'impero carolingio, le cui basi peraltro si erano spostati da occidente verso oriente.
Papa LEONE VIII, eletto per desiderio e volere di Ottone, fu cacciato dal soglio da Giovanni XII non appena Ottone abbandonò Roma; ma Ottone lo restaurò subito con la sua dignità, costrinse l'antipapa Benedetto V, che i Romani avevano nel frattempo eletto al posto di Giovanni XII, morto improvvisamente, a riconoscere Leone come un intruso lo fece arrestare e lo spedì in Germania tenendovelo prigioniero.

A questo punto, Ottone aveva raggiunto un grado così elevato di potenza e si era acquistata tanta gloria da oscurare tutti gli altri principi. Tutte le volte che comparve in Italia, le città, i vescovi, i monasteri a lui si rivolsero pregandolo di confermare i loro vecchi diritti o di concedere loro nuovi privilegi.
Ottone fu la fonte del diritto, anche nei riguardi del vescovo di Roma, la cui posizione fu da lui nuovamente consolidata col grande privilegio del 962. Ottone agì verso il papa come da superiore a subordinato. Ma per quando il papato fosse da parecchi decenni caduto assai in basso e divenuto strumento di dispotismi di famiglie nobili, tuttavia la chiesa non aveva dimenticato il suo capo e non mancarono persino avvenimenti che accennano ad un aumento dell'influenza della curia.

Lo stesso Ottone in alcune questioni importanti relative alla chiesa tedesca aveva fatto ricorso all'aiuto di papa Agapeto II (946-56) ed anche di Giovanni XII. Pure nella grave contesa per la nomina dell'arcivescovo di Reims si era fatto appello al papa, il quali nel 962 decise nel senso desiderato da Ottone e dal suo partito aderente nella città di Reims. Ma Ottone sperimentò pure i mali e il peso opprimenti di questo ampliamento enorme della sua missione e della sua potenza.
Le cose d'Italia assorbirono lui ed i suoi successori in tal modo che gli affari interni della Germania furono trascurati oltre misura. Nell'agosto del 961 Ottone
era partito per l' Italia da dove non fece ritorno in Germania che nel gennaio del 965, ma vi rimase solo un anno e mezzo, giacché nell'agosto 966 egli riprese la via dell'Italia per ritornare soltanto nell'agosto del 972 in Germania, dove morì nel maggio del 973.

OTTONE I assunse la corona a 23 anni e la portò con grande onore per 36 anni; ma la monarchia tedesca non uscì dal suo regno così consolidata come si sarebbe dovuto attendersi. Ottone rese di fatto i duchi nuovamente dipendenti dalla corona, ma non si avvalse della sua potenza per creare nuovi ordinamenti stabili.
Alcuni sostengono la tesi che Ottone con il dotare riccamente i vescovadi ed i chiostri di possedimenti e privilegi portanti immunità, esercizio di giurisdizione, diritto di coniar moneta, abbia voluto far della chiesa un puntello più forte della corona contro i grandi signori laici, ma sembra che non si possa dimostrare che Ottone abbia concepito un piano in questo senso, attuandolo sistematicamente.

Ammettendo pure che la tesi apperna detta sia esatta, la politica ecclesiastica di Ottone diventerebbe molto più incomprensibile: Ottone cioè avrebbe indebolito permanentemente l'autorità della corona sulla chiesa tedesca aumentando così su di essa l'autorità dei papi. Si è voluto vedere una prova di particolare finezza politica nel fatto che egli si sia avvalso del predominio dei papi per così rendersi obbedienti e ligi i più potenti principi ecclesiastici della Germania.
Infatti Ottone ha proceduto così e ne aveva dando maggior ragione in quanto a causa dei suoi lunghi soggiorni in Italia non poteva fare a meno di perdere influenza ed autorità sui principi ecclesiastici. Se veramente Ottone concepì il disegno di accrescere la potenza della chiesa tedesca e di dominarla pur così potente attraverso la supremazia da lui acquistata sui papi, occorre dire che non abbia pensato che egli stesso, e tando meno i suoi successori, non avrebbero potuto conservare a lungo quell'autorità su Roma che egli era riuscito a guadagnarsi soltanto in grazia della catastrofe del papato (962-65).

Lo dimostra il fatto sicuro che il predominio imperiale su Roma e sul papa svanì non appena l'imperatore abbandonò l'Italia. Invece l'influenza acquistata dal papa sulla chiesa tedesca perdurò nei papi che vennero in seguito eletti senza concorso dell'imperatore ed anche contro la sua volontà.
Per quanto gli Italiani si combattessero fieramente tra loro e per quanto ciascun partito facesse a gara per guadagnarsi l'appoggio dell'imperatore contro i suoi nemici, altrettanto questi stessi Italiani erano all'occasione facilmente concordi ed uniti nell'odio contro i «barbari» che opprimevano e spogliavano il nobile popolo romano.

Ed il papato che era un vescovado italiano aveva una delle sue principali radici nel sentimento nazionale degli Italiani. Se Ottone I concepì quel disegno si fece illudere da un miraggio fantastico, architettò dei piani non meno inattuabili di quelli di suo nipote.
Il figlio primogenito di Ottone, Ludolfo, era premorto al padre; il suo secondogenito OTTONE II, eletto a suo successore fin dall'età di sette anni ed incoronato re (961), venne incoronato imperatore a Roma all'età di tredici anni. Nonostante l'età era colto e non privo di doti.
Ottone I aveva fatto gran calcolo di averlo ancora giovanissimo sposato con una principessa bizantina.

Il giovane imperatore ebbe ben presto a lottare con i grandi signori lorenesi, e poi per anni ed anni con la Baviera, con la Boemia e con la Polonia. Seguì un conflitto con re Lotario di Francia, che repentinamente invase la Lorena e costrinse l'imperatore a fuggire in tutta fretta da Aquisgrana. Ottone II radunò rapidamente il suo esercito ed arrivò fin sotto Parigi, ma nella ritirata subì delle considerevoli perdite. Tutto ciò era un monito abbastanza deciso che la presenza del re in Germania era indispensabile. Ma dall'Italia giunsero notizie anche peggiori: lo splendido edificio costruito da Ottone I era precipitato; il papa BENEDETTO VI, confermato da Ottone I, era stato abbattuto ed ucciso dal partito di Crescenzio.
Ed allora Ottone II nel 980 abbandonò la Germania al suo disordine, passò con un esercito le Alpi, entrò in Roma dove pose fine al dispotismo di Crescenzio, e poi marciò verso l'Italia meridionale, sulla quale, ad onta della parentela tra le due famiglie imperiali, i bizantini elevavano delle pretese. Questa parte d'Italia venne inoltre a quel tempo attaccata dagli Arabi che dominavano nell'Africa settentrionale ed avevano già messo un piede saldo in Sicilia.

In queste lotte Ottone II fu all'inizio vincitore, ma in seguito rimase completamente sconfitto (13 giugno 983) e sfuggì alla prigionia solo per aver saputo arditamente approfittare di fortunate contingenze. In seguito a ciò non solo andò perduta l'Italia meridionale, ma anche nel resto d'Italia levarono il capo i nemici della dominazione tedesca e nelle marche orientali si ribellarono gli Slavi. Essi distrussero le prime basi di immigrazione germanica e della chiesa cristiana poste nel territorio tra l'Elba e l'Oder sotto Enrico I ed Ottone I. Anche i Danesi ricominciarono le loro scorrerie.

L'imperatore Ottone II morì prima della fine dell'anno 983, il 7 dicembre, in età di appena 28 anni prima di aver potuto lavare la macchia della sua sconfitta e prima di aver potuto ritornare in Germania. Egli è sepolto a Roma nella chiesa di S. Pietro.
La questione della reggenza in nome di suo figlio OTTONE III, già eletto a suo successore, che contava soli tre anni e raggiunse la maggiore età nel 996, cioè solo dopo tredici anni, diede luogo a lotte infinite. Alla fine tuttavia trionfò la vedova di Ottone II, la greca Teofano, che tenne la reggenza sino alla sua morte (991) governando con grande abilità, ma, come è naturale, in queste lotte aumentò l'indipendenza dei principi territoriali.

L'autorità regia, quale era stata nelle mani di Ottone I, si andò distruggendo, tanto più che i poteri del re non erano garantiti da leggi che li regolassero e svolgessero in corrispondenza alle mutate condizioni. Ottone III era stato educato con ampio corredo di studi, ma per disavventura con troppa dottrina e poco se non additittura falso indirizzo teorico. Egli - a questa giovanissima età non conosceva le reali condizioni dei suoi Stati e nutrì il suo spirito di idee fantastiche tratte dai discorsi di gente irresponsabile che si abbandonava a sogni suggeriti da una mezza conoscenza del diritto romano e dalle proprie tendenze mistiche.

Aggiungi il carattere eccessivamente sensibile di questo giovane intelligente, sul quale fece presa il veleno dell'adulazione e quello forse peggiore della presunzione che, facile sotegno della coscienza del proprio ingegno, doveva in lui quasi ineluttabilmente crescere col sentimento dell'onnipotenza imperiale, soprattutto quando, come avvenne a questo ragazzo, la dignità imperiale era concepita sotto una luce di esagerata grandezza circondata dall'aureola delle fantasie teologiche.
Appena in età di cinger la spada il sedicenne re scese in Italia, e, considerando la signoria sull'Italia e sul papato un appannaggio della corona tedesca, conferì il seggio pontificio allora per l'appunto vacante a suo cugino BRUNO di Carinzia appena ventiquattrenne, il quale poi si fece eleggere secondo le usanze tradizionali dal clero e dal popolo romano ed infine incoronò Ottone III imperatore. Questo giovane papa era pieno dello spirito mistico dell'epoca e riguardava ogni autorità temporale immensamente inferiore alle sublimità del sacerdozio cui secondo le sue idee doveva piegarsi tutta la cristianità.

Ma Ottone III era appena tornato in Germania che il nuovo papa dovette constatare con i fatti la fragilità del suo potere, perché fu costretto a fuggire da Roma di fronte ad un antipapa elevato dal partito di Crescenzio. Immediatamente Ottone III abbandonò per la seconda volta la Germania al suo destino, tornò in Italia (fine del 997), ridusse all'obbedienza Roma, si prese crudele vendetta dei partigiani di Crescenzio, rimise GREGORIO V sul seggio di S. Pietro, e, morto Gregorio nel 999, conferì la tiara al suo precettore Gerberto, che prese il nome di SILVESTRO II.
Cosa singolare, Ottone III e Gregorio V avevano nutrito idee diametralmente opposte circa i rapporti tra l'impero ed il papato; Ottone aveva disposto del seggio pontificio, cosa che era inconciliabile con le teorie di Gregorio; ma l'amicizia personale dei due giovani principi, la fantastica mescolanza di spirituale e temporale tutta propria della mistica dell'epoca, e sopra tutto la necessità di unire le proprie forze per tener fronte all'opposizione della nobiltà romana, avevano fatto superare la contraddizione di idee.
Silvestro lI invece aveva dietro di sé una vita piena di attività pratica ed aveva sostenuto energicamente l'indipendenza dei vescovi, cioè professato idee che erano inconciliabili con il concetto di Gregorio dell'autorità superiore del vescovo di Roma su tutti gli altri vescovi. Ma, divenuto papa, cambiò sistema e si pose per quella stessa via che il giovane Gregorio V aveva tentato di battere.

Ottone III rimase a Roma. Egli voleva fare di Roma il centro di un impero universale che però non aveva nè confini né forma. Nel frattempo scoprì che la curia cercava con falsi documenti di usurpare a proprio vantaggio possedimenti e diritti spettanti all'impero. In un diploma destinato a papa Silvestro II egli dichiarò che la donazione di Costantino era una falsificazione e si lagnò della sfrontatezza con cui i preti tentavano di appropriarsi dei beni altrui. Ma nello stesso diploma lui concesse al papa nuove terre di pertinenza dell'impero. Egli agiva come se la dignità imperiale fosse così superiore ad ogni possibilità di menomazione e così solida che non valeva la pena di badare a simili piccolezze. Tutta la sua condotta appare fantastica. Suoi modelli (se pure è possibile nei riguardi di lui parlare di ideali precisi) furono la corte di Costantinopoli ed una figura leggendaria della persona di Carlo Magno; ma nel resto é impossibile dire con maggior precisione quali fossero i suoi propositi e disegni.
Il papa e l'imperatore dovevano nel suo pensiero stare a capo dell'impero universale, ma in qual rapporto tra loro non si sa bene. Se Ottone agì senza riserva come sovrano anche del papa, dall'altro lato egli era fortememente imbevuto del sentimento mistico del suo tempo che spregiava tutto ciò che era mondano a paragone della Chiesa e teneva in poco conto tutti i laici, non esclusi i re, a confronto degli ecclesiastici. Era il tempo in cui si credeva con l'ascetismo ed il martirio di guadagnarsi il cielo. Fu allora che numerosi monasteri riformarono i loro ordinamenti sull'esempio del chiostro francese di Cluny e si riunirono sotto la guida di quest'ultimo in una congregazione che fece grande impressione su molti valenti principi e signori.

La chiesa poi sfruttò ampiamente questa influenza acquistata per realizzare le sue pretese all'indipendenza dallo Stato ed alla sua supremazia sullo Stato. A tale scopo le audaci falsificazioni del IX secolo, e specialmente quella delle decretali pseudoisidoriane, fornirono ai riformatori una somma di argomenti in favore di tali pretese, argomenti che assai di rado vennero contestati. Tutto questo, nonostante che i sempre nuovi conflitti insorgenti tra le più alte e venerate dignità ecclesiastiche rivelassero chiaramente che i chierici non erano meno dei laici schiavi degli istinti delle passioni e degli interessi terreni.

Fieri conflitti come questi turbarono gravemente il regno tedesco verso la fine del breve governo di Ottone III, e dimostrarono come fosse impossibile governare facendo principale calcolo sull'appoggio dei principi ecclesiastici e sulla loro devozione. L'arcivescovo Willegis di Magonza, il capo della chiesa tedesca, prese a contendere col vescovo Bernward di Hildesheim, assai venerato come uomo e come principe, circa il punto se il convento di Gandersheim fosse sottoposto all'uno od all'altro. Avendo un sinodo provinciale deciso a favore di Willegis, ed avendo l'altro appellato al papa, ne derivarono i più pericolosi conflitti tra Roma e la chiesa tedesca.

Un legato pontificio, che volle convocare in Germania (Póhlde) un sinodo per decidere la questione, incontrò vivissima opposizione ed anche maggiori proteste sollevò quando destituì Willegis dalla sua carica. La lotta parve disegnarsi inevitabile. A questo punto morì Ottone III in età di non ancora 22 anni (23 gennaio 1002) e l'anno dopo morì papa Silvestro; a Roma si susseguirono rapidamente diversi papi, sinché nel 1012 dopo fiere contese tra le fazioni dei nobili romani venne eletto papa BENEDETTO VIII (1012-1024) della famiglia dei conti di Tusculo.
Con l'aiuto dei suoi fratelli Romano ed Alberico, i quali sotto il titolo di consoli, duchi o senatori romani esercitavano il potere temporale sulla città e territorio, Benedetto VIII riuscì a sostenersi sul seggio pontificio e ad acquistare grande influenza in Italia ed in altri paesi. L'influenza sinora dominante dei Crescenzi fu vinta e del pari neutralizzata l'influenza dei re tedeschi.
Il papa Gregorio, eletto con l'aiuto dei Crescenzi, fuggì in Germania, dove ENRICO II, nipote del fratello di Ottone I (Enrico) si era conquistata la corona in lotta con altri due aspiranti. Queste lotte per la conquista del trono reale e pontificio permisero di eliminare facilmente il conflitto tra Roma e l'arcivescovo di Magonza; ma ben presto ne sorse un altro simile.

Papa Benedetto VIII era stato eletto alla tiara come capo od almeno aderente ad un partito politico, e ciò che principalmente gli stavano a cuore erano gli interessi temporali; ma egli seppe approfittare dell'entusiasmo del partito ecclesiastico riformatore per accrescere l'influenza spirituale di Roma. Ed Enrico II (1002-1024) gli prestò aiuto in quest'opera, nonché nelle sue lotte con le fazioni nobiliari avversarie di Roma, allo stesso modo che aveva fatto Ottone III con i papa Gregorio V e Silvestro II. Quattro volte durante il regno di Enrico II eserciti tedeschi passarono le Alpi, e di queste, tre volte sotto la guida personale dell'imperatore.
Egli sacrificò a queste imprese d'Italia, tenpo e forze che erano più giovevoli alla curia che non a lui, benché in Germania abbia dovuto combattere per l'esistenza stessa del suo potere e per la sicurezza dei confini, specialmente in Lorena e poi al confine orientale col duca Boleslavo di Polonia.

A tempo di Ottone III Boleslavo aveva ottenuto che fosse eretto a Gnesen un arcivescovado polacco indipendente, i cui vescovadi di Cracovia, Kolberg e Breslavia erano stati sino allora alle dipendenze dell'arcivescovo di Magdeburgo. Questo fatto si è voluto giustificare con l'importanza che il clero slavo aveva allora assunto per merito del boemo Adalberto per la conversione dei popoli ancora pagani. Ma forse questa importanza viene esagerata e ad ogni modo Ottone III, fondando un arcivescovado a parte per la chiesa polacca, indebolì ancora il già debole vincolo di dipendenza della Polonia dall'impero tedesco contraddicendo ai fini cui era diretta la sua politica imperialista.

Boleslavo poi fece grandi progressi; egli si impadronì del Lausitz e dei territori adiacenti e cercò pure di assoggettarsi la Boemia e di fondare un grande regno slavo. Invano Enrico Il radunò ripetutamente le forze del regno tedesco contro di lui. Pur riportando all'inizio alcuni successi fu costretto a tornare indietro ed i territori di confine del suo regno, nonché la Boemia, vennero devastati dai Polacchi.

Alla fine Enrico dové contentarsi, nel firmare la pace di Bautzen di essere riuscito ad impedire l'attuazione dei vasti disegni di conquista dei Polacchi e soprattutto di esere riuscito a conservare la Boemia. Boleslavo mantenne l'acquisto delle marche orientali ed il suo vincolo di dipendenza feudale dall'impero restò si può dire immutato.
Anche ad oriente Boleslavo aveva tentato di espandersi a spese dei principati russi, aveva conquistato Kiew, ma in sostanza senza ottenere risultati permanenti.

Proprio in questa epoca avvenne la conversione dei Russi e degli Ungheresi al cristianesimo. Re Stefano d'Ungheria per influenza tedesca aderì alla chiesa romana, mentre i Russi aderirono al patriarcato greco. Le ragioni per cui ciò accadde non si possono stabilire con precisione, ma il fatto fu un avvenimento di importanza storica universale. Ancora ai giorni nostri costituisce un importante fattore della storia interna della Russia e della politica europea la circostanza che allora la Russia abbia accolto la forma orientale del Cristianesimo. La prima conseguenza che a quel tempo ne scaturì fu che aumentò l'antagonismo tra Russi e Polacchi.

Oltre che dalle guerre con la Polonia il regno di Enrico II fu afflitto da guerre per la successione di Borgogna e da lotte intestine tra i grandi signori di Lorena e di Sassonia. Tanto più funeste quindi dovevano riuscire le sue spedizioni in Italia. Nella prima di esse Enrico debellò il marchese Arduino di Ivrea, che dopo la morte di Ottone III si era proclamato re d'Italia, si fece incoronare a Pavia egli stesso re d'Italia e punì la città col fuoco e col saccheggio allorché essa gli si sollevò contro nuovamente.

Dieci anni dopo, nel 1014, Enrico II calò una seconda volta in Italia, si fece incoronare imperatore a Roma, distrusse una quantità di castelli dei nemici del papa e condusse con se' numerosi ostaggi in Germania. Ma Arduino ed altri avversari della signoria tedesca ben presto risollevarono il capo e nell'Italia meridionale i bizantini tornarono a riguadagnare maggiore influenza.

Papa Benedetto si recò personalmente in Germania nel 1020, evidentemente per chiedere aiuto; e nel dicembre 1021 Enrico II infatti calò per la terza volta in Italia. L'Alta Italia gli si sottomise; anche nel mezzogiorno egli riportò dei successi, ma nella marcia di ritirata il suo esercito subì gravi perdite; ed alla morte di Enrico si rese manifesto che la signoria tedesca in Italia non era affatto più solida di quanto fosse stata prima delle sue spedizioni.

Anche le condizioni di Roma non erano gran che migliorate. Non é che mancasse lo spirito religioso: l'ascetismo, che dominava specialmente nel chiostro dell'Aventino, dove Greci e Latini facevano vita comune senza curarsi dei dissensi teologici e gerarchici, non conquistò soltanto nature fantastiche come lo slavo Adalberto, il tedesco Bruno di Querfurt ed il giovane imperatore Ottone; questa tendenza mistica si diffuse anche altrove in Roma ed in Italia e principalmente ne fu campione il ravennate Romualdo, il fondatore della congregazione di Camaldoli.

Ma altre erano le forze predominanti in Roma ed in Italia: erano i capi delle grandi e le piccole dinastie, le grandi famiglie nobili di Roma, Pavia, Milano, Venezia, Capua, Amalfi-, Salerno, i Bizantini e ben presto anche i Normanni e Saraceni. Le loro rivalità e la loro cupidigia di potere determinarono l'andamento delle cose. L'imperatore che credeva di dominarli, apparve fra loro solo come una parte, per quanto una parte di maggior potenza, la quale tuttavia si faceva sentire solo di tanto in tanto da lontano.

Enrico II non si sottrasse egli pure alle zelanti tendenze religiose del tempo, senza peraltro lasciarsi dominare da esse quando si trattava di questioni politiche. Con la piena convinzione di esercitare un diritto spettante alla corona dispose a suo talento dei beni ecclesiastici e delle cariche ecclesiastiche, né si preoccupò di allearsi coi Liutizi pagani contro il duca Boleslavo di Polonia, che da molti venne perciò celebrato come l'eroe della fede.
Ma nel tempo stesso diede prova del suo zelo religioso con la fondazione del vescovado di Bamberg che dotò riccamente tramite i suoi beni, e coll'appoggio concesso al partito della riforma ecclesiastica, malgrado che esso contestasse la supremazia della corona sulla Chiesa.
Egli sostenne inoltre il papa quando volle piegare all'obbedienza verso Roma l'arcivescovo Aribo di Magonza in una questione in cui la chiesa tedesca credeva di essere indipendente.

Occasione al conflitto offrì uno di quei deplorevoli casi in cui la chiesa con le sue teorie sugli impedimenti matrimoniali, contrarie alle costumi ed al buon senso del popolo, ha tante volte turbato la pace di un matrimonio felice. Il conte Ottone di Hammerstein non voleva dividersi dalla propria moglie, benché un sinodo avesse dichiarato che il matrimonio contrastava alle leggi ecclesiastiche per la parentela troppo vicina che vi era tra gli sposi (consanguinei).
Lo stesso imperatore gli si era rivoltato contro ed aveva conquistato il castello in cui il conte si difendeva, ma la contessa prosegui la lotta, appellandosi al verdetto dei vescovi tedeschi e al papa. In seguito a ciò l'arcivescovo di Magonza nel 1023 fece votare da un sinodo provinciale adunato a Seligenstadt un canone che rendeva assai più difficile l'appello al papa dai verdetti dei vescovi, e quindi il papa colse l'occasione per dimostrare al potente arcivescovo e con lui alla chiesa tedesca che avevano un padrone al di sopra di loro.
Ed Enrico II, il re tedesco, prese le parti del papa sostenendolo in una pretesa che non poteva a meno di fargli guadagnare una influenza pericolosissima a discapito del suo stesso potere. Aribo non si piegò e ne nacque una situazione di cose analoga a quella che venti anni prima era stata provocata dal conflitto tra papa Silvestro e Willegis di Magonza.
Ed analoga fu pure la maniera come il conflitto si risolse. L'imperatore ed il papa morirono nel 1024, ed il nuovo re CORRADO II venne eletto in sostanza per influenza dell'arcivescovo di Magonza che era sostenuto contro Roma dalla maggioranza dei vescovi tedeschi. Ma ancora una volta non si ebbe tutto ciò nonostante una legge che stabilisse l'indipendenza della chiesa tedesca e fissasse i limiti dell'ingerenza papale.

Il governo del nuovo re CORRADO II (1024-39) fu energico e ricco di successi parziali.
Tra le sue guerre contro vassalli ribelli ha lasciato una lunga eco la ribellione del suo figliastro Ernesto di Svevia il quale avanzò pretese al regno di Borgogna che re Corrado invece reclamava all'impero in base ad un trattato concluso dall'imperatore Enrico II con l'ultimo re di Borgogna.

La poesia e la saga si sono appassionate alle sorti del reale rampollo, e dai versi dell'Uhland noi possiamo trarre una immagine viva ed un esempio delle torbide condizioni dello Stato feudale che allora spingevano tanti valorosi ad insorgere contro il loro re ed il loro Stato di cui avrebbero potuto essere invece l'ornamento e il sostegno.

Al confine orientale Corrado, dopo alcune lotte fortunate con gli Ungari, coi Polacchi e coi Boemi, riconquistò la marca di Lausitz che il trattato di pace di Bautzen aveva abbandonato alla Polonia e costrinse i duchi di Polonia e di Boemia a riconoscere l'alta sovranità feudale del re tedesco.

Al re di Danimarca Corrado cedette la marca dello Schleswig per procacciarsi la pace ai confini settentrionali, e si ha torto a censurare questo suo atto, che non deve essere giudicato con i criteri odierni. Corrado invece cercò di mantenere la sua alta sovranità sulla Borgogna, e ciò ebbe varie conseguenze in seguito, sebbene l'influenza ch'egli poté esercitare in quel paese non sia stata molta e quindi la sua potenza non ebbe un notevole incremento per il nuovo acquisto fatto. I beni infatti della corona di Borgogna erano stati in gran parte dissipati ed i vassalli si erano insubordinati e pretendevano una arrogante indipendenza verso il re. Ma questo acquisto contribuì a mettere l'impero in più vicino contatto con la Svizzera ed a far sì che gli imperatori successivi potessero trarre in molte questioni importanti dalla loro sovranità sulla Borgogna aiuti materiali e ragioni giuridiche da far valere.

Re CORRADO II ci si presenta come uomo di carattere serenamente riflessivo e dotato di volontà energica; ed é quindi una nuova prova della forza irresistibile delle condizioni sociali e delle idee dominanti a quell'epoca il vedere che anche un uomo come lui abbia due volte abbandonato la Germania minacciata da tanti nemici esterni ed interni per recarsi a mettere ordine in Italia ed a riaffermarvi la sua signoria.
Egli prese nel 1026 a Milano la corona longobarda dopo aver rapidamente domati i suoi avversari dell'Italia superiore; nel 1027 mosse verso mezzogiorno, si incoronò imperatore a Roma, fece sentire la sua sovranità anche nell'Italia meridionale, ma nello stesso anno ritornò in Germania.
Dieci anni dopo Corrado ridiscese in Italia, cercò in una dieta tenuta a Pavia nel 1027 di ricuperare una parte dei beni andati perduti per la corona imperiale, iniziò una lotta, che solo in parte ottenne successo, contro l'arcivescovo di Milano e tentò, emanando un decreto che garantiva ai vassalli dei grandi feudatari l'ereditarietà dei loro feudi (constitutio de feudis del 18 maggio 10
37) di incatenare alla corona questa classe bellicosa. L'atto era accorto e Corrado continuò la lotta con energia, ma, ritornato nel 1038 in Germania, vi rimase ancora una volta assorbito dalle cose di Borgogna e l'anno successivo (1039) la morte poi troncò la sua instancabile attività in favore della pace e della giustizia

Suo figlio ENRICO III (1039-1056) era stato già eletto a suo successore ed incoronato re dieci anni prima. Egli assunse il governo senza contrasti e lo esercitò sino alla sua prematura morte (a 17 anni) , avvenuta nel 1056, con tale energia e con risultati tanto importanti che il suo regno e quello di suo padre vengono per lo più considerati come il periodo culminante della monarchia tedesca e dell'impero ad essa inerente.

La Boemia fu costretta a riconoscere l'alta sovranità tedesca, cui il duca Bretislavo tentava di sottrarsi, e l'Ungheria si sottomise all'imperatore dopo lunghe lotte nelle quali la marca d'Austria venne ampliata sino alla Leitha. Ma Enrico non poté in seguito mantenere questi acquisti ed anche la Polonia gli si sottrasse.
Resistenza non minore gli oppose il duca Goffredo di Lorena, cui Enrico III non volle concedere di succedere nell'intero ducato di suo padre, e che quindi, prima in Lorena e poi (quando ebbe ottenuto la mano della marchesa Beatrice di Toscana) in Italia, divenne il capo di una potente opposizione contro l'imperatore. La Germania pertanto offriva già abbastanza gravi cure all'imperatore; ma le condizioni disastrose del papato lo chiamarono (1046) suo malgrado drammaticamente in Italia.

Dopo la morte di Ottone III il papato era tornato in piena balìa della nobiltà romana. Negli anni immediatamente successivi ebbe il predominio la famiglia di Crescenzio; ma, morto nel 1012 Crescenzio e il papa SERGIO IV sua creatura, il conte di Tusculo ottenne che fosse eletto suo figlio, che prese il nome di BENEDETTO VIII e costrinse l'altro papa eletto dai Crescenziani a fuggire in Germania. Anche Enrico II, come vedemmo, si dichiarò in favore di Benedetto VIII ed all'atto della sua venuta a Roma aumentò a tal grado la sua potenza e quella della famiglia che alla morte di Benedetto VIII (1024) poté riuscire a farsi consacrare papa suo fratello Romano - GIOVANNI XIX -, benché fosse laico, di modo che dovette prendere in un sol giorno tutti gli ordiNi sacri.

Il papato così divenne completamente un feudo del conte di Tusculo. Alla morte di Giovanni XIX (1033) il capo della famiglia proclamò papa suo figlio che aveva soli 10 anni (alcuni dicono 20) e che si intitolò BENEDETTO IX.
Neanche a dire che la sua elezione fu un atto nepotistico vero e proprio, quasi a dimostrare che la Cattedra di San Pietro fosse come un qualsiasi altro trono da poter vendere e comprare, e dati i buoni rapporti tra la famiglia dei Tuscolo e l’imperatore, Corrado II non dimostrò alcun interesse.

Costui - nella sua esuberante età giovanile - disonorò la tiara con ogni sorta di birbonate, di atti di libertinaggio e di dissolutezza, e di delitti. Dal 1045 dovette lottare con un antipapa, SILVESTRO III, e con un altro che si intitolò GREGORIO VI, al quale prima vendette la dignità pontificale e poi gliela contestò. Si pensi in che modo a Roma era trattato questo seggio vescovile che i cristiani da lungi consideravano come il simbolo della santità, anzi quasi come il rappresentante in terra della volontà divina !

Enrico III - come detto sopra - nel 1046 scese in Italia per metter fine a questo stato disgustoso di cose. Secondo le idee del tempo egli non poteva sottrarsi a questo dovere, ed anche personalmente egli si sentì spinto, non solo da ragioni politiche, ma anche dalle sue convinzioni religiose, ad iniziare l'opera di riforma della chiesa ed a cominciare sopra tutto dall'Italia.
Il clero era depravato; molti preti erano ammogliati e molti vivevano in concubinato, malgrado l'obbligo del celibato. Era frequente che avessero figli, e costoro, data l'irregolarità del loro stato civile, costituivano un elemento incomodo della popolazione; avveniva pure che dei preti dotassero le proprie figlie con i beni della chiesa.

Il papato non avrebbe potuto cadere in esclusivo potere di una famiglia, come nei fatti era avvenuto da parecchi decenni, se anche le altre cariche ecclesiastiche non avessero subito in Italia la stessa sorte.
Enrico era imbevuto delle rigide idee che il partito della riforma ecclesiastica nutriva circa l'indipendenza e santità della chiesa, ed in un sinodo tenuto a Pavia elevò a legge le idee di quel partito riguardo alla simonia, benché a questo modo venivano dichiaraee peccato anche le imposte che giustificatamente i vescovi di nuova nomina pagavano all'imperatore.

Non fu fatto neppure il tentativo di regolare questa materia in modo che fosse esclusa la parvenza di corruzione o di mercimonio delle cariche ecclesiastiche e nello stesso tempo fosse salvato il diritto dell'imperatore e provveduto ai bisogni dello Stato. Nei sinodi di Sutri e di Roma l'imperatore Enrico fece deporre i tre papi contendenti, si fece accordare dai Romani il titolo e la carica di patrizio che implicava il voto preponderante e decisivo nell'elezione dei pontefici, ed innalzò alla tiara il vescovo di Bamberg (CLEMENTE II).
Morto quest'ultimo poco dopo, nel 1047, Enrico conferì il pontificato al vescovo di Brixen (DAMASO II), dopo la sua morte al vescovo di Toul (LEONE IX, 1049-1050), e finalmente al vescovo di Eichstàdt, VITTORE II (1055-1057).

Tutti questi quattro papi nominati dall'imperatore erano stati da lui scelti tra i vescovi dell'impero - Bamberg, Brixen, Toul ed Eichstàdt - e tutti e quattro erano sostenitori delle idee dell'assoluta indipendenza della Chiesa e della sua supremazia sullo Stato.
Enrico III, come a suo tempo Ottone III, procurò con questi quattro vescovi tedeschi al papato, dei capi i quali cominciarono a spianare la via per il conseguimento di quei fini che poi Gregorio VII e i suoi successori raggiunsero, se pure non in modo del tutto completo.
Enrico III infranse con le sue stesse mani la base più solida del suo potere quando elevò i nemici dell'ordinamento che giuridicamente regolava nel suo regno le relazioni tra lo Stato e la Chiesa a quella posizione d'onde meglio e più sicuramente potevano impugnare i diritti della corona.

Enrico III, dopo tanti e così segnalati successi, probabilmente si credette abbastanza forte per salvaguardare di fronte alla Chiesa l'integrità dei suoi diritti, ovvero si illuse a ritenere che questi diritti non contraddicevano in astratto alle pretese dogmatiche degli ecclesiastici partigiani della riforma, da lui personalmente assai stimati e venerati, e che ad ogni modo poi in pratica la forza delle cose avrebbe avuto anche ragione delle teorie e che quegli uomini, buoni di animo e pratici del mondo, si sarebbero adeguati alle necessità dello Stato.

Ma se sul letto di morte egli si guardò indietro con occhio spregiudicato, dovette sentirsi molto inquieto per le sorti future dell'impero, perché già durante il suo regno i papi ed i fautori zelanti della loro potenza avevano cominciato ad elevare pretese inconciliabili con i diritti e con i bisogni dello Stato.

Per di più la morte lo colse ancor giovane (a 17 anni, nel 1056) costringendolo a lasciare il regno, minacciato da pericoli interni ed esterni, a suo figlio ENRICO IV che era ancora un ragazzo.

L'occasione era propizia alle cupidigie dei grandi signori laici aspiranti ad ingrandirsi a spese dei diritti e dei dominii della corona, ed era non meno favorevole alle mire dei fanatici propugnatori delle pretese clericali. Roma non indugiò un momento e cominciò subito quella rivoluzione che va sotto il nome di lotta per le investiture.

Già nel 1059, vale a dire appena tre anni dopo la morte di Enrico III, papa NICOLA Il, per consiglio ed incitamento - dell'arcidiacono ILDEBRENDO (ricordiamoci più avanti di questo fatto), emanò in un sinodo tenuto a Roma una legge circa l'elezione al seggio pontificio che in sostanza tolse all'imperatore ogni influenza su questa elezione. E questa legge non era in fondo che una applicazione della teoria dei riformatori cui Enrico III medesimo aveva dato il suo appoggio. Quelli che allora capitanava il partito della riforma, l'arcidiacono Ildebrando, il futuro papa GREGORIO VII, aveva un tempo accompagnato nel suo esilio in Germania il papa Gregorio VI deposto da Enrico III come colpevole di simonia.

Qui Ildebrando aveva potuto osservare con i propri occhi quanto l'autorità regia fosse già ridotta impotente di fronte agli arbitri ed alle pretese dei grandi feudatari, quanto costoro si sentissero indipendenti dal re e quanto facilmente potessero essere indotti a ribellarsi alla corona. Bastava allo scopo far loro balenare la prospettiva di consolidare ed ampliare i loro dominii ed i loro diritti, di assicurare la loro posizione resa per lo più malsicura a causa dell'indebolimento dell'autorità centrale in conseguenza del dilagare della feudalità.

Questo periodo dell'esilio del suo pontefice costituì pertanto per Ildebrando una scuola politica di grandissima importanza. Egli ora sapeva che cosa realmente fosse questa monarchia tedesca - che in Italia agiva con tanta prepotenza e che gli atti pubblici e i poeti celebravano con altrettanto esagerato linguaggio.
Ildebrando o Gregorio VII é una personalità difficile a giudicare, una figura di uomo che univa in sé una somma di qualità in aperto contrasto fra loro. Le sue numerose lettere, le narrazioni di persone che ebbero con lui familiarità e che nella contesa per le investiture lottarono a suo fianco o contro di lui, e finalmente moltissimi fatti di attendibilità sicura ci offrono un copioso materiale per farci una idea della sua indole e del suo modo di sentire e per rappresentarci le impressioni che dovevano fare su lui gli uomini e gli avvenimenti. Certo non bisogna pretendere di scrutare le profondità del suo cuore che rimasero per lui stesso un enigma, per lui che talora a vicenda e talora contemporaneamente aspirò alla corona del martirio ed agli splendori ed alla potenza mondana.
Ma alcuni tratti caratteristici spiccano chiari nella figura di questo grande lottatore. In primo luogo: egli aveva un immenso ascendente sugli uomini. Gregorio VII ci richiama l'immagine di Napoleone I, alla presenza del quale si videro costretti a piegarsi quei pretenziosi generali che poco prima avevano preso un'aria di sfida verso questa ignota creatura del direttorio parigino.

«Tu mi accarezzi con artigli d'aquila», gli diceva S. Pier Damiani, sentendosi costretto a seguirlo contro sua volontà, e pure Pier Damiani non era da meno di lui e lo sapeva. Egli lo chiamava il «Santo Satana» e «tiranno». In secondo luogo: Gregorio VII non si preoccupava minimamente di mostrarsi inconseguente ai propri principii se questi principii dovevano essere di ostacolo al raggiungimento dei suoi fini. Egli proclamò la guerra alla simonia, dichiarò eretici i simoniaci, anzi per usare l'espressione del suo partigiano Humbert, li dichiarò i peggiori fra gli eretici, peggiori degli stessi Ariani.
Ciononostante egli stesso era stato un fedele seguace di Gregorio VI, che si era reso colpevole della più brutale forma di simonia ed aveva persino venduto il seggio pontificio.

Gregorio VII era una mente soprattutto politica; ciò che gli stava principalmente a cuore non era il dogma religioso ma la supremazia della chiesa. Il fanatismo religioso non mancava in lui, ma non lo dominava, l'asceta si subordinava in lui al politico avido di potenza e si metteva al servizio dei suoi fini temporali. Convinto di lavorare per l'eternità, gli ordinamenti sociali della vita terrena ed il diritto che li regolava, erano per lui indifferenti. Egli considerò i giuramenti ed i matrimoni come articoli di traffico da adoperare per accaparrarsi l'opera e la fedeltà degli uomini di cui aveva bisogno, ed anche in altro modo si mostrò esente da scrupoli nella scelta dei mezzi e degli ausiliari delle sue imprese.

Ad es. egli si valse di un documento (che per di più era falso) il quale diceva che Carlo Magno aveva dedicato a S. Pietro il colle di Eresburg da lui conquistato insieme con l'intera Sassonia, per sostenere una cosa che sino allora nessuno aveva ardito affermare e che era di fatto insensata: che cioè Carlo Magno aveva donato al papa tutta la Sassonia. Così pure si giovò di un altro documento che era una grossolana e patente falsificazione per falsarlo ancora di più colla sua interpretazione e derivarne la pretesa che ogni proprietario di case in Gallia dovesse servire da censuale al papa (cfr. Scheffer-Boichorst, nelle Mitteil, Inst. Oest. Gesch. Erg., vol. IV, p.I e segg.). E come non esitò a sfruttare così audacemente la falsificazione, così non ebbe scrupolo di allearsi con gente d'ogni risma purché gli servisse.

Egli era convinto che la sua causa era la causa di Dio e che quindi non poteva rimanere macchiata dal sudiciume terreno con cui veniva a contatto, e neppure dal sangue che imbruttiva le mani dei delinquenti che curavano i suoi affari. Come non ebbe scrupolo di far lega con i patareni delle città italiane, così non esitò a procurarsi l'amicizia dei rozzi Normanni che in Italia al pari dei loro cugini in Inghilterra manomettevano i diritti della Chiesa e dello Stato, dal momento che con le loro scorrerie e violenze ostacolavano i disegni di Gregorio, e ad onta della loro religiosità esteriore non si arrestavano nemmeno dinanzi al papa ed ai suoi diritti.

Vero è che Gregorio VII fu punito egli stesso per questo suo contegno, giacché gli toccò vedere questi suoi amici a saccheggiare Roma come non era avvenuto dai tempi di Alarico, e per di più dovette tacere e rinfoderare questa volta quell'anatema che aveva tante volte fulminato per cose di assai minore gravità. Gregorio inoltre non si preoccupò nel 1058 di contrapporre al papa Benedetto X, eletto dai Romani e personalmente stimabile sotto ogni riguardo, un antipapa e di avvalersi all'uopo dell'influenza imperiale in maniera che ripugnava ai principi suoi e del suo partito.
E coll'astuzia e le armi egli seppe infatti costringere Benedetto X a sloggiare da Roma. Benedetto X era stato eletto in mezzo a tumulti e lotte di fazioni, solite a verificarsi anche per molte altre elezioni di papi quando non vi era una autorità preponderante che mantenesse l'ordine. Serva di esempio l'elezione di papa Leone III, che incoronò poi Carlo Magno, ovvero quella di Benedetto VIII, od anche quella dello stesso Gregorio VII.

Perchè anche Gregorio VII venne eletto in modo tumultuoso, senza la coscienziosa osservanza delle regole riguardanti l'elezione dei pontefici, salvo che per lui il tumulto partì da un altro gruppo della popolazione romana. L'elezione di Benedetto X fu da lui impugnata come tumultuaria, mentre la sua fu dai suoi amici celebrata come una rivelazione di Dio.

Non tutti gli atti di Ildebrando in quel complicato colpo di mano con cui egli allora contrappose a Benedetto X papa Nicola II, lo strumento dei suoi disegni, ottenendo il suo intento, si possono assodare e metter bene in chiaro; ma è indubbio che si trattò di violenze e di atti politici come è certo che Ildebrando fu le mente direttiva di queste macchinazioni. Egli allora godeva nel partito della riforma una autorità dinanzi alla quale tutti si piegavano.
Morendo, Gregorio disse: Dilexi iustititiam et odi iniquitatem, propterea morior in exilio. Gli si sarebbe a dire il vero potuto provare invece facilmente che egli aveva violato più di una volta la giustizia ed accumulato torti su torti; ma non gli si sarebbe potuto imputare di mentire così dicendo.

Per quanto Gregorio abbia scelto senza scrupoli i suoi alleati ed ausiliari e si sia servito di mezzi censurabili, resta sempre che egli si sentì sino all'ultimo momento il campione di una lotta per la fede, e della stessa fede erano imbevuti migliaia di uomini e donne che combatterono e soffrirono per essa. Quella corrente di misticismo religioso che aveva indotto già gli Ottoni ed Enrico II a porre sul seggio pontificio uomini come Gregorio V e Leone IX, raggiunse con Gregorio VII il suo punto culminante e costituì la più poderosa fra le forze al cui urto combinato fu sopraffatto poi Enrico IV.

Nel giudicare tutto questo non si deve mai dimenticare l'operato e le macchinazioni - tutt'altro che pie - di questi soldati della fede, e quindi non si deve nemmeno nell'eroe della chiesa cercare la figura di un santo. Questa santità non la si ritroverebbe in Gregorio VII come non la si ritroverebbe ad es. in Cromwell, per quanto entrambi avessero qualche spunto della natura del santo.
Si farebbe torto a Gregorio se lo si volesse apprezzare con tali criteri. Se si abbandonano simili preconcetti e si riconosce serenamente che Gregorio al sentimento mistico accoppiava la capacità di combattere da peccatore le battaglie del mondo, si intende come Gregorio abbia trovato in quella fede nella bontà della sua causa sempre nuove energie. L'uomo d'azione ha bisogno di scopi precisi e chiaramente circoscritti verso i quali orientare il suo sentimento del dovere e della giustizia. Questi scopi erano per Gregorio la potenza della chiesa romana, che per lui era la chiesa di Dio, una creazione divina, e nei suoi riguardi, come vicario di Dio, la supremazia su tutti i regni e su tutti i beni della terra.

La teoria di Gregorio non era la dottrina di Cristo che aveva detto: il mio regno non è di questo mondo. Il Dio di Gregorio somigliava piuttosto all'antico Jehova. Il suo sentimento di fede era sincero, ma non era soltanto fuoco religioso; vi si mescolava l'ardore del conquistatore e del tiranno.

É qui poi da ricordare il colorito nazionale che questa lotta dei papi con gli imperatori assunse. Gregorio fu celebrato dai suoi ammiratori addirittura come il campione degli Italiani, o come allora si diceva, dei Romani, del popolo di Roma, contro i «barbari ultramontani». Nelle memorie dell'antica Roma gli Italiani trovarono in certo modo un compenso alla mancanza di uno Stato unico nazionale, allo stesso modo che i Tedeschi la trovarono per lungo tempo nel ricordo dei giorni in cui avevano brillato i re ed imperatori tedeschi del medio evo.

Questo sentimento nazionalista nei giorni della vittoria di Gregorio VII si rivelò nel giubilo degli Italiani, dimostrando come la questione eccedesse i limiti apparenti di una questione religiosa. Il vescovo Alfano di Salerno indirizzò ad Ildebrando delle strofe che meglio d'ogni altro ci fanno vedere quanto il sentimento nazionale italiano fosse strettamente alleato alla curia nella sua ribellione all'ordine di cose esistente.
Gregorio indubbiamente ci si presenta più come il capo di un partito politico che come sacerdote e propugnatore di una missione religiosa. Malgrado tutte le differenze di posizione e soprattutto del lato religioso ed ecclesiastico del carattere, egli ci richiama ancora una volta alla mente Napoleone I, la più grande figura di dominatore di sangue italiano.

Al paragone non ha importanza che Gregorio combattesse per la Chiesa e Napoleone per una dominazione politica universale; per lo meno non vi è quella importanza come potrebbe sembrarci; giacché l'ideale vagheggiato da Gregorio VII per la Chiesa era in sostanza di carattere politico; era un dominio universale che aveva di una chiesa soltanto il nome e le forme. E come a Napoleone, malgrado tutte le doti di condottiero e di uomo di Stato che possedeva, mancava la dote più essenziale, il senso della misura e il dono di non aspirare a più di quanto era possibile ottenere, così la stessa dote faceva difetto in Gregorio VII.

Nelle questioni dogmatiche egli si mostrò più moderato, perché gli interessavano meno; la supremazia politica invece la reclamò illimitata ed assoluta, e questo eccesso fu la causa per cui fallì nell'impresa: le stesse forze con le quali aveva cercato di soggiogare l'autorità imperiale, si volsero contro di lui e contro i suoi successori.
Questo era l'uomo che, mentre regnava Enrico IV, si levò a distruggere l'ordine giuridico esistito sino allora nell'impero. Anche il regno ed il carattere di Enrico IV é stato assai diversamente giudicato; ma sul carattere di questo re noi non abbiamo neppur lontanamente gli elementi copiosi di giudizio che possediamo per Gregorio VII. Soprattutto ci mancano quelle lettere che sono il principal materiale per la ricostruzione della personalità di Gregorio VII.
Tuttavia i tratti più interessanti della figura di Enrico IV ci si mostrano abbastanza chiari, a patto di eliminare quelle questioni riguardo alle quali é impossibile dare una risposta sicura. Dobbiamo anzitutto tener presente che anche i re precedenti ebbero quasi incessantemente a lottare contro ribellioni dei grandi feudatari, persino i più potenti fra questi re, come Ottone I, Corrado II ed Enrico III, e che quindi le insurrezioni dei principi contro Enrico IV non sono di per sé una prova dell'inettitudine ed iniquità del suo governo.

In secondo luogo si deve tener calcolo che l'influenza di Roma sulla chiesa tedesca e sui vescovi era verso il 1050 infinitamente più grande che non un secolo prima, e che sotto Enrico III si erano largamente diffuse in Germania le idee del partito della riforma ecclesiastica avverse al diritto di investitura regia e perciò contrarie ad una delle fonti principali del potere e dell'autorità reale. Specialmente imbevuti ne erano gli influentissimi monaci seguaci dell'indirizzo uscito dal chiostro di Cluny. Va pure ricordato che anche i principi laici erano ora in una posizione assai più indipendente dal re che non nell'epoca intorno al 950-60 e che aspiravano ad una autonomia ancor maggiore, simile a quella che avevano già conquistata per sé i grandi feudatari di Francia e di Borgogna.

Disperando qui di poter vincere una guerra o di mantenere la pace nel paese, i re ed i duchi cercarono un rifugio nelle «tregue di Dio», che di per sé giovarono a ben poco, ma bastarono a rivelare la bancarotta dell'autorità dello Stato.
Alla morte di Enrico III si trovarono a capo della Chiesa i sostenitori della teoria che le norme legislative ed i provvedimenti amministrativi in base ai quali sino allora i re avevano conferito le maggiori cariche ecclesiastiche ed avevano diffuso il cristianesimo tra i popoli pagani fin nel lontano oriente, dotando le relative chiese, erano illegalità e peccati.
Ciò che costoro chiamavano riforma era una rivoluzione. La posizione di questi rivoluzionari non era contestata, ma essi riuscirono a rimanere a capo della chiesa e passare all'offensiva. L'autorità regia in questi anni fatali era invece nelle mani della regina vedova Agnese, una donna completamente dominata da quei riformatori. I principi laici ed ecclesiastici, i vescovi di Colonia e di Brema, i duchi di Baviera e di Svevia e tutti gli altri si occupavano per lo più dei propri interessi particolari e spesso erano costretti a farlo, data la mal sicura organizzazione politica che da lunga tempo non aveva avuto un regolamento legislativo corrispondente ai tempi nuovi. Chi non badava a difendersi da sé si vedeva ben presto spogliato.

Mal consigliata apparve la regina reggente già in occasione della controversa elezione pontificia del 1061, poiché finì per aiutare ALESSANDRO II (l'italiano milanese Anselmo da Baggio - 1061-1073), eletto dal partito di Ildebrando, a trionfare sul suo avversario Onorio II. E ciò contro il suo interesse perché Onorio II era portato dai vescovi lombardi che si conservavano indipendenti da Roma ed opponevano tuttora notevole resistenza alle pretese della curia raccomandate da Ildebrando, e quindi potevano considerarsi come alleati dell'impero. E' proprio in occasione di questa lotta che Ildebrando (il futoro papa dopo Alessandro) fece lega con quel partito rivoluzionario, già sopra ricordato, che sotto il nome della «pataria» o «patarini» (vale a dire straccioni), si levò a Milano ed in altre città italiane contro le ricchezze ed il tenore di vita mondano dell'alto clero.

Possediamo scritti polemici e testimonianze di vario genere di quei giorni che ci permettono di veder chiaro che cosa si nascondesse nel tramonto di questi santi. Vediamo persino che la seconda generazione di questi patarini cercò con una maggiore dimostrazione di ascetismo di sorpassare e soppiantare la vecchia generazione che aveva sostenuto la lotta nei tempi peggiori, e che allora quest'ultima gridò all'ipocrisia, bollò la condotta dei giovani come una maschera sotto la quale essi tentavano di mietere per sé la gloria ed i frutti della lotta dai vecchi combattuta. Né in questo movimento manca la mescolanza di altri elementi e mire assai terrene e per niente affatto religiose.

Esso, che in origine era principalmente un moto religioso, assunse rapidamente forme odiose i brutali ed i motivi religiosi non servirono spesso che a mascherare le violenze e la cupidigia. Ildebrando sapeva benissimo tutto ciò, ma questo non gli impedì minimamente di mettersi d'accordo con tali bande equivoche per piegare ai voleri ed alla supremazia di Roma i vescovi recalcitranti «gli ostinati tori della Lombardia».

Queste lotte erano in corso allorché il giovane Enrico (IV 1050-1106) ereditata la corona del padre a 6 anni, raggiunse secondo il diritto franco la maggiore età. A 15 anni fu proclamato maggiorenne nel duomo di Worms, ove gli fu cinta la spada; ma il suo governo personale non si può farlo datare che dal 1070, da quando cioè raggiunse il ventesimo anno.
Quattordici anni erano trascorsi dalla morte di Enrico III. Non poche erano le violenze dei grandi feudatari, non pochi gli abusi fatti del suo nome reale, che il giovane re aveva visto nei giorni della sua fanciullezza e recava nella memoria. Egli vedeva inoltre cadute nelle mani dei principi la maggior parte delle fonti delle sue entrate e della sua potenza. Appena incoronato approfittò con la sua giovanile energia per levare una pesante accusa contro il più potente di costoro, il duca Ottone di Baviera, per scuotere questo giogo. Un tale a suo cospetto asserì che il duca Ottone lo aveva pagato per assassinarlo.
Il duca avendo negato l'imputazione, doveva combattere in duello con l'accusatore per accertare la verità col giudizio di Dio. All'inizio egli accettò la prova, ma poi rifiutò al duello perché l'accusatore era persona di cattiva fama.

Tuttavia in seguito a ciò Ottone fu posto al bando dell'impero e dichiarato decaduto dal ducato di Baviera con tutti i feudi. Re Enrico IV trovò appoggio sufficiente presso gli altri principi, e l'anno successivo Ottone fu costretto ad arrenderglisi a discrezione con i suoi aderenti. I suoi feudi rimasero comunque perduti, mentre gli vennero restituiti i suoi beni allodiali; tuttavia Enrico lo tenne prigioniero ancora per un anno. Questo fu per lui un grande successo: ma nel 1073 si produsse contro di lui in Sassonia un movimento di opposizione cui parteciparono largamente anche le classi popolari. Queste si mostravano malcontente per l'onere che arrecava al popolo il frequente soggiorno del re in Sassonia e la necessità di sopperire ai bisogni delle guarnigioni dei suoi castelli; inoltre venivano diffuse ogni sorta di voci da cui risultava che il re minacciava l'antica libertà del paese. Tutto ciò si aggiunse alle lagnanze dei grandi feudatari, i quali imputavano a carico del re di preferire come consiglieri ed ausiliari i suoi ministeriali, di modo che costoro, in gran parte persone non libere o semi-libere, godevano di una influenza che loro non spettava.

Queste ultime lagnanze si ricollegano a mutamenti che erano allora avvenuti nelle composizioni delle classi sociali. Le condizioni economiche di moltissima gente erano cambiate e con esse anche la condizione giuridica di tali persone aveva subito un mutamento. Dalle vecchie classi e dai vari gradi e gruppi che ciascuna di esse comprendeva erano venuti a formarsi nuovi gruppi e nuove gradi; specialmente la classe dei ministeriali accoglieva allora vari elementi, che si assomigliavano per i servizi che prestavano ed i diritti che possedevano, mentre la comunanza dei servizi e degli onori del nuovo stato aveva loro fatto dimenticare le differenze delle precedenti classi da cui provenivano.

Il nome di ministeriali si incontra anche attribuito ad una categoria elevata di vassalli agricoltori, ma la maggiore importanza l'acquistarono i ministeriali facenti professione delle armi, i vassalli che prestavano i propri servizi al signore in guerra e negli affari di governo. Ed é a questo gruppo che si allude quando si parla di ministeriali in senso tecnico e rigoroso. Essi formavano il nucleo principale della classe dei cavalieri, la quale nel XII secolo divenne una classe chiusa nel senso che non vennero più armati cavalieri se non coloro che erano nati da cavalieri. Questa trasformazione non era ancora compiuta in Germania nell'XI secolo. Probabilmente già allora molti uomini liberi di ceto cavalleresco entravano nella classe dei ministeriali, perché i principi preferivano affidare le più importanti cariche ai ministeriali loro legati da un più stretto vincolo di dipendenza che non ai liberi vassalli, la cui dipendenza dal signore feudale era più debole e spesso presentavano l'inconveniente di essere in possesso di feudi ricevuti da più d'un signore.

Questo ingresso di liberi cavalieri nella ministerialità suscitava ancora nell'XI secolo qua e là malcontento in Germania, né l'avversione cessa se non con la completa formazione della classe chiusa dei cavalieri del XII secolo. Era naturale che anche il re preferisse farsi servire da persone che si erano collocate sotto la sua protezione, vale a dire da liberi che si erano posti sotto il mundio del re, e da altri semi-liberi o liberti, tanto più che vedeva in quale larga misura i vassalli liberi, i principi e grandi feudatari del regno, avevano convertito a proprio vantaggio i diritti e le rendite che invece dovevano dedicare al servizio dell'impero avendole ricevute in feudo per tale scopo.

Non abbiamo peraltro prove che Enrico IV abbia progettato a tal riguardo una riforma fondamentale dell'amministrazione nel senso di affidarla ai ministeriali, e tutto si riduce a casi singoli di questo genere. Certo, se lo avesse fatto, non vi sarebbe stata ragione che di dargliene lode, perché i re tedeschi avevano sempre per così dire vissuto consumando il capitale delle loro risorse invece di attingere al reddito di esso; avevano cioè pagato i loro funzionari e soldati con prelievi dai demani e con concessioni di regalie, invece di pagarli con le entrate di una qualsiasi produzione nei loro feudi. Essi avevano inoltre omesso di regolare legislativamente con precisione il meccanismo di governo che si era venuto mutando col tempo. Si deve ritenere che Enrico IV vedesse più chiaramente degli altri questi inconvenienti, perché era uomo di segnalata accortezza ed abbastanza istruito per poter leggere egli stesso atti ufficiali e lettere; il che lo salvaguardava dalle false traduzioni ed interpretazioni di cui erano stati spesso vittime i re che non sapevano leggere o non conoscevano il latino.

Siccome poi re Enrico era anche un uomo energico e di grande ascendente personale, e per di più un valente soldato che sapeva anche in momenti disperati tener fermo e provvedere a nuovi mezzi di resistenza, bisogna dire che forse sarebbe stato in grado di sostenere con nuove risorse l'impero decadente, per quanto sia da convenire che, ove avesse concepito grandi disegni, le continue ribellioni dei principi e la guerra mossagli da Roma a proposito del diritto di investitura difficilmente gli avrebbero lasciato il tempo di attuarli.

Ma di disegni di tal genere concepiti da re Enrico non é giunta sino a noi alcuna notizia, ed in particolare dal solo fatto che egli abbia edificato otto castelli in Sassonia non siamo autorizzati a dedurre conseguenza maggiore di questa: che il re era intenzionato a render ben forte la sua posizione interna.

Dopo lotte, ricche di alternative, re Enrico rimase vincitore in Sassonia (1075), ma, avendolo a tal punto papa Gregorio VII minacciato di scomunica e colmato di accuse desunte senza migliore esame dalle chiacchiere dei suoi nemici, si lasciò trascinare a convocare in Worms i vescovi tedeschi ad un sinodo che depose Gregorio VII. Il papa fu condannato perché con le sue inaudite Pretese gettava la discordia nella chiesa, perché aveva assunto la tiara nonostante che la sua elezione fosse avvenuta in contraddizione alle norme della legge del 1059 regolatrice delle elezioni dei pontefici, e perché con la sua vita suscitava grave scandalo.

Avendo però Gregorio VII risposto fulminando di fatto l'anatema contro Enrico, anatema che i principi tedeschi riconobbero perché loro offriva l'occasione di ridurre in propria balìa l'autorità reale, il re fu costretto per il momento a cedere. Mediante una penitenza che egli stesso si impose ed eseguì a Canossa, costrinse il papa a ritirare la scomunica. Ma quando poi Gregorio diede appoggio ai principi ribelli, re Enrico riprese la lotta anche contro il papa. Questi rinnovò la scomunica; ma i fatti dimostrarono che anche in Germania, come già da un pezzo in Italia, si era imparato a vivere ugualmente da scomunicati e con scomunicati.
L'usurpatore Rodolfo di Svevia, eletto re dagli - opportunisti - principi ribelli, cadde in battaglia contro Enrico IV nel 1020. Non è possibile provare che sia vero il racconto ch'egli morendo abbia sollevato con l'altra mano la mano che gli era rimasta troncata nella battaglia ed abbia esclamato, come a volersi punire «Questa é la mano con cui giurai fedeltà al mio re
». Ma questo racconto rispecchia il giudizio del popolo e la tomba di Rodolfo nel duomo di Merseburg é ancora oggidì una testimonianza dolorosa del tradimento con cui alcuni ambiziosi ma inetti principi tedeschi abbandonarono il loro re e con lui l'esistenza stessa dello Stato nazionale tedesco, alle cupidigie di dominio di un prete italiano.

E se diciamo di un prete italiano é perché vogliamo mettere in rilievo che l'antagonismo nazionale contro i tedeschi entrò in questa lotta come un fattore di grande importanza al pari che nelle lotte contro gli Hohenstaufen.

Negli anni successivi re Enrico IV prese il sopravvento. Gregorio fu costretto ad abbandonare Roma e morì nel 1085 a Salerno. Le vittorie dell'imperatore rianimarono in tutti i paesi gli avversari dei disegni di supremazia universale dei papi e loro infusero nuova energia per resistervi.

Ma il grande movimento delle crociate promosso da papa URBANO II (papato 1088-1099) favorì in seguito ancora una volta l'incremento delle tendenze clericali. I preti e monaci fanatici nonché i principi intenzionati a violare il loro giuramento verso lo scomunicato imperatore riuscirono perfino ad armare l'uno dopo l'altro i due figli di Enrico IV contro il padre.

A queste oltraggiose violenze Enrico IV non resse e la morte lo liberò nel 1106 da una posizione pericolosa. Ma i grandi successi che poi ottenne suo figlio ENRICO V (1106-1125) nelle lotte con i principi e con Roma furono possibili soltanto perché Enrico IV aveva combattuto con tanta perseveranza e spesso con fortuna per i diritti dell'impero.

Enrico V tentò di riconquistare alla monarchia l'autorità che aveva perduta col perdere il diritto di investitura alle cariche ecclesiastiche, costringendo papa PASQUALE II (pontificato 1099- 1118) a firmare un trattato (4 febbraio 1111), in forza del quale il re rinunziava al diritto di investitura, ma otteneva in restituzione dalle chiese tedesche tutte le terre e i diritti di sovranità che a loro erano stati conferiti a datare da Carlo Magno.
Siccome i vescovi si rifiutarono di riconoscere questo trattato ed il papa non fu capace di costringerli, l'imperatore reclamò il ripristino del diritto di investitura regia, prese prigioniero il papa recalcitrante e lo obbligò a firmare un nuovo trattato (aprile 1111) col quale riconosceva all'imperatore il diritto di investitura e nel tempo stesso si impegnava a non scomunicarlo.

Ma quando alcuni anni dopo Enrico V, trovandosi in guerra con alcuni principi ribelli, subì una grave sconfitta (al Welfesholze, l'11 febbraio 1115), anche la Germania accolse come legale la scomunica pronunziata contro l'imperatore da un vescovo burgundo con il permesso del papa, il quale ritenne ciò conciliabile col suo giuramento. Ed alla fine Enrico V fu costretto a riconoscere nel concordato di Worms del 23 settembre 1122, concluso in virtù della mediazione tra l'imperatore e la curia da parte dei principi vittoriosi, la libertà di elezione dei vescovi in Germania, Borgogna ed Italia, con la modalità però che queste elezioni dovevano avvenire alla presenza del re o di un suo rappresentante e che in caso di elezioni non concordi egli avrebbe deciso della nomina.
Per la Germania gli spettava inoltre un veto contro l'assunzione ai vescovadi di persone non gradite, essendo stato stabilito che nessun vescovo poteva essere consacrato se prima il re non lo aveva investito delle regalie.

Alla morte (1125) di Enrico V non vi fu unanimità nell'elezione del successore. LOTARIO di Sassonia ottenne con l'appoggio della Chiesa la maggioranza, ma la minoranza si rifiutò di riconoscerlo, giacché allora non esisteva ancora il principio che l'eletto a maggioranza valesse come eletto della totalità. Questi dissidenti elevarono a re CORRADO di Hohenstaufen, il quale non si sottomise che nel 1134, vale a dire dopo quasi dieci anni di resistenza.
Tre anni più tardi morì Lotario e il dissenso si ripeté. Il, genero di Lotario, ENRICO il Superbo, che riuniva nelle sue mani i due ducati di Baviera e di Sassonia ed era il principe di gran lunga più potente dell'impero, aveva ragione di considerarla come logica e naturale la sua elezione, e dello stesso parere sembra fosse la maggioranza dei principi.

Ma come nel 1125, così anche ora la Chiesa lavorò perché fosse eletto l'avversario della famiglia dell'ultimo re, e di fatti ottenne la corona CORRADO di Hohenstaufen, il già competitore di re Lotario. I Guelfi non vollero però riconoscerlo e così si riaccese la guerra civile, la quale cessò anche se solo esteriormente nel 1142 con un trattato e con un imparentamento delle due famiglie, ma lasciò dietro di sé un lungo strascico di attriti. Tutti gli sforzi di Corrado III per ricondurre una pace duratura nel regno e di accrescerne le forze furono in tal modo resi vani. E siccome inoltre in questi decenni il partito clericale si era ingrossato notevolmente, si comprende come né Lotario, né Corrado III abbiano potuto tentare di riconquistare i diritti che Gregorio VII ed i suoi successori avevano sottratti alla corona, sebbene ne porgesse una buona occasione la duplice elezione di papi avversari avvenuta in Roma nel 1130: Innocenzo II (1130-43) ed Anacleto II (1130-1138).

Anzi avvenne di più. Il popolo di Roma insorse e reclamò il reggimento della città a comune, e come era accaduto in molte altre città d'Italia, di Francia e di Germania, il vescovo di Roma non poté sostenersi al governo della città. Papa EUGENIO III (pontificato 1145-1153) fu costretto a fuggire da Roma, dove Arnaldo da Brescia aveva entusiasmato il popolo con le superbe memorie della sua storia, tanto che esso voleva rivendicare al comune di Roma perfino le pretese dei papi alla supremazia universale.

Invano papa Eugenio cercò di ottenere aiuto dal regno di Sicilia. Soltanto l'imperatore Federico domò il moto e restituì al papa la signoria di Roma. Ciò malgrado il fuggitivo papa Eugenio si atteggiò in Germania ed in Francia come un vero e proprio padrone, tanto che suscitò, l'irritazione persino dei principi e dei ministeriali che nella lotta per le investiture avevano preso le parti di Roma contro il loro re.

La situazione divenne molto tesa. I principi avevano sostenuto le pretese di Roma solo per accrescere i propri territorii ed i loro diritti, e non intendevano affatto divenire strumenti e schiavi dei papi. I principi quando andavano a Roma erano malcontenti di esser lasciati a fare lunghe anticamere nelle udienze papali, i ministeriali si lagnavano perché vedevano menomata la loro influenza nelle elezioni dei vescovi ed abati. Ma per il momento dovettero scontare le conseguenze del loro clericalismo. Re Corrado III non era certamente privo di energia, ma le difficoltà con cui si trovava a dover lottare erano troppo grandi, e lo tratteneva in grado non minore l'intimo timore di avversare i tanti uomini di valore che sostenevano essere diritto della chiesa citando documenti che lui non era in grado di verificare ed a teorie la cui falsità egli forse sentiva ma non era capace di dimostrare.

La teoria della supremazia della Chiesa e gli uomini che la sostenevano sotto la guida del papa raggiunsero il massimo grado di influenza quando S. Bernardo riuscì nel 1147 ad indurre Corrado III ad intraprendere una crociata. Si può dire che egli, contro la sua volontà e la sua persuasione, si lasciò trascinare dall'onda di entusiasmo religioso che avevano scatenato i predicatori delle crociate, giacché la Germania dilaniata dalle fazioni aveva urgente necessità della presenza del suo re, tanto che suo fratello , il duca FEDERICO di SVEVIA, il padre di Barbarossa, deplorò amaramente sul letto di morte che Corrado si fosse lasciato trascinare a fare il suo voto.

Le masse presero la croce perché credevano che Dio stesso ve le chiamasse per bocca di S. Bernardo e dei suoi seguaci. E sull'aiuto di Dio esse fidavano. Solo questa convinzione può spiegare che il re si sia deciso alla crociata; e solo così si può spiegare la partecipazione all'impresa anche di tutte quelle persone sensate amiche della pace e della giustizia.
Invece tutto andò all'inverso di ciò che era stato promesso in tono profetico, le masse furono sconfitte, i capi vennero a discordia tra loro, l'esercito crociato invece di essere guidato dal consiglio di Dio sembrò guidato da spiriti maligni. Gli sparuti residui del superstite esercito crociato costituivano degli argomenti impressionanti contro la pretesa del clero di dirigere anche gli affari temporali. Ne seguì un profondo mutamento nell'opinione pubblica delle masse. Esse riacquistarono coscienza del valore dello Stato e dell'autorità regia, e lo stesso re Corrado III in Oriente, in seguito ai contatti con l'impero greco ed ai colpi dell'avversa fortuna, si era liberato dalla devozione sino allora sentita verso i difensori delle pretese clericali.

L'abate Vibaldo di Korvei, che fungeva da cancelliere di re Corrado III e gli doveva gratitudine speciale per le molte prove di favori ricevuti, scrisse in termini addirittura sconvenienti ed indegni al papa per informarlo di questo cambiamento di sentimenti del suo re. La superbia sacerdotale gli fece vedere nel re un semplice laico paragonabilmente inferiore al prete; ciò perché il re non era capace abbastanza di far uso a dovere della sua autorità contro una simile alterigia.

Re Corrado III morì (1152) poco dopo, prima di poter dimostrare se avesse perdurato nella nuova via per cui si era messo e se vi avrebbe raccolto dei successi; ma coll'assunzione al trono (1152) di suo nipote FEDERICO BARBAROSSA (n. 1123 m. 1190), di cui morendo egli stesso aveva raccomandato l'elezione, la lotta tra il papato e l'impero, incominciata con la questione delle investiture, entrò in una nuova fase. Papato ed impero impegnarono questa lotta con armi più coscienti e con più nette teorie sui loro diritti, nonché con forze maggiori e su un teatro di guerra notevolmente più vasto.

L'IMPERO TEDESCO FINO AL 1197
( Da Barbarossa a Enrico VI ) > > >

 

 

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