-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

73. PAPATO E CADUTA DEGLI HOHENSTAUFEN - ROMA E PAPATO

 

Bonifacio VIII
"Sono io il Cesare, sono io l'Imperatore"

La curia apparentemente celebrò piena vittoria quando il 29 ottobre 1268 la testa di Corradino cadde in Campo Morocino (l'attuale piazza del mercato del Carmine) a Napoli, sotto la scure del carnefice di Carlo d'Angiò (ne parleremo più avanti) ; ma la realtà era ben diversa nei riguardi della sicurezza e potenza del papato.
Anzitutto i papi non poterono impedire che allora si sfasciasse l'impero latino in oriente la cui creazione Innocenzo III aveva un tempo vantato come "il trionfo più splendido della vera chiesa". (dopo le belle "prodezze" che fecero i crociati a Costantinopoli).


L'imperatore greco Paleologo, che nel 1261 riconquistò Costantinopoli, si impegnò tuttavia di vivere in buona armonia con Roma e dopo lunghe trattative si adattò a riconoscere nel concilio di Lione del 1274 il primato del seggio apostolico.

Ma questa unione puramente esteriore fra Greci e Latini rimase tale e non partorì effetti di sorta; anzi in complesso l'antagonismo dei Greci verso la cristianità latina si acuì allora invece di attenuarsi.
Un altro esempio della reale impotenza del papato ci é offerto dall'infeudamento di Carlo di Valois, un principe francese quattordicenne, nel regno di Aragona. Papa Martino IV nel 1285 dispose a suo talento di questo regno, come se ne avesse il diritto e se avesse la forza per farlo, ma non ottenne che di coprirsi di ridicolo insieme col principe, giacché non poté fare entrare effettivamente in possesso del regno il suo protetto, il quale si guadagnò semplicemente il soprannome di «re del cappello» perché il papa come simbolo dell'infeudamento gli aveva imposto non una corona ma un cappello.
Anche più manifesta si rivelò, ad onta del suo splendore esteriore e della sua onnipotenza teorica, la relativa debolezza della curia di fronte all'avventuriero ch'essa aveva preso al suo servizio per la lotta contro l'imperatore ed i suoi figli.
Carlo d'Angiò proseguì in sostanza la politica degli Hohenstaufen in Sicilia e nell'Italia meridionale e nei suoi atti che contrastavano agli interessi della curia fu ben lontano dall'esprimere quell'attitudine riguardosa e conciliante che aveva tenuto Federico II finché il contegno di Roma gliene aveva lasciato la possibilità. Quando poi la Sicilia scosse coi Vespri Siciliani (30 marzo 1282) il giogo oppressivo di Carlo d'Angiò, il papa fulminò la scomunica sui ribelli, ma costoro non tennero in nessun conto la sua ira e la vinsero con l'aiuto del re d'Aragona.

Dopo una lotta di venti anni lo stesso altero papa Bonifacio VIII (1295-1303) fu costretto a riconoscere i fatti compiuti in Sicilia e ritenersi fortunato che gli venissero per lo meno fatte alcune apparenti concessioni. La curia in quest'epoca si eresse arbitra in importanti questioni interne del Portogallo, della Norvegia, della Germania, della Francia e dell'Inghilterra, ed abbatté uomini potenti, ma ... ci riuscì solo quando la parte a favore della quale decise era la più forte.


Del resto in Francia, in Inghilterra, nell'Ungheria, e persino nella Germania dilaniata dalle fazioni, la curia, e lo stesso altero e violento papa Bonifacio VIII, incontrò ripetutamente una resistenza che non poté superare.
Ad una conclusione analoga circa le reali condizioni del papato ci conducono i fatti seguenti. Quando Clemente IV, che aveva trionfato su Corradino, morì dopo appena 4 settimane dopo (29 nov.) la sua decapitazione, non si poté per quasi tre anni riuscire in Roma ad eleggere un papa a causa degli inconciliabili antagonismi e soprattutto a causa delle pretese di Carlo d'Angiò.

Ruggero Bacone, il grande filosofo inglese, un francescano che visse immerso nella speculazione ma mantenne pure relazioni con i grandi della terra, non escluso lo stesso papa Clemente IV, scrisse nel 1271 nel suo Compendium philosophiae:
"Alla chiesa viene negato il vicario di Dio. Il mondo così manca della sua guida, e da parecchi anni il sacro seggio rimane vacante, perché l'invidia, la gelosia e l'ambizione spadroneggiano nella curia. I cardinali cercano ciascuno di conquistarselo per sé e per i suoi aderenti, e questa é cosa che sanno tutti coloro che non vogliono disconoscere la verità».

Uguali ostacoli ed interregni si ripeterono poi in occasione delle successive elezioni dei papi. Nei 26 anni circa che trascorsero dalla morte di Clemente IV (fine di novembre del 1268) all'elezione di Celestino V (5 luglio 1294) il seggio pontificio rimase vacante in complesso per quasi sette anni: dopo la morte di Clemente sino al 1° settembre 1271, vale a dire due anni e nove mesi, e dopo la morte di Nicola IV (principio di aprile del 1292) due anni e tre mesi, vale a dire due vacanze della complessiva durata di più che cinque anni; in seguito si ebbero due altre vacanze di sei mesi ciascuna, la prima dal maggio sino al novembre 1277 e la seconda dall'agosto 1280 al febbraio 1281, ed una vacanza di circa undici mesi dalla morte di Onorio IV (3 aprile 1287) sino all'elezione di Nicola IV (22 febbraio 1288). Ed ancora si dovrebbero ricordare due ulteriori vacanze di breve durata.

Nel periodo che va dal IX al XIII secolo Roma era riuscita a far riconoscere teoricamente le sue sempre maggiori pretese alla subordinazione a sé delle chiese di tutti i paesi, al sindacato sulle nomine del loro clero e sulla loro amministrazione, alla sorveglianza sulle loro dottrine e sulla loro disciplina. Il diritto canonico si era venuto costituendo a sistema, ed esso apprestava alla curia un arsenale di armi affilatissime contro ogni opposizione; di più nelle Università e specialmente a Parigi gli argomenti giuridici vennero fusi in tal modo con i dogmi della teologia scolastica che sembrò impossibile osare di contraddirvi. (ci fu più di una volta un grande falò di tutti i libri "peniciosi" che vi giravano e che gli studenti si passavano l'un l'altro).

Ma per l'appunto le esagerazioni della logica scolastica e le impossibilità cui arrivavano con le loro argomentazioni cavillose i giuristi clericali, la contraddizione assoluta tra la realtà e la pretesa divina natura dei papi, provocarono sul passaggio dal XIII al XIV secolo un mutamento di indirizzo nella teoria che culminò poi nel Defensor pacis di Marsilio di Padova e nella letteratura affine circa due decenni dopo la morte di Bonifacio VIII e dominò tutto il successivo periodo conciliare.

Questa corrente di idee ebbe una espressione di colorito tutt'altro che moderno nell'opuscolo scritto da uno dei consiglieri di Filippo il Bello per sostenere il diritto del re di adottare le misure di rigore che aveva adottato contro i Templari. «Il re, come servo di Dio, come campione della fede cattolica, deve vegliare alla difesa della Chiesa, perché ha da renderne conto a Dio. Tuttavia il re non ha, come gli fu consigliato da molte parti, distrutto i Templari trascurando l'autorità spirituale; egli é ricorso al papa, ma invano. Or quando il braccio destro, il potere spirituale, non difende il sacro capo di Cristo, occorre necessariamente che venga in suo aiuto il braccio sinistro, il potere temporale. E se ambedue le braccia mancano al loro dovere, spetta alle altre membra, al popolo, di levarsi a difendere Cristo».

In verità, se in ambienti di così decisiva influenza come quelli delle persone che circondavano re Filippo IV, il domatore della curia, si potevano esprimere apertamente idee simili, bisogna proprio dire che la curia distruggendo l'impero aveva distrutto le basi del proprio predominio.
Queste idee del resto non erano affatto delle novità ovvero utopie di riformatori; erano i vecchi concetti soffocati, ma non spenti dalla teoria di Gregorio VII, e che fino a Gregorio VII erano stati dominanti. Anche il vecchio concetto dell' eguaglianza di tutti i vescovi non si era spento durante il XII e XIII secolo, sebbene sopraffatto dalla teoria della curia romana che gli altri vescovi fossero semplici organi della volontà del papa ed i loro beneficii fossero a discrezione della curia.

Verso la metà del XII secolo esso venne proclamato in forma efficacissima proprio da uno dei più influenti rappresentanti di quelle idee e tendenze mistiche in cui avevano le loro radici le teorie canonistiche che attribuivano al papa un potere quasi divino, da Bernardo di Chiaravalle: «L'apostolo», egli scrisse nei libri de consideratione, dedicato a papa Eugenio III:
«... Lui non poteva darti più di quello che egli stesso aveva, nè egli aveva signoria terrena. Perciò tu non hai potuto ricevere da lui una simile signoria. Se tu vuoi signoria mondana, non puoi avere funzione d'apostolo. Se tu ambisci di averle entrambe, le perderai tutte e due. Ed inoltre tu allora entrerai nel novero di quegli sciagurati per i quali Dio leva il lamento: essi regnarono, ma non per mia volontà (non ex me). Sopra tutto poi ricordati che la santa chiesa romana cui presiedi per volere di Dio è la madre e non la padrona delle altre chiese e che tu non sei il padrone dei vescovi, ma semplicemente uno di essi».

Il mondo si era lasciato sedurre dall'ideale, inebbriante per la sua grandiosità, della intera cristianità unificata sotto un potere spirituale esercitante un'alta sorveglianza su tutti gli Stati; ma ogni giorno ed ogni ora emersero dei fatti che rivelarono l'impossibilità di un simile ordinamento. Il papa non riuscì a vigilare con uguale efficacia e a padroneggiare non dico l'organizzazione politica, ma nemmeno l'organizzazione ecclesiastica degli Stati, sia pure della sola Italia e dei territori più vicini all'Italia.
Certo, egli depose vescovi e concesse abbazie, accordò privilegi ecclesiastici e politici ad ordini monastici, ad università ed a città. Dei re furono costretti a inchinarsi davanti a lui, ed alla sua autorità si piegarono città della potenza di Venezia; ma si trattò sempre di interventi isolati e di successi isolati.

Al tempo di Federico Barbarossa molti vescovi tedeschi resistettero lungamente al papa; lo stesso avvenne nel XIII secolo ed in tutti i paesi. Anche la giurisdizione ecclesiastica, se in molti luoghi guadagnò in estensione e ricevette una migliore organizzazione, in parecchi altri già a quell'epoca subì delle limitazioni. Le controversie in materia di patronato in Austria dal tempo del governo di Ottocaro di Boemia furono nuovamente giudicate assai spesso dai tribunali laici. Re Giacomo II d'Aragona restrinse di proposito i poteri della Chiesa, e la storia di Francia offre non pochi esempi dello stesso genere. Soprattutto poi occorre tener conto della influenza del diritto romano, il cui spirito in grazia del suo studio diffusosi rapidamente nelle università italiane e francesi ed anche in altre scuole più modeste d'altri paesi, si infiltrò nella mente di sempre più vaste sfere di persone influenti, e contrappose alle pretese del diritto canonico un ordinato sistema di concetti propugnanti la sovranità indipendente dello Stato.

Finì pure per tornare a danno della curia l'ingerenza che essa aveva acquistata nella nomina dei vescovi di tutti i paesi. Sotto vari titoli Roma pretese dai vescovi all'atto della loro conferma o della loro nomina somme così rilevanti che i vescovadi si coprirono spesso di debiti, specie quando si verificarono parecchie vacanze successive di titolare a brevi intervalli. Vedemmo già altrove come tutto ciò desse adito a mordaci confronti con le tasse che i vescovi un tempo avevano pagato agli imperatori e che da Roma erano state condannate come atti di simonia, benchè avessero la loro base nel dominio eminente che spettava all'imperatore sui beni ecclesiastici e fossero pienamente conformi ai principii di diritto generalmente ammessi.

Ma queste esazioni papali ebbero anche altre dannose conseguenze. Anzitutto i capitoli si videro spinti ad eleggere vescovi persone più che possibile ricche le quali fossero in grado di soddisfare del proprio la curia. Ed in secondo luogo molti vescovi vennero a trovarsi nella impossibilità di pagare i debiti incontrati per questo motivo, in base spesso a mutui contratti in Roma medesima, dove per effetto dell'affluenza dei capitali alla curia, il commercio bancario già nel XIII secolo si era grandemente sviluppato. Questi casi di insolvenza non erano rari, giacchè i debiti si ingrossavano rapidamente a causa dell'elevato tasso delle usure che raggiungeva e sorpassava il 10 %, mentre le entrate dei vescovadi erano frequentemente divorate dalle guerre e da altre imposte.

Verso il 1244 l'arcivescovo di Colonia venne scomunicato perchè non pagava i suoi debiti verso banchieri romani (Sic !) e così pure per la stessa ragione nel XIII secolo furono scomunicati i vescovi di Utrecht, di Luttich, di Worms e di Regensburg. Assai notevole è inoltre che i principi della chiesa nel fare questi mutui dimenticarono il divieto canonico di esigere o di pagare usure, e consenziente o sciente la curia contrassero anche prestiti ad interesse. Qualche volta i papi o i loro legati, nominati arbitri in contestazioni relative a tali debiti, dichiararono non dovute le usure dandosi l'aria di voler seriamente applicare il divieto delle usure. Ma si trattò di concessioni passeggiere ad un concetto ormai riconosciuto antiquato ed oltrepassato nella vita reale. Del resto gli stessi papi nel XIII secolo cercarono e presero danaro ad interesse. E non pochi banchieri a loro legati lo prestavano (con chissà quale tangente da pagarsi, per avere simile beneficio).

In tutti questi fatti si rivelò la limitatezza del potere eflettivo del papato e la sua
soggezione a valersi dei mezzi e dei procedimenti terreni di cui non possono fare a meno di servirsi tutte le potenze politiche. Ben è vero che nel concilio di Lione (1274) papa Gregorio X apparve quasi come il vero e proprio capo di tutta la cristianità anche in materia temporale: principi ed ambasciatori di principi di tutto il mondo, non escluso l'Oriente, si affollarono attorno al suo trono per chiedere ed accettare le sue decisioni. Così pure sembrò che a lui dovesse riuscire di ripristinare l'unione con i Greci. Ma tutto ciò era semplice apparenza. I suoi successi non furono altro che frutto di circostanze momentanee. Anche allora il papato si trovava nella stessa situazione che venti anni più tardi si vuole sia stata caratterizzata da Bonifacio VIII con le seguenti frasi:
«Quando tra principi e re della terra non vi è discordia il pontefice romano non può essere papa; ma se fra loro vi è discordia, allora egli è papa e ciascuno lo teme per paura dell'altro, ed egli li domina e fa ciò che vuole».

Ma l'errore grande di Bonifacio fu quello di aver inviato a Firenze - fidandosi - il Valois, che invece di sedare i tumulti preferì appoggiare i Neri; ma non per fare un favore al papa ma per cercare di trascinare i Neri - e quindi Firenze e la Toscana - nell'orbita della influenza francese sottraendola al papa.
Filippo il Bello fece di tutto per sovrapporsi a un pontefice che credeva di essere un Cesare e l'Imperatore del mondo. E come tale si comportava.
Ma la sovranità papale come la intendeva Bonifacio non doveva avere limiti, la sua potenza anche, il prestigio pure. Bonifacio le tre cose le consolidò tutte contemporaneamente con un'idea grandissima, nuova nella storia della Chiesa, nuova per Roma, singolare per tutti i cristiani d'Europa. Un'idea che servì a rinvigorire in lui la consapevolezza di avere il primato tra i sovrani della terra.
In quei giorni, un anno intero, scrive il Gregorovius "potè assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina".

Bonifacio VIII (m. 1 ottobre 1303) la cui vita e le cui vicende si prolungano oltre il secolo XIII, ma che appartiene ancora in sostanza al nostro periodo, offre con le sue pretese e con la sua catastrofe la miglior prova della verità di questa descrizione. Egli fece ciò che il suo animo irrequieto lo spinse a fare. Egli non rifuggì neppure dal delitto per vendicarsi dei suoi nemici, anzi non si peritò persino di esprimere apertamente i suoi audaci dubbi circa le dottrine fondamentali della Chiesa quando gli prese l'ambizione di risplendere o di impressionare.
Nell'anno 1300, la sua idea straordinaria fu quella di indire con una bolla del 22 febbraio 1300 il Giubileo. Il primo della storia. Si decretava un indulgenza plenaria per tutti coloro che nell'anno in corso avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma (che fu poi esteso in ogni futuro centesimo anno, in seguito ogni 50 anni, o in anni particolari).

Fu un avvenimento - come riferiscono i cronisti del tempo - che fece affluire a Roma da tutte le parti del mondo centinaia di migliaia di pellegrini (il Villani calcola che superarono di molto i due milioni) incrementando il turismo e in parallelo le finanze pontificie derivanti dalle altrettanto milioni di offerte. Ma ciò che rese al papa questa manifestazione religiosa quanto a prestigio fu enorme, oltre ad ottenere un successo di immagine grandissimo
Quando i pellegrini assistevano alle funzioni religiose dov'era qualche volta presente anche lui Bonifacio, si assisteva a delle scene indescrivibili "giungevano fino al suo trono per gettarsi nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale" (Gregorovius).

Fu un successo di affluenze grandissimo, ma di normali pellegrini, mentre i grandi sovrani a Roma non si fecero vedere, salvo il solito angioino Carlo Martello. A Bonifacio di re e principi importava poco, sotto le insegne imperiali, lui compiacendosi esclamava "Sono io il Cesare, sono io l'Imperatore".


Era una potenza illusoria, un delirio di potenza, perchè appena finito l'Anno Santo, in Francia Filippo il Bello, anche lui superbo e ambizioso, non riconosceva nessuno al di sopra di sè, pure lui nel suo regno si considerava un Cesare un Imperatore. E così entrambi impersonando questi concetti non poterono che finire in aperte ostilità. A cominciare fu però Bonifacio che con una bolla del 4 dicembre 1301 tolse al re francese alcuni privilegi che secondo lui aveva male onorato; seguì il giorno successivo un'altra bolla con la quale convocava a Roma per il novembre del 1302 in un concilio l'episcopato francese e lo stesso Filippo re di Francia, per definire una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa. E concludeva la bolla affermando che "solo il papa è stato posto da Dio; posto al di sopra di qualsiasi sovrano; per cui anche il re di Francia è sottomesso al papa".

Non sappiamo se veramente c'erano scritte queste frasi, quando la bolla fu recapitata da un legato alla corte di Francia, nel leggerla uno zelante cancelliere di Filippo, indignato da ciò che leggeva gli strappò la bolla dalle mani e la buttò fra le fiamme del caminetto. Il legato poi a memoria riportò il contenuto scritto su un banale foglio e non sappiamo se fu lui ad aggiungere quelle frasi oppure erano state veramente vergate e siglate dal papa.

Filippo reagì facendo diffondere il contenuto delle due bolle in Francia e aggiungendo che lui nelle cose temporali non si sentiva secondo a nessuno, e nel contempo invitava a Parigi nell'aprile del 1302 il clero francese agli Stati Generali. Quando si riunirono, i prelati all'unanimità approvarono una lettera da inviare al papa con la quale protestavano per le offese rivolte al re di Francia. Filippo ne approfittò per proibire all'episcopato francese di recarsi a novembre al concilio papale indetto da Bonifacio a Roma.
Il Papa tenne ugualmente il concilio, anche perchè trentanove vescovi francesi non osservando il veto posto da Filippo andarono ugualmente a Roma (al ritorno come punizione trovarono tutti i loro beni fatti confiscare dal re).

Bonifacio al concilio fu ancora più severo contro il re di Francia, e con un'altra bolla emanata nell'assemblea (la "Unam Sanctam") il 18 novembre, ribadì ancora più chiaramente i concetti espressi nella precedente bolla, e aggiunse che la "potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale" e che "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote".
Disapprovava fortemente la condotta dei vescovi francesi per il servilismo verso il sovrano e con la stessa bolla lanciava la "scomunica" contro "quelli" che impediscono ai vescovi l'andata a Roma". Sembrò chiara l'allusione a Filippo.

In Francia conosciuto il tenore di quest'altra bolla ne furono tutti indignati e Filippo a quel punto convocò a Parigi un concilio generale. Si cominciò a parlare di papa illegittimo, di papa eretico, di papa simoniaco, e i Colonna che erano stati scomunicati, privati dei beni, costretti a fuggire, ma erano presenti pure loro a Parigi, all'assemblea lessero il famoso "lungo" memoriale con tutte le note accuse rivolte al pontefice. Si aggiunsero quelle di Nogaret che lo accusava di essere sodomita e di aver prima fatto abdicare e poi ucciso papa Celestino V per poter lui salire e rimanere sul soglio.
Insomma si stava iniziando un vero e proprio pericoloso processo a Bonifacio, e Nogaret ebbe perfino l'incarico dal re di una missione segreta a Roma per arrestare il papa e condurlo in catene a Parigi.

Bonifacio si rese conto che la situazione non volgeva a suo favore, e con una delle solite manovre di retromarcia, inviò in tutta fretta un messo in Francia per fare una precisazione: Filippo era incorso solo indirettamente nella scomunica perchè aveva impedito ai vescovi di recarsi a Roma; poi con una delle solite ambigue trame, si rivolse ai tedeschi, e cercò l'amicizia di Alberto d'Asburgo. Questi da tempo aveva buonissimi rapporti col re di Francia. Lui era sì re di Germania ma nessun papa l'aveva mai incoronato. Bonifacio intrigò per spezzare questa alleanza franco-tedesca; si fece avanti, il 30 aprile lo incoronò re di Germania, si fece promettere solennemente che lo avrebbe difeso contro tutti i nemici, e per tale promessa-impegno gli promise l'incoronazione imperiale e re sovrano di tutti i re della terra. L'altro accettò anche se poi non tenne fede alla promessa.

Intando in Francia un nuova assemblea degli Stati Generali, il re - compatto popolo e clero - decise di convocare un concilio ecumenico, nel mentre si apriva una sorta di istruttoria contro Bonifacio per valutare una vera e propria sua destituzione. Bonifacio riunito ad Anagni respinse tutte le accuse francesi in un suo concistoro, e lo terminava preparando una bolla di scomunica al re che avrebbe reso pubblica l'8 settembre 1303. Ma non fece in tempo, Nogaret in missione a Roma aveva svolto il compito assegnatogli. Preso contatti con gli avversari di Bonifacio, in prima fila i Colonna, aveva organizzato una congiura e organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, che avvenne il 7 settembre con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi. L'unico a non fuggire e a non lasciare Bonifacio il cardinale Niccolò Boccasino.

L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testa!". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto. Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.

Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, l'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.

Gregorovius così commentò quel monumento: " è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo".

Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza. Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.

Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi. Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimonio con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.
Ferreto da Vicenza scrisse invece che "...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, fino a far sanguinare la testa incanutita",
Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "...nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane". Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca" le riportò tutte con una certa acrimonia.

Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "Lo principe de' novi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX, 86-93).

A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V (1305-1314), per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza. L'aveva preceduto sul soglio il breve pontificato l'arrendevole e mite Benedetto XI (1303-1304).
A Clemente V seguì Giovanni XXII (1316-1334).

Sopra abbiamo parlato delle manie di grandezza di Bonifacio, del suo culto della personalità, della magnificenza nei suoi palazzi, del fasto e della pompa (enorme nel giubileo), delle statue disseminate un po' ovunque, della famosa monumentale cappella in S. Pietro che doveva accogliere le sue spoglie.
Ma non ci dobbiamo meravigliare di tutto questo, erano quelli i tempi che per affermare la superiorità sulle genti (e Bonifacio era - a suo modo - effettivamente superiore ai re e principi suoi contemporanei) gli stessi popoli valutavano il potere dalla magnificienza dei palazzi, dalle feste, dal fasto, dalla pompa, cioè dalle apparenze.
Si afferma (come scrive il già citato Gregorovius) che l'ultimo pontefice del Medio Evo fu proprio Bonifacio, e anche se espresse a dismisura la sua alta dignità rendendosi perfino odioso per la sua superbia e boria, fu poi rimpianto perchè come successori seguirono papi che espressero a dismisura la loro debolezza.

Trecento anni dopo - l'11 ottobre 1605 - nel demolire la vecchia basilica, per far posto alla nuova, fu abbattuta anche la monumentale cappella della famiglia Caetani. Nel farlo fu scoperchiato il sepolcro di Bonifacio. La sua salma apparve intatta, nel volto, nelle mani. Nessuna lesione nel cranio smentendo le secolari dicerie. Trasferito nelle grotte vaticane, anche lui cominciò ad essere venerato come un grande papa. Era quello che lui aveva sempre desiderato: la fama postuma di "grande".


Oltre a costruirsi i monumenti, costruì anche i suoi adulatori, che ad ogni uscita, ad ogni celebrazione e soprattutto quandi ci furono al Giubileo le scene di isterismo collettivo, lo chiamavano ad alta voce «è Cristo sceso in terra», «
è Dio degli Dei», ma in fondo Bonifacio era un pover'uomo, senza intima coerenza, senza lealtà, ed incapace di padroneggiare le sue passioni che spesso lo trascinarono a compiere atti con i quali egli disonorò non solo se stesso ma anche la chiesa a capo della quale era riuscito ad elevarsi.

Egli era stato eletto papa in maniera da far dubitare dei suoi sentimenti di rettitudine ed in circostanze atte a scuotere il papato dalle sue fondamenta. Già per questo egli si sentiva poco sicuro sul trono, e per di più la sua anima era assetata di gloria e di fama come l'anima di un condottiero del XIV e XV secolo, alla cui figura, più che a quella del sacerdote, ci richiamano anche altre caratteristiche della sua personalità. In materia di fede e di morale egli professava le idee che erano sostenute specialmente dai seguaci del sistema del filosofo maomettano Averroe (m. nel 1193 al Marocco), allora diffuso anche tra i teologi e filosofi cristiani, che cioè era infondata la credenza nell'immortalità dell'anima, che non vi era paradiso ed inferno all'infuori che su questa terra, e che era un pazzo l'uomo che non assaporasse i godimenti che il mondo offriva ai suoi sensi.

A molti papi sono stati attribuiti dagli avversari senza fondamento i più orribili misfatti, e bisogna guardare tali accuse con molta diffidenza, ma nel caso di Bonifacio VIII le testimonianze sono così numerose e così concordi fra loro che è impossibile negarle completamente. Se anche le frasi che abbiamo sopra riportato non rispecchiano la vera convinzione di Bonifacio VIII, resta sempre che è stata una frivolezza esprimere simili idee. Ad ogni modo il tratto più saliente del suo carattere è appunto la persuasione che ad un papa era lecita ogni più smodata pretesa, era permesso ogni capriccio. «Nessuno può giudicarmi, mentre io giudico tutti, io apro e chiudo a tutti gli uomini, non esclusi i re della terra, le vie del paradiso».

E furono queste idee che lo inebbriarono e lo sviarono. Ma ben presto si vide poi quanto fosse in realtà debole la sua posizione. La poca gente raccolta in Italia da Guglielmo di Nogaret bastò ad abbatterlo. Questo temerario ai servizi del re di Francia, che era altrettanto brutale e privo di riguardi quanto lo stesso Bonifacio, non si lasciò intimorire dalle minacce solenni di anatema e procedè con la violenza contro il papa che opprimeva il mondo con le sue violenze. I fatti col famoso "schiaffo di Anagli" li abbiamo già narrati sopra.

Tutto il mondo vide che il papa non aveva quella potenza che si spacciava di possedere, e negli anni successivi il papato onnipotente che Bonifacio lasciò, divenne un docile strumento asservito alla corona francese. Fu perfino costretto a fargli da sgherro nel processo contro i Templari, fu costretto persino a trattare con Guglielmo di Nogaret, proprio quello che era stato scomunicato perchè aveva osato mettere le mani su Bonifacio, e che dovette prosciogliere forzatamente dalla scomunica.

Seguirono poi i tempi dello scisma, dei grandi concilii e della Riforma.

 


Nell'XI, 'XII e XIII secolo Roma ha esercitato una enorme influenza sulle sorti politiche di tutti i paesi ed in specie ha distrutto l'egemonia dell'impero tedesco e minato dalle fondamenta la monarchia tedesca su cui esso si basava coll'appoggiare ed aiutare i principi ribelli.
Dopo la caduta degli Hohenstaufen l'autorità imperiale divenne sempre più un'ombra di ciò che era stata in antico.

Ma anche le ombre dei grandi fenomeni storici continuano ad essere una forza. Se l'occasione. si presenta, se i tempi lo esigono, esse riprendono corpo. Nel 1870-71 ancora le memorie dell'antico impero tedesco hanno contribuito ad eliminare gli ostacoli che si frapponevano alla formazione dell'impero germanico. Così pure nel 1848 e nel 1813-15; e negli stessi secoli succeduti alla caduta degli Hohenstaufen non mancano fatti e manifestazioni che dimostrano come l'idea dell'impero continuava a vivere nella memoria degli uomini in una forma ideale di grandezza che contrastava alla scarsa potenza ed autorità degli imperatori contemporanei.

Basterà ricordare il poema di Dante ed il suo libro della monarchia, ovvero la scena avvenuta a Coblenza nel 1338, quando il re d'Inghilterra si inginocchiò dinanzi all'imperatore tedesco e lo lasciò arbitro della sua contesa con la Francia, e finalmente le idee dei pubblicisti del tempo dello scisma e la parte rappresentata dall'imperatore Sigismondo nella convocazione e presidenza del concilio di Costanza. In tutti questi fatti il ricordo dell'impero agì come una forza capace di dare nuova vita all'ombra del passato.

Un'altra cosa va tenuta presente per giudicare rettamente della situazione reciproca del papato e dell'impero e della loro influenza sul corso degli eventi. Dopo la caduta degli Hohenstaufen i papi non sono subentrati al posto degli imperatori e gli imperatori non divennero semplici organi della volontà dei papi.
Non si arrivò, neppure in teoria, all'affermazione ed alla creazione di una autorità universale teocratica pari a quella che l'islamismo aveva creato col califfato. L'epoca del dominio politico universale era ormai passata, anche rispetto ai popoli che nel periodo che va da Carlo Maglio agli Hohenstaufen erano stati più o meno strettamente riuniti in seno all'impero. Durante i secoli Occupati dalla lotta tra il papato e l'impero erano venuti germogliando nuovi concetti politici ed erano venute sorgendo nuove potenze politiche tali che impedivano alla possibilità del perpetuarsi, anche semplicemente teorico, dell'ideale di una unità politica di tutta la cristianità sotto una guida comune.

La dignità imperiale restò riconnessa ad una di queste nuove potenze sorta da un gruppo di territori del vecchio impero ed acquistò un nuovo carattere. Essa ci si presenta come un titolo cui andavano congiunti dei diritti d'ordine elevato, cui gli altri Stati, almeno teoricamente o transitoriamente, fecero in certo modo omaggio, e che in Germania talora servirono a far guadagnare ai loro titolari un notevole aumento di potenza.

Si aggiunga che il papa per la natura stessa dei mezzi di cui poteva disporre a sostegno della sua autorità non era in grado di esercitare le funzioni di sovrano politico neppure nei territorii più vicini in cui aveva dominato l'imperatore. Non bisogna lasciarsi trarre in abbaglio dalle numerose contingenze in cui il papa può apparire come il re dei re, il domatore dei potenti, la fonte di ogni diritto e di ogni potere.

Come abbiamo già visto sopra, tutti questi successi del papato furono dovuti alle condizioni interne in cui versavano altri Stati, e non ad una superiorità politica e militare che potesse vantare il papa. Si potranno moltiplicare quanto si vuole gli esempi di questi splendidi successi, ma si avrà sempre lo stesso risultato, ed inoltre si dovrà arrivare all'altra conclusione che il papa in queste lotte politiche fece eccessivo abuso delle armi spirituali, in cui stava la sua forza, e con l'abusarne le spuntò.

Col terrore dell'anatema Gregorio VII disperse i partigiani di Enrico IV, Alessandro III mise in pericolo Federico Barbarossa, Innocenzo III costrinse re Giovanni d'Inghilterra a piegare il ginocchio dinanzi al suo legato e così pure atterri e domò i re di Francia, del Portogallo e della Svezia. Ma questi Principi ed i loro consiglieri nel loro intimo finirono per perdere ogni reverenza verso una autorità spirituale cui erano costretti a cedere solo perchè i loro nemici politici prendevano a pretesto i fulmini ecclesiastici per aizzare contro di loro le masse; ignoranti che seguono irrazionalmente il primo che grida forte, e subito dopo quello che grida ancora più forte.

La noncuranza dell'anatema si diffuse sempre più largamente. Chi aveva visto come i papi avessero scatenato delle rivoluzioni per abolire il diritto di investitura esercitato dagli imperatori con retta coscienza e per il meglio della Chiesa, come avessero precipitato l'Inghilterra in tutti gli orrori della guerra civile e mutato in deserti le fiorenti regioni del mezzogiorno della Francia, e come poi avessero fatto delle stesse grazie divine e delle indulgenze della chiesa un traffico che li aveva esposti allo scherno del mondo intero; chi aveva visto tutto ciò non rimase più sordo all'accusa che si levava da ogni paese che Roma abusava del suo potere spirituale solo per far denaro e solo per acquistarsi beni.

Sempre più risolutamente gli Stati si opposero alle pretese dei papi quanto ledevano i loro interessi, per quanto essi le velassero sotto pretesti spirituali e le appoggiassero con minaccie di pene ecclesiastiche. Gli uomini si abituarono a vivere scomunicati e le città e campagne si assuefecero anche all'interdetto. Vi furono paesi che lo tollerarono per anni, persino per decenni, ed ai laici si associarono anche preti e monaci che ne alleviarono il peso continuando a celebrare le funzioni del culto. La continua coercizione delle coscienze se rese molti assai più liberi pensatori, trasformò però molti altri in indifferenti, in agnostici, o praticanti solo perchè non si poteva evitare la propria presenza nel tempio nella grande città o nella chiesetta del proprio paesello.

Un altro fatto importante da tener presente è poi che il papato, in seguito alla sparizione della sovranità dell'impero sullo Stato della Chiesa, ed in seguito all'acquisto da parte sua dell'alta sovranità feudale sul regno di Sicilia e di vasti possedimenti in Italia che erano appartenuti all'impero, aveva raggiunto fra gli Stati italiani una molta maggiore indipendenza ed era assurto ad una molto più notevole importanza politica.
Ma naturalmente con l'ingrandirsi dello Stato della Chiesa aumentò anche l'influenza che esso esercitò nella politica generale dei papi. Essi videro molto più spesso violato il proprio territorio da qualche lato e furono coinvolti nei conflitti fra altri Stati. Così avvenne che nel corso del XV e XVI secolo i papi finirono per diventare una delle numerose signorie territoriali italiane, la cui potenza, in sè scarsa come forze, era particolarmente accresciuta dalla loro forza e autorità spirituale. Nel XVI e XVII secolo vi sono stati dei papi, come Clemente VII ed Urbano VIII, che per gli interessi del loro dominio temporale e della loro famiglia (per non perdessero proprietà e priovilegi) hanno persino appoggiato i protestanti contro gli imperatori cattolici.

Se pertanto noi paragoniamo i fatti all'ideale del dominio universale che la curia aveva perseguito, dobbiamo concludere che tale fine non venne da essa raggiunto nè teoricamente nè praticamente.
Se invece mettiamo a confronto l'influenza politica esercitata dai papi nel XIII secolo con l'influenza che riuscirono ad esercitare gli imperatori anche nei periodi della loro massima potenza, la prima si manifesta incomparabilmente superiore. I papi nominarono e deposero vescovi, in tutti gli Stati, dal Portogallo alla Norvegia, umiliarono re e li costrinsero a piegarsi ad atti e dichiarazioni contro le quali si erano per lungo tempo ribellati, deposero re e ne fecero eleggere altri, modificarono leggi, confermarono o annullarono trattati.

Essi inoltre conferirono privilegi a città, fondarono università o ne impedirono la fondazione, legittimarono bastardi, e misero imposte ed altre ne vietarono; in breve non vi è campo della vita sociale di qualsiasi paese, che non abbia risentito profondamente l'influenza della volontà di Roma così nelle grandi come nelle piccole cose.
Il rapporto tra l'autorità spirituale ed il potere civile rimase quindi notevolmente invertito. Carlo Magno era stato il sovrano del papa che gli aveva tributato adorazione, l'omaggio bizantino cioè che si avvicinava alla venerazione della divinità. Inoltre nell'età carolingia, sino alla metà del IX secolo, aveva dominato il concetto che l'imperatore non aveva bisogno dell'incoronazione papale, che l'incoronazione non era un atto da cui prendeva origine l'autorità imperiale, ma un semplice riconoscimento ed una proclamazione solenne del diritto già acquistato dal titolare della corona.

Dalla metà del IX secolo poi prevale bensì l'idea che l'incoronazione da parte del papa fosse necessaria, ma i re esercitarono tuttavia i diritti politici inerenti alla dignità imperiale anche senza essere stati incoronati. La dottrina influenzata dal clero e rappresentata da esso medesimo raffigurava da principio le due autorità come pari, ma poi prevalse l'uso di paragonare l'autorità spirituale al sole e l'autorità imperiale alla luna, perchè, si diceva, la seconda derivava la sua forza dalla prima, od anche di servirsi del simbolo delle due spade: la spada spirituale era brandita dal papa manu sua, la spada temporale era invece brandita ai suoi cenni (nutu suo).

Ma queste teorie nè corrisposero alla realtà delle cose, nè furono accettate dagli Stati; anzi gli imperatori ed i re che al pari di loro ne rimasero colpiti, contrapposero ad esse lo spirito ed i concetti del diritto romano. E neppure mancavano passi della bibbia da contrapporre alle argomentazioni della Chiesa.
Per un certo tempo gli imperatori nominarono i papi ovvero esercitarono sulla loro elezione una influenza così profonda da equivalere ad una nomina. I papi non pretesero invece mai di nominare gli imperatori, ma transitoriamente accamparono il diritto di confermarne l'elezione.

Quando morì Riccardo di Cornovaglia (1273) ed Alfonso di Castiglia chiese al papa di riconoscerlo imperatore, benchè avesse scarso seguito in Germania, il re di Francia tentò di arrivare alla corona imperiale con l'aiuto del papa. Ma papa Gregorio IX non si ritenne in diritto di nominare l'imperatore, ed invece ammonì i principi elettori di eleggere entro breve termine un re, perchè altrimenti egli si sarebbe trovato costretto a pensare insieme con i cardinali alla designazione di un capo dell'impero. Per conseguenza egli accampò soltanto una specie di diritto di devoluzione fondato, sulla cura della giustizia e della morale che indubbiamente era inerente alla missione della Chiesa.

Caratteristico è il rapporto fra le due autorità nei riguardi della fondazione di università. Ambedue erano considerate le vere e proprie fonti legittime da cui potevano emanare i grandi privilegi delle università e specialmente quello del ius dottorandi. Tuttavia i re dei maggiori Stati si ritennero assai precocemente in diritto anch'essi di concedere analoghi privilegi. Nella Spagna, in Inghilterra ed in Francia i sovrani, quando non procedettero essi medesimi a fondare università, si rivolsero al papa e mai all'imperatore per l'emanazione dei relativi privilegi; e lo fecero anche perchè occorreva impiegare benefici ecclesiastici per dotare le università.

In Italia ed in Germania si fece appello talora al papa, talora all'imperatore, talvolta anche ad entrambi. Chi aveva un privilegio imperiale cercava volentieri di ottenerne uno anche dal papa e viceversa. Nè si faceva ciò perchè si dubitasse minimamente della facoltà dell'una o dell'altra autorità, ma perchè si sperava di acquistare maggiore autorità coll'accumulare privilegi. Così pure alcuni dottori ritenevano che il solo imperatore avesse il diritto di fondare o legittimare facoltà di diritto romano ovvero università munite del ius dottorandi in diritto romano, altri attribuivano un analogo diritto esclusivo al papa per la teologia, altri infine opinavano che ambedue avessero diritti pari per tutte le facoltà; nel fatto poi li esercitavano entrambi.

Queste questioni tuttavia sono argomento di dispute principalmente nel XIV e XV secolo, ma hanno la loro radice già nel XIII secolo, e dimostrano inoltre come il papato e l'impero avessero conservato integra la loro autorità dopo che la grande lotta era finita.

 

 

I PAPI E LA CITTÀ DI ROMA

La città di Roma ha esercitato una influenza considerevolissima sulle sorti del papato e dell'impero, così presi isolatamente, come considerati nei loro rapporti, e quindi la storia di Roma dal IX al XIII secolo merita una particolare attenzione. Il suo nome associato ad una millenaria tradizione storica e la sua fama furono forse la fonte principale delle tendenze alla organizzazione universale, delle chiese e degli Stati.

Nel tempo stesso però anche in Roma come nelle altre città italiane si produssero quelle cause che fecero sorgere e caratterizzarono il ceto cittadino medioevale, benchè a differenziare la storia di Roma da quella delle altre città abbia influito notevolmente l'orgoglio di dare il pontefice al mondo e di conferire la dignità imperiale. Certo questo orgoglio degenerò spesso in commedia, ma in circostanze favorevoli esercitò profonda influenza. Alla fama della città eterna, alla sua autorità di capitale dell'impero il vescovo e patriarca di Roma andò debitore della sua graduale elevazione al disopra degli altri vescovi e patriarchi.

Vi fu un momento in cui il patriarca di Costantinopoli, della Nuova Roma, minacciò di oscurare l'autorità del vescovo di Roma in grazia dell'ascendente acquistato dalla chiesa della nuova capitale dell'impero. Roma ebbe allora la fortuna di possedere in Gregorio Magno un vescovo dotato di qualità superiori il quale combatté con grande abilità ed energia la pretesa del vescovo di Costantinopoli di essere venerato quale papa universalis.

Ma la vittoria rimase a lui soltanto perchè la città di Roma, anche umiliata come si trovava nel VI secolo al grado di città provinciale, non dimenticò nè la sua antica gloria nè la supremazia sulle altre sedi vescovili acquistata dalla sua chiesa ai giorni dell'impero romano. Roma e l'Italia considerarono non solo allora, ma sempre anche in seguito, il papato come una prerogativa nazionale, come un privilegio degli italiani e specialmente dei romani. Ciò non impedì peraltro che dei 24 papi succedutisi nei cento anni che corrono tra la morte di Gregorio Magno (604) e papa Costantino (708-15), dodici siano stati o Greci o Siriaci o nativi dei paesi dell'Italia meridionale e della Sicilia strettamente dipendenti da Bisanzio.

Solo con l'aiuto prima dei Longobardi e poi dei Franchi i vescovi di Roma poterono rendersi più indipendenti di fatto da Bisanzio, sinchè poi con l'incoronazione di Carlo Magno ad imperatore la città di Roma ed il suo vescovo si emancipò anche legalmente dall'impero greco. Il vescovo di Roma era in realtà anche il capo politico della città; ciò trovava riscontro in quanto era avvenuto nella maggior parte delle città dell'impero romano sedi di vescovadi; anche qui infatti con la caduta del governo laico buona parte dei poteri pubblici si era concentrata nelle mani dei vescovi.

Data questa situazione politica del papato, le fazioni in cui si divideva la nobiltà romana, se una influenza estranea non si imponeva, erano di solito a lottare per elevare uno dei loro all'alta carica. I re tedeschi misero un po' più d'ordine nelle elezioni dei papi e nel governo di Roma, ma all'inizio del X secolo il seggio vescovile romano, che durante l'VIII ed il IX secolo era salito ad un grado d'autorità sino allora sconosciuto, divenne nuovamente preda delle lotte di parte e finalmente rimase infeudato ad una famiglia strapotente.

Gli Ottoni liberarono il papato da questo servaggio, ma non per molto tempo, ed Enrico III nell'XI secolo fu costretto a rinnovare l'opera iniziata da Ottone I. Verso quest'epoca la borghesia cittadina incominciò a Roma ad acquistare per la sua ricchezza e per la sua organizzazione la stessa preponderanza che aveva raggiunta negli altri comuni italiani ed a scalzare l'influenza sino allora prevalente della nobiltà.
Coscienti della loro forza i popolani giustificarono le loro pretese richiamandosi alla potenza dell'antica Roma di cui si considerarono eredi. Le pretese dei papi alla supremazia universale apparvero ad essi una semplice emanazione secondaria del diritto della città di Roma, ed in ispecie anche il diritto di incoronare l'imperatore fu dalla città concepito come un diritto di eleggere l'imperatore.

In Arnaldo da Brescia queste idee trovarono un rappresentante, il quale nel tempo stesso era convinto che la chiesa ed il clero dovevano essere liberati dagli oneri e dalle tentazioni inseparabili dalle ricchezze mondane e dal potere temporale. Arnaldo da Brescia era uno scolaro di Abelardo, dell'acuto dialettico, che fu uno dei principi e fondatori della teologia scolastica, ma che era dotato di uno spirito scientifico ben più vasto. Nello stigmatizzare la corruzione della chiesa e nello zelo di riformarla, Arnaldo da Brescia si assomigliava a Bernardo di Chiaravalle, ma era di idee più spinte; in lui vi era già qualche cosa che preludia l'azione degli ordini dei mendicanti.

Bernardo era un sant'uomo dello stampo medioevale, ma non tollerava volentieri di essere contraddetto, e ben presto egli non vide nello splendido talento di Arnaldo se non la parte che non gli garbava. Arnaldo era invece uno spirito troppo indipendente per adattarsi alla parte di semplice ausiliario e di strumento docile degli altrui voleri, e quindi si tirò addosso l'odio del monaco intransigente che gli aizzò alle calcagna uno dopo l'altro i grandi della terra.

Con la esuberante retorica tutta propria di questi servi di Dio che predicavano l'umiltà ma non sapevano sottrarsi alla vanità, egli chiamò il suo avversario «un nemico della croce di Cristo che nella vita è temperante e digiuna ma cena col demonio ed è assetato del sangue delle anime ».
Arnaldo non era sicuramente meno sincero di Bernardo nel suo zelo e fors'anche non era meno di lui schiavo di preconcetti ed unilaterale di vedute, ma lo era in altra modo. Egli trovò molto seguito, anche fra i potenti. Un cardinale gli offrì protezione allorchè il suo nemico lo fece scacciare dalla Francia e poi dalla Svizzera dove aveva trovato asilo presso il vescovo di Costanza. I suoi scritti erano stati messi all'indice e bruciati pubblicamente a Parigi, ma lo stesso era avvenuto a quell'epoca a molti dotti che nondimeno avevano trovato facilmente il modo di riconciliarsi con la chiesa, e lo trovò anche Arnaldo.

Ma quando credette di aver trovato nelle aspirazioni del popolo romano alla guida comunale il mezzo di realizzare il suo ideale della santa chiesa, libera da ogni catena mondana, allora egli ebbe giorni di trionfo che ricordano i trionfi futuri di Cola di Rienzi e più tardi sotto un altro aspetto richiamano la figura del Savonarola.

Egli si pose alla testa del popolo e lo esortò a riprendere in sua mano quel potere che Dio aveva dato alla eterna città e che le era stato sottratto dai preti. La sua ardente eloquenza trascinò all'entusiasmo il popolo, dinanzi al quale il papa fu costretto a fuggire da Roma. Egli fece lega con le grandi casate nobili che il sorgere del comune aveva fatto decadere dall'antica potenza; ma la città gli rispose prendendo una attitudine più risoluta di sfida. Essa invitò re Corrado III a venire in Italia, ed unirsi con essa per restaurare quella signoria del mondo che avevano esercitato Costantino e Giustiniano.
Lo spirito del diritto romano rievocato a nuova vita nelle già sorgenti scuole di diritto, la baldanza di un comune ambizioso che, si credeva chiamato ad alti destini, l'irritazione contro il despotismo e la cupidigia dei preti e dei monaci e contro la loro corruzione di costumi: tutto ciò concorse a produrre una enorme tensione che si risolse in potenti esplosioni. Il papa ed i suoi alleati non riuscirono a sottomettere Roma.

Eugenio III errò per molti anni (1145-53) in terra straniera. Ma gli imperatori della casa di Hohenstaufen, così Corrado III come Barbarossa, non seppero decidersi ad abbandonare le vecchie forme del governo imperiale, a gettar da una parte l'antica autorità dei papi, ed a far lega col turbolento quanto pretenzioso comune di Roma. Corrado lasciò che le cose andassero per la loro china, promise bensì di venire in aiuto del papa, ma ne fu impedito dalla crociata e dalle condizioni interne della Germania.

Quando poi Barbarossa nel 1155 venne per la prima volta a Roma consegnò al papa Adriano IV Arnaldo da Brescia che da una controrivoluzione popolare era stato costretto a fuggire da Roma ed era caduto nelle mani dell'imperatore. Il papa lo fece impiccare, fece ardere sul rogo il suo cadavere e disperderne le ceneri nel Tevere.
Mentre Federico I era in marcia verso Roma si erano recati ad incontrarlo amba
sciatori del Senato romano che gli avevano con gran pompa di eloquenza parlato dei titoli di Roma al dominio universale, dei diritti della città e del dovere del re di preservarla dalla furia dei barbari, vale a dire dell'esercito tedesco. Federico li trattò alteramente e li rimandò indietro, occupò la chiesa di S. Pietro e le sue adiacenze, vi si fece incoronare e domò con mano ferrea una insurrezione dei Romani.

In grazia delle rigide misure adottate da Federico e dopo la consegna di Arnaldo da Brescia la posizione di papa Adriano in Roma si venne a trovare notevolmente rafforzata. Adriano ricompensò l'imperatore concludendo un trattato con il regno normanno ma poi gli inviò ai vescovi e ai principi riuniti alla alla dieta di Besancon la nota lettera in cui lo trattava come un suo servitore e la corona imperiale come un feudo della Chiesa.
Questa lettera e le audaci parole del cardinale che la consegnò ("da chi dunque, egli disse, l'imperatore aveva ricevuto l'impero se non dal papa ?") rivelarono senza alcun dubbio con quale spirito i papi intendevano ora condurre la lotta contro l'imperatore, dopo aver per opera sua rimesso piede a Roma.

Ma sicura del tutto la signoria dei papi sulla città di Roma non poteva dirsi affatto. Se non che nei più importanti periodi della lunga lotta contro gli Hohenstaufen i papi si atteggiarono ad alleati dei comuni italiani, e Roma seppe apprezzare la gloria che le procurava il dominio universale dei papi e le grandi ricchezze che esso faceva affluire da ogni parte in città. La guida del comune era sorto in opposizione ai papi, ma sotto Innocenzo III il governo cittadino si innestò e si subordinò al governo papale. L'autorità imperiale su Roma, che ancora sotto Enrico VI aveva manifestato una certa energia, scomparve completamente dopo la sua morte.
Il prefetto imperiale divenne un vassallo del papa, e ovviamente Innocenzo III riuscì a ridurre alla condizione di suo vassallo il senatore, il rappresentante e il capo del comune. Anche lo Stato della Chiesa si sottomise ad Innocenzo III; uno dopo l'altro i dinasti fecero atto di omaggio al papa. Persino città come Perugia gli si sottomisero e Viterbo fu vinta e soggiogata da Roma. Tra questi comuni dello Stato della Chiesa regnarono rivalità analoghe a quelle delle città lombarde e le lotte fra di loro si svolsero con la stessa furia spietata.

Neppure la dominazione organizzata da Innocenzo III su Roma durò a lungo, e nel 1203 egli stesso dovette cercare rifugio fuori città. Solo dopo un anno circa, nel marzo 1204, osò ritornarvi e soltanto dopo nuove lotte, riuscì nel 1205 a riportare una certa pace ma anche ad assumere su di sé la nomina del capo del comune, che portava il titolo di senatore o di podestà.

Tuttavia la tranquillità non durò molto. Anche papa Gregorio IX (1227-41), così altezzoso verso l'imperatore, dovette fuggire da Roma; ma Federico II sconfisse poi i Romani e restituì il papa nel suo seggio (1234). Immediatamente Gregorio IX lo ricompensò di averlo salvato, assumendo un atteggiamento colmo di tutta la superbia sacerdotale e dichiarandogli che l'imperatore Costantino, con l'assenso del Senato e del popolo della città di Roma e di tutto l'impero romano aveva decretato che al rappresentante dei principe degli apostoli, cui spettava nell'impero la supremazia sul sacerdozio e su tutte le anime, dovesse avere anche la signoria su tutte le cose terrene e sui corpi.
«Il capo dei re e dei principi si piega fino ai piedi dei sacerdoti, e gli imperatori cristiani debbono sottoporre le loro azioni al controllo non solo del papa romano, ma anche di altri ecclesiastici».

È notevole qui non soltanto la forma brutale con cui l'uomo poco prima salvato metteva il piede sul collo al suo salvatore, ma anche il richiamo in appoggio delle pretese ch'egli elevava a quella falsificazione che va sotto il nome di Constitutum Constantini, e l'affermazione che Costantino avesse emanato questa costituzione "col consenso del senato e del popolo della città di Roma e di tutto l'impero romano".
La pretesa costituzione di Costantino reca realmente quest'ultime parole, ma si tratta di una formula vuota d'ogni serio valore. Insistendo su tale circostanza il papa faceva una concessione allo spirito dei tempi, al sentimento o piuttosto alla convinzione dominante nei Romani che la loro città fosse la originaria titolare della supremazia universale reclamata dai papi.

Anche Federico II riconobbe talora formalmente siffatta pretesa della città di Roma, né in ciò si deve vedere una semplice adulazione intesa ad accattivarsi l'animo dei Romani, ma l'espressione di un concetto di diritto pubblico che allora era generalmente accettato. Persino in una lettera diretta al papa Federico II nel 1236 si valse dell 'argomento che l'imperatore derivava la sua potestà dal popolo romano che gliela aveva trasferita con la lex regia. Ed ancora in altre circostanze di rilievo Federico II trattò la cittadinanza romana come la fonte di quella sovranità che era stata creata dal popolo di Romolo.

Innocenzo IV rimase per molti anni lontano da Roma sordo agli inviti della città. La costituzione autonoma del comune di Roma subì allora una trasformazione pari a quella che si era già da un pezzo verificata in molti comuni italiani; essa nel 1252 chiamò a reggerla in qualità di podestà un cittadino di un'altra città, con poteri ampi ma limitati nel tempo.
Il nuovo capo del comune ebbe il titolo di senatore e l'istituzione funzionò dal 1252 al 1255. In questo tempo la città visse di fatto indipendente così dall'imperatore come dal papa; ma seguì presto un periodo di discordie partigiane interne. Una fazione elesse nel 1261 a senatore il re Riccardo di Cornovaglia, la fazione avversaria il re Manfredi. Terzo tra i due contendenti si intromise come aspirante alla stessa carica Carlo d'Angiò e nel 1163 ottenne di esservi nominato a vita. Questa nomina mise papa Urbano IV in estrema inquietudine, ma egli non osò ostacolarla apertamente.

Le accennate scissioni interne riuscirono dannose alla città, ma la sua indipendenza dal papa divenne tuttavia sempre maggiore di fatto e di diritto. Durante tutto il suo pontificato (1261-64) papa Urbano IV non pose mai piede in Roma, ed il suo successore Clemente IV (1265-68) francese come il predecessore, non fu eletto a Roma ma a Perugia.
Carlo d'Angiò depose la carica di senatore per tranquillizzare il papa, ma non per questo Clemente rientrò in possesso di Roma.

Nel 1267 venne eletto senatore il principe spagnolo don Arrigo, figlio del re di Castiglia, il quale fece di Roma una alleata di Corradino. Papa Clemente scomunicò il senatore di Roma e minacciò di fulminare l'interdetto sulla città.
Invano; Corradino ebbe splendida accoglienza in Roma, ma purtroppo dopo la disfatta di Tagliacozzo vi ritornò, senza potervisi sostenere. Anzi fu anche tradito e finì decapitato a Napoli.

Corrado V (detto Corradino) di Svevia (Landshut, 1252 -Napoli, 1268). Figlio di Corrado IV re di Germania e di Sicilia. Mentre in Germania divampavano le lotte di successione, accettò nel 1267 l'invito dei Ghibellini italiani a rivendicare il regno di Sicilia, dato dal papa a Carlo d'Angiò e da questo conquistato l'anno prima. Venuto in Italia col cugino Federico d'Austria e con poche forze, che sperava crescessero con gli aiuti italiani, passò per Verona, Pavia, Pisa e Siena, entrò in Roma nel luglio 1268 (donde il papa Clemente IV, dopo averlo scomunicato si era allontanato), incontrando da ogni parte larghe simpatie per la sua giovinezza, il suo coraggio, il suo spirito cavalleresco e gentile. In Abruzzo, presso Tagliacozzo, si scontrò con l'esercito di Carlo d'Angiò e fu vinto grazie ad un'insidia (1268). Ripiegò allora su Roma; ma essendo la città tornata in mano ai Guelfi, cercò rifugio presso un Frangipane, che credeva amico, nel castello di Astura. L'ospite lo tradì e lo consegnò a Carlo d'Angiò che, tradottolo a Napoli, lo fece decapitare, insieme con Federico, sulla piazza del Mercato. La tragica fine dell'ultimo degli Svevi commosse tutta l'Europa, e in particolare la Sicilia, che qualche anno dopo si ribellò a Carlo d'Angiò dando inizio alla guerra detta dei Vespri Sicilani, contro la dominazione francese.

I Romani a questo punto, sempre pronti a cambiare il cavallo vincitore, rielessero senatore Carlo d'Angiò che governò poi Roma per 10 anni (1268-78) per mezzo di proprii vicarii, funzionari che egli vi mandava nominandoli a tempo indeterminato. Si potrebbe paragonarli ai missi dominici del vecchio ordinamento franco, ma meglio ascoltare coloro che in questo vicariato riconoscono una delle forme dalle quali si è svolta la burocrazia moderna.
Nel frattempo il potere dei papi su Roma potè dirsi quasi sparito e Viterbo fu la sede normale della Curia. Qui morì papa Clemente IV, qui i cardinali dopo la sua morte rimasero adunati per tre anni senza riuscire ad accordarsi se eleggere un italiano ovvero, come reclamava Carlo d'Angiò, un francese.

A Viterbo si recò all'inizio nel 1272 anche il nuovo futuro papa Gregorio X e di là poi si mosse per fare insieme con i cardinali e con tutto l'apparato della sua corte il suo ingresso in Roma. Dopo esservi rimasto un anno, si recò passando per Firenze e Milano a Lione, facendo un lento viaggio, durante il quale ebbe parecchie occasioni di sperimentare assai sensibilmente quanto fosse povera di contenuto la sua autorità universale apparentemente così grande.

A Lione tenne dal 7 maggio al 17 luglio 1274 il famoso concilio, nel quale insieme ad altre importanti questioni venne anche regolata meglio l'elezione dei papi, emanando norme dirette specialmente ad impedire che si ripetessero le lentezze ed i ritardi verificatisi nell'ultima elezione. In virtù di esse i cardinali si dovevano d'ora in poi adunare nel palazzo del papa defunto, abitare tutti insieme in una camera, le cui uscite avrebbero dovuto essere murate, salvo una finestra dalla quale si sarebbe portato loro il cibo. L'elezione doveva compiersi entro tre giorni. In caso contrario nei cinque giorni successivi i cardinali non avrebbero avuto che un solo piatto così a desinare come a cena. Se anche durante questi cinque giorni essi non riuscivano a mettersi d'accordo, non si doveva in seguito dar loro che pane, acqua e vino. La scomunica era minacciata contro i cardinali che cercassero di mettersi in corrispondenza con l'esterno e contro gli intermediarii di queste relazioni.

Queste norme sono rimaste in vigore con poche modifiche fino ai tempi nostri; ma quante elezioni, ad onta di esse, sono state il risultato di corruzioni, dell'inganno e della violenza; quanto amara è l'ironia che spira da tali disposizioni meschine, dettate dalla preoccupazione e dal timore, se si pensa che la chiesa aveva sempre energicamente proclamato che l'elezione dei papi avveniva per ispirazione dello Spirito Santo!
Ma dunque lo Spirito Santo è corruttibile? Lo si può costringere a decidersi con la fame e con la noia di rimanere a lungo rinchiuso nell'oscurità d'una carnera? Queste sono le domande che si sono rivolti parecchi che si sono occupati di queste cose. Il riso di fronte ad esse sale alle labbra, anche le più riservate. La clausura murata dei cardinali fu la confessione ufficialmente fatta dalla Chiesa che l'elezione dei papi era una lotta di partiti ed un tessuto di intrighi; del resto la clausura l'ha ben poco guarita da questo male.

Riguardo a molte elezioni posteriori sono giunte sino a noi notizie di traffici, pressioni ed intrighi di vario genere. In occasione della stessa elezione di Adriano V, avvenuta sei mesi dopo la morte di Gregorio (nel luglio del 1276) sorsero proteste perchè Carlo d'Angiò ai cardinali indipendenti che ricalcitravano ai suoi voleri aveva fatto somministrare dopo otto giorni pane e vino soltanto, mentre aveva fornito segretamente un vitto migliore ai cardinali partigiani dell'elezione di un francese.

Nel tornare da Lione a Roma papa Gregorio X fu costretto dallo straripamento dell'Arno ad entrare in Firenze, ch'egli aveva colpito di interdetto e sul cui trerritorio quindi egli stesso non avrebbe dovuto metter piede. Ma non vi erano altri ponti ed altre vie libere se non quelle, colpite da interdetto, della città. Allora il papa tolse l'interdetto, passò benedicendo per la città, e poi la scomunicò nuovamente appena uscito dalle sue porte. Il vecchio dio del fiume aveva per un momento protetto la sua città contro le misure del sacerdote del nuovo Dio; ma questi con la stessa disinvoltura del vecchio paganesimo aveva scagliato su di essa nuovamente i suoi strali.

Questo avveniva il 18 dicembre 1275; poco dopo papa Gregorio X si ammalò ed il 10 gennaio 1276 morì, senza aver raggiunto Roma.
A Roma del resto Carlo d'Angiò spadroneggiava in modo assoluto e voleva fare del papato uno strumento della sua politica. Perciò papa Giovanni XXI, che fu eletto contro la sua volontà, prese nuovamente stanza a Viterbo. E la curia rimase a Viterbo anche durante la lunga sedis vacanza che segui alla morte di Giovanni. Il successore di quest'ultimo, Nicola III (dalla fine del 1277 al 1280), un romano appartenente alla famiglia degli Orsini, osò ritornare a Roma, e costrinse persino Carlo d'Angiò a rinunziare alla dignità di senatore.
I romani concessero al papa la facoltà di nominare un senatore, ed egli designò allora alla carica suo fratello. Se il papa riuscì a conseguire tali successi fu perchè trovò appoggio contro Carlo d'Angiò in Rodolfo d'Absburgo. E siccome Rodolfo aveva bisogno della corona imperiale per portare a compimento quel piano in virtù del quale aveva consolidato la posizione sua e quella della sua casa, procacciando contemporaneamente all'impero che minacciava sfasciarsi un nuovo centro di collegamento, così egli rinunziò pure in forma solenne a favore di Roma, ai diritti dell'impero sulla Romagna, col consenso espresso, consacrato in appositi atti scritti, dei principi elettori e di molti altri principi.

In tal modo il papa ampliò gli Stati della chiesa con l'acquisto della Romagna; egli dominava poi, per lo meno indirettamente, in Toscana, e seppe obbligarsi Milano, Verona ed altre città, nonché dinasti, dell'alta Italia prosciogliendoli dalla scomunica in cui erano incorsi per aver preso le parti di Corradino e che avevano sopportata per 10 anni.
In seguito il papa riuscì ancora ad indurre ad un accomodamento Rodolfo d'Absburgo e Carlo d'Angiò, anzi si dice che egli abbia progettato d'accordo con Rodolfo una divisione dell'impero. La Germania avrebbe dovuto divenire regno ereditario nella casa d'Absburgo. Il regno Arelatense insieme con la mano di una figlia di Rodolfo sarebbe andato a Carlo Martello, un nipote di Carlo d'Angiò; della Lombardia e della Toscana si sarebbero formati due regni.

Probabilmente con quest'ultimo patto papa Nicola andava a caccia di corone da distribuire a membri della propria famiglia, tanto più che egli aveva già dato prove di saper sfruttare il pontificato per arricchire ed elevare di grado la sua famiglia. Ma mentre ancora duravano le trattative egli morì nel 1280. Il suo successore Martino IV (1281-85) era un francese. Egli non potè sostenersi in Roma. Pur essendo riuscito da principio ad ottenere la dignità ed i poteri di senatore, che anche Nicola III aveva esercitati, si trovò presto costretto a rimetterli nelle mani di re Carlo, che dopo ciò governò da padrone nello Stato della Chiesa allo stesso modo che a Napoli.

Ma quando i Siciliani il 30 marzo 1282 a Palermo e poi in tutta l'isola fecero strage dei francesi e non si lasciarono atterrire nè dalle truppe del re nè dall'anatema del papa, gli antichi partigiani dell'impero si levarono anche nello Stato della Chiesa e nella stessa Roma e scossero il giogo francese con l'aiuto di tutti gli altri elementi cui tornava a vantaggio la sua caduta.

Martino IV dovette piegarsi alla volontà dei Romani, che deposero Carlo d'Angiò, si nominarono altri magistrati supremi e riformarono la costituzione. cittadina.
Non erano ancor trascorsi vent'anni da che Corradino era stato decapitato a Napoli, e Carlo d'Angiò moriva il 7 gennaio 1285 lasciando il suo regno, edificato con tanto sangue ed accompagnato da tante benedizioni della Chiesa in parte già distrutto, in parte scosso dalle fondamenta.
Alla fine di marzo dello stesso anno morì anche papa Martino IV. Il dominio dei papi su Roma, sullo Stato della Chiesa, sulla Romagna ed indirettamente su Napoli e Sicilia e sulla Toscana, che sotto Nicola III aveva acquistato apparentemente una sicura e solida base, era anch'esso andato in frantumi. Si era rivelato ancora una volta che questo dominio non poteva reggersi se non quando i papi riuscivano a trovare appoggio in un'altra autorità estranea.

Furono questi tempi ed i decenni seguenti quelli nei quali il futuro papa Bonifacio VIII ebbe campo di convincersi per esperienza che il papa non poteva essere papa se non quando i principi erano in lotta fra di loro. Questo motto di Bonifacio VIII equivaleva a dire che l'ambita supremazia universale del papato era un assurdo, qualche cosa che non si poteva nè raggiungere nè mantenere nelle condizioni normali cui deve aspirare in prima linea ogni Stato, quella di vivere in pace con gli altri Stati.

E si badi che questi erano gli anni immediatamente successivi alla vittoria del papato sull'impero. Dato il punto di vista di Bonifacio, la politica estera della Santa Sede doveva necessariamente mirare a metter gli uni contro gli altri. Se i papi hanno così vergognosamente fatto abuso dei diritti che il sentimento religioso dei popoli aveva loro riconosciuti, se hanno scandalosamente sfruttato le sacre istituzioni della Chiesa, come ad es. fecero Gregorio IX ed Innocenzo IV in odio all'imperatore Federico II in occasione della crociata del 1228-29 ed al concilio di Lione del 1245, se i cristiani ebbero con tristezza a vedere che nel 1229 lo stesso papa tentò di colpire alle spalle il re crociato mentre era lontano e che 10 anni più tardi gli impedì di accorrere a salvare l'esercito pericolante di S. Luigi; in tutto ciò, ed in altro ancora non si deve vedere un effetto della malignità personale di questo o quel papa, ma una conseguenza imposta dalla forza stessa delle cose, dal momento che i papi volevano perseguire l'ambizioso sogno d'un dominio universale, volevano realizzare ad ogni costo quel sogno che aveva illuso tanti monaci nelle loro estasi e delle tempere di dominatori nati, come Gregorio VII, nell'ebbrezza dei loro trionfi.

E non meno illuso ne fu Bonifacio VIII, col cui papato soltanto (1294-1303) può dirsi chiuso questo periodo della storia dei papi. La sua bolla Unam sanctam ecclesiam e le altre di intonazione, analoga sono da molti considerate come prova della sconfinata potenza della curia in quei tempi; ma il corso ulteriore degli avvenimenti dimostra che Bonifacio VIII non possedeva realmente questo potere, era invece un semplice pretendente.

Bastò infatti un pugno di uomini risoluti ad abbatterlo completamente. E le conseguenze funeste del concetto che prima missione della chiesa di Cristo e quindi anche primo dovere dei fedeli fosse quello di governare le cose terrene con principii e dommi cristiani e perciò di subire che gli Stati si subordinassero all'alta sorveglianza ed al controllo del sommo sacerdote; queste funeste conseguenze non si manifestarono soltanto nella politica estera dei papi.

È questa infatti la fonte di quei continui abusi del potere ecclesiastico in materia di elezioni controverse, di giuramenti e nelle decisioni di tutte le mille altre liti portate da persone singole e da corporazioni dinanzi al tribunale di Roma. Del pari il proverbio che a Roma tutto si poteva comprare è piuttosto una prova dell'assurdità di un governo come quello esercitato dalla Chiesa che non della corruttibilità delle persone.

Certo la frode e la corruzione erano all'ordine del giorno ed i preti ed impiegati della curia che si lasciavano corrompere in tal modo, commettevano abusi delittuosi; ma anche i migliori alla lunga si sarebbero guastati, giacchè era affatto impossibile che a Roma si facessero un giudizio coscienzioso sia pure di una piccola parte di tutti gli interessi in contesa che vi si presentavano per essere giudicati, o che il papa potesse realmente essere responsabile di tutta la massa di decisioni che venivano emanate in suo nome per lo più da organi inferiori ovvero da questi venivano istruite e preparate.

Si sapeva bene che a Roma era necessario distribuire denaro non in un luogo soltanto.

Passiamo ora a un altro importante capitolo
a quello delle Crociate.
Le grandiose manifestazioni del sentimento cristiano

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