-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

82. GLI ABSBURGO - GENESI DI UNA DINASTIA

Rodolfo d'Absburgo, allorchè assunse la corona tedesca, era già in età avanzata; egli aveva dietro di sè una lunga vita in cui aveva dato prova di operosità metodica diretta a raggiungere aspirazioni che non andavano mai al di là di quanto era volta a volta praticamente conseguibile. Ed anche da re si mostrò alieno dal perseguire smaglianti utopie. Ciò peraltro non significa che egli abbia rinunziato per massima all'idea di restaurare l'impero, anzi considerò sottintesa la sua missione di perpetuare la tradizione dell'impero e si propose di recarsi ben presto a Roma per cingere la corona imperiale. Salvo che dovette accettare quale ormai era la situazione poco favorevole alla dominazione tedesca che si era venuta formando in Italia fin dai tempi di Federico II e trarne le conseguenze, facendo annunziare a papa Gregorio X (1271-1276) in forma devota l'avvenuta sua elezione e chiedendogli che lo riconoscesse re e futuro imperatore.

Nel corso delle trattative Rodolfo riconobbe la sovranità del papa sul patrimonio di S. Pietro, confermò i privilegi che i suoi predecessori, ultimi Ottone IV e Federico II, avevano concessi alla Santa Sede, rinunziò ad esercitare ogni diritto nel territorio pontificio e finalmente rinunziò ad ogni pretesa sul regno di Sicilia, promettendo anzi di vivere in buona amicizia con Carlo d'Angiò, amicizia che fu rinsaldata mediante un imparentamento.


In compenso Rodolfo ottenne il riconoscimento da parte del papa, il quale convinse poi Alfonso di Castiglia a rinunziare formalmente a tutti i diritti derivantigli dall'elezione del 1257; per di più Gregorio sollecitò egli stesso la venuta a Roma di Rodolfo, nel quale sperava di trovare appoggio contro la potenza dei re di Francia e di Napoli strettamente collegati, e gli fissò un breve termine per l'incoronazione ad imperatore.

Ma questa andò a monte, perché papa Gregorio X morì prematuramente (1276), seguirono l'elezioni di altri tre papi, tutti deceduti nell'arco di poco più di un anno (Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI) il re potè riprendere le trattative solo con papa Nicola III (1277-1280) , promettendo in aggiunta alle concessioni già fatte a cedere formalmente la Romagna, pretesa da tempo dalla Santa Sede, ma pur campando tre anni, le sue aspettative rimasero nuovamente frustrate per la morte anche di questo pontefice.

Al re del resto suo primo pensiero, e giustamente, a cuore era quello di restaurare l'ordine in Germania.
Il massimo successo, per quanto di non diretta importanza per il regno tedesco, ottenuto da Rodolfo, fu l'acquisto dell'Austria alla sua famiglia. Esso fu il risultato degli attriti scoppiati fra il re ed il suo più potente vassallo, Ottocaro di Boemia.

Quest'ultimo, che aveva sprezzante rifiutato di partecipare all'elezione, non volle ovviamente in seguito riconoscere Rodolfo: un «miserabile conte», egli diceva, non avrebbe dovuto essere eletto.
L'argomento non reggeva, perché nessuna legge limitava l'eleggibilità alle persone di rango principesco. Rodolfo quindi si trovò dalla parte del buon diritto, allorché, visto che Ottocaro non gli chiedeva la rinnovazione dell'infeudamento nella Boemia e nel marchesato di Moravia, né produceva i titoli giustificativi dell'acquisto dei territori austriaci, lo citò a comparire dinanzi a sé, ed avendo quegli risposto con una nuova protesta contro l'elezione sua a re, Rodolfo lo pose al bando, dichiarandolo decaduto dai suoi dominii ereditari e da quelli di recente usurpati (1276).

Naturalmente Ottocaro non si piegò al decreto del «miserabile conte» che lo colpiva e parve proprio che la contesa dovesse risolversi con le armi. Coraggiosamente Rodolfo mosse contro il nemico, benché avesse trovato poco sostegno all'interno del regno; all'ultima ora però si vide rafforzato dall'adesione della Baviera.
Ma il suo migliore alleato contro il re boemo furono le defezioni verificatesi nei suoi domini e che Rodolfo seppe accortamente moltiplicare. Così in Austria come in Boemia la nobiltà insorse quasi al completo contro il governo duro, monarchico, di Ottocaro; di modo che questi, allorché nel settembre Rodolfo invase l'Austria e si avvicinò a Vienna, si vide costretto a chiedere la pace.

Egli perdette l'Austria con i territori minori e si riconobbe vassallo di Rodolfo che gli confermò ora in feudo la Boemia e la Moravia e destinò in moglie al figlio di lui la propria figlia Guta (novembre 1276).
Due anni dopo Ottocaro non rassegnato tentò nuovamente la sorte delle armi. Egli credeva di essersi umiliato troppo frettolosamente; al suo animo cavalleresco sembrava vergognoso essersi sottomesso prima di essersi misurato col suo nemico in battaglia.
Si aggiunsero dei dissensi circa l'interpretazione della pace di Vienna. Poi nella speranza di procurarsi l'aiuto dei principi polacchi e slesiani, Ottocaro si atteggiò ora a sostenitore degli interessi slavi. Tuttavia cercò anche di guadagnarsi aderenti in Germania, e non invano; Enrico di Baviera e molti altri principi della Germania orientale si posero dalla sua parte. Dal suo canto Rodolfo ebbe dalla sua l'Austria ed aumentò le sue forze mediante un'alleanza con l'Ungheria.

Anche il conte Meinardo di Górz, cui egli aveva affidato il governo della Carinzia, il conte palatino Ludovico, l'arcivescovo di Salzburg ed il burgravio Federico di Norimberga si schierarono con Rodolfo.

Questa volta si venne a battaglia a Dúrnkrut e Jedenspengen sulla March (26 agosto 1278); la lotta durò quasi sei ore. La cavalleria boema, superiore di numero, riuscì a scompaginare e respingere l'ala destra dell'esercito di Rodolfo; ma quest'ultimo, approfittando della posizione decisamente avanzata cui si erano spinti i cavalieri di Ottocaro, lanciò sul loro fianco le sue riserve, le quali gettarono a loro volta la cavalleria boema contro la March, dove molti annegarono. Gli altri si volsero in fuga disordinata verso nord. Ottocaro ciònonostante con pochi seguaci continuò a combattere e cercò invano di cambiare le sorti della battaglia. Alla fine dovette darsi anch'egli alla fuga. Ma troppo tardi; fu raggiunto ed ucciso da suoi nemici personali.

La morte di questo magnanimo principe, che avrebbe meritato una fine migliore, e la sconfitta del suo esercito, posero in breve fine alla campagna. I dominii aviti vennero lasciati all'erede di Ottocaro, Venceslao II, di cui fu confermato il fidanzamento con Guta, mentre il secondogenito del vincitore, Rodolfo, si sposò con la figlia di Ottocaro, Cunegonda.

La Boemia con ciò cessò per sempre di essere una grande potenza. In compenso l'Austria divenne il nucleo attorno al quale crebbe un'altra potenza che era destinata in seguito ad influire profondamente sulle sorti della Germania e della stessa Europa. Re Rodolfo infatti, valendosi dei suoi poteri di alto sovrano feudale devolse i territori austriaci resisi vacanti a favore della sua famiglia.
Ottenuto il consenso dei principi elettori, egli concesse in feudo ai propri figli ALBERTO e RODOLFO l'Austria e la Steiermark (1282). La Carinzia e la Carniola insieme con la marca vendica andarono nel 1286, in ricompensa dei servizi fedelmente prestati, al conte MAINARDO del Tirolo, che fu contemporaneamente elevato al rango principesco.
I territori austriaci poi, già nell'anno 1283, vennero riuniti nelle mani, di Alberto; e quanto al figlio minore, il re cercò dapprima di costruirgli una signoria in Svevia; ma il suo progetto di ricostituire l'antico ducato di Svevia naufragò di fronti all'opposizione dei dinasti, e specialmente del Wúrttemberg; del pari fallito andò poi il progetto di restaurare sotto il dominio di un Absburgo il regno arelatense (Borgogna) e collocarvi il giovani Rodolfo. Da ultimo questi morì prima del padre (1290) lasciando un figlio minorenne.

Nel resto la principali cura di Rodolfo fu quella di ripristinare l'autorità regia in Germania. Certo non era ormai più possibile rivendicare alla corona i diritti sovrani che essa aveva perduto a vantaggio delle signorie territoriali; ma il re riuscì a ricuperare in non pochi casi città e beni del demanio regio che erano pignorati od erano stati usurpati.
Ai maggiori complessi di beni demaniali Rodolfo mise inoltre dei funzionari regi (Reichslandvógte), i quali, insieme con gli analoghi funzionari istituiti da Federico II nei territori orientali (Reichshofrichter e Landschareiber) costituirono la prima breccia aperta nell'organizzazione feudale dello Stato tedesco e prepararono il passaggio alla vera e propria organizzazioni amministrativa gerarchica.

Primo pensiero di Rodolfo fu pure di ripristinare all'interno del regno la pace e la sicurezza e di reprimere l'abuso della faida, specialmente mediante la conclusioni di speciali convenzioni con i signori territoriali, dette tregue (Landfrieden). All'inizio Rodolfo aveva tentato di indire di sua autorità tregue di questo genere e di farle osservare con l'aiuto dei tribunali ordinari; ma visto che alla lunga non otteneva il suo intento e che i tribunali non riuscivano ad imporsi abbastanza, il re nell'ultimo decennio del suo governo si decise a ricorrere a tregue convenzionali parziali che infatti concluse per le singole regioni d'accordo con i principi e con le città per un determinato numero di anni.

Così sorsero le tregue per la Baviera e Franconia, poi per la Svivia, l'Alsazia, i paesi renani, e finalmente per la Turingia e per la Sassonia. All'osservanza delle norme stabilite nelle tregue si provvide istituendo un giudice apposito (Landfriedensrichter) scelto tra i signori territoriali e commissioni di cinque giudici giurati competenti in tutti le questioni attinenti alla tregua. Per coprire le spese vennero imposti speciali tributi.

Da questo primo tentativo di organizzazione locale si svolse in seguito l'organizzazione distrettuale; quest'ultima e la tregua «eterna» comune a tutto il regno emanata nel 1495 chiusero il periodo delle tregue particolari alle singole regioni e limitati nel tempo, dopo che per due secoli esse, malgrado tutti i loro difetti, avevano rappresentato press'a poco l'unica forma di garanzia della sicurezza pubblica.
Non del tutto a torto quindi re Rodolfo, che inaugurò propriamente questo periodo delle tregue, é passato ai posteri principalmente come il protettore dei deboli e degli oppressi e il nemico dei prepotenti e degli arroganti. Tantopiù che Rodolfo non trascurò di far osservare le norme stabilite, e non pochi sentirono il peso della sua mano punitrice. Ma che egli non sia riuscito a ripristinare ovunque la pace, che il suo saggio governo non abbia eliminato ogni malcontento e non abbia potuto estinguere il ricordo di un passato, probabilmente già trasfigurato da un'aureola eroica di leggenda, lo dimostra il fatto che duranti il governo di Rodolfo sorsero in vari punti del regno degli impostori che si spacciarono per il grande imperatore Federico II tornato fra il suo popolo, e specialmente in una certa borghesia e nel popolo ignorante trovarono fede e largo seguito.

Ed anche quando questi millantatori furono sbugiardati il popolo non perdette la fede che il grande imperatore vivesse tuttora e che sarebbe una volta o l'altra ritornato per restaurare l'impero in tutta la sua antica grandezza.

Ma il passato non torna; era invece spuntata una nuova epoca, certo meno splendida, ma che celava in sé i germi del progresso. Rappresentante di questa epoca fu lui Rodolfo, il primo degli Absburgo, il quale, per quanto non sia stato una figura geniale, ma un uomo sobrio, assennato, parsimonioso sino alla lesina, pure con queste qualità e con un lavoro costante ed incessante salvò la monarchia tedesca dalla completa rovina e la restaurò in modo che essa poté durare per cinque secoli.

Se la caratteristica di questo Stato tedesco dei tempi posteriori fu la decentralizzazione, di ciò non si può far carico a Rodolfo, giacché dipese dalla persistenza e dalla rigorosa attuazione del sistema della monarchia elettiva, la cui abolizione sarebbe stata per lui impossibile. Ché anzi nella monarchia restaurata da Rodolfo la corona aveva ancora considerevoli poteri. Il re rappresentava lo Stato all'estero, aveva il diritto di dichiarare la guerra e di concludere la pace e stipulare trattati. Era supremo signore feudale, ed anche il più potente dei principi territoriali, ecclesiastico o laico che fosse, costui doveva essere infeudato da Rodolfo. In generale il re era la fonte di ogni diritto, il giudice supremo; le diete del regno trattavano e deliberavano sugli affari pubblici sotto la sua presidenza; ma anche senza il concorso delle diete il re poteva emanare leggi ed ordinanze.

Data questa situazione creata da Rodolfo, uno dei suoi successori dotato di qualità eminenti avrebbe potuto rendere la corona assolutamente dominante, se non vi si fosse opposto il sistema elettivo. Questo sistema, per cui il candidato alla corona veniva tratto ora dall'una ora dall'altra regione del regno, impediva l'introduzione di istituti ed organi amministrativi generali, la creazione di funzionari stabili, di un tribunale supremo che avesse autorità su tutto il regno, di un consiglio permanente accanto al re; ognuno dei re, appena eletto, doveva per così dire ricominciare da capo.
Questo stato di cose inoltre implicava il pericolo permanente che il re, invece di rivolgere l'autorità e i mezzi materiali che gli procacciava la sua posizione a beneficio degli interessi generali del regno, se ne giovasse piuttosto per accrescere la potenza propria o della sua famiglia; per lo meno non vi era da aspettarsi che egli sacrificasse nulla del suo per il bene del regno. Si inaugurò così una politica egoistica dei re che era stata ignota ai precedenti sovrani, i quali per lo meno di fatto avevano potuto contare sull'ereditarietà dei trono.

Alla morte di Rodolfo, che chiuse gli occhi il 15 luglio 1291 e trovò riposo nel duomo di Speyer, dove la lapide sepolcrale ben conservata ci mostra ancora oggi le sue fattezze, la successione del suo primogenito ed unico figlio superstite non trovò neppure un fautore in seno al collegio dei principi elettori. Vi si opposero specialmente il re Venceslao di Boemia che sognava la restaurazione della Boemia nella primitiva potenza, ma anche gli arcivescovi di Magonza e di Colonia nell'interesse della conservazione o dell'accrescimento della propria influenza.
L'arcivescovo di Colonia, Sigfrido di Westerburg, avverso anche a prescindere da ciò agli Absburgo, propose nuovamente l'elezione di un principe poco potente, Adolfo della casa di Nassau, titolare delle contee di Wiesbaden, Idstein e Weilburg. Questi, che allora aveva all'incirca i 40 anni, aveva ricevuto un'accurata educazione, tanto che conosceva il latino ed il francese, ed era in fama di cavaliere valoroso ed impavido; e come tale aveva reso preziosi servigi all'arcivescovo ed al capitolo di Colonia.

Fuori di queste qualità egli tuttavia non poteva vantare altri titoli per una così alta carica; ma siccome si mostrò disposto a cedere a tutte, anche le più smodate pretese che l'arcivescovo Sigfrido pose prima quale prezzo del suo voto, il prelato si incaricò di guadagnare alla causa di Adolfo i suoi colleghi. E gli riuscì infatti così bene che il 5 maggio 1292 Adolfo di Nassau era già eletto re all'unanimità. Anche il duca Alberto (l'unico figlio in vita di Rodolfo) dovette piegarsi e Adolfo fu riconosciuto in ogni parte del regno.
Ma quando in seguito il nuovo re tentò di sottrarsi all'influenza dei principi elettori che lo avevano elevato al trono, alleandosi con la nobiltà minore dalla quale usciva, ed inoltre inaugurò una politica egoistica a favore dell'innalzamento della propria casa, la sua posizione cominciò a divenire vacillante.
E realmente tutti i suoi atti intesi ad accrescere la potenza della sua famiglia ebbero qualcosa di irritante.

Morto nel 1291 senza eredi il margravio Federico Tuto che possedeva la Misnia (Meissen) e l'Osterland, Adolfo infatti incamerò questi territori come feudi vacanti, malgrado che i langravi di Turingia per ragione di affinità, secondo le idee del tempo, potessero vantar titoli ad ereditarli. Ancor più irritante fu la sua intrusione in Turingia, dove approfittò delle discordie tra il langravio Alberto ed i suoi figli per indurre il padre a vendergli la successione. Essendosi poi il vecchio langravio pentito del mercinomio che aveva compiuto, riconciliandosi con i propri figli, Adolfo mosse contro la Turingia con un esercito e s'impadronì del paese dopo averlo orribilmente devastato.

Ma col tentare di crearsi qui un dominio personale, Adolfo si mise in contrasto con gli interessi dei più potenti fra i principi elettori, Venceslao di Boemia e l'arcivescovo di Magonza, che videro mal volentieri il nascere di una nuova potenza nella loro sfera di influenza. E soprattutto Adolfo si rese avversato alla maggioranza con il subordinare gli interessi del regno a quelli suoi personali.

Allo scoppiare di una guerra tra l'Inghilterra e la Francia Adolfo accettò denaro dall'Inghilterra protestando di voler rivendicare i possedimenti dell'impero che la Francia aveva usurpati; ma giunse appena in Alsazia, e poi tornò indietro impiegando le truppe arruolate (pagate col denaro inglese) per attuare i suoi fini egoistici in Turingia.
Nel frattempo il duca Alberto d'Austria era riuscito a superare le difficoltà interne con cui aveva dovuto lottare nei primi anni succeduti alla morte di suo padre Rodolfo. A parte che egli non aveva forse mai rinunziato alla speranza di cingere la corona di suo padre, la politica espansionista che Adolfo faceva per proprio conto lo preoccupò molto. Entrò per conseguenza in relazioni col re Filippo di Francia e si riconciliò con suo cognato, il re di Boemia.
Anzi nel 1297 si recò personalmente a Praga per assistere alla solenne incoronazione di Venceslao, alla quale presenziarono tra molti principi anche gli elettori di Brandenburg, di Sassonia, di Magonza e di Kulm.

Qui a Praga probabilmente fu già abbozzato il disegno di una ribellione contro il re Adolfo, che prese poi forma più concreta in una assemblea di principi adunatasi a Vienna presso lo stesso Alberto nel febbraio del 1298. Dopo ciò, in forza del diritto che si arrogava di chiamare a consiglio i grandi del regno in caso di urgente necessità, l'arcivescovo di Magonza, Gerardo di Eppenstein, li convocò per il 1° maggio a Francoforte, la città dove si procedeva alla elezione dei re. Avvertito del pericolo che lo minacciava, re Adolfo si avviò anch'egli dalla stessa parte con un esercito e sbarrò la strada ai suoi avversari, ma non poté impedire che essi si adunassero il 15 luglio a Magonza.
Dei principi elettori mancavano quello di Treveri e del Palatinato, fautori di Adolfo; ma ciò non impedì che gli altri cinque, imputando al re una lunga serie di delitti di cui sostenevano egli si fosse reso reo contro lo Stato, lo dichiarassero deposto dal trono; dopo di che il duca Alberto in forma alquanto tumultuosa venne eletto re (23 giugno 1298).

Pochi giorni dopo Adolfo era morto. Cieco dal desiderio di punire l'usurpatore del suo trono, malgrado le sue forze fossero insufficienti, e senza aspettare i contingenti delle città a lui devote, il re spodestato il 1° luglio diede battaglia ad Alberto presso l'Hasenbuhel (Colle delle lepri) a sud di Góllheim, e combattendo disperatamente cadde ucciso mentre cercava di aprirsi una strada per raggiungere Alberto e fargli provare il taglio della sua spada.

Così Alberto d'Absburgo, il quale per altro sentì la necessità di sottoporsi ad una nuova elezione formale, rimase re di Germania. Ma la sua situazione era ben diversa che se avesse ottenuto la corona otto anni prima nel 1291 alla morte del padre; egli non la ebbe come erede (pur legittimo) di un padre benemerito del regno; ma la dovette al favore dell'alta aristocrazia la cui volubilità era a chiare note dimostrata dalla sorte toccata a re Adolfo.

A paragone del suo infelice predecessore re Alberto aveva peraltro il vantaggio di possedere nei suoi dominii personali una base ed una fonte di risorse abbastanza forti che lo rendevano meno schiavo del favore o disfavore degli elettori.
Alberto, come si era dimostrato uomo di Stato accorto nel governo dell'Austria, così rivelò grandi qualità tattiche e strategiche nella lotta combattuta per la conquista del trono. Sopra tutto egli era un ottimo amministratore che conosceva il valore del denaro e lo risparmiava; ma, quando era necessario non badava a spese.
Egli cercò tenacemente di mantenere quanto aveva acquistato e cercò di accrescere i suoi possedimenti e di ampliare la propria potenza; in quest'opera a dire il vero procedette anche con sistemi duri e brutali, ed in generale mostrò di avere un'indole ben diversa da quel carattere affabile che aveva reso popolare suo padre. Però Alberto fu ben lontano dall'essere quel tiranno che ci è dipinto dalla leggenda svizzera. Non gli mancarono qualità più miti dell'animo; egli fu sposo tenerissimo e padre amoroso.

Il nuovo re ebbe anzitutto molto da fare dalla parte d'occidente. Nel 1299 si estinse la dinastia dei conti d'Olanda, ed Alberto si propose di incorporarne al regno i domini, cioè le contee di Olanda, Zelanda e Frisia. Ma trovò opposizione nel suo alleato di poco prima, il re Filippo IV di Francia, il quale si fece paladino delle pretese che su quei dominii elevava la casa di Hennegau. Alberto intraprese una campagna contro l'Olanda; ma disordini scoppiati nell'interno del regno lo costrinsero a tornare indietro ed a lasciare libero il campo agli Hennegau ed ai Francesi. E re Filippo nel 1301 acquistò il protettorato sulla città di Toul, e nel 1307 annesse definitivamente alla Francia la contea libera di Borgogna (Franche Comté) che aveva occupata sin dai tempi di re Adolfo.

Fu la fronda degli elettori renani che costrinse Alberto a tornare sui suoi passi. Siccome il re non voleva adattarsi ad essere il loro zimbello ed aveva loro mostrato il cipiglio del padrone, costoro credettero di poter rinnovare il tiro giocato a re Adolfo. Ed ebbero la sfrontatezza di accusare ora Alberto dell'uccisione del suo predecessore, contro il quale essi medesimi lo avevano aizzato, e di invocare contro di lui l'aiuto di quello stesso papa cui avevano premurosamente raccomandato pochi mesi prima la conferma di Alberto.

A papa Bonifacio VIII (1295.1303)- proprio lui che non aspettava altro per entrare in qualsiasi disputa temporale - non sarebbe parso vero di potersi sedere sullo scranno e fare l' arbitro della contesa; se non che Alberto non si rivolse al suo giudizio, ma procedette contro i ribelli nelle forme previste dal diritto interno.

Fin dalla prima dieta generale tenuta a Norimberga egli aveva ripreso la politica di suo padre re Rodolfo e proclamato essere suo intento di rivendicare alla corona i demani caduti in altre mani e di abolire i dazi illegalmente imposti. E dichiarò inoltre aboliti i numerosi balzelli di cui i principi elettori renani avevano gravato la navigazione ed il commercio sul Reno.
Ciò gli procurò il massimo appoggio da parte delle operose città e dei piccoli dinasti che stavano sorgendo dall' importtante economia commerciale, e lo pose in grado di muovere contro gli elettori e di costringerli in molte campagne uno dopo l'altro a sottomettersi (1301 e 1302).
I vinti dovettero restituire tutti i demani regi usurpati ed abolire i dazi. Il trionfo del re venne poco dopo coronato dal riconoscimento del papa; ma per un motivo ben preciso, perchè nel frattempo era venuto in piena rottura con la Francia ( con Filippo - aprile 1303 - che si concluse con il famoso "schiaffo di Anagni").
Alberto lasciò correre il tono altezzoso che Bonifacio non seppe fare a meno di usare anche in questa occasione; promise in forma umile fedeltà alla Santa Sede (luglio 1303), e fra altro riconobbe come un fatto storico l'affermazione di Bonifacio che il collegio dei principi elettori fosse una pretesa istituzione emanante dai papi. E forse fece ciò intenzionalmente, perché, se gli elettori non esercitavano un mandato ricevuto dalla Santa Sede, questa poteva revocare il mandato ovvero imporsi ad essi nell'esercizio del loro potere elettorale.
Ed era naturale che Alberto desiderasse cogliere il momento buono per assicurare alla sua famiglia la successione al trono. Ma la catastrofe e la morte di Bonifacio (11 ottobre 1303) fece andar perduta l'occasione favorevole; per di più avvennero complicazioni nelle parti orientali del regno che richiamarono urgentemente su di sè l'attenzione di Alberto.
Si trattava di re VENCESLAO II di Boemia, il quale cercava di ricostituire su nuove basi la potenza della Boemia che Rodolfo aveva un tempo abbattuta. Mettendo abilmente a profitto le divisioni e le discordie tra i principi polacchi egli aveva messo piede in Polonia, nel 1289 aveva ottenuto di essere riconosciuto come signore nella Slesia, nel 1292 a Cracovia e finalmente nel 1300 nella Grande Polonia, dopo di che si era fatto incoronare a Gnesen re di Polonia.

Era appena compiuta questa impresa che nel 1301 , venne a morte Andrea III di Ungheria, l'ultimo rampollo della casa degli Arpadi, ed uno dei partiti ungheresi offrì a Venceslao la corona vacante. Egli l'accettò per suo figlio minorenne Venceslao III, che infatti venne incoronato re a Stuhlweissenburg. Ma non riuscì ad entrare in possesso effettivo dei trono, perché il solito papa Bonifacio, pretendendo che spettava a lui disporre del regno di Ungheria come feudo della Santa Sede, appoggiò la candidatura del principe Carlo Roberto d'Angiò, figlio di una sorella del penultimo re della dinastia degli Arpadi, ed Alberto si pose anch'egli dalla stessa parte un po' per non lasciar diventare troppo potente Venceslao, un po' per ingraziarsi il papa (che ricordiamo morì l'11 ottobre 1303)

Alberto però non si accontentò che il giovane Venceslao fosse allontanato dall'Ungheria, ma reclamò dal padre la consegna della Polonia e pretese anche una partecipazione ai prodotti delle miniere d'argento di Kuttenberg in Boemia di recente scoperte. Per accompagnare con argomenti più persuasivi le sue pretese invase la Boemia alla testa di un esercito, ma la sua offensiva fu arrestata proprio dalla ostinata resistenza dei minatori di Kuttenberg.
Nel frattempo venne a morte Venceslao II, vittima dei suoi eccessi (21 giugno 1305), ed anche suo figlioo minorenne Venceslao III cadde assassinato l'anno successivo. Egli era l'ultimo rampollo della linea maschile della famiglia. Il partito nazionale boemo chiamò subito dopo al trono il duca Enrico di Carinzia, marito di Anna, la primogenita di Venceslao II. A sua volta Alberto, considerando la Boemia come un feudo vacante spettante alla corona di Germania, la conferì a suo giovane figlio Rodolfo che unì in matrimonio con la matura vedova di re Venceslao II.

Nè a questo si limitarono i propositi di conquista di Alberto, perché come successore di Adolfo riprese i suoi progetti sulla Turingia. Il vecchio langravio Alberto fu costretto nuovamente a riconoscere il mercato che aveva concluso con Adolfo relativamente al suo territorio, ma i figli di lui, Federico e Diezmann, non vollero assoggettarsi all'ingiusta spoliazione ed inflissero al re nella battaglia di Luckau una nuova e grave sconfitta (1307), in seguito alla quale il langravio Federico si insediò anche nella Misnia.
Verso la stessa epoca crollò anche l'edificio della dominazione absburghese in Boemia; il giovane re Rodolfo morì e dopo ciò il partito favorevole al duca di Carinzia prese il sopravvento.

Alberto accorse con un esercito, ma non riuscì a concludere nulla. Tuttavia non abbandonò il progetto e fece per l'anno seguente grandi preparativi di guerra. Ma la punta di un pugnale fece prendere tutt'a un'altra piega alle cose: il re venne assassinato il 1° maggio 1308 dal figlio di suo fratello Rodolfo e della figlia di Ottocaro, Giovanni (il Parricida).
Alberto, per favorire i propri figli, aveva leso gli interessi del nipote; ed ora egli cadeva vittima dei suoi piani dinastici. Per la storia della Germania l'assassinio di Alberto segna un'epoca, giacché frustrò non solo per allora, ma anche per l'avvenire, la restaurazione di una forte autorità monarchica nel regno.
F ino a Carlo V nessuno dei successori di Alberto riuscì più come lui a conseguire tanti successi sulle signorie territoriali.

Meno ancora che alla morte di Rodolfo la situazione dopo l'assassinio di Alberto I si figurò favorevole alla successione di uno dei suoi figli; nè del primogenito, Federico, né di un altro dei costui fratelli. I principi elettori erano tutti avversi alla casa d'Absburgo, capitanati dall'arcivescovo Pietro Aspelt di Magonza, uomo di origine borghese che era venuto in auge al servizio di re Rodolfo sotto la veste di medico, ma poi allo scoppiare del conflitto tra Venceslao II di Boemia e re Alberto - cambiando repentinamente bandiera- si era messo dalla parte del primo.
Fu elevato al seggio arcivescovile di Magonza nel 1306 da papa Clemente V (1305-1314) in grazia di influenze francesi. La Francia, che con la sua vittoria sul papato si era messa alla testa delle nazioni occidentali, mirava ad assoggettare alla propria influenza anche l'impero tedesco, anzi ad impadronirsi della corona imperiale.
Infatti re Filippo raccomandò ai principi elettori la candidatura al trono tedesco di suo fratello Carlo di Valois. Oltre che sull'arcivescovo di Magonza, Filippo contava sul papa; ma questi, che non poteva vedere di buon occhio un nuovo aumento della potenza francese, si prestò malvolentieri a dare il suo appoggio a tale progetto. Ma anche i principi elettori non potevano essere favorevoli al candidato francese, visto che si pubblicavano scritti nei quali si patrocinava senza sottintesi l'avocazione alla monarchia ereditaria francese della dignità imperiale e l'abolizione del collegio dei principi elettori.

Sicché i voti si concentrarono per la terza volta sopra un principe tedesco poco potente. Il giovane Balduino di Lutzelburg (Lussemburgo), che da poco, terminati appena i suoi studi all'università di Parigi, era stato elevato al seggio arcivescovile, raccomandò la candidatura di suo fratello primogenito, allora in età di circa 38 anni, il conte Enrico IV di Lussemburgo (poi Enrico VII di Germania), che godeva fama di ottimo amministratore della sua piccola contea, di cavaliere valoroso, di sovrano pio ed illibato. La lingua e l'educazione di Enrico erano francesi; egli era cresciuto alla corte di Francia, da giovane aveva servito negli eserciti di re Filippo e da lui era stato armato cavaliere.
Tuttavia questi precedenti (filo-francesi) non pregiudicarono la sua candidatura al trono tedesco, e senza avere di fronte seri concorrenti, egli venne eletto re il 27 novembre 1308 a Francoforte con sei voti (il settimo seggio elettorale, quello spettante alla Boemia, fu considerato vacante). Non mancarono neppur questa volta i soliti impegni da parte sua verso gli elettori; tra altro Enrico promise il ripristino dei dazi sul Reno, altrettanto dannosi al commercio, quanto ovviamente proficui per i principi renani.

Come in questo, così in altri riguardi ancora, re Enrico VII non cercò di limitare i diritti e frenare le pretese dell'alta aristocrazia del regno. Ciò perché egli si propose un altro scopo: la restaurazione dell'impero. I posteri lo hanno non di rado censurato per questa sua ambizione. Ma come avrebbe potuto essere allora già dimenticata una tradizione di molti secoli che narrava di tante alte gesta della nazione tedesca e rispecchiava un così splendido passato?
Anche re Rodolfo, il primo absburgico sovrano tedesco generalmente riconosciuto dopo Federico II, aveva seriamente (lo abbiamo visto sopra) concepito e tentato di attuare il proposito di farsi incoronare imperatore a Roma, ed i suoi due successori non avevano per lo meno mai rinunziato al diritto dei re tedeschi di cingere la corona imperiale.

Inoltre, di fronte alle pretese che la Francia accampava all'egemonia sulle nazioni d'occidente, doveva necessariamente sembrare indispensabile affermare col fatto l'antico diritto della Germania, prima che le fosse seriamente contestato.
Si aggiunga che, mentre ad Enrico VII mancava la potenza materiale per impegnarsi una efficace attività in Germania, l'impresa italica invece si presentava a lui sotto i più favorevoli auspici, sia per le buone relazioni da lui sinora avute con la corona di Francia, sia per l'appoggio che avrebbe trovato nella curia che allora non vedeva malvolentieri un rafforzamento della Germania; e finalmente in nessun momento più d'allora l'Italia, abbandonata dal papa, si palesava bisognosa del suo imperatore.

Nel frattempo la fortuna procurò al re e alla sua casa l'acquisto della Boemia. Qui Enrico di Carinzia, per un momento dominante, non era affatto riuscito a guadagnarsi il consenso generale; il favore da lui dimostrato per le città gli mise contro l'aristocrazia nonché il clero con a capo il metropolita del paese, l'arcivescovo Pietro di Magonza. E fu quest'ultimo appunto che spinse re Enrico, in seguito alle lagnanze e proteste dei boemi, a reclamare quel territorio come feudo vacante; si adunò poi un tribunale di principi che negò, ad Enrico di Carinzia ogni titolo alla signoria sulla Boemia.

Dietro istanza degli stessi boemi il re conferì il feudo a suo figlio Giovanni, allora dodicenne, e lo unì in matrimonio con l'ultima rappresentante della vecchia dinastia boema, Elisabetta, figlia di Venceslao II. Il re inoltre seppe alienare ad Enrico il suo più forte alleato, il margravio Federico, riparando al torto fattogli dai suoi due predecessori e riconoscendogli il possesso di tutto il retaggio della casa di Wettin.

Già antecedentemente Enrico VII s'era accordato con gli Absburgo riconoscendo anche a loro i dominii che possedevano. Così fu inaugurata la signoria della casa di Lussemburgo sulla Boemia, dalla quale, secondo l'espressione del Ranke, scaturirono due conseguenze: «la grandezza dell'Austria e la fondazione della dinastia di Brandenburg».

Nell'autunno del 1310 Enrico VII si mosse per passare in Italia; ma l'aristocrazia germanica partecipò assai malvolentieri e in modo scarso alla spedizione; salvo l'ambizioso figlio di re Alberto, il duca Leopoldo d'Austria, i maggiori principi dei regno non erano presenti nell'esercito con cui il re varcò le Alpi; invece lo accompagnarono sua moglie Margherita, i suoi fratelli, l'arcivescovo Balduino e Walram, suo cognato Amedeo di Savoia e numerosi signori e cavalieri del Lussemburgo e delle regioni vicine; in complesso tremila uomini all'incirca.
Se non che Enrico non intendeva presentarsi in Italia come un conquistatore, ma come apportatore di pace; egli all'inizio si mantenne al disopra dei partiti, procurò il rimpatrio degli esiliati nelle varie città e non fece differenze tra i seguaci dell'antica fazione imperiale, i Ghibellini, ed i loro avversari, i Guelfi.
Così arrivò senza ostacoli a Milano, dove il 6 gennaio 1311 cinse la corona lombarda. Ma appena volle cominciare ad esercitare i suoi diritti sovrani, a levar tasse, ad istituire vicari che governassero in suo nome, il contegno ossequente degli Italiani si mutò ben presto in opposizione.

Cinque mesi dopo l'incoronazione già scoppiava a Milano una pericolosa insurrezione, Enrico VII, sebbene non senza fatica, riuscì a domarla, ma si vide costretto a cercare ora appoggio nei Ghibellini, cui affidò il governo della città, mentre i capi del partito guelfo si misero in salvo andando in esilio. Conseguenza immediata di ciò fu la ribellione di molte città guelfe, tra cui Cremona e Brescia. Sotto quest'ultima città Enrico perdette quattro lunghi mesi, durante i quali cadde ucciso suo fratello Walram; anche la regina contrasse qui i germi di una malattia che in breve la condusse alla tomba.

Nel frattempo il partito guelfo organizzò la resistenza in tutta Italia; Enrico per lo svolgimento preso dagli eventi era ormai divenuto il capo del partito ghibellino. Siccome le guelfe Bologna e Firenze gli sbarravano il passo per raggiunger Roma per via di terra. Enrico piegò verso Genova, che nella speranza di ottenere dei vantaggi commerciali lo accolse festosamente, e di qui si recò via mare a Pisa, la fedele città ghibellina, donde gli si offriva libera la via di Roma.

Il 7 maggio 1312 Enrico VII pose piede nella città eterna. Ma appunto qui gli si presentarono davanti le maggiori difficoltà. Enrico trovò S. Pietro e la riva destra del Tevere occupata dai Napoletani pronti alle ostilità. Egli lottò per molte settimane per le vie della città senza riuscire a rompere la resistenza dei suoi avversari. Cosicché alla fine la sua incoronazione ad imperatore, per la quale papa Clemente V (1305-1314) aveva inviato tre cardinali, fu fatta invece che in S. Pietro, in Laterano (29 giugno 1312).

Enrico però intendeva essere imperatore non soltanto di nome ma anche di fatto. All'inizio egli aveva tentato di farsi amico di re Roberto di Napoli, nipote di Carlo d'Angiò (1309-43) e di stringere anche con la Francia un trattato d'amicizia. Ora però che dall'altra parte erano state aperte le ostilità, si, alleò col rivale degli Angiò, re Federico di Sicilia della casa d'Aragona, con il cui figlio fidanzò la propria figlia Beatrice, e citò dinanzi al suo tribunale imperiale Roberto a rispondere di alto tradimento.

Tuttavia le forze non bastavano ad Enrico VII per prendere una immediata offensiva contro l'angioino. Egli perciò ritornò verso il settentrione per domare la resistenza dei guelfi toscani.

Ma il suo tentativo di conquistare Firenze fallì; la città sostenne vittoriosamente un assedio di sei settimane. Tuttavia l'imperatore restò per tutto l'inverno in Toscana, allo scopo di tenere in scacco gli avversari.
A primavera del 1313 passò poi a Pisa per raccogliervi i notevoli rinforzi mandatigli dalla Germania e dall'Alta Italia, intanto disponeva per ulteriori e più vasti preparativi di guerra in Italia.
Fu stabilito con Federico di Sicilia un piano di azione combinata; l'imperatore avrebbe investito Napoli dalla parte di terra, mentre le flotte di Sicilia, di Genova e di Pisa lo avrebbero assecondato dalla parte di mare.

Intanto si svolse il processo contro re Roberto, e l'imperatore lo condannò a morte in contumacia come reo di lesa maestà, né si lasciò scuotere dall'interessamento preso dal papa a favore dei re di Napoli.
Ora era urgente agire risolutamente ed arrivare ad una rapida conclusione. E perciò Enrico VII, in adempimento degli accordi conclusi con Federico di Sicilia e prima ancora che gli fosse arrivato l'esercito approntato in Germania, si mosse l'8 agosto 1313 da Pisa, cioè nel periodo dell'estate maremmana più pericoloso per gente abituata ai climi nordici.
La febbre infatti lo colse subito e le fatiche della marcia compirono l'opera letale nel suo fisico; non lontano da Siena nella piccola città di Buonconvento lo raggiunse la morte il 24 agosto 1313.

Che un domenicano gli abbia mescolato il veleno nel vino, come si disse e si credette allora, non è dimostrato. Alla morte di questo valoroso principe, che trovò riposo nel duomo di Pisa, dove la sua figura si mostra tuttora adagiata sopra un sontuoso sarcofago marmoreo, seguì la dissoluzione del suo esercito.

Ne approfittò subito papa Clemente, data la vacanza del seggio imperiale, avocò a sé il governo dell'Italia e nominò vicario imperiale nella penisola quello stesso Roberto che l'imperatore aveva messo al bando e che si dice si fosse già preparato ad abbandonare il proprio regno ed a mettersi in salvo in Francia.

Ed in generale da questo momento la casa d'Angiò ebbe un periodo di nuovo splendore. Mentre conservò il regno di Napoli, essa acquistò l'Ungheria, dove il secondogenito di Roberto, Carlo Roberto, dopo l'estinzione della dinastia dei Przemislidi, seppe farsi a poco a poco una salda posizione. Favorendo la colonizzazione tedesca e lo sviluppo delle città, migliorando gli ordinamenti militari, finanziari e giudiziari del paese, egli pose l'Ungheria sulla via di un notevole progresso; ma il regno raggiunse l'apice della potenza sotto il figlio e successore di Carlo Roberto, LUDOVICO il Grande (1342-82) che estese l'alta sovranità ungherese sulla Moldavia e la Valacchia, sulla Bosnia e su parte della Bulgaria, e combattendo vittoriosamente con la repubblica di Venezia, cui tolse Zara, conquistò al suo paese l'ambito sbocco sul mare.
Ludovico tuttavia non riuscì a respingere i più pericolosi nemici, gli Osmani, che avanzando dal sud già battevano alle porte dell'Ungheria. Tuttavia aumentò ancora la propria potenza ed influenza ottenendo di cingere nel 1370 la corona del fiorente regno di Polonia.

Grazie a una ordinata amministrazione finanziaria Ludovico rese forte all'interno l'autorità della corona; fu, come suo padre, amico delle città, per quanto le aggravasse di imposte. Provvide a costituire un centro di diffusione della cultura in Ungheria, fondando nel 1367 una università a Pécs (Funfkirchen).
In un certo contrasto con l'Ungheria si mantenne l'impero d'Oriente, che dopo la caduta del cosiddetto impero latino era risorto sotto il capace e valoroso Pa
leologo Michele VII (1261). Qui però nulla fu fatto per mettere su nuove basi lo Stato, come esigevano i tempi mutati; nulla fu fatto per sviluppare le risorse e le energie dell'impero, cosa tanto più deplorevole, in quanto ad esso non mancarono mai nemici esterni.
Già il primo Paleologo durò fatica a difendersi dagli assalti di Carlo d'Angiò. I suoi successori poi furono principi deboli, incapaci, sotto i quali l'impero decadde sempre più e divenne a poco a poco preda degli Osmani.

Ora nel prossimo capitolo parleremo più a lungo
dei tempi della dinastia
di Ludovico il bavaro


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