-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

LA RESTAURAZIONE - IL RIORDINAMENTO DELL'EUROPA



187. - 2) - LA POLITICA INTERNAZIONALE DAL 1815 AL 1825

Senza dubbio, i personaggi dirigenti schizzavano tutti quanti - in conseguenza delle vicende della loro vita - sacro orrore per la rivoluzione, e provavano bisogno di riposo; ma possedevano un grado assai diverso di intelligenza o non intelligenza della giustizia delle pretese politiche o nazionali dei governati. Quantunque mistiche fantasie potessero aver scosso di già il liberalismo dell'impressionabile imperatore Alessandro I di Russia, egli seguitava a tenerci all'indipendenza dei popoli, come lo dimostra il suo contegno nella questione della costituzione francese e così via.
Forse egli promosse nella sua Polonia la cooperazione costituzionale dei sudditi nel governo dello Stato non soltanto per un motivo speciale, essendo anche (e rimase pure nel 1819) propenso a concedere lo statuto ai suoi Russi, sebbene la coscienza autocratica in lui soggiogasse, certo più d'una volta, l'elasticità del volere, oltre a ciò già fiaccata da una torbida esperienza della vita.

Averlo, lo Zar, a poco a poco, attirato alle idee di una politica quietistica, rigidamente proibitiva, fu il capolavoro della diplomazia metternichiana. Il principe Clemente Metternich, esecutore dell'integrale assolutismo di Stato di Francesco I d'Austria, il suo padrone, difficilmente guidabile, con la modesta cortezza di vista, propria dei politici conservatori, non apprezzò, come si conveniva, la forza delle tendenze del suo tempo, e ritenne, senz'altro, più salde le vecchie idee, ma andò con molta audacia incontro al nemico nel suo territorio, attaccando dovunque, con un'energica offensiva, le restrizioni costituzionali e nazionali al Governo autocratico. I buoni successi in questo campo lo resero, per lungo tempo, il centro della politica europea.

Nonostante il rancore per la sua politica oppressiva contro tutto ciò che aspirava a un po' di libertà, bisogna riconoscere che Metternich nel suo aut-aut era, se ci mettiamo nei suoi panni, dalla parte della ragione. L'Austria era necessaria all'Europa, come dimostrarono efficacemente le vicende della lotta di emancipazione dal predominio napoleonico.
Per proteggerla contro l'interna sua malattia, e conservarla quale baluardo europeo, occorreva che il sangue fresco degli orientamenti nazionali e costituzionali fosse eliminato dalla circolazione della vita popolare, e possibilmente reso innocuo in ciascuno stadio della sua elaborazione. Per questo motivo, dopo la conclusione della pace, Metternich, il reggitore dello Stato austriaco, il quale non era ancora giunto alla vanagloria di sé stesso degli anni posteriori, tremava del liberalismo dello Zar, che ancora non era stato possibile indurre ad acconsentire al principio di una speciale garanzia contro pericoli esterni ed interni.

Testimonianza della romantica consacrazione della persona dello Zar all'umanità (di cui Giuliana di Krüdener era sacerdotessa, ma non suscitatrice) è l'atto della Santa Alleanza, sottoscritto nel settembre del 1815 dai sovrani di Russia, d'Austria e di Prussia, e pubblicato nel 1816; al quale, un po' alla volta, accedettero i più dei potentati.
Ma il suo principio di cristiano amor fraterno, come unico fondamento d'ogni politica, fu dalle altre Potenze posto subito in disparte, quando esse, alla conclusione della pace del 20 novembre 1815, trattarono l'irrequieta Francia in maniera assolutamente più dura di quel che non avessero fatto prima dei cento giorni.
Insieme con una piccola restrizione di territorio, con la gravosità di un risarcimento di guerra di 700 milioni di franchi, con la restituzione delle opere d'arte asportate, i Francesi dovettero, per un quinquennio, accettare la permanenza d'un corpo d'occupazione europeo di 150.000 uomini, sotto gli ordini del duca di Wellington, a proprie spese, nei loro dipartimenti nordici e orientali (non c'è da meravigliarsi che i francesi tutto questo se lo ricordarono poi nel 1918 e ripagarono la Germania con la stessa moneta ).

Inoltre si accompagnò segretamente, in quel medesimo giorno, il rinnovamento della lega di Chaumont fra gli antichi quattro avversari capitali della Francia con l'obbligo d'appoggiare con le intere loro forze, nel caso di bisogno, l'esercito occupante. Convegni dei sovrani d'Inghilterra, di Russia, d'Austria e di Prussia dovevano, anche cessata l'occupazione, assicurare il loro accordo rispetto agli interessi e alla pace (6° articolo).
Da questa radice germogliò in seguito quel diritto d'intervento di fronte agli Stati stranieri, che le quattro grandi potenze si arrogarono, quasi fossero una provvidenza divina europea.

In Francia si esercitò inoltre una specie di polizia, mediante una conferenza permanente degli inviati delle quattro Potenze insieme al comandante supremo dell' esercito d'occupazione, persino riguardo alla politica interna del Re. Una così fatta dipendenza, durante la pace, produceva alla Francia l'effetto di una scheggia fra pelle e pelle.
La Russia, desiderosa di legare a sè più strettamente tanto la Spagna, quanto la Francia, procurò la pronta riduzione di un quinto dell'esercito europeo d'occupazione, e poi inoltre la diminuzione delle richieste di risarcimento, già notificate.

La fine dell'occupazione prima del termine fissato fu il più importante problema del primo dei previsti congressi dei monarchi, il quale si riunì, sullo scorcio del settembre 1818, in Aquisgrana, e giunse a riconoscere negli atti protocollari l'ingresso della Francia nella compagnia delle rimanenti Potenze, quando, dopo l'adempimento della maggior parte degli obblighi impostile, ne fu stabilito lo sgombro completo alla fine del novembre.
Ma, oltre a ciò, i quattro antichi alleati s'intesero, notificandolo, di soppiatto, soltanto al Re di Francia, intorno alla segreta continuazione della loro lega di sicurezza, anzi addirittura intorno ai provvedimenti strategici nel caso di bisogno, e previdero congressi dei plenipotenziari della quintuplice alleanza per sopravvivere all'esecuzione dei trattati e agl'interessi comuni.

A Aquisgrana si era levato l'astro del Metternich, il quale da allora in poi divenne di fatto il timoniere dell'Europa, dato che il terribile Alessandro era del tutto trasformato, essendosi alle sue impressioni spiacevoli sulle condizioni della Francia e della Germania aggiunta la scoperta di società segrete fra gli ufficiali russi, in maniera che - timorato com'era - egli appariva ormai l'autentico campione della tranquillità e della conservazione ad ogni costo. Se in Aquisgrana non si giunse ad un formale trattato di assicurazione delle corone fra loro, dipese soltanto dall'atteggiamento dell'Inghilterra.

Nel 1819 il Metternich portò a termine il tentativo fortunato di spegnere, mediante la confederazione tedesca, la vita costituzionale dei singoli Stati; nel 1820 iniziò la grande opera, il vero e proprio periodo della politica dell'intervento, dato che incominciava a risplendere in abbaglianti caratteri di fuoco la parola che, a modo di spauracchio, era, da tempo, dipinta sulla parete: la rivoluzione.

Le violente convulsioni che, rapidamente, una dietro l'altra, proruppero nella penisola pirenaica e nell'appenninica, ebbero esteriormente il carattere di rivoluzioni militari, e quindi, a priori, la coscienza giuridica formale contro di sé, perché implicavano la rottura di un obbligo, derivante da un giuramento.
Da quegli sconvolgimenti fu punito l'ingeneroso concetto dinastico di costruire nuovi ordinamenti e la ceca cura di conservarli, onde era offeso un orgoglio nazionale, non per nulla ben delineato.
I Governi restaurati avevano, per lo più, preso troppo alla leggera il debito di curarsi d'un ragionevole componimento degl'interessi popolari o delle varie classi sociali, cresciuti oltre modo durante il loro sonno profondo, pari a quello dei vecchi ceti nobiliari. L'abisso poi si approfondì per l'inconsiderata propensione a un potere assoluto e per un'astiosa mania di persecuzione contro non pochi personaggi, che, nel periodo trascorso, avevano avuto una parte importante nel campo contrario.

Nella Spagna comparvero allora, come conseguenza dei contrasti fondamentali d'interessi e d'idee, le denominazioni di liberali e di servili. Tra i caporioni dei moti e tra il loro seguito nelle moltitudini germogliò una volubilità quasi fanciullesca, un appassionato disconoscimento della realtà, e, in rapporto con ciò, un'affascinante superstizione per la forza taumaturgica delle forme politiche costituzionali.
Solo la difficoltà di trovare qualcosa di meglio può, fino a un certo punto, spiegare che il liberalismo giungesse proprio ad attaccarsi, quasi a un palladio della libertà, alla costituzione spagnola del 1812, a quella radicale creazione delle Cortes, assediate in Cadice, contraddittoria in sé stessa, e per un paese, risospinto da una guerra distruttrice in una semibarbarie, del tutto inadatta, che il Borbone, restaurato nel 1814, si era affrettato ad abolire.

L'abuso, addirittura mostruoso, dell'autorità assoluta, fatto dal Re Ferdinando VII, congiunto con una incapacità politica, che sbigottiva persino i gabinetti delle grandi Potenze, diede ancor di più a quella costituzione, agli occhi dei liberali perseguitati, una specie di aureola; il malcontento si estese all'esercito, che si lasciava tentare, mentre venivano ristabiliti quasi tutti gli antichi privilegi della Chiesa e della nobiltà.

L'arbitrio della corona avendo condotto alla rivolta delle colonie, abbandonate a sé stesse nel periodo napoleonico, nel Cile, nel Venezuela e nei paesi de La Plata, ed essendo le truppe, da molto tempo assuefatte alle cospirazioni, arrivate nel gennaio 1820, mentre stavano in Cadice per imbarcarsi alla volta dell'America, a proclamare di fronte all'insanabile sgoverno, la costituzione del 1812, quell' impulso rivoluzionario si propagò rapidamente.
I circoli, favorevoli alla costituzione, si spinsero a dar la parola d'ordine per il movimento nella speranza di una futura revisione; ma il radicalismo d'altri circoli, e l'instabilità del Re sbarrarono questa via.

Il 7 marzo, Ferdinando VII si dichiarò pronto a giurare la costituzione del 1812, e due giorni dopo si vide sorvegliato da una giunta provvisoria. Nelle Cortes i moderati si sottomisero agli esaltati, in parte per l'infedeltà della Corona, in parte, perché il clero, sdegnato della soppressione dei chiostri, eccitava nelle province la popolazione e si metteva a formare i cosiddetti "eserciti della santa fede".

Dinanzi alla guerra civile Ferdinando VII implorò fin dall'ottobre del 1820 il soccorso delle corti Straniere.

Già lo Stato confinante, il Portogallo, angustiato da discordie coloniali, era incappato in una sorte molto simile. Fin dal 1807, quando il fuggiasco Re Giovanni aveva trasportato la propria residenza nel Brasile, il paese era, per così dire, rimasto sospeso fra la protettrice Inghilterra e il regno, ormai indipendente, del Brasile. La reggenza, che governava nel nome del Re sotto la più energica tutela del comandante supremo, l'inglese Beresford, non poteva risanare le ferite, inferte alla nazione, perdurando i privilegi della nobiltà e del clero, e il predominio del commercio britannico.

Così il 25 agosto 1820 avveniva in Porto una rivolta militare, che si propagò rapidamente, e portò alla proclamazione per opera delle Cortes della (tanto celebrata e imitata)"Costituzione spagnola del 1812".

Prima di questi eventi, in Italia il sinistro spirito rivoluzionario e la strana venerazione della costituzione spagnola avevano prodotto simili risultati, sebbene in Napoli la monarchia restaurata avesse lasciato in vita in grandissima parte la legislazione civile francese. Quando Ferdinando IV tornò dal suo asilo di Sicilia nel continente, dal titolo, riconosciuto conforme al diritto internazionale, di Regno delle due Sicilie, trasse subito la conseguenza che la costituzione della Sicilia, introdotta sotto l'influsso inglese, dovesse abolirsi.

Però quel monarca indolente ed incolto seppe, ben presto, far odiare la sua autorità assoluta con gli spropositi suoi e con quelli dei suoi dipendenti. Il suo Governo, senza energia per favorire il benessere popolare, spregiatore ombroso degli uomini colti e provati dell'esercito e della marina, cercò un sostegno nel clero: per il rimanente apprezzò solo i servizi resi al sovrano, e si avvilì per i suoi intrighi con i masnadieri; di modo che la società segreta dei carbonari, introdotta nel periodo napoleonico rinnovata dal sentimento nazionale, si diffuse tra i malcontenti dell'esercito.
Tanto la setta dei calderari, contrapposta a quella dei carbonari, quanto la guardia cittadina non formavano un ostacolo sufficiente al propagarsi del movimento carbonaresco, i capi del quale, già ufficiali murattiani, avvocati, artisti e industriali, aspiravano ad una costituzione.
Alla notizia perciò dei progressi della rivoluzione nella Spagna i caporioni occulti, il più autorevole dei quali era il Generale PEPE, si adoprarono, affinchè venisse anche a Napoli proclamata la costituzione del 1812 (3 luglio 1820).

Di fronte alla sollevazione generale dell'esercito, quattro giorni dopo, il duca di Calabria, come luogotenente generale del regno, accettò lo statuto; e il Re, tremante di paura, l'approvò, e più tardi giurò anche quella costituzione, di cui era prevista l'eventuale revisione per opera di una rappresentanza nazionale. La Sicilia, che voleva ad ogni costo essere indipendente, si separò, e fu necessario riassoggettarla con la forza.
I guardiani coronati dell'ordine europeo potevano ormai mettere a riscontro gli omicidi politici, avvenuti altrove, con la levata in armi del mondo cospiratorio carbonaresco, per indagare i disegni delle trame sotterranee dei partiti rivoluzionari organizzati.
Lo Zar stesso, interessato per ragioni egoistiche a favore della Spagna, avrebbe, nel marzo 1820, usato volentieri dell'influenza delle grandi Potenze contro la ribellione militare spagnola. Quantunque Inghilterra ed Austria gli si fossero, per motivi diversi, mostrate contrarie, il Metternich cambiò d'improvviso, atteggiamento, quando dagli episodi di Napoli, in occasione dei quali si supposero ramificazioni carbonaresche negli altri Stati, e disegni di unità nazionale, apparve minacciata lo stesso "predominio" austriaco in Italia.

In Vienna si sarebbe, con tutto il piacere, proceduto per proprio conto: ma la Francia avrebbe volentieri visto sostituire l'infelice costituzione spagnola con un'altra più moderata, se alla sua mediazione non si fosse opposto la miopia del Re, e dei liberali napoletani.
Anche allo Zar russo, che dava tuttavia ascolto al conte Capo d'Istria, favorevole alle idee costituzionali, all'inizio la cosa dovette apparire sotto diverso aspetto. Nel congresso di Troppau, a cui i monarchi delle tre Potenze orientali assisterono di persona, mentre l'Inghilterra e la Francia deputarono degl'inviati, ci fu dall'inizio poca concordia, e, solo quando Metternich ebbe definitivamente guadagnato l'animo dello Zar alle sue idee, le tre Potenze orientali si accordarono, il 19 novembre 1820, nel compilare un protocollo, che servì di fondamento a una circolare posteriore, per fissare un principio assai singolare d'intervento.

Per salvare l'Europa dal flagello della rivoluzione, la lega europea era, nel caso d'un violento mutamento del Governo in uno Stato, e quando il male minacciasse d'estendersi, obbligata a rimettere, pacificamente o con la forza delle armi, le cose nelle condizioni richieste, per appartenere alla santa alleanza. Al che solo per desiderio di mantenerla parvero rassegnarsi l'Inghilterra e la Francia, pur non dando il loro voto favorevole.
Le Potenze si accordarono che l'Austria sola dovesse prestare il suo appoggio militare, ma che prima il Re delle due Sicilie fosse invitato a tentare personalmente una mediazione tra le Potenze e il suo popolo.

Come teatro di quel gioco di prestigio venne scelta Lubiana nella Carniola, dove si aprì, nel gennaio del 1821, un nuovo congresso, alla deliberazione del quale il Re Ferdinando, disdicendo i ripetuti solenni giuramenti, si sottomise troppo volentieri.

Il triste ritorno del re deluse le aspettative dei suoi sudditi, che lo accusarono di doppiezza e perfino di tradimento, ma forse Ferdinando a Lubiana sperava che le altre potenze europee come la Francia e la Gran Bretagna, si sarebbero opposte all'intervento dell'Austria su uno Stato sovrano che non aveva - nella sollevazione del '20 -  provocato nessun disordine pubblico. Ma  le altre potenze non si mossero e neppure ascoltarono i motivi per cui aveva concesso la costituzione.  E così Ferdinando alla fine pensò solo più alla sua sopravvivenza, e per sopravvivere in un clima rivoluzionario, iniziò ad assecondare la corte di Vienna.

Sbaragliati da sessantamila Austriaci, sotto il Frimont, il 7 marzo, a Rieti i reparti dell'esercito napoletano, di gran lunga più deboli degli imperiali e senza carattere, il Re Ferdinando sciolse il suo esercito (chiamato a Vienna"ribelle") e governò sotto la protezione delle baionette austriache, e sprezzantemente incurante delle pretese giustificate della popolazione (che all'inizio aveva molto amato, fin da fanciullo, assimilando la partenopea allegrezza ma anche il dialetto napoletano e il modo popolano di vestirsi).

Nel frattempo, tre giorni dopo lo scontro di Rieti, era scoppiata una sollevazione, parzialmente militare nel Regno del Piemonte, in Alessandria e Torino e così via. I primi nomi della nobiltà piemontese si trovavano fra gli ufficiali, che accettarono la bandiera verde, bianca e rossa, e la costituzione spagnola 1912, col proposito di concentrare la coscienza nazionale contro la dominazione straniera (e questa era di fatto e a tutti gli effetti: l'Austria)
Il principe Carlo Alberto di Carignano, prossimo al trono, anche lui consapevole, e fino a un certo punto complice, ebbe nelle sue mani, dopo l'abdicazione del Re sopraffatto, e sino all'arrivo del successore (Carlo Felice) , la reggenza. E proprio durante questa fu lui a concederla o almeno ad appoggiarne la richiesta. Ma ben presto egli salvò sé stesso e il suo avvenire. Senza nemmeno aspettare i promessi rinforzi russi, le forze austriache sbaragliarono, l'8 aprile, a Novara gli avanzi dei congiurati, prima che la fiamma fosse guizzata, di là dalla frontiera, nella Lombardia, e lasciarono dodicimila uomini nelle fortezze del Piemonte per proteggere il reazionario Re Carlo Felice prontamente rientrato a Torino. Mentre il "discolo" Carlo Alberto fu per dieci anni esiliato prima a Novara poi a Firense.

Così la bandiera austriaca sventolò, con poca soddisfazione della Francia, rimasta in disparte, sull'intera penisola italiana: perché pure Ancona, su richiesta del papa, aveva ricevuto una guarnigione imperiale austriaca.
Ma al grande «castello imperiale» viennese era riservata, per un altra volta, l'esperienza che la durezza dell'Austria nell'esercitare l'incarico, ricevuto dalle Potenze orientali, di guardiana dell'ordine, scalzava lentamente, ma inisorabilmente le fondamenta dell'edificio politico absburghese in Italia.

Nella Spagna la guerra civile toccava il colmo, quando il regio esercito della santa fede ebbe, nella conquistata fortezza montana di Seo d'Urgel, proclamato una reggenza per il sovrano legittimo, ma non libero di sé (agosto 1822).
Posto tra l'incudine degli esaltati, che già mettevano in disparte i liberali costituzionali, e il martello dei servili, assetati di vendetta, Ferdinando VII visse una sospettosa vigilanza dei suoi propri ministri, soprattutto dopo questo tentativo, andato a vuoto, di violenta emancipazione.
Il pericolo, che correva la sicurezza personale del Re, pose, contro il primitivo proposito, la questione spagnola sul proscenio del congresso, il quale, nell'ottobre del 1822, fu, di nuovo sul suolo austriaco, aperto in Verona.

E' ricca di significato (!!) la Memoria presentata al Congresso degli Stati Europei dal Duca di Modena Francesco IV  a Verona nell’ottobre-dicembre 1822- per stroncare in Italia ogni velleità liberale, dopo quel "sapore di libertà" provata nel periodo napoleonico dagli italiani. Da Metternich quella velleità liberale fu chiamata "rivolta degli spiriti" che dovremmo sfruttare ora a nostro vantaggio, mettersi noi alla loro testa". (S'impossessarono insomma dell'arma di Napoleone!)

Ecco il documento (testo fedele compresi gli errori)

"Ai potenti  saggi d'Europa dopo i Moti del 1820-21. 
L'Italia è corrotta -
Le riforme costituzionaliste ?  un pretesto, non ragione della Rivoluzione

" ... Se si considera lo stato precedente in cui si trovava l’Italia prima della rivoluzione di Francia, il carattere e i costumi differenti dei differenti popoli d’Italia, se non vi si mette rimedio pronto ed efficace, e quali sarebbero i rimedii principali che bisognerebbe avere in vista per assicurare la felicità di questi popoli e ottenervi una durevole tranquillità. I principali difetti adunque possono ridursi ai seguenti:

1. La mancanza di religione e l’avvilimento nel quale si è voluto gettarla, come la guerra costante che si è fatta ai suoi principii, alle sue prattiche e ai suoi ministri.

2. La diminuzione del Clero e l’avvilimento nel quale si è voluto gettarlo, come la sua indipendenza dal Capo della Chiesa, che si è voluto introdurvi.

3. L’annientamento della Nobiltà, privandola di tutte le sue prerogative, volendola impoverire, avvilire ed eguagliare alle classi inferiori.

4. La limitazione dell’autorità paterna, di quell’autorità stabilita da Dio stesso, ed è voluta dalla natura.

5. La suddivisione delle fortune per mezzo di leggi e concessioni fatali, che dissolvono le famiglie e tutti i loro beni, e tendono a ridurre a poco a poco gli individui egualmente infelici.

6. La milizia troppo mercenaria, guasta nei principii, e indifferente a servire chicchessia, se la paga bene, ed a cambiare padrone se spera migliorare la sua sorte.

7. La corruzione dei costumi voluta e stabilita come principio a meglio sradicare la religione, i buoni sentimenti, l’onore, e rendere gli uomini brutali, a fine di poter meglio servirsene come istrumenti nell’esecuzione di tutti i più perfidi disegni; poiché l’uomo che si lascia prendere la mano dalle passioni brutali, perde ogni energia, ogni capacità, diviene una specie di bestia o di macchina.

8. La corruzione della dottrina e dei principii, ciò che si effettuò con la libertà della stampa, e con la grande premura di spargere cattivi libri, di allontanare i buoni, e di far sì che tutte le classi imparino a leggere e scrivere, ed abbiano qualche idea di studii per avere il mezzo di influenzarle.

9. La buona educazione della gioventù impedita, e la cattiva facilitata, incoraggiata, ecc.

10. L’abolizione delle Corporazioni religiose e delle Corporazioni secolari, come quelle delle arti e mestieri, che distinguono le classi degli uomini, le tengono in una necessaria e salutare disciplina, e che servono ad occuparli.

11. La pericolosa e viziosa moltiplicazione degli impiegati e il "male è" che ciascuno possa aspirare a qualunque carica, senza differenza di stato e di condizione.

12. I troppi riguardi e la considerazione che si dà, senza distinzione di merito, ad ogni uomo letterato, e la soverchia moltiplicazione di professori d’ogni sorta, il troppo potere e diritto che loro si concede, la troppo grande facilità stabilita ovunque per la gioventù di studiare, ciò che rende tanta gente infelice e scontenta; poiché non tutta trova ad occuparsi, e i soverchii studii che si sono fatti fare a ciascuno, fanno sì che in fondo non imparino niente, e divengano presuntuosi.

"È d’uopo qui aggiungere alcune altre cause di rivoluzioni, alle quali è necessario cercare di rimediare, e sono:

I - L’ozio, che è molto amato in Italia e che bisogna vincerlo e combatterlo, giacché trascina tutti i vizii ed è una grande sorgente di rivoluzioni.

II - Il grande amalgamamento continuo con tanti forastieri che sono incessantemente in moto per tutta Italia, e che portano dappertutto la corruzione dei costumi, e guastano lo spirito nazionale e i buoni principii.

III - La soverchia lungaggine nell’amministrazione della giustizia, vuoi nei processi civili, vuoi nei criminali.

IV - La instabilità delle imposte, che è talvolta più sensibile e dispiace più della gravezza delle medesime.

V - Certe imposte vessatorie nel modo di percezione, o che non sono ben proporzionate e divise; come ancora, allorché per uno squilibrio delle finanze si è obbligati a sopraccaricare il popolo di tasse.

VI -  Le leggi che inceppano il libero commercio delle derrate, principalmente quelle di prima necessità, dei commestibili, ecc.; giacché la mancanza o la penuria dei medesimi suscitano egualmente lagnanze e mormorazioni, come la loro troppa grande abbondanza che ne avvilisce il prezzo e avvezza troppo la plebe a una felicità, che, non potendo durare, la rende infelice, allorché finisce; invece che il libero commercio di quelle derrate la tiene sempre in certo equilibrio" 

 Duca di Modena FRANCESCO  IV

(Da Storia documentata della Diplomazia europea in Italia dal 1814 al 1861 di Nicomede Bianchi. — Torino 1865, vol. 2 pag. 357)

 


Dei monarchi presenti a Verona, l'Imperatore di Russia favorì l'intervento armato e trascinò con se il Re di Prussia; ma il Metternich non era senza preoccupazioni, e alla fine si piegò alla volontà dello Zar per mantenerlo in un atteggiamento, diplomaticamente corretto, verso un'altra insurrezione, quella greca.

In realtà molte erano le ragioni che davano da pensare. L'Inghilterra, che in Lubiana aveva, per riguardi parlamentari, rifiutato di partecipare al consolidamento del diritto d'intervento, ma in fin dei conti non l'aveva visto mal volentieri attuato a Napoli, si dichiarò a Verona (e per giunta per bocca di un conservatore, come il Wellington) contraria a ogni ingerenza nelle faccende interne della Spagna.

Il Governo ultrarealista della corte francese, imparentata con quella spagnola, il quale, da un pezzo, appoggiava di soppiatto la «reggenza» dei monarchici, non voleva assolutamente saperne di una spedizione di truppe straniere in Spagna, né, in nessun caso, fornire forze proprie, sulla base d'una formale proposta d'intervento, fatta dalle grandi Potenze.

Soltanto alla partigianeria dei plenipotenziari francesi fu dovuto, se la Francia, pur esprimendo molto blandamente la sua opinione contraria, acconsentì alle deliberazioni del congresso, rivolte contro il Governo esistente nella Spagna. Non essendo valse né le note minacciose delle Potenze a Madrid, né la rottura dei rapporti diplomatici col richiamo degl'inviati delle quattro Potenze a piegare l'ostinazione spagnola, i Francesi, nell'aprile del 1823, non senza una certa inquietudine per il ricordo delle esperienze napoleoniche, avanzarono malvolentieri nella Spagna, sotto il comando del duca d'Angoulême.
Occupata Madrid dagli invasori, quasi senza colpo ferire, il Governo, traendo con sè il Re, ormai non più libero, si ritirò a Cadice, espugnata poi nell'autunno, e, dopo trattative assai lunghe, acconsentì a lasciar libero Ferdinando VII, che, sotto la protezione delle baionette francesi, annullò quanto durava dalla rivoluzione in poi.

I Francesi, i quali, almeno dall'inizio, avrebbero desiderato un avvicinamento delle istituzioni spagnole alle loro, provarono tutt'altro che soddisfazione, assistendo alla crudelissima politica repressiva del Re; politica che produceva un tremendo malcontento anche nell'animo degli inviati delle altre Potenze.
Fra gli eventi, più evidenti, agli occhi di tutti, le crepe della grande alleanza, fino allora, per quanto scossa all'interno, all'esterno passabilmente salda, parleremo prima, tenendo conto della loro connessione ne' vari Stati, di quelli portoghesi.
Nel Portogallo era venuta fuori dalle deliberazioni delle Cortes, insediate dopo la rivoluzione del 1820, la costituzione del 1822, accettata dal Re Giovanni, rimpatriato; ma, avendo la proclamazione dell'Impero del Brasile sotto lo scettro del suo primogenito, Pietro, arrecato una grave ferita all'orgoglio portoghese ed anche al commercio, danneggiato dall'indipendenza della colonia, gli avversari, nobili ed ecclesiastici, dello spirito nuovo trovarono un appoggio anche nella regina, sorella del Re Ferdinando di Spagna, e nel suo secondogenito, Michele.

Così nel 1823 trionfò, sotto l'impressione dei buoni successi francesi in Spagna, la controrivoluzione. Morto il Re Giovanni, che era stato in grado di sostituire alla costituzione abolita uno statuto più moderato e adatto al grado di coltura del popolo, divenne regina del Portogallo la figlioletta del suo primogenito, Donna Maria da Gloria (1826), a causa della rinunzia condizionata del suo imperiale padre, Pietro.
Per togliere di mezzo ogni pretesa contraria, essa fu, un po' più tardi, fidanzata col suo zio Don Michele, non ancora maggiorenne, mentre contemporaneamente Don Pietro concedeva, con la più grande libertà e spontaneità, una costituzione al paese.

Con tutto ciò il Metternich vide minacciato di morte e di distruzione l'ordine sociale. Avendo la Spagna assolutista, interessata a impedire la vita costituzionale nello Stato limitrofo, fornito aiuti agli avversari indigeni della costituzione, si riaccese la guerra civile. Al grido di soccorso della reggente, posta da Don Pietro a governare durante l'età minore di Maria, giunsero truppe dall'Inghilterra, dove il CANNING promise di proteggere le nazioni minacciate dall'intervento della santa alleanza, e, prima delle altre, il più antico alleato, ammonendo "quanto grande fosse il peso delle forze rivoluzionarie, che guardavano all'Inghilterra e alla sua bandiera".
La sua morte prematura cancellò l'efficacia delle sue parole, risuonate solenni in tutta l'Europa.

Don Michele sì lasciò trascinare, in disprezzo di quella legittimità, di cui voleva essere campione, a farsi proclamare, abolita la costituzione, Re (1828) in luogo della novenne Donna Maria, rifugiatasi in Inghilterra, mentre l'astiosa lotta fra liberali e assolutisti si ricollegava, in apparenza, con le pretese di quei due personaggi, così strettamente imparentati. L'opinione liberale parteggiò dovunque per Donna Maria e per la costituzione: il favore visibile delle Potenze toccò a Don Michele, che spezzò, con un disordinato regime terroristico, ogni resistenza.

Gìa si é parlato della rivolta delle colonie spagnole dell'America centrale e meridionale, contro l'indipendenza politica delle quali la Spagna assolutista aveva, da un pezzo invocato l'appoggio delle potenze, che nutrivano le sue stesse apprensioni. Era affatto impossibile, per il timore di un eventuale prorompere di tendenze repubblicane nella vecchia Europa, preparare una crociata legittimista; era però nell'aria un vivo desiderio di convocare un congresso, che intervenisse in favore della madrepatria delle colonie ribelli.

Un ammonimento venne dalla confederazione dell'America nordica, fino allora poco reputata politicamente, avendo l'8 marzo 1822, su proposta del presidente, il congresso degli Stati Uniti proclamato il diritto delle repubbliche della Nuova Spagna a veder riconosciuta la loro indipendenza, e avendolo in parte attuato.
Ma, poiché la Spagna non tralasciava i suoi maneggi con le altre Potenze, il presidente Monroe dichiarò, all'apertura del congresso, il 2 dicembre 1823, che "l'estensione del sistema politico delle Potenze europee in America non poteva lasciare indifferenti gli Stati Uniti, e che il continente americano non poteva più esser colonizzato da qualsiasi Stato europeo" (Dottrina Monroe).
Ma quegli Stati latini con popolazione mista, invano aspiranti ad annodare fra loro stretti rapporti, si vennero consolidando con troppa lentezza, sebbene in Inghilterra il ceto commerciale chiedesse da tempo che venisse regolato il traffico con essi.

Solo nel 1824 l'Inghilterra incominciò, suscitando la più grande collera dei gabinetti continentali, a nominare consoli presso le repubbliche meridionali più salde, e nel principio del 1825 effettuò, mediante la conclusione di trattati commerciali, il riconoscimento, conforme al diritto internazionale, di quelle meglio ordinate. Così si costituì il nuovo mondo politico di là dall'Oceano, mentre il riconoscimento del suo diritto all'esistenza apriva la prima grande breccia nel sistema, che portava il nome del Metternich.

Le rivoluzioni, fino allora avvenute, avevano tutte avuto il marchio della violazione del giuramento di fedeltà alla bandiera; invece l'insurrezione greca, la sollevazione di un popolo, da secoli oppresso, contro i suoi tiranni, di un'antichissima nazione, nonostante tutto, civile, contro i suoi despoti musulmani, non poteva contenete in sé neppur l'ombra della sedizione militate, giacché la legge religiosa dell'Impero ottomano escludeva gli infedeli dal servizio militare.

Da lungo tempo erano fenomeni quotidiani nella vita dello Stato turco le sollevazioni dei pascià di singole province (Alì pascià di Giannina), e il rallentamento continuo dei vincoli con l'Impero (Egitto, Algeria, Tunisia). Quantunque il Governo centrale del Gran sultano, sminuito di poteri dagli ulemi e dai loto seguaci, dalla casta guerriera dei giannizzeri da moltissimo tempo ereditaria si fosse oltre modo indebolito, tutto ciò non aveva scemato la fiducia del Gabinetto austriaco nella vitalità di un Impero, la caduta del quale avrebbe prodotto molestie e pericoli di ogni sorta.
Nonostante la fondamentale varietà della popolazione, allargatasi, come un accampamento militare, nel sud-est dell'Europa, si vide nel sultano soltanto il legittimo principe, e nelle nazioni cristiane, in lotta per per la propria autonomia nella Baleania, dei rivoluzionari; tanto é vero che l'Impero degli Absburgo era rimasto freddissimo dinanzi alle battaglie dei Serbi per la libertà fino dal 1811.
Allorché, d'improvviso, dopo le altre rivolte dell'Europa meridionale, il popolo greco, rovinato tanto dai suoi dominatoti, quanto dalle sue colpe, si levò contro gl'infedeli, il grande "castello imperiale" di Vienna non riuscì a scoprire negli Elleni, se non dei complici delle congiuri carbonaresche.

La rinascenza ellenica era cominciata sul terreno della letteratura. Ma ai filomusi, operanti silenziosamente, si era sostituita la società segreta, assai diffusa, degli amici, la quale mirava a una insurrezione di tutti i Greci nella Balcania e sulle coste del Mar nero, ed aveva fra gli iniziati delle alte sfere soprattutto il consigliere intimo dello Zar, il corrotto conte Capo d'Istria.
Quanto meno si riusciva a leggere nell'animo dello Zar, con tanto maggior precisione si calcolava, secondo la consuetudine dei politici popolari di ogni tempo, che la Russia non avrebbe rinnegata la sua missione fra i correligionari, soggetti al dominio turco.
Il Capo d'Istria assecondò la scelta alla testa dell'eteria del nobile Generale russo, prediletto dallo Zar, il principe Alessandro YPSILANTI, il quale guastò ogni cosa, quando, invece di mettersi alla testa degli Elleni del Peloponneso e delle isole, un po' briganteschi, ma pieni di ardori guerrieri, avanzò, nel febbraio 1821, con un proclama, promettente bugiardamente l'aiuto russo, e con un gruppo di armati dei principati danubiani.

Al suo invito alla guerra per l'indipendenza si sollevarono subito le comunità rurali della Morea sotto i loto primati e i loro preti, come pure i selvaggi clefti delle montagne, ai quali tennero dietro i Greci delle isole, in possesso di una marina preparata con cura.
Ma l'Ypsilanti, messo in caccia dalle truppe turche, aveva già dovuto rifugiarsi di là delle frontiere austriache per meditate, dentro le mura di un carcere, a causa della sua stoltezza.
In Costantinopoli il fanatismo popolare infuriò, alla notizia della rivolta, con tremende violenze contro i rajà: il patriarca greco-ortodosso, quantunque avesse acconsentito a scomunicare il principe Ypsilanti, fu impiccato alla porta della sua chiesa, e ne fu gettato il cadavere oltraggiato nel Bosforo: parecchi altri vescovi furono egualmente giustiziati. Il grido di soccorso de' correligionari greci, minacciati dalle forze di un gigantesco Impero, trovò le orecchie chiuse in Russia.

Lo Zar, che durante il congresso di Lubiana, non aveva risparmiato, alla notizia dell'atteggiamento dell'Ypsilanti, la sua disapprovazione, persistette nel suo contegno, anche quando un congresso a Piadha, il 1° gennaio 1823, ebbe proclamato l'indipendenza degli Elleni, e, quando dopo, scoppiato il conflitto, gli orrori degli stermini commessi dai Turchi nell'isola di Chio, ebbero accresciuto il raccapriccio dell'Europa, come l'eroica vendetta delle genti di mare elleniche ed entusiamo per la valorosa difesa dell'assediata Missolungi.

Al congresso di Verona gl'inviati greci non vennero ascoltati. Frattanto la sanguinosa serietà della tragedia, svolgentesi sui campi greci (in contrasto con la sovrabbondanza di parole e con la ripugnanza ai sacrifici dei Latini) aveva incominciato a produrre una profonda impressione sulla colta società europea, tra la quale le reminiscenze degli antichi combattenti di Maratona giovarono ai loto pronipoti.
Simpatia entusiasmo, prontezza a porgere aiuto elevarono rapidamente a una vera potenza, come forma d'attività spirituale e sociale, il "filellenismo" da per tutto, eccettuata l'Austria. Effetti palpabili ne furono l'approntamento di mezzi pecuniari e di armi, la partecipazione di molti filelleni alla guerra, non ultimo, un'efficacia più notevole di quella tenace opinione pubblica sulle sfere governative, tanto che la morte irreparabile di un Byron non parve superflua per la liberazione dei più antichi rappresentanti della civiltà europea.

Ma Alessandro I aveva davvero due anime nel petto: l'una aggrappava il suo timoroso giudizio all'infallibile domma metternichiano della comunanza d'interessi di tutti i monarchi contro la resistenza dei governati; l'altra si accordava con i sentimenti, più cari e più diffusi, dei suo popolo verso i correligionari greci. Del rimanente la Russia si era, molto saggiamente, foggiata con le stipulazioni della pace di Kuciuk-Kainargi (1774) il diritto d'intercedere in favore dei rajà ortodossi dell'Impero turco, e si trovava in conflitto diplomatico per l'interpretazione della pace russo-turca di Bucarest (1812).

Senza rinunziare alle pretese nazionali russe, lo Zar conservò la massima longanimità di fronte alla tattica procrastinatrice della Porta nella speranza d'ottenere una specie d'incarico dall'Europa contro la Turchia; e forse con la sua insistenza per l'intervento europeo nella Spagna mirò a creare il precedente da invocare.
Egli si rassegnò all'inutilità dei suoi sforzi, anzi rimase tranquillo, quando, dopo la morte del Castlereagh, l'Inghilterra dichiarò valido il blocco greco alla costa dell'Epiro, come pure quando, dopo l'indebolimento delle sue forze difensive, il sultano nel 1824 contrattò l'aiuto del suo vassallo, il viceré d'Egitto, contro i ribelli greci, sebbene in ripetute conferenze a Pietroburgo (non sappiamo quanto sincere) Alessandro I cercasse di conseguire un accordo delle Potenze per porre un termine a quegli orrori.

Ma il Russo fece capolino, allorché Alessandro rigettò l'idea dell'indipendenza della Grecia come cosa incompatibile con gl'interessi russi, e, tutt'al più, acconsentì a concedere solo l'autonomia amministrativa, modellata su quella dei principati danubiani, all'Ellade, ridotta a un terzo della sua naturale estensione.
La grande alleanza andò in pezzi dinanzi a questo problema: in più Alessandro morì nel 1825, prima d'aver potuto prendere una decisione in nome della Russia. Il nodo greco poté sciogliersi soltanto insieme col nuovo assetto, dato più tardi alla questione orientale.

segue

188. - 3.- 4.

3. - IL PERIODO DELLA RESTAURAZIONE IN FRANCIA
4. - L'INGHILTERRA PRIMA DELLA LEGGE RIFORMATRICE >

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