-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

190. - 7. 8.) - LA RESTAURAZIONE - IL RIORDINAMENTO DELL'EUROPA


7. - L'ITALIA E LA CHIESA ROMANA
8. - LA RUSSIA E LA QUESTIONE ORIENTALE


7. - L'ITALIA E LA CHIESA ROMANA

L'Italia, eccettuate le isole della Sicilia e della Sardegna, era più o meno pervasa dalle massime della legislazione francese e dalle idee dell'amministrazione napoleonica, quando la restaurazione aveva ricondotto gli antichi sovrani, tutti cacciati senz'eccezione.
Dentro uno strato superiore delle persone colte, massime della burocrazia e dell'esercito, aveva acquistato con l'indebolirsi delle peculiarità municipali e provinciali, determinatezza una propensione all'unità nazionale, suffragata dallo spirito letterario.

Ora l'Italia secondo la convenienza dei dominatori doveva rimanere solo una "espressione geografica", senza qualsiasi forma politica unitaria, cioè una vittima della dominazione straniera dinastica.
L'Austria si era assicurato il dominio nel settentrione mediante il possesso, di fatto illimitato, del suo regno lombardo-veneto; e, mediante le secondogeniture di Modena e di Toscana e provvisoriamente di Parma, l'aveva esteso all'Italia centrale; ma anche agli altri Stati imponeva quasi inevitabilmente la legge della loro condotta.

Con il Re delle Due Sicilie, ritornato a Napoli, l'Austria stipulò uno speciale trattato, per cui egli non poteva concedere ai suoi sudditi nessuna istituzione politica, che l'Austria stessa ritenesse incompatibile con la sua dominazione nel Lombardo-Veneto.

In momenti critici il Metternich credeva di poter probabilmente fare pure assegnamento anche sulla arrendevolezza del regno del Piemonte, sebbene continuasse a mantenersi riservato.
Nello Stato ecclesiastico la parola dell'Austria, la tradizionale primaria Potenza cattolica, doveva sempre avere peso. Non c'era davvero bisogno di spronare lo zelo, con cui, se si eccettua una certa moderazione nella Toscana e un po' anche in Parma, da per tutto venne sradicato senza riguardi fino all'assurdo quanto era stato nel periodo francese fondato in fatto di istituzioni progressive.

ll clero e la nobiltà rientrarono in possesso dei privilegi anteriori alla rivoluzione, almeno di quelli di cui la Corona non era stata erede. Solo nei rapporti fiscali rimasero per le stesse ragioni docili scolari dei Francesi. In mezzo all'oppressione poliziesca e alla persecuzione dell'indipendenza politica e comunale fiorì rigogliosa la mania cospiratoria; in qualche città ben presto a setta si contrappose a setta. Si é già detto come l'Areopago europeo abbia considerato questo principio una piaga. Di qui derivava maggior diffidenza e oppressione.

In nessun luogo il settarismo era più spiacevole che nello Stato ecclesiastico, restaurato con tanto zelo dalle Potenze; intorno al quale, soggetto al pastorale dell'ecclesiasticamente mite Pio VII, e nonostante la perspicacia dell'esperto e colto cardinale Segretario di Stato Consalvi, correva il giudizio che non ci fosse - eccettuata la Turchia - alcun altro Stato europeo peggio governato.

Il principio della teocrazia di affidare tutti i poteri, fin dove era possibile, alle sante mani sacerdotali, stava in aperto contrasto con le pretese di una società informata ad uno spirito moderno. Inoltre questo Stato pontificio, per quanto la sua formazione fosse andata di conserva con quella dell'Italia, si era dimostrato alla prova (cosa del resto non nuova da alcuni secoli) come un organismo contrastante all'evoluzione unitaria della penisola.

La condizione del papa, quale capo della Chiesa cattolica, con doveri eguali verso tutti i suoi componenti parve proprio allora opporsi a una trasformazione sotto questo rispetto. La Chiesa cattolica apparteneva alle forze spirituali della generale restaurazione del secolo XIX.
La delusione intorno al risultato dell'evangelio umanitario rivoluzionario e un mutamento degli animi nel profondo, causato dal bisogno dei tempi, arrestarono la bassa marea del sentimento religioso anteriore al 1789 e produssero anche nei ceti colti un fiotto lentamente crescente di fede.

Come é dimostrato pure dalle numerose conversioni di persone coltissime, il risveglio delle anime favorì prima di tutto quella comunità religiosa, che, come la cattolica, si vantava della più palpabile certezza della salvazione.
Con avvedutezza e con molto zelo Pio VII e i suoi successori ebbero cura di approfittare delle favorevoli condizioni: proprio nel 1814 avvenne il ristabilimento della compagnia di Gesù: subito in Francia e in Germania gli zelanti si organizzarono, si opposero e ai concetti più liberi intorno alla Chiesa ed al dogma, sopravviventi anche nel clero e nella scienza: ben presto crebbe una nuova generazione di ecclesiastici, ai quali, per motivi dogmatici, ogni dignitosa tolleranza apparve un orrore.

Questo clero era nutrito della massima dei "curialisti", che cioè alla Chiesa, quale istituzione divina, col suo diritto canonico sia segnata la via sicura per la sua posizione nel mondo di fronte allo Stato: questa via permette, per evitare mali maggiori, certamente delle eccezioni, ma esclude una duratura rinunzia in qualsiasi punto.

C'era, come abbiamo visto in precedenza, mancato poco che in Francia quella massima trionfasse con l'abrogazione del concordato e degli articoli organici. Come là, potevano anche altrove, un po' alla volta, spuntarla i desideri degli zelanti curiali. Occorreva ai negoziatori romani, innanzitutto al prudente cardinale Consalvi, molta duttilità per accordare, nel necessario riordinamento delle relazioni ecclesiastiche, spezzate dalla rivoluzione in poi, "le pretese pontificie con quelle territoriali dei Governi".

Qua e là si videro, tale quale come in Francia, vittoriose ancora una volta le idee moderne dell'eguaglianza di diritti delle varie confessioni, nonostante la superiore arte diplomatica di Roma. Bisognò, nella speranza di una futura evoluzione e con la riserva della persistenza del principio canonico, permettere quel che era impossibile mutare.
In verità il concordato concluso nel 1818 col regno delle Due Sicilie fu una completa vittoria, poiché Roma rinunziò ad alcuni privilegi tradizionali in favore del diritto regio nella nomina di tutti i vescovadi, ma ebbe cura di stabilire la subordinazione di tutto il clero, sotto il rispetto disciplinare ed economico, al potere pontificio.
Con la Svizzera la curia per il momento non riuscì a concludere un concordato e col regno dei Paesi Bassi, si accordò prima nel 1821 e definitivamente nel 1827.

In maniera singolare si affrontarono le cose in Germania, dove le condizioni politiche mutate così sostanzialmente rendevano necessaria una vera e propria ricostruzione ecclesiastica.
Invano era stata fatta nel congresso di Vienna l'esortazione di istituire una Chiesa nazionale tedesca sotto l'alta autorità pontificia. Il più insigne portavoce di questo orientamento, il vicario capitolare di Costanza Wessenberg, non riconosciuto da Roma, non si era stancato di chiedere un primate e una maggiore autonomia dei vescovi: ma la gelosia dei Governi, la diffidenza di alcuni contro tutto ciò che aveva un significato tedesco, non permise si facesse un tentativo serio.
Soprattutto il rappresentante bavarese concluse, nel 1817, in Roma contrariamente alle sue istruzioni un concordato particolare per la Baviera, che apriva tutte le porte a tutte le pretese romane.

Il Governo però non potè fare a meno di spogliare l'accordo di quanto conteneva di pericoloso pubblicando quell'editto religioso solo come supplemento alla costituzione promulgata nel 1818 e quindi col mantenimento della parità costituzionale delle varie confessioni davanti allo Stato.

La Prussia si accontentò della bolla intorno alle circoscrizioni ecclesiastiche del 1821, discussa dal Niebuhr e concordata dallo Hardenberg con il Consalvi, con la quale si istituirono nuovi arcivescovadi e vescovadi con una ricca dotazione statale, coincidenti con le frontiere politiche. Venne riconosciuto il diritto elettorale dei capitoli, ma in un modo che fu assicurato allo Stato un precedente diritto di veto.

Simili concordati ottennero l'Annover e gli Stati meridionali tedeschi, designati col nome di provincia ecclesiastica renana superiore, senza che si giungesse però alla sovrana esclusiva nella nomina dei vescovi o alla tratta dei parroci e all'eventuale diritto di consacrazione dell'arcivescovo.
Ma non era troppo lontano il tempo che i seguaci di Roma a loro volta si sarebbero adattati a osare con giudizio e con avvedutezza i mezzi di lotta del liberalismo, cioè la stampa e le associazioni, per irreggimentare sotto l'egida della Chiesa le forze del laicato. Solo allora le vecchie difese del sistema territoriale cedettero.

8. - LA RUSSIA E LA QUESTIONE ORIENTALE

Pochissimo di ciò che alla sua impressionabile gioventù era apparso desiderabile fu effettuato da Alessandro I fino al termine della sua vita in pro del suo impero e del suo popolo: che, non aveva abolito la servitù della gleba dei contadini della corona, tanto meno di quelli dei proprietari nobili, nè attuato le sue idee costituzionali. La autorità del principe, che non era uomo da nulla, ma instabile e da ultimo sfiduciato nel suo ideale, non era riuscita a compiere in Russia mutamenti considerevoli ed era rimasta priva dell'atteso beneficio a causa della crescente importanza della burocrazia, dall'alto fino al basso cupida e poltrona.

La frase che si ripeteva era: "Il cielo è alto e lo Zar è lontano". Le funzioni del consiglio dell'Impero, nominato dallo Zar, erano scarse e spesso misconosciute in alto luogo. Il comitato dei ministri esisteva in realtà soltanto sulla carta; lo Zar governava a suo piacimento d'accordo con i singoli ministri, purchè dei favoriti, come lo Speranski e nel presente periodo lo Araktscejew, non possedessero temporaneamente la sua fiducia.
Mancava del tutto ogni efficace vigilanza sull'amministrazione. L'autorità dei governatori, dei capi della polizia e così via fu così orribilmente abusata da un lato, come, dall'altro, quella dei proprietari di terre, ai quali spettava ogni potere sui loro contadini servi della gleba, eccettuata la facoltà di disporre della loro vita, purché fornissero i coscritti richiesti. Sui contadini gravava il peso delle imposte personali dello Stato, dalle quali però erano esenti la nobiltà, il clero e le corporazioni urbane delle poco numerose città.

Dall'effettiva interdizione dei diritti civili, dal vincolo economico e dall'abbandono sociale dei contadini, cioè della massa di gran lunga maggiore della popolazione, che per la Russia europea si calcolava a 40 o 50 milioni, derivava che il grande Impero slavo fosse all'interno condannato al ristagnamento.
Paesi stranieri come la Finlandia, le province baltiche, dove l'amministrazione autonoma dei proprietari fondiari nobili aveva abolito la servitù della gleba, e anche nell'opera prediletta, ma dolorosa, di Alessandro I, cioè il regno costituzionale della Polonia, si trovavano in una condizione particolare privilegiata.
In questi paesi l'istruzione era da per tutto molto più diffusa che nella vera e propria Russia, dove alcuni germi ben promettenti erano stati sacrificati al sistema e non meno al misticismo religioso del sempre più bigotto Zar, che andava precocemente invecchiando.

La brutale avidità di dominio della Chiesa ortodossa, cui lo Zar nominava il capo, il procuratore del santo sinodo, condusse di buon'ora all'oppressione e alla persecuzione. Il ceto dei parroci, il così detto clero bianco, costituiva una società a modo di casta similmente alle altre classi, spesso ereditaria, chiusa in sé stessa, ignorante e poco stimata. Non si operava niente di notevole per elevare e per educare religiosamente le moltitudini. I testi in mano ai parroci erano piuttosto modesti, oltre che vaghi.

Forse la patriarcale monarchia degli Zar non soddisfece mai così poco, come nel tempo di Alessandro, al suo ufficio ideale, alla rispettosa domanda di essere l'accessibile genio tutelare anche del più povero.
Alessandro si alienò del tutto la buona opinione dei contadini della corona, quando con una ostinatezza, in lui insolita, mandò ad effetto il disegno di trasformare a forza le terre dei contadini soggetti alla corona in colonie militari (quello che fece un secolo dopo Stalin)

Non poteva poi fare assegnamento incondizionato neppure sull'esercito, come in parte egli sapeva, poiché fra gli elementi militari aristocratici si trovavano membri di società segrete con disegni di ogni specie per trasformare l'Impero in una repubblica o in una monarchia costituzionale.
Alessandro I non lasciò nessuna discendenza legittima diretta. Il suo fratello secondogenito, il granduca Costantino, abilitato alla successione conforme alle decisioni a suo tempo di Paolo I, non volle saperne della corona.

Di fronte alla sua precisa rinunzia Alessandro aveva allora stabilito con documento in piena regola, depositato presso diverse autorità, la successione del granduca Niccolò (Terzogenito di Paolo I - 1796-1855) pur mantenendo il più assoluto segreto riguardo a questa determinazione. Quando Alessandro fu morto il 10 dicembre 1825 in Taganrog, Niccolò, nonostante la conoscenza che aveva della faccenda, si vide costretto a giurare fedeltà, come primo dei sudditi, al proprio fratello Costantino. Per ciò, nell'assenza di Costantino, che allora si trovava a Varsavia, sempre fermo nelle sue rinunzie, avvenne uno scompiglio tutt'altro che piccolo, poiché i capi, appartenenti all'aristocrazia militare, di quelle società segrete stimarono giunto il momento per una insurrezione armata, con l'intento d'insediare un Governo provvisorio é introdurre una stabile limitazione della monarchia assoluta mediante una costituzione.

Questa fu l'occasione per la rivolta dei "decabristi" a Pietroburgo del 26 dicembre 1825, la quale impresa, affatto insensata, andò a monte per la saldezza del nuovo Zar Niccolò I (o Nicola I) (1825-1855), il cui Governo fu da quel momento circondato da un'aureola di forza e di energia. Il giovane Imperatore (29 anni), genero del Re di Prussia, non avrebbe potuto desiderare niente di più favorevole per il suo concetto puramente personale dello Stato e del Governo, poiché egli conferì a tutto il sistema una forma militare-gerarchica, rispondente al suo temperamento, ma ripugnante ai residui dell'origine patriarcale del potere degli Zar.

Questo orgoglioso sovrano era un cervello ristretto, autoritario (fu detto "gendarme d'europa"), che credeva, mediante un aspro regime assoluto e personale, di creare un potere supremo contro la rivoluzione tanto in Russia, quanto in Europa. Forte e inattaccabile, secondo il concetto proprio e quello degli uomini, si ritenne ben presto destinato a ciò assai più dell'Austria. All'interno si inasprì il sentimento di un arbitrio autocratico a causa della famigerata terza divisione della cancelleria imperiale (invio amministrativo in Siberia).
Sotto questo Governo non c'era spazio alcuno per provvedimenti liberali; gli uomini un po' indipendenti, con tutte le nuove tendenze educative, anche nell'insegnamento, apparivano un pericolo. Il modo onde Niccolò, in contrasto con l'Austria, ma anche col suo antecessore, prese posizione nelle faccende orientali, riguardo alle quali le grandi Potenze sembravano essersi chiuse in un circolo vizioso, corrispose all'antica politica russa.

I Greci, contemporaneamente oppressi da interne discordie e dal duplice attacco delle truppe egiziane nella Morea e delle turche nell'Ellade, parevano, nonostante tutti gli sforzi dei filelleni, vicini a soccombere. Il nuovo Zar, secondo la sua più intima natura, avrebbe dovuto considerarli puramente dei ribelli: ma l'interesse dello Stato russo di fronte all'ostinata Porta, il riguardo dovuto ai sentimenti prediletti del popolo russo e forse non meno l'occasione di togliere all'Austria la sua egemonia diplomatica, additarono nuovi sentieri alla sua politica.
In un convegno pietroburghese egli si accordò con la conciliantissima Inghilterra (4 aprile 1826) nei riconoscere la Grecia come Stato vassallo, tributario della Porta, e prima di tutto nell'imporre ad ambedue le parti una tregua: al quale intervento acconsentì la Francia, non però l'Austria e la Prussia (estate del 1827).

Già prima il trattato di Akkerman (ottobre 1826) aveva appianato, con molto vantaggio della Russia, le singolari noie russo-turche: al che si erano rassegnati i Turchi, poiché lo scioglimento dei giannizzeri, ordinato per formare una fanteria regolare, e quindi il loro sanguinoso annientamento (16 giugno 1826) ne aveva ridotto, e quindi per il momento, ai minimi termini la forza difensiva.
Ma dopo una tale arrendevolezza la Porta era tanto meno disposta a permettere una mediazione di stranieri fra sé e i suoi propri sudditi. Ogni ingerenza fu bruscamente respinta, dopo che nel 1827 la assemblea nazionale greca a Trezene ebbe eletto il conte Capo d'Istria presidente di uno Stato indipendente.

Frattanto proseguiva la carneficina; e una flotta egiziana già portava nuovi rinforzi, che a Navarino sulla costa sud-est della Morea si dovevano congiungere con le truppe comandate dal pascià Ibrahim. In grazia di istruzioni assai elastiche, che escludevano un attacco, ma liberi di usar la forza per impedire atti d'ostilità, le squadre dell'Inghilterra, della Francia e della Russia corsero per parte loro nel porto di Navarino in atteggiamento minaccioso.

Il 20 ottobre 1827 una battaglia navale, iniziata senza alcuna dichiarazione di guerra, a causa di un banale incidente (una fucilata partita da una nave turca aveva ucciso un parlamentare inglese) finì con l'annientamento della flotta turco-egiziana dopo uno scontro navale durato cinque ore (l'ultima grande battaglia combattuta dalle marine veliche. - Perirono 6000 marinai turchi, contro 197 da parte anglo-franca-russa).

Il comprensibile sdegno dei Turchi li trascinò a dichiarazioni e provvedimenti, che, nonostante tutti gli sforzi diplomatici, ebbero come conseguenza la dichiarazione di guerra della Russia alla Porta, sebbene Inghilterra e Francia, le quali richiamarono egualmente i loro ambasciatori, non vi partecipassero.

Solo per impedire la completa devastazione della Morea per opera degli Egiziani la Francia sbarcò un corpo d'operazione nel Peloponneso. L'esercito russo il 7 maggio 1828 passò il Prut e occupò i principati danubiani; ma a sud del Danubio i Turchi apparvero più capaci di resistere di quello che non si fosse previsto.
Soltanto la lotta, rinnovata nel 1829 sotto il supremo comando del maresciallo Diebic assicurò anche in Europa alle armi russe quel buon successo, che esse avevano conseguito nell'Asia minore sotto il principe Paskevic appunto con la presa di Cars, Ardagan e così via.
Appoggiato, per quanto si atteneva al sostentamento dell'esercito, dall'apparire d'una flotta russa nel golfo di Burgas, il Diebic, dopo la caduta di Silistria, osò marciare di là dei Balcani, senza darsi più pensiero del grande visir Rescid pascià, e il 20 agosto occupò Adrianopoli.

La Porta era senz'ombra di difesa, dato il disordine delle sue truppe; invano fu spiegata in Costantinopoli la bandiera del profeta. Ma anche il Diebic era per la debolezza del suo esercito in una condizione pericolosa. La Prussia pregata, rese alla Russia il servizio di ottenere con la sua mediazione l'arrendevolezza del Sultano, tanto che il 14 settembre 1829 fu sottoscritta in Adrianopoli la pace. La quale, nonostante le precedenti promesse russe, conseguì in Asia considerevoli ingrandimenti territoriali, tra gli altri la striscia costiera da Anapa a Poti; in Europa dette alla Russia una forte posizione alle foci del Danubio; rese quasi del tutto indipendenti i principati danubiani; aprì al traffico i Dardanelli, e riconobbe ai Greci l'autonomia, fissata nel protocollo londinese delle tre Potenze il 22 marzo.

La Grecia, l'estensione della quale, esclusa l'Eubea, doveva essere delimitata da una linea dal golfo di Volo a quello di Arta, avrebbe dovuto formare un principato ereditario, tributario della Porta.
Il paese, spaventosamente devastato e posto a soqquadro, non godette a lungo della tranquillità anche dopo la ritirata degli Egiziani. Il Capo d'Istria venne meno al suo compito e cadde vittima di una vendetta privata. Solo nel 1830 un'intesa delle Potenze stabilì l'estensione e la costituzione dello Stato ellenico completamente indipendente, ma non d'accordo con più vasti fini nazionali.

Quale candidato delle Potenze (dopo il rifiuto di Leopoldo di Coburgo), il principe minorenne Ottone di Baviera, eletto dall'assemblea nazionale nel 1833, salì come sovrano sul trono del regno degli Elleni. Così la ribellione aveva alla fine vinto. La massima metternichiana della tutela del legittimo possesso non aveva potuto mantenersi di fronte alla Porta; tanto che in Francia l'ultra legittimista ministero d'allora mise sul tappeto il problema della spartizione della Turchia europea.

Si preparava un'altra costellazione delle Potenze, nella quale la Russia pigliava il sopravvento al posto dell'Austria, militarmente ed economicamente arretrata.
Questo accadde appena che in Francia un Governo per tanti versi sospetto ebbe afferrato il timone dello Stato, e quando in Austria, dopo la morte dell'Imperatore Francesco I (1835), suo figlio Ferdinando giunse al trono.

L'Inghilterra, giurante l'agitazione orientale, raccolse particolari esperienze sul valore delle promesse russe, e da quel momento in poi si comportò nel suo esclusivo interesse come la più zelante guardiana della integrità territoriale turca, sfasciatasi un po' alla volta.

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